Mps o l’importanza di essere Franco

Com’è notoda Oscar Wilde in poi non bisogna sottovalutare l’importanza di essere Franco. E s’intende Daniele Franco, il ministro dell’Economia. Ecco, mercoledì il nostro s’è recato in audizione in Parlamento per spiegare al colto e all’inclita – riuscendo peraltro a non far udire né all’uno né all’altro le parole “Pier”, “Carlo” e “Padoan” – che o il Montepaschi se lo prende UniCredit entro l’anno o sono dolori. Ora, senza scomodare la Teoria dei giochi, uno che avvia una trattativa dicendo “se non compri per me è finita” deve avere una grande fiducia nella moralità della controparte. Dirà il lettore: ma è stato Franco, è importante. Certo, per carità, nomen omen. Però c’è un problema: se il ministro è stato Franco, allora non lo è stato l’amministratore delegato di Mps Guido Bastianini e viceversa. Ieri il manager indicato dal Tesoro, presentando la migliore semestrale da anni del Monte (in utile netto per 202 milioni, oltre le attese), ha ribadito che un aumento di capitale da 2,5 miliardi è “coerente” con gli obiettivi del piano industriale; il ministro Franco invece aveva sostenuto che quella stima “va riconsiderata” e il fabbisogno di capitale è “ben superiore”. Voi capite che solo uno dei due può essere stato Franco su questo, come pure sui temi connessi dei costi e degli esuberi. Dettagli, dirà il solito lettore. Mica tanto perché, assodato che UniCredit deve essere e sarà il compratore, ora bisogna decidere di quanti soldi sarà “la dote” in capo allo Stato: tra capitale, esuberi, garanzie sul contenzioso e sofferenze si stimano all’ingrosso 8-10 miliardi, mica spicci. Ora, per essere chiari, Mps non è una banca messa bene e faticherà assai a tornare nella media, ma ha iniziato bene l’anno e, dopo il crollo del Pil del 2020, si trova davanti ancora sei trimestri di crescita sostenuta, almeno a stare alle stime del governo: insomma c’è la fondata possibilità che nel prossimo futuro Mps diventi un po’ meno bidone di quanto fosse finora. Però il governo la venderà entro dicembre, perché quello è il tempo che Bruxelles ci ha concesso e il Tesoro non ha intenzione di disturbare la Dg competition che è già così impegnata con le deroghe alla Germania. Che dire? Solo speriamo che quello Franco sia il ministro.

Se il vaccinato prende il covid

First case of postmortem study in a patient vaccinated against SARS-CoV-2 è il titolo di un interessante lavoro pubblicato su International Journal of Infection Diseases di luglio. Per la prima volta vengono riferiti risultati scientifici sul comportamento del virus SarSCoV2, quando infetta un soggetto vaccinato. Gli autori riferiscono dei risultati di un’autopsia effettuata su un paziente di 86 anni che, dopo essere stato sottoposto alla prima dose di vaccino, era risultato positivo e asintomatico, ma deceduto 4 settimane dopo. La causa della morte è stata attribuita, grazie all’autopsia, a broncopolmonite e insufficienza tubulare, ma con caratteristiche diverse da quelle procurate da Covid-19. Ciò che è apparso estremamente interessante è che la mappatura molecolare post-mortem ha rilevato la presenza di SarSCoV2 in tutti gli organi esaminati (orofaringe, mucosa olfattiva, trachea, polmoni, cuore, rene e cervello) , a eccezione del bulbo olfattivo e del fegato. Ancora più interessante la presenza di IgG (anticorpi) nei confronti della proteina Spike (la zona di aggancio alle cellule utilizzata dal virus), rilevata negli stessi organi. Questi risultati evidenziano come la prima dose di vaccino induce la formazione di anticorpi, ma non è in grado di proteggere dall’infezione. Resta da capire perché si abbia comunque una protezione dalla gravità della patologia con significativo risparmio di vite umane, così come ormai empiricamente constatato. Tali evidenze confermano che l’importanza della vaccinazione deve essere riconosciuta come preventiva della gravità della patologia e non della circolazione del virus.

Oggi, alla luce di dati ormai derivanti da milioni di casi e di soggetti vaccinati, si deve fare una riflessione su come affrontare il futuro e a chi proporre una terza dose. Ancora una volta, bisogna affidarsi alla scienza e non a decisioni politiche.

 

Mail box

 

 

 

Travaglio e i racconti sui veri anti–italiani

Dopo aver letto i tre “racconti” di Travaglio sui veri anti–italiani, penso che Conte sia pazzo o visionario. Come può realizzare il suo pensiero democratico dovendo affrontare la guerra che gli faranno tutti, a partire dai giornali, da lei indicati come “veri anti–italiani”?

Elio Alfano

 

Draghi e le sue scelte, tutt’altro che efficaci

Quando un premier vieta gli assembramenti, poi autorizza i calciatori a violarlo perché “con quella coppa possono fare ciò che vogliono”, in virtù della trattativa Stato-Bonucci, significa che quel premier non ha ben interiorizzato il principio di legalità. Tali ritardi nell’apprendimento vengono confermati dalla adesione del Supremo alla schiforma della Cartabia. Ma non è mai troppo tardi: esiste, infatti, un rimedio molto efficace. Le insegnanti delle scuole dell’infanzia hanno elaborato ottimi progetti sull’educazione alla legalità: basta partecipare.

Maurizio Burattini

 

Critiche al premier: atto di lesa maestà

Gentile direttore, vorrei complimentarmi con lei e la sua squadra. Il Fatto è un giornale che batte in solitaria battaglie giuste come ambiente, giustizia e sanità. L’ultima polemica che la riguarda è surreale: il suo intervento su Draghi ha visto una levata di scudi (umani) inquietante. Qualche giorno fa il “coraggioso” Paolo Mieli su La7, indicava come certe dichiarazioni su Draghi e Cartabia siano un attacco pericoloso, volevo chiedere: siamo davvero arrivati a questo, criticare l’attuale governo è di fatto lesa maestà? Per non parlare di chi chiede le dimissioni di Speranza per quello che ha detto lei?

Gabriele De Luca

 

La situazione lavorativa dei giovani è disastrosa

Non posso che rallegrarmi con Tomaso Montanari per l’articolo del 2 agosto sul discorso tenuto alla Normale di Pisa dalle 3 normaliste. Se è vero che lo spirito critico non è sopito nei nostri atenei, non si può negare che la corsa al profitto abbia stravolto la concezione platonica di “Accademia”. L’esempio diretto lo ha avuto mio figlio che, dopo 3 + 2 anni di università, si è visto offrire da una prestigiosa università di Roma, un contratto determinato di 40 ore settimanali, retribuito con 800 euro mensili lordi. Vivendo in Romagna ha dovuto declinare l’offerta, in quanto servirebbe aggiungere alla retribuzione almeno 1000 euro per alloggio e spese. È semplicemente vergognoso che anche le università speculino sulla vita dei giovani, quando invece dovrebbero farsi promotrici di comportamenti sani e rispettosi. E magari qualche testa di legno poi direbbe che mio figlio preferisca il Reddito di cittadinanza piuttosto che lavorare…

Salvatore Antonio Aulizio

 

Senza “Il Fatto” sarebbe tutto un “dragherrotipo”

Al momento mi interessa poco del bicchiere mezzo pieno o vuoto, ancor meno dar peso a chi sa solo dividere. Adesso va ringraziato Conte.

Un grande riconoscimento va al Fatto e al suo direttore, che han subito individuato i rischi della riforma e informato sulle critiche di personalità molto competenti in materia di giustizia. Senza il Fatto sarebbe tutto un dragherrotipo.

Antonio Covello

 

Ponte sullo Stretto: i 5 Stelle reagiscano

Ecco cosa significa per i 5S dare fiducia al governo Draghi: parlare ancora del ponte sullo Stretto di Messina, altro spreco di denaro pubblico, con grande soddisfazione delle destre. Propongo di costruire anche un ponte Cagliari Genova, un po’ più lungo, così le destre saranno più soddisfatte. Caro Conte, troppi bocconi amari, i 5S non possono più accettare questa sorta di sottomissione, essendo in questa legislatura partito di maggioranza.

Francesco Magnetti

 

La politica è in cerca di una nuova mangiatoia

Il Mose è quasi terminato e ormai c’è poco da rosicare: urge qualcosa di nuovo. Cosa c’è di meglio del ponte sullo stretto? Le caratteristiche ci sono tutte: è un’opera mai realizzata prima, quindi non ci possono essere confronti; i problemi esecutivi che verranno fuori nella realizzazione provocheranno una serie infinita di cambi e sospensioni che dilateranno tempi e costi; alla fine, ammesso che si riesca a terminarlo, c’è la prospettiva di godersi la gestione dei costi di manutenzione, ancora non individuabili, ma sicuramente molto elevati. Mal che vada si gestiranno comunque una montagna di soldi per progetti, ricerche e magari per tenere in vita la Società “Stretto di Messina”, da dieci anni in liquidazione.

Luciano Sapora

Un giornale del Sud che dopo 134 anni rischia di chiudere

 

 

“Servizio in camera: potrebbe essere definito così il giornalismo italiano, ipocritamente designato per i lettori, ma in realtà a disposizione del potere”

(da Il Fatto personale di Antonio Padellaro – Paper First, 2016 – pag. 141)

 

Nella periferia mediatica dell’Italia di carta stampata, c’è un caso che può riassumere emblematicamente la crisi dell’editoria e quella economico-sociale del nostro Sud. E di riflesso, anche il distacco o l’indifferenza con cui il “Governo dei Migliori” segue l’una e l’altra.

È il caso della Gazzetta del Mezzogiorno, una delle più antiche testate meridionali con 134 anni di storia alle spalle, diffusa in Puglia e Basilicata. A metà luglio, il Fatto Quotidiano aveva dato notizia che il giornale di Bari rischiava di sospendere le pubblicazioni, dopo le tormentate vicende editoriali e giudiziarie che hanno portato al fallimento della società proprietaria della testata (Mediterranea) e di quella che la gestisce (Edisud). E questo, purtroppo, è puntualmente accaduto: da lunedì 2 agosto La Gazzetta s’è fermata, con un “Arrivederci” nel titolo pubblicato in prima pagina a caratteri cubitali.

Ora, per l’acquisto della testata a rischio di chiusura, sono in lizza due proposte concordatarie: una presentata da “Ledi” (gruppo Ladisa – ristorazione collettiva e commerciale) che aveva assunto la gestione provvisoria del giornale e poi l’ha improvvisamente revocata; l’altra della società “Ecologica” (gruppo Miccolis – trasporti, bonifiche, lavori portuali, smaltimento dei rifiuti) che appare più favorevole, sia per l’offerta economica sia per l’impegno a mantenere per due anni i livelli occupazionali. Spetterà adesso al comitato dei creditori pronunciarsi e infine al giudice delegato assegnare La Gazzetta a uno dei pretendenti.

È da tempo ormai che i giornalisti italiani lamentano di essere Comprati e venduti (Giampaolo Pansa – Bompiani, 1977). Oppure, recriminano contro Il padrone in redazione (Giorgio Bocca – Feltrinelli, 1989). Fatto sta che oggi quasi tutti i quotidiani sono in mano a imprenditori o finanzieri che spesso se ne servono per altri fini, salvo rare eccezioni.

In questo panorama editoriale desertificato, le cooperative dei giornalisti sarebbero la formula più trasparente per restituire alla carta stampata un minimo di autonomia e di credibilità. Ammesso, beninteso, che non siano posticce o di comodo. E possano beneficiare delle provvidenze statali in base a parametri oggettivi, come il radicamento territoriale, la tiratura e la diffusione, in modo da assicurare un livello minimo di pluralismo nel sistema dell’informazione.

Perché, allora, i colleghi della Gazzetta hanno rinunciato a fare “un giornale senza padroni”, attraverso la cooperativa che loro stessi l’anno scorso avevano costituito, pur avendo già ottenuto una linea di credito e potendo accedere dopo un solo esercizio alle provvidenze pubbliche? L’ansia della sicurezza professionale, cioè la difesa dei posti di lavoro e anche degli stipendi, è più che legittima e comprensibile. A condizione, però, di non compromettere l’identità e la sopravvivenza stessa del giornale.

Il paradosso è che nella prima proposta di “Ecologica” per l’acquisto della testata s’ipotizzava una distinzione fra proprietà e gestione, per favorire appunto la costituzione di una cooperativa. Seguiva un’esplicita e apprezzabile motivazione: “In questo modo, i giornalisti diverrebbero ‘imprenditori di se stessi’ eliminando così del tutto il rischio che l’attività giornalistica possa essere contaminata da interessi estranei all’esercizio del diritto di informazione”. Ecco, quello era un impegno che forse avrebbe meritato una maggiore considerazione, a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza professionale.

 

“Il reddito di cittadinanza funziona: basta coi falsi miti”

“Il Reddito di cittadinanza non funziona. È per i fannulloni. Non dà lavoro, anzi, chi lo prende non accetta di lavorare”. In due righe ho condensato le principali affermazioni, false nella loro banalità, che vengono utilizzate quotidianamente per smontare il Reddito di cittadinanza. Innanzitutto diradiamo le incomprensioni riguardo a questo strumento: non è mai stato e non sarà mai un mezzo che dà lavoro. Il Rdc dà occupabilità. È strutturato per essere una Toolbox per il percettore. Un pacchetto di strumenti che portino le persone verso una condizione appetibile per il mercato del lavoro e il reinserimento nella società. Gli strumenti che fornisce sono: un elemento economico, per evitare di cadere nell’indigenza; un elemento formativo, per costruire sicurezze, pratiche e culturali, che permettano agli individui di intercettare le richieste del mercato del lavoro; un elemento inclusivo, costituito dai Progetti utili per la collettività, per far sì che nessuno rimanga ai margini. Questo pacchetto, nella sua totalità, è ciò che permette di costruire il link tra il percettore e la sua occupazione.

Il Movimento 5 Stelle ha quindi dotato il Paese di uno strumento innovativo, chiesto a gran voce dai cittadini, flessibile e modulabile sulle diverse necessità di ogni persona. Le grandi conquiste sociali sono quelle che passano alla storia e il Reddito di cittadinanza è una di queste. Ora veniamo alle responsabilità su ciò che non funziona. Fino a oggi le assunzioni non sono decollate, ma chiedo: durante la pandemia, con un calo del Pil nel 2020 di quasi 9 punti percentuali e un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato, come avrebbero potuto trovare lavoro i percettori che ovviamente sono meno appetibili per le imprese? Inoltre con la chiusura per mesi di centinaia di Centri per l’impiego, specialmente nel Sud, e con la sospensione del Patto per il lavoro, le offerte non sono state fisicamente recapitate. Se aggiungiamo che le Regioni hanno per anni dimenticato i Centri per l’impiego il quadro appare chiaro. Infatti, su 11.535 operatori da assumere ne mancano quasi 10.000; alcune Regioni ne hanno inseriti poche decine, nove però sono ancora ferme al palo. L’autonomia regionale non ha certo brillato in questa fase pandemica ma il problema sull’organizzazione dei Cpi fa emergere ancor di più come questo limite sia strutturale e crei gap incolmabili tra aree diverse del Paese.

Quindi chi strumentalizza i dati delle assunzioni deve comunicare anche tutti questi elementi che evidenziano come il problema non sia il Rdc in sé ma la gestione del sistema e lo stato di crisi socioeconomica che sta attraversando il Paese. Se poi dalle condizioni difficili ci spostiamo nel campo della giungla di offerte di lavoro sottopagate e ai limiti dello sfruttamento, in particolare in periodo di assunzioni stagionali, arriviamo a chiudere il cerchio intorno ai falsi miti. Un sistema Paese virtuoso, basato sui diritti della persona, emarginerebbe chi, per fini politici, vuole contrapporre lavoratori e percettori del Reddito, poveri contro ricchi, imprenditori contro disoccupati. Di fronte a offerte oneste, prive di chiaroscuri, e correttamente retribuite nessuno opporrebbe un rifiuto. Come sopra, la colpa non sta nella norma, sta in chi vuole comprimere diritti dei lavoratori.

Il Reddito di cittadinanza non ha bisogno di formule magiche o di nuovi e innovativi strumenti informatici per essere migliorato e per limare ciò che ha funzionato meno. Abbiamo già tutti i mezzi, anche tecnologici, pagati lautamente con fondi pubblici, che devono essere raccordati tra loro per funzionare appieno. Alcune modifiche andranno fatte, ma saremo baluardo contro chi vuole distruggere il Reddito.

No-vax: un’idea così folle che piace solo ai filosofi

Stiamo davvero diventando una società di imbecilli se due dei nostri più sperimentati filosofi, Massimo Cacciari e Giorgio Agamben (imbecilli noi, non loro, notevoli esperti della sempre imminente catastrofe, sulla quale pattinano da mezzo secolo, rimanendo brillantemente nella bottega delle idee in vendita) fingono di cascare nel bicchier d’acqua del Green pass e da laggiù strillare alla discriminazione sociale, anticamera di quella politica: attenzione, attenzione, hanno detto politica! Poiché il Green pass, “adottato con inconsapevole leggerezza”, discrimina una categoria di persone, trasformandola in “cittadini di serie B”, un fatto “di per sé gravissimo, per la vita democratica”. Attenzione, attenzione, hanno detto: vita democratica! La quale vita democratica sarebbe il nostro intero ecosistema esistenziale, quello dell’eterno chiagni e fotti al coperto e al caldo, su cui si basa l’ossigeno del nostro vivere civile, dentro al supermercato sociale dove le pretese superano sempre l’offerta della merce esposta. E a nessuno si nega un guardaroba adeguato, fosse anche la barba dell’autorevolezza.

Vite in pericolo, democrazia in pericolo: non li sfiora il ridicolo. E neppure l’intenzione di guardare oltre i bordi del loro bicchiere. Vedrebbero, proprio lì accanto, moltitudini di cittadini di serie C che faticano il fine mese, perdono il lavoro, si ammalano, cascano dentro la trafilatrice. E poi molesti intrusi “di razza umana” tentare l’approdo al nostro mondo di ricche illusioni, pane, lavoro, vaccini, ristori, altro che il perfido Green pass, che li discrimina per davvero, fisicamente, ammassandoli il più distante possibile dai nostri occhi, nei lager libici, turchi, greci, tunisini. Mentre la nostra patriottica “Lega per Salvini premier”, denuncia anche lei un “fatto di per sé gravissimo per la vita democratica”, l’invasione che intende guastare le nostre radici giudaico-cristiane con l’inammissibile contaminazione araba. Contro la quale, se mai sbarcassero gli zombie, è già pronta ad affidare l’ultima resistenza ai suoi assessori a mano armata. Così esperti di autodifesa che inciampano ogni volta che sparano (“ero confuso, ero spaventato”) preferendo passare per mammalucchi, anziché assassini.

Se solo volessero, Cacciari, Agamben, e tutti i sofisti che se li bevono immaginandosi spregiudicati, vedrebbero, un po’ più distante, il signor Orbán, borgomastro d’Ungheria che con i diritti della nostra “vita democratica” ci si sciacqua le ascelle fischiettando ogni mattina, prima di entrare nel Parlamento europeo di Strasburgo. Mentre il suo compare in buone maniere, il sultano Erdogan si fuma le opposizioni nel narghilè, spedendole in carcere – 90 mila prigionieri politici, dicono le cronache – mentre si fa vento nel suo Palazzo di 1.150 stanze, costruito con i soldi che sempre il Parlamento di Strasburgo gli ha donato per tenersi i profughi.

E vedrebbero che in quanto a discriminazioni, il vasto mondo non si nega niente, 36 guerre in corso, comprese le nostre umanitarie, libera macelleria in mezza Africa, Medio ed Estremo Oriente, migliaia di morti, milioni di profughi, minoranze etniche come i rohingya, gli uiguri, i curdi, gli armeni, perseguitati da cento o da mille anni e sempre in fuga. Sono mai stati, i nostri filosofi della krisis e del détournement, in un campo profughi libanese o siriano? Avrebbero visto che laggiù sono la diarrea e la fame a discriminare i diritti dei neonati, che invece di dormire, disturbano il nostro sonno con il loro pianto.

Abitando nelle nostre democrazie riscaldate, arredate, igienizzate, abbiamo il sacrosanto diritto a tutto, ci mancherebbe: pace, istruzione, sanità, giustizia, libero mercato, vacanze e tredicesima. Per colpa o per destino ci ha attaccato il virus. La sola via d’uscita – a parte il pensiero magico dei no vax e il pensiero paraculo delle destre a caccia di consensi anche nella sacca delle elemosine – è il vaccino, fabbricato a tempo di record e distribuito gratuitamente. A perfezionarlo, si è ragionevolmente convenuto che a noi tocchi il solo (trascurabile) dovere del Green pass. Apriti cielo. Davvero la nostra libertà finirà (finirebbe) dietro le sbarre di una certificazione, anticamera totalitaria?

Vaccinarsi, di questi tempi, è un gesto sociale, ci mette al riparo a vicenda dai peggiori guai del Covid. Farlo sapere a quelli che ci stanno intorno è una procedura che ci semplifica la vita e l’ansia. Scambiarlo per un dispetto, anzi per il progetto di una nascosta svolta autoritaria è “una idea talmente stupida – disse ai suoi tempi George Orwell – che solo gli intellettuali possono crederci”.

 

Bond e Tatiana, la sexy spia, in viaggio con Poirot e le girelle di liquirizia

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai Movie, 22.50: 007, dalla Russia con amore, film azione, con Sean Connery. La Spectre vuole vendicare la morte del Dr. No uccidendo James Bond (non subito, però, perché il film deve durare 115 minuti e incassare 78 milioni di dollari contro i 2 di budget). Il piano, ideato dal malvagio Kronsteen, gran maestro di scacchi cecoslovacco, in combutta col produttore del film, è quello di attirare Bond in una trappola. M: “Hanno reclutato un’impiegata del consolato sovietico di Istanbul, Tatiana Romanova, così arrapante che in confronto Ursula Andress è uno scaldabagno. Fingerà di voler disertare in Occidente, dandoci in cambio un dispositivo di crittografia Lektor e una girella di liquirizia. Al momento opportuno, un loro assassino, Grant, cercherà di strangolarti con la girella di liquirizia. Hai capito, Bond?”. BOND (a letto con una strafiga): “Ma chi parla?”. M: “Sono M, il tuo capo. Dall’altoparlante nascosto nella tetta della ragazza”. BOND: “Non sento bene”. M: “Gira il capezzolo: è il volume. Parti subito per la Turchia”. BOND: “Ma non era una trappola?”. M: “Sì, ma il film deve durare 115 minuti ecc. ecc.”. BOND (alla strafiga): “Scusa, tesoro, un’emergenza. I soldi della scopata me li darai la prossima volta”. Per la missione, Q consegna a Bond una valigetta contenente gadget letali, fra cui un coltellino svizzero e una ventosa. A Istanbul, Bond e Tatiana pianificano il furto del Lektor fra una trombata e l’altra, ignari che Kronsteen li sta facendo filmare per le sue pippe. Bond usa la ventosa per recuperare il profilattico che gli si è sfilato nella figa dalla foga. Con le planimetrie del consolato fornite da Tatiana, Bond ruba il Lektor, e con Tatiana fugge dalla città a bordo dell’Orient Express, dove Poirot li informa che sono pedinati da un ufficiale sovietico. Mentre Bond immobilizza il sovietico, Poirot ci prova con la Romanova, ma ha un pene troppo piccolo. E Poirot pure. Bond e Tatiana raggiungono Zagabria per incontrare Ripley, un agente britannico: però si tratta di Grant, che ha ucciso Ripley e ne ha assunto l’identità. BOND: “Parola d’ordine?”. GRANT: “Boh”. BOND: “Esatto”. GRANT: “Dove sei?”. BOND: “Non lo so. Questa missione è così segreta che il mio biglietto aereo era bianco”. GRANT: “Anche il mio. Quindi siamo nello stesso posto. Vediamoci nel tuo hotel”. Grant droga Tatiana, mette ko Bond, e invece di ucciderlo subito (perché il film deve durare ecc. ecc.), gli rivela che la Romanova è solo una pedina della Spectre, e che lui ucciderà entrambi lasciando sulla scena il filmino porno per sputtanarlo. GRANT: “A recitare sei proprio un cane!”. Ma Bond uccide Grant col cavatappi del coltellino svizzero; prende il Lektor e il film compromettente; e scappa con Tatiana sul coltellino svizzero, mentre gli agenti della Spectre sparano loro addosso da elicotteri, barche, idrovolanti, sottomarini e pedalò finché non li mancano del tutto. Il capo della Spectre punisce Kronsteen con una Ruy Lopez, e incarica Rosa Klebb, un’ex agente dello Smersh, il controspionaggio sovietico, di recuperare il Lektor. La Klebb, travestita da abat-jour, s’intrufola nella camera dell’albergo dove la coppia sta scopando, a Venezia; punta una pistola contro Bond; e ordina a Tatiana di uscire. (Perché non spara subito? Perché il film deve durare ecc. ecc.). Bond balza addosso alla Klebb, che però lo gonfia di brutto (è lesbica), ma Tatiana inserisce la spina dell’abat-jour nella presa di corrente e la Klebb muore folgorata facendo un rumore buffo con le labbra. Missione compiuta: James e Tatiana si godono finalmente una gita in gondola, mentre Bond getta nel Canal Grande la pellicola di questo film.

 

Tragicommedia. Il commesso, l’onorevole e la poltrona incollata

 

 

 

DIALOGO ALLA CAMERA tra un deputato e un commesso

– Onorevole, la poltrona!

– Come, la poltrona?

– Non può portarla fuori dalla Camera.

– Cosa sta dicendo?

– Le sto dicendo che le poltrone devono rimanere nell’aula.

– Come si permette?

– Mi permetto perché è il mio dovere. Sono addetto al controllo.

– Ma questo cosa significa, riferito a me?

– Le ho già detto, onorevole, che non posso consentire a nessuno, neanche al presidente di portar fuori la sua poltrona.

– Sono stupefatto. Come può vedere, con una mano porto la borsa, con l’altra i giornali.

– Ma non ho parlato di mani, onorevole.

– E allora di cosa parlava?

– Per portar fuori una sedia non è necessario utilizzare le mani.

– E allora?

– Onorevole, lei sta portando fuori la poltrona in un altro modo.

– Come, in un altro modo? Mi dica come!

– Onorevole, non mi costringa a usare termini sgradevoli.

– Li usi, li usi. Sono abbastanza vecchio per non scandalizzarmi.

– Onorevole, si giri.

– Va bene, mi giro.

– Non avverte nulla nel girarsi?

– Nulla.

– Allora, cammini!

– Va bene, cammino.

– Non sente un peso, dietro?

– A cosa si riferisce?

– Mi riferisco alla sedia.

– Alla sedia?

– Sì, onorevole, la sedia, la poltrona, come vuol chiamarla.

– Ma allora è questo che voleva dirmi?

Sì, proprio questo.

– Mi perdoni, non ci avevo pensato. Dopo quasi trent’anni in Parlamento ci avevo fatto l’abitudine, come un motociclista con il casco.

– Cosa vorrebbe dire?

– Chi usa tutti i giorni la motocicletta non si accorge più che ha il casco in testa. Nel mio caso la sedia o poltrona, che dir si voglia, è come incorporata. Vent’anni fa, dopo un infelice rapporto con la coccoina, ho trovato una colla attaccatutto che è una meraviglia.

– Cosa dobbiamo fare, onorevole?

– Consideri la poltrona un indumento. Sappia che io la riporto alla Camera tutti i giorni. Il mio non è un sottrarre, un portar via. È vivere con la poltrona e lo sarà, spero, per molti anni a venire.

– Mi ha convinto, onorevole, vada pure.

 

AVV. Guariente Guarienti

Cara Rai, dacci un format anti-pandemia

Modesta proposta ai nuovi vertici Rai, Carlo Fuortes e Marinella Soldi: un servizio pubblico radiotelevisivo quotidiano, interamente dedicato a vaccinazioni, green pass, andamento del virus, varianti, annessi e connessi. Un filo diretto al quale Sì-Vax, No-Vax, Ni-Vax, Boh-Vax e tutta l’Italia abbastanza smarrita davanti a una realtà a volte confortante, a volte minacciosa, spesso mutante potrebbe rivolgersi per domandare, informarsi, ascoltare. Ma, soprattutto, per ricevere ascolto. Senza ricevere in cambio la moneta della supponenza, del pregiudizio e del partito preso. Un programma nella tradizione più fulgida del Servizio pubblico del sociale, attento alle necessità degli infermi, degli anziani, dei disabili, dei dimenticati, delle persone sole. La Rai di Sorella Radio, quella di Silvio Gigli e Corrado Mantoni che negli anni 50 donava conforto ai nostri anziani. La Rai del 3131, filo diretto e senza filtri di straordinario successo, ideato all’inizio degli anni 70 da Adriano Magli e Luciano Rispoli e dove si alternava il gotha della radiofonia (Gianni Boncompagni, Franco Moccagata, Federica Taddei, Paolo Cavallina, Luca Liguori). Allora il telefono, oggi il cellulare, che interagiscono a meraviglia in diretta con la radio, e anche con la televisione (gli ascolti crescenti dei Lunatici di Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio). Si dirà: ma i palinsesti sono già zeppi di spazi dove si affrontano questi temi. Vero, ma spesso in modo casuale e disordinato mentre qui si parla di spazi dedicati, di appuntamenti fissi, di competenze collaudate. Scrive Barbara Stefanelli sull’ultimo numero di 7, il settimanale del Corriere della Sera: “La libertà è sempre stata – in ogni Carta condivisa – un esercizio di diritti nel rispetto dei diritti altrui. Ci siamo invece abbandonati – iperstimolati dalle accelerazioni della civiltà digitale – a un frastuono di voci sovrapposte, ci siamo abituati al sospetto e all’indignazione come fossero un codice naturale nelle relazioni”. Scrive un paio di pagine dopo, Lilli Gruber: “Tante persone sono disinformate, incerte e impaurite. Hanno bisogno di voci autorevoli e sincere che parlino nel loro interesse e che sappiano neutralizzare, non ignorare, le bugie strumentali di chi non ha vergogna di speculare sulla pandemia per interessi elettorali”. Cara Rai, cari Fuortes e Soldi, cosa aspettate?

Toti fa l’occhiolino ai privati: ospedale e soldi pubblici

Èl’eterna opera incompiuta della Liguria: l’ospedale Felettino di La Spezia ha il record di politici che negli ultimi vent’anni ne hanno posato la (presunta) prima pietra, mentre la città ha continuato a mantenere un primato in negativo di pazienti che emigrano altrove. L’ultimo a tagliare un nastro, nel 2016, era stato il governatore Giovanni Toti, fresco di prima elezione. L’appalto avviato dal suo predecessore Claudio Burlando, vinto dal costruttore Carlo Pessina (ex editore dell’Unità) è finito malissimo: lavori interrotti quasi subito, revoca dell’assegnazione unilaterale decisa dalla stazione appaltante Ire (società regionale guidata dall’avvocato Alberto Pozzo, fedelissimo di Toti), e successiva richiesta danni da 50 milioni di euro del costruttore, tuttora pendente. Alcuni mesi fa il leader di Cambiamo – che oltre a essere presidente della Regione è anche assessore alla Sanità ad interim – ha ripreso in mano il dossier, sfoderando una nuova proposta: un parternariato pubblico-privato. Una soluzione che, però, ha già collezionato la censura della Corte dei Conti regionale e, nei giorni scorsi, la perplessità del Ciga (il comitato del ministero della Sanità) che sul caso ha chiesto integrazