“Vieni a veder i Montecchi”: Verona da Dante al Bardo

“Non esiste mondo fuori delle mura di Verona, ma solo purgatorio, tortura, inferno. Chi è bandito da qui, è bandito dal mondo, e l’esilio dal mondo è la morte”. Queste parole, che suonano come una condanna, sono impresse in una targa visibile sulla porta che dalla Piazza Brà della città veneta conduce all’inizio di Corso Porta Nuova, che altri non è che la strada che porta fuori dalle mura, in direzione della campagna. Ad averle pronunciate è l’eroe shakespeariano Romeo quando viene costretto all’esilio per aver ucciso un Capuleti. Nessuno, infatti, come il drammaturgo inglese ha eternato il paesaggio e la città di Verona. Nonostante non ci abbia mai messo piede, così come in Italia del resto, in Romeo e Giulietta la sua topografia è ricostruita alla perfezione. Più in generale, in molte sue opere non mancano riferimenti al Veneto: giusto per fare qualche esempio, la parola tipicamente veneziana coragio sul finale della Tempesta, oppure la frase “Io non potrò credere che voi siate mai stato in una gondola” in Come vi piace.

Non stupisce, dunque, che un’esposizione consacrata alla rappresentazione iconografica della capitale scaligera lo renda protagonista: è il caso di Tra Dante e Shakespeare – Il mito di Verona (a cura di Francesca Rossi, Tiziana Franco, Fausta Piccoli – alla Galleria d’Arte Moderna A. Forti, fino al 3 ottobre), in cui possiamo ammirare pittori che all’opera e all’immaginario di Shakespeare si richiamano come Tranquillo Cremona con Una visita alla tomba di Giulietta (1862) o Pietro Roi con il toccante Giulietta e Romeo (1882) che vede i due giovani innamorati nell’acme drammatico, quando lei si sveglia dal sonno indotto dalla pozione ma lui ha già ingoiato il veleno mortale. Per non parlare ovviamente de L’ultimo bacio di Romeo e Giulietta (1823) di Francesco Hayez.

Un’esposizione ottima in cui, insieme al Bardo di Stratford Upon Avon, figura Dante Alighieri. Dei soggiorni dell’autore della Commedia, dall’esilio del 1302 in poi, non rimane traccia negli archivi cittadini ma nelle sue opere sì: il poeta, infatti, non dimentica l’ospitalità del “gran Lombardo” (riconosciuto dalla critica in Bartolomeo della Scala di Verona), e nemmeno “lo primo refugio e ’l primo ostello” concessogli dal generoso Cangrande, cui nell’Epistola XIII dedicò il Paradiso. Per questo troviamo in mostra Dante in esilio (1860-65) di Domenico Peterlin, o ancora Dante legge la Divina Commedia alla corte degli Scaligeri (1864) di Luigi Melche, che mettono su tela la sua presenza nelle zone, come pure Dante visita Giotto nella Cappella degli Scrovegni (1865) di Leopoldo Toniolo. Soprattutto, su Verona precisamente, in un passo del Purgatorio scrive: “Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti!”. Citazione, questa, assai importante non soltanto per accreditare il suo passaggio in città o la verità storica di Romeo e Giulietta, ma perché lega il nostro a Shakespeare nella narrazione del mito di Verona. Da questa frase, infatti, un certo Luigi Da Porto trae ispirazione nel 1530 per il suo La Historia novellamente ritrovata dei due nobili amanti, il racconto di due giovani veronesi che pagano il loro amore con la morte, da cui Shakespeare si abbevera a piene mani per la sua nota tragedia (è infatti all’opera di Da Porto, come pure di Masuccio Salernitano e Mattia Bandello, che William deve la sua conoscenza della città e dei territori veneti in generale).

Ed è qui che la mostra si fa ottima, come si diceva, perché non si limita a celebrare Alighieri per via della ricorrenza, ma narra l’influenza che la sua opera da un lato e quella di Shakespeare dall’altro, entrambe legate alla città di Verona, hanno avuto nell’arte figurativa: basti pensare – per fare un esempio – a quante tele si sono ispirate all’episodio di Paolo e Francesca, dall’erotica interpretazione di Artemisia Gentileschi nel XVII secolo con le gote imporporate dal desiderio dei due amanti, fino al capolavoro di luce e ombra di Gaetano Previati del 1887 in cui, ai piedi del letto, il giovane ha la schiena trafitta e la sventurata è diafana ed esangue. Per dare la misura di tale influenza, infine, il percorso espositivo annovera un prestito eccezionale: si tratta di tre disegni dell’immenso Sandro Botticelli del 1492-95 provenienti dal Kupferstichkabinett di Berlino che sviluppano graficamente il tema dell’itinerario dantesco nel Paradiso insieme con Beatrice, e lo traduce nel cammino del poeta lungo le strade di Verona alla scoperta dei luoghi connessi alla sua memoria.

Dalla Bertè a Recalcati i “ReWriters del Queer”: il mensile senza tabù su libertà e altri diritti

Sarà interamente dedicato al mondo queer il numero di agosto del magbook ReWriters, il libro tascabile mensile a tiratura limitata dell’omonimo Movimento, che abbraccia temi diversi (diritti umani, diritti degli animali, disabilità, sessismo, razzismo, ambiente, ecc) con un solo fil rouge: la libertà. Quella di essere se stessi nel mondo, di capovolgere le logiche del pensiero e del linguaggio, che ci fanno restare aggrovigliati nei nostri limiti, siano essi reali, inconsci o percepiti. Un giornale senza tabù, un innovativo mix: rivista, libro e arte. La copertina di ogni numero di ReWriters, infatti, è sempre un’opera d’arte: questo mese vanta il debutto d’eccezione del muralista Lucamaleonte. I rewriters sono progressisti e innovatori, che si definiscono, come da Manifesto, paladini di sostenibilità, inclusività e pluralismo, di idee e di diritti. L’idea è quella di “una rivoluzione valoriale, laica, basata sulla giustizia intergenerazionale”, spiega Eugenia Romanelli, fondatrice del Movimento, scrittrice e attivista. Per questo la rivista si compone di riflessioni, opinioni e pezzi di vita, raccontati nell’ottica della fluidity, da 18 penne diverse: si passa da artisti come Loredana Bertè, Immanuel Casto e Giulia Anania, a noti accademici come gli psicanalisti Massimo Recalcati, Vittorio Lingiardi e Roberto Baiocco, professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, per finire con esponenti di diverse associazioni come Andrea Rubera, portavoce dell’Associazione di persone Lgbtqi+ cristiane; Antonella Palmitesta, Presidente di Nudi, Associazione nazione di psicologi per il benessere delle persone Lgbtiq e Pasquale Quaranta, giornalista founder di Omo – Osservatorio media e omosessualità e tanti altri. Diciotto contributor, donne e uomini, dell’associazionismo, dei sindacati, del giornalismo, della ricerca e della cultura: generazioni e vissuti diversi, accomunati dall’aver sfiorato, attraversato o riflettuto sul tema dei diritti, dei doveri e delle etichette relative al mondo Lgbtiq.

In questo numero, l’ironia e la profondità di ciascuno, compone un unico, grande mosaico di empatia, in grado di restituire una nitida immagine delle problematiche e dei pregiudizi, delle sfide vinte e di quelle ancora da affrontare, in relazione al mondo queer.

Siti a pancia in giù, riti e gatti

C’è chi ascolta Battisti come Culicchia, chi scrive con le spalle al muro al pari di un gangster come Mazzucco. Chi ha la fortuna di essere insonne e di leggere un libro al giorno come Pariani, chi pensa con lo show-room sotto casa che smartella di continuo come nel caso di Siti.

A carte scoperte, edito da Bononia University Press, è un’inchiesta a tutto campo sulla scrittura contemporanea, coordinata da Paola Italia, docente di Letteratura italiana e storica giurata del premio Campiello. Il volume è dedicato a Patrick Zaki, lo studente egiziano detenuto a Il Cairo dal 2020. I proventi sono destinati al sostegno della campagna di Amnesty per la sua scarcerazione.

Un dietro le quinte della creatività messo a punto dagli studenti del master in Editoria, fondato a suo tempo da Umberto Eco e oggi diretto da Anna Maria Lorusso. Dieci domande indirizzate a ventidue nomi della nostra narrativa. Undici uomini: Andrea Bajani, Marco Balzano, Giuseppe Culicchia, Paolo Di Stefano, Paolo Di Paolo, Marcello Fois, Antonio Franchini, Maurizio Maggiani, Antonio Scurati, Walter Siti, Andrea Tarabbia. Undici donne: Paola Capriolo, Helena Janeczek, Dacia Maraini, Beatrice Masini, Melania Mazzucco, Marta Morazzoni, Laura Pariani, Valeria Parrella, Alessandra Sarchi, Simona Vinci.

Se è vero, per dirla con Vinci, che “più che scrivere in sé, il talento vero è riscrivere”, ecco che è importante saper leggere perché, inseguendo la riflessione di Tarabbia, “ci deve essere una continuità tra quello che leggi e che ami e quello che scrivi, altrimenti stai sbagliando carriera”. Sui libri letti, posseduti o prestati, gli autori interpellati si dividono in più fazioni. Fois acquista copie di servizio per non profanarli: “Odio chi li maltratta, chi li segna, chi li spalanca per scioglierne la costola”. Niente a che spartire con Manzini che “sottolinea, cerchia, talvolta disegna”. Così come con Mazzucco che “li perde, li smarrisce, li dimentica con facilità”. Morazzoni non li presta perché ha l’abitudine di “firmarli, indicando l’anno della lettura per riprenderli in mano e ritrovare la lettrice che è stata anni prima”. Parrella si segna tutti i vocaboli che non conosce come le è capitato con L’Opera al nero della Yourcenar.

Se Pariani e Siti devono essere rigorosamente soli a casa, per Balzano scrivere significa mettere il naso fuori dalla porta, magari chino su un tavolo della biblioteca di quartiere. Franchini addirittura inanella righe in riva al fiume, fuori dalla tenda in una delle sue escursioni in canoa. Maraini si concede lunghe passeggiate nei boschi che circondano la sua casa di Pescasseroli. Ciascuno ha le sue fisime. Capriolo si alza di notte per prendere appunti, Pariani divide la giornata in due tempi per scrivere in parallelo due testi diversi, Parrella si rifugia nel suo ufficio bunker nel centro di Napoli, Siti scrive in camera da letto, a pancia in giù sul materasso, Di Paolo preferisce la cucina, Vinci deve avere un muro davanti per attaccarci post-it, Fois tiene la tv accesa in un’altra stanza, Di Stefano ascolta musica, Janeczek batte sui tasti con i tappi nelle orecchie.

Se fanno capolino modelli letterari inattesi come King per Maggiani o Pontiggia per Franchini, quasi tutti i ventidue autori sembrano essere timidi o riluttanti a consegnare le versioni delle loro opere a fondazioni e archivi. Chissà che l’imprinting digitale non abbia neutralizzato una certa ansia per la posterità. “Il romanzo, che è disciplina per fondisti” come afferma Bajani, richiede tempi di stesura variabili ma un approdo sicuro e inamovibile: la propria scrivania. Su quella dello stesso Bajani non mancano le opere complete di Montale, su quella di Capriolo si aggira indisturbato un gatto. Culicchia tiene giocattoli di quand’era bambino, Maraini una tazza di tè o di tisana. Masini è circondata da iPad, telefonino, una scatola di latta con conchiglie, orecchini, timbri. Tarabbia contempla i disegni del figlio più grande, Maggiani ha davanti a sé un vaso di vetro con un chilo di caramelle al limone. Parrella allunga la mano su un libretto rosso di Mao, Sarchi su una piccola volpe in ceramica. Sulla scrivania di Scurati non manca un posacenere traboccante di mozziconi.

Scrivere va bene, ma che non si definisca “letterario” uno dei romanzi in lavorazione. Di Stefano scherza ma non troppo: “Letterario è il sintomo di una gentile condanna alla marginalità”.

Staffetta “Fast and Furious”, marcia, karate: Italia 10 e oro

“Adesso ci prendiamo anche questo oro!”, incita Marcell Jacobs, Il campione olimpico dei 100 metri stringe i pugni, guarda fisso negli occhi i compagni della 4×100 che è entrata in finale col quarto tempo, stabilendo il record italiano (37”95). “Vi fidate di me?”, “sììì” rispondono loro all’unisono.

Lorenzo Patta, il più giovane, di Oristano, ha 21 anni. Quest’anno, nella gara di Savona in cui Jacobs ha tolto il primato italiano a Filippo Tortu, ha realizzato un ottimo 10”13, settima prestazione tricolore. Gli tocca la prima frazione, quella del sì o del no. Deve passare il testimone a Jacobs, guai se toppa l’automatismo. È alla prima Olimpiade. Non vuole che sia l’ultima.

Eseosa Desalu, che tutti chiamano Fausto, padre nigeriano, è nato 27 anni fa a Casalmaggiore, va più veloce nei 200 (è stato semifinalista in queste Olimpiadi), ma è anche il più esperto ed è un ottimo staffettista: rappresenta la sicurezza. Ha lui il ruolo più delicato, la chiave di volta della gara perfetta. Deve ricevere il testimone da Jacobs che piomberà come un missile, fare la curva senza perdere contatto coi primi e consegnare il bastoncino a Tortu. A Filippo l’onere e l’onore dell’impresa.

L’effetto Jacobs sulla nostra staffetta è esplosivo. Un sisma. Marcell corre contro i dubbi e le maldicenze degli anglosassoni. Lorenzo, Fausto e Filippo gli fanno da scudo: “Siamo un gruppo, un bel gruppo”. Si sentono forti, insieme. Together, il quarto motto delle Olimpiadi.

Gli avversari li snobbano, ritengono la vittoria di Jacobs nei 100 un’usurpazione. Non hanno ancora metabolizzato la clamorosa sconfitta. Canadesi, inglesi e cinesi pensano di farci a polpette. Non immaginano cosa li aspetta. Avrebbero dovuto decifrare il volto corrucciato di Tortu. Il 23enne cova rabbia. Medita il riscatto. Eppure dovrebbero sapere che l’orgoglio fa miracoli.

Quel che è successo ieri, in pista a Tokyo, è già leggenda. La staffetta italiana è stata spaziale. Patta ha contenuto i furibondi attacchi del resto del mondo. Jacobs ha sbaragliato il campo con uno strappo violento, feroce, da padrone della velocità. Ha portato l’Italia in testa e affidato il testimone a Desalu che ha resistito, scavalcato solo dagli inglesi, coi cinesi incollati ma pasticcioni nel cambio finale. Invece Tortu è una furia. Scatta, ingobbito come nei giorni migliori. Accelera: “Sono partito e subito ho visto a sinistra che il britannico era lì, un poco più avanti, ma sempre al mio fianco. In quel momento ho pensato solo di restare rilassato e correre il più tranquillo possibile perché sapevo che l’avrei potuto prendere e superare”.

Nethaneel Mitchell-Blake pare avviato al trionfo. È avanti di un metro. Il brianzolo aumenta l’ampiezza della falcata e quella della cadenza. Istante dopo istante, ruba centimetri all’avversario. Dall’altra parte della pista c’è il canadese DeGrasse che irrompe come un fulmine. Tortu affianca Mitchell-Blake proprio sul filo di lana. Non si rende conto che ha vinto. Un piccolissimo, impalpabile centesimo di secondo. Quanto basta, però: “Non potevo credere che fosse successo. Ho visto Italia sul tabellone, non potevo credere che fosse vero, nemmeno ho guardato il tempo”. Stratosferico: 37”50. La Gran Bretagna: 37”51. L’Inghilterra sconfitta ai rigori. L’Inghilterra, nonostante sia ai Giochi rafforzata da Scozia, Galles e Irlanda del Nord, le busca di nuovo dall’Italia per un soffio.

L’oro della staffetta è, in un certo senso, ancor più significativo dei 100 metri, perché testimonia i progressi complessivi dell’atletica leggera italiana che ha vinto cinque ori (mai successo prima d’ora) e piazzato numerosi atleti in varie finali. Geniale, poi, l’azzardo di mettere Jacobs in seconda frazione e sperare nell’exploit finale di Tortu. Il professore Filippo Di Mulo guida il settore tecnico della velocità e il risultato cronometrico di ieri sera è il quinto di ogni tempo, il secondo in Europa (la Gran Bretagna detiene il record con 37”36). Altro che caso! Abbiamo perso medaglie che parevano sicure nella scherma e nel tiro, le squadre sono state eliminate, ma adesso il medagliere è il più ricco di sempre, 38 medaglie, più che a Roma e a Los Angeles 1932: perché, a coronare un venerdì splendido e irripetibile ci sono stati altri due ori. Nella 20 km della marcia femminile si è imposta con formidabile autorevolezza la pugliese Antonella Palmisano: proprio ieri compiva 30 anni. Che regalo… Patrizio Parcesepe, il suo allenatore, è lo stesso di Massimo Stano, pugliese pure lui, che ha vinto giovedì l’analoga gara maschile. L’altro oro è stato conquistato nel karate (categoria 75 kg) dal carabiniere siciliano Luigi Busà, 34 anni, due titoli mondiali, 13 italiani. Ha battuto l’ostico azero Aghayev, fiero rivale ma anche amico. La sottotraccia etica del nuovo olimpismo.

Esuberi a Repubblica, volano gli stracci. L’ultimatum: accordo o tagli unilaterali

Volano gli stracci a Repubblica. Con il comitato di redazione che si dimette tra scontri e polemiche che attraversano le varie redazioni, dove va consumandosi anche una frattura generazionale. La vicenda ruota intorno a 50 prepensionamenti tra i giornalisti decisi dall’azienda per tagliare i costi e sforbiciare la redazione sfruttando la legislazione favorevole. La trattativa sugli esuberi va avanti da mesi e, oltre al numero, il nodo riguarda gli incentivi all’uscita e i nuovi ingressi. La proposta era di assumere un giornalista ogni due prepensionati, ma l’azienda vorrebbe che questa platea fosse composta pure da figure tecniche e informatiche. Come racconta anche il sito Professione Reporter, due giorni fa è andata in scena un’assemblea di redazione assai concitata, che è finita con le dimissioni di tutto il cdr (Cadalanu, Buzzanca, Patucchi, Del Porto, Puledda) a fronte di una mozione di sfiducia presentata dal vice capo cronista Marco Mensurati. Nel corso della riunione ci sono stati momenti di forte tensione, come quando al vicedirettore Carlo Bonini, oggi passato dall’altra parte della barricata sulle trattative sindacali, è stato negato il diritto di parola perché “non opportuno”. In seguito il vicedirettore con la delega alle inchieste ha inviato una comunicazione con l’ultima bozza di accordo e una sorta di ultimatum: o la trattativa si chiude entro fine agosto oppure l’azienda procederà in maniera unilaterale. Ma i veleni sono in circolo anche all’interno dello stesso cdr, con Cadalanu e Buzzanca (prepensionandi) accusati dagli altri di condurre una trattativa in conflitto d’interessi, poiché parte in causa.

Non è la prima volta che Repubblica vara un piano di riduzione dei costi. Già una decina d’anni fa c’era stata una drastica riduzione del personale anche lì con un programma di prepensionamenti. E nel corso degli anni si è proceduto alla chiusura di numerose redazioni locali. Ora il gruppo Gedi di John Elkann sembra voler proseguire nella stessa direzione. Il cdr che si è appena dimesso, tra l’altro, aveva già rassegnato le dimissioni tempo fa dopo che il direttore Maurizio Molinari si era rifiutato di pubblicare un comunicato sindacale. Poi il cdr era tornato sui propri passi, fino all’epilogo sulla nuova trattativa. Che, se non andrà in porto, potrebbe avere come conseguenza la cassa integrazione a rotazione. “Oltre ai 50 esuberi, il problema è la mancanza di volontà di investire sul prodotto che invece un grande giornale dovrebbe avere”, racconta una fonte interna del quotidiano. Il braccio di ferro proseguirà, ma intanto in Largo Fochetti si dovrà eleggere un nuovo organo di rappresentanza dei giornalisti.

Messaggio dell’Iran a Israele Hezbollah spara 20 razzi

Circa 20 razzi Katyusha sono stati sparati verso le terre contese tra Israele, Libano e Siria dagli Hezbollah, dove si trovano le fattorie di Shebaa. I missili sono la “risposta ai raid aerei israeliani di giovedì notte” in Alta Galilea: il movimento libanese filo-iraniano Hezbollah, rompendo il silenzio degli ultimi mesi, ha rivendicato l’attacco nella zona in cui ha combattuto con le forze armate di Tel Aviv per 33 giorni nel 2006. Nessun ferito grazie alle batterie del sistema di difesa anti-missilistica Iron Dome, ma convocata riunione d’emergenza dal premier israeliano Naftali Bennett con il ministro della Difesa, Benny Gantz, che ha già discusso dell’aggressione con il Segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin. Beirut ha dichiarato di aver compiuto quattro arresti tra i responsabili dei lanci di razzi grazie alla reazione della popolazione che evidentemente, esasperata dalla crisi sociale, è stufa delle azioni di forza delle milizie filo iraniane che hanno partecipato al governo del Paese e al suo decadimento. Solo due giorni fa le forze armate israeliane hanno sostenuto di essere pronte a colpire l’Iran. L’annuncio è arrivato dopo l’incidente avvenuto su una petroliera israeliana al largo del golfo di Oman, colpita da un drone di Teheran. A non volere un escalation con il movimento sciita degli Hezbollah è Tel Aviv, “anche se siamo pronti ad affrontarla”, ha riferito il colonnello Amnon Shefler, portavoce delle forze armate: “Non permetteremo che il confine nord si trasformi in una zona di confronto”. Immediata è stata inoltrata a Beirut e Tel Aviv la richiesta di cessate il fuoco dell’Unfil, missione delle Nazioni Unite nel Paese dei cedri. “Sosteniamo la resistenza islamica in Libano contro il nemico sionista che ha compiuto crimini in territorio libanese”. Le congratulazioni di Hamas sono state inviate da Gaza alle milizie sciite. Non sono dinamite e artiglieria a mancare in Libano, ma cose più importanti come cibo, acqua ed energia.

Armi, anche i Democratici contro lo sceriffo di Biden

La goccia che rischia di far traboccare il vaso della pazienza degli ‘anti-armi’ è l’atto di clemenza del governatore del Missouri, il repubblicano Mike Parson, verso Mark McCloskey e sua moglie Patricia: la coppia era stata incriminata per avere ostentatamente puntato le loro armi – un mitra lui e una pistola lei – su un corteo di Black Lives Matter che sfilava davanti alla loro casa di St.Louis. Il gesto, in piena campagna per le Presidenziali 2020, valse ai McCloskey il biasimo dei progressisti e l’elogio dei ‘trumpiani’: il magnate presidente li invitò alla convention repubblicana; e Mark ora corre per il Senato degli Stati Uniti. In giugno, McCloskey s’erano riconosciuti colpevoli, patteggiando la rinuncia alle loro armi; ma mercoledì il governatore ha cancellato la loro condanna.

La vicenda, su cui il presidente Joe Biden è impotente a intervenire, irrita due componenti cruciali della coalizione progressista che gli ha dato la Casa Bianca: i neri, per la sfida al loro movimento, e i sostenitori di un giro di vite sul controllo delle armi, ulcerati dalla provocatoria esibizione. Familiari delle vittime e superstiti delle sparatorie che continuano a insanguinare gli Stati Uniti e attivisti ‘anti-armi’ portano allo scoperto – scrive, in un lungo e dettagliato servizio Politico.com – la loro frustrazione da tempo latente: il presidente – è la tesi – dovrebbe fare meglio, per mantenere le promesse elettorali. D’altro canto, nello stesso campo democratico vi sono riserve sulle misure restrittive ipotizzate, tanto da mettere in forse la conferma di David Chipman, designato da Biden a guidare l’Ufficio dell’Alcol, del tabacco, delle armi da fuoco e degli esplosivi (Atf), che deve gestire il giro di vite. Tutto s’è finora limitato a un gesto pressoché simbolico, quasi risibile: una stretta sulle ghost guns, cioè le pistole fatte in casa assemblando un kit fai da te, e sulle bretelle per fissare le armi al braccio e stabilizzarle. Nulla sui fucili d’assalto protagonisti delle stragi più gravi mai fatte in America. Ogni anno, negli Usa, le armi da fuoco provocano la morte di almeno 40 mila persone. La nomina di Chipman, attivista del movimento che chiede maggiori controlli su pistole e fucili, vuole dare maggiore efficienza all’azione dell’Atf.

Le statistiche 2020 indicano che la pandemia ha coinciso con un picco di omicidi negli Usa – Filadelfia la città più colpita – e con il record di persone abbattute dalla polizia, ben 1021, più di quante mai registrate in un anno. Dal 2015 a oggi, le persone colpite a morte da agenti sono state 6.400. Chi punta su Chipman perché le cose cambino contesta a Biden e al suo staff di non avere garantito il supporto dei senatori democratici alla sua conferma. Igor Volsky, direttore del gruppo ‘anti-armi’ Guns Down America, dice che Biden “deve pigiare sull’acceleratore”. Altre organizzazioni sono meno critiche e riconoscono che la Casa Bianca ha avuto priorità più cogenti, tipo la lotta al Covid e il rilancio dell’economia. A mettere a repentaglio la conferma di Chipman, nel Senato spaccato a metà, 50 a 50, è il senatore del Maine Angus King, un indipendente che vota per lo più con i democratici: è contro Chipman, perché fette del suo elettorato glielo chiedono. Altri due senatori democratici esitano: Joe Manchin della West Virginia e Jon Tester del Montana. King può ancora cambiare parere e Biden ha forse strumenti per indurlo a farlo, ma la Casa Bianca accusa i Repubblicani che, contro Chipman, alzano un muro di ‘no’ senza crepe.

I talebani avanzano, Emergency stretta nel fuoco incrociato

Questa volta il target scelto dai talebani nell’ambito della loro macabra campagna contro i funzionari governativi è stato il responsabile dei media e dell’informazione. Dawa Khan Minapal è stato ucciso ieri dagli “studenti del Corano” a Kabul, la capitale, in teoria la città più difesa e sicura di tutto l’Afghanistan, mentre stava andando alla preghiera del Venerdì in una moschea vicino a casa. Gli estremisti islamici pochi giorni fa avevano avvertito che avrebbero preso di mira alti funzionari come rappresaglia per l’aumento dei raid aerei. I bombardamenti dal cielo sono l’ultima carta in mano al presidente Ashraf Ghani per tentare di fermare l’offensiva talebana mirata a riconquistare il paese. Gli scontri si stanno intensificando ora dopo ora e, nonostante l’aiuto fornito ai soldati governativi dalle milizie dei signori della guerra ritornate sulla ribalta nazionale, i talebani sembrano ormai invincibili.

Proprio ieri avrebbero conquistano il loro primo capoluogo di provincia. Si tratta di Zaranj, importante centro commerciale a capo della provincia di Nimroz, nel sud-ovest, al confine con l’Iran. Lo hanno reso noto funzionari locali alla Bbc. A Herat, nell’ovest, dove fino a due mesi fa c’era la base italiana, e a Lashkar Gah, a sud, dove continua a infuriare una battaglia senza esclusione di colpi da parte dei talebani accusati dalla comunità internazionale di massacrare i civili. Ma è a Lashkar Gah, capoluogo della provincia dell’Helmand, che la crisi umanitaria sta assumendo proporzioni finora inedite. I talebani stanno cercando di entrare nel quartiere dove ci sono le sedi dell’intelligence, gli uffici governativi e la prigione dove sarebbe rinchiuso un gruppo di talib . L’ufficio di Lashkar Gah del gruppo umanitario ‘Azione contro la fame’ è stato colpito da una bomba giovedì. Molte Ong stanno lasciando il paese per mancanza di sicurezza. A Lashkar Gah c’è anche uno degli ospedali di Emergency dove l’équipe medica (composta da 15 chirurghi tutti afghani tranne uno e due infermieri) e lo staff stanno lavorando senza sosta da giorni. Dei 200mila abitanti di Lashkar Gah sono rimasti coloro che sono obbligati a lavorare, come il personale dell’ospedale, e chi non si è sbrigato a cercare rifugio nelle campagne circostanti. Secondo le Nazioni Unite, sono migliaia le persone intrappolate tra il fuoco incrociato dei talebani e dei soldati dell’esercito nazionale. “Siamo asserragliati ma, purtroppo, sentiamo sempre più vicine le esplosioni delle bombe e il rumore delle sparatorie che fanno tremare i vetri dell’ospedale. Tutto il personale si è trasferito a vivere qui perché è troppo pericoloso tornare alle abitazioni. Sappiamo che nelle strade ci sono molti cadaveri abbandonati e che tanti feriti tra i civili rimasti in città spesso non riescono a raggiungere il grande ospedale locale, morendo così nelle loro case o tra le macerie”. A riferirci via telefono satellitare cosa sta accadendo a Lashkar Gah è Leila Borsa, un’infermiera lombarda di 32 anni specializzata in pronto soccorso.

“Abbiamo dovuto aumentare i posti letto per il continuo afflusso di feriti. Ora però accettiamo solo feriti in pericolo di vita che necessitano di chirurgia maggiore – ci spiega – la politica di Emergency è quella di offrire un aiuto a tutti i feriti di guerra senza distinguo”. Curare senza fare distinzioni rende gli ospedali dell’organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada un luogo sicuro rispettato da tutti i contendenti. “Qua non abbiamo timore di essere attaccati nè via terra nè dal cielo. Non è nell’interesse di nessuno interrompere il nostro lavoro”, puntualizza Borsa, che aggiunge: “Stiamo allestendo il bunker, ci aspettiamo un battaglia molto violenta e andremo tutti nel rifugio per assistere chi ne ha bisogno”. Questa giovane donna coraggiosa lavora a Lashkar Gah da 6 mesi e ha potuto rendersi conto di come vivono le donne. “Questa è una provincia rurale a maggioranza pashtun (l’etnia più vasta a cui appartengono anche i talebani, ndr) e la maggior parte delle donne indossa ancora il burqa e vive in una condizione di arretratezza”.

Una condizione da cui invece è riuscita a emanciparsi Salima Mazari, governatrice del remoto distretto montagnoso di Charkint, a sud di Mazar-i-Sharif nella provincia di Balkh. Andando di villaggio in villaggio con tanto di altoparlante, la governatrice sta tentando di reclutare quanti più uomini possibile per combattere i talebani. Mazari è anche un esponente della comunità Hazara, che professa la religione musulmana sciita, considerata dai talebani, sunniti, una setta eretica. Gli hazara sono stati regolarmente presi di mira dai talebani e dai combattenti locali affiliati dell’Isis, il gruppo Khorasan. L’ultimo attentato di grandi proporzioni è stato l’attacco con un’auto bomba contro una scuola di Kabul, lo scorso a maggio, in cui sono morte 80 ragazze hazara. Metà del distretto governato da Mazari è già sotto il controllo dei talebani. Per questa ragione la donna trascorre ormai tutto il tempo a cercare combattenti per difenderne il resto. Centinaia di persone del posto, inclusi contadini, pastori e operai, si sono uniti alla sua causa, a un costo enorme.

“La nostra gente non aveva armi, ma è andata a vendere le mucche, le pecore e persino la terra per comprarle”, ha rivelato Mazari. “Sono in prima linea giorno e notte senza ottenere alcun tipo di credito o stipendio”. Mazari ha finora reclutato circa 600 persone.

L’alchimista dei libri vissuti due volte

Alla fine degli anni Settanta, sulla vetrina di alcune raffinate librerie apparve un adesivo ritraente una giovane donna in abito lungo, grande cappello e veletta; sotto l’effigie di questa dama stile floreale, si poteva leggere la scritta: “Sono arrivate novità Adelphi, signora”. Questo richiamo senza precedenti alla primizia letteraria, dice quanto la casa editrice di Roberto Calasso sia stata effettivamente unica. Il mito einaudiano cominciava ad appannarsi, e sorgeva quello dei fratelli della luna nuova; a far accorrere le signore in libreria – e non solo loro – non erano impegno e ideologia, ma Joseph Roth, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmansthal, la scoperta della Mitteleuropa e di altri grandi autori dell’età dell’ansia.

“Faremo solo libri che ci piacciono” aveva promesso Roberto Bazlen al giovane Calasso, come si legge in Bobi (ultimo libro pubblicato in vita, primo in morte); promessa mantenuta insieme ai bilanci e alla crescente aura di Calasso medesimo, quello sguardo non si capiva bene se perso nel vuoto, o nell’assoluto (ma non saranno la stessa cosa?). Come editore era una miscela di cultura, intuito, presunzione e preveggenza alchemica. Inappetente nel pubblicare, Calasso è stato inarrivabile nel ripubblicare. Sapeva trasformare il piombo in oro, a volte il falso piombo in oro puro. È accaduto con la Mitteleuropa, ma anche con Kundera, fino al capolavoro Simenon, tolto dagli espositori delle edicole della stazione e assunto al cielo del pittogramma verde artico. C’era qualcosa del magnate e del negromante, in Calasso. Una lega alchemica sua propria, carica di una sua suspense. La sola volta che gli chiesi un’intervista, dovetti aspettare parecchi giorni prima che l’ufficio stampa di Adelphi desse la risposta. “Non ha ancora deciso?”, chiesi, immaginando fosse questa la ragione dell’attesa. “No, stiamo aspettando il momento giusto per chiederglielo”. Alla fine il momento giusto arrivò. E Calasso disse di no.

Tutti gli errori di Mattarella

Ora che l’illustre presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è entrato nel cosiddetto “semestre bianco” che ne limita le funzioni istituzionali e gli impedisce di sciogliere il Parlamento, si può tentare una riflessione più distaccata e più critica – ancorché rispettosa – sul suo settennato. E in particolare, sulle scelte di sua competenza in ordine alla nomina dei governi che si sono succeduti dall’inizio del suo mandato a oggi.

Lasciamo pure da parte il governo presieduto da Paolo Gentiloni, durato poco più di un anno alla fine della scorsa legislatura (11 dicembre 2016-24 marzo 2018). E concentriamoci su quelli della legislatura in corso, insediati dopo le ultime elezioni politiche: il primo governo guidato da Giuseppe Conte, in carica 461 giorni dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019, sostenuto da un’inedita maggioranza giallo-verde formata dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega; il governo Conte-2, in carica dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021 per un totale di 527 giorni, detto giallo-rosso o giallo-rosa con una maggioranza composta dai Cinquestelle, dal Pd e da Leu più l’appendice variabile di Italia Viva; e infine, il cosiddetto “Governo dei Migliori”, presieduto da Mario Draghi e sostenuto da tutti i partiti, a eccezione di Fratelli & Sorelle d’Italia, nominato il 13 febbraio scorso.

Bene. Sono in tutto quattro governi in sette anni. Uno diverso dall’altro. E ognuno, con una maggioranza parlamentare diversa da quella precedente e da quella successiva. I due governi Conte, anzi, si può dire che fossero opposti l’uno all’altro.

Con tutto il rispetto per la persona di Mattarella e per il suo ruolo istituzionale, non è un consuntivo lineare e trasparente. Vero è che la situazione post-elettorale non consentiva ampi margini di scelta: dalle urne non era uscito un vincitore, perché nessun partito o coalizione aveva conquistato la maggioranza assoluta; o meglio, come si disse più o meno approssimativamente allora, ne erano usciti “due vincitori”, il M5S come partito di maggioranza relativa (32,7%) e la Lega come terzo partito (17,4%), alle spalle del Pd (18,7%) ma alla testa del centrodestra, dopo aver lucrato i voti della coalizione nei collegi uninominali (37% del totale) che poi ha per così dire “investito” sui Cinquestelle.

Ebbene, di fronte a una situazione così incerta e confusa, che cosa poteva o doveva fare il povero Mattarella? Una risposta tranchant potrebbe essere questa: tutto, tranne quello che ha fatto.

Da notaio della Costituzione, qual è secondo la stessa Carta, avrebbe dovuto prendere atto dell’impasse e procedere di conseguenza, senza inseguire ipotesi o tentare progetti di alleanze che in quel momento apparivano impraticabili: a cominciare da quella, da lui verosimilmente preferita, fra “grillini” e “pidioti” che durante la campagna elettorale non s’erano risparmiati insulti e offese reciproche.

Per quanto possa risultare increscioso, bisogna dire allora che il Capo dello Stato avrebbe dovuto come primo atto convocare il leader della Lega, titolare della coalizione di maggioranza, affidandogli un pre-incarico o un mandato con riserva per cercare di formare un nuovo governo. L’avevano già fatto, ai loro tempi, rispettivamente Sandro Pertini con Bettino Craxi (1979) e poi Giorgio Napolitano con Pier Luigi Bersani (2013), ottenendo in entrambi i casi la restituzione del mandato. E con ogni probabilità, altrettanto sarebbe stato costretto a fare Matteo Salvini se non fosse riuscito in quel momento a formare una maggioranza né con il M5S né tantomeno con il Partito democratico. Tant’è vero che lo stesso Mattarella, dopo tre giri di consultazioni e tre mesi di stallo, aveva già convocato il professor Carlo Cottarelli al Quirinale, per incaricarlo di formare un “governo del presidente”, approvare la legge finanziaria e riportare il Paese alle urne entro un anno come sarebbe stato più logico e opportuno.

Con il viatico concesso in extremis a Luigi Di Maio (che l’aveva minacciato addirittura di impeachment) e al capo della Lega, dopo 89 giorni dalle elezioni e 57 di consultazioni, il Capo dello Stato ha finito invece per produrre tre risultati uno più nefasto dell’altro: primo, ha consentito a Salvini di “staccarsi” ed emanciparsi dal centrodestra; secondo, ha saldato i due opposti populismi, quello grillino e quello leghista, che al governo si sono fatti concorrenza fra loro; terzo, ha logorato quel poco che restava del Pd, dividendolo tra favorevoli e contrari all’ipotesi di un’alleanza con i Cinquestelle.

Non scopriamo oggi questo scenario. Ne scrivemmo a quell’epoca proprio su questo giornale, esprimendo cautamente qualche riserva e perplessità. Ma un sabato mattina il sottoscritto ricevette una telefonata confidenziale dagli uffici del Quirinale, con cui una fonte più che attendibile spiegò che proprio quella era stata l’idea originaria di Mattarella: affidare un mandato esplorativo a Salvini. In quei giorni però il capo leghista, non ancora in preda ai fumi del Papeete Beach, aveva prima attaccato gli Stati Uniti di Donald Trump per i bombardamenti in Siria (con l’appoggio di Gran Bretagna e Francia) e poi difeso la Russia di Vladimir Putin per la guerra con l’Ucraina: per cui un incarico al leader sovranista della Lega rischiava di apparire una svolta o uno stravolgimento delle nostra tradizionale politica estera. In caso di smentite, più o meno ufficiali, mi riservo di trasgredire il segreto professionale rivelando nome e cognome della fonte, tanto più che il centralino del Quirinale avrà conservato traccia di quella telefonata.

Sono stati proprio quei tre mesi di stallo l’origine delle turbolenze che hanno investito questa legislatura, con tutti gli strascichi di polemiche e di accuse reciproche fra alleati ed ex alleati. Prima la rottura fra M5S e Lega; poi il passaggio dal governo Conte-1 al Conte-2, quest’ultimo costretto a dimettersi dal “conticidio” benché non fosse stato sfiduciato dalle Camere; e infine l’avvento del “Governo dei Migliori”, con la chiamata di Mario Draghi alla presidenza, con le ombre e le ambiguità di questa maggioranza extralarge. Può anche darsi che ora, data la situazione, i partiti di governo chiedano a Mattarella di restare al Quirinale fino al termine della legislatura e alle elezioni del 2023, consentendo così a “Mister Bce” di realizzare il Piano nazionale di ripresa e resilienza per investire i 209 miliardi di euro che l’ex premier Giuseppe Conte s’era procurato. Ma il passato resta e la storia non cambia.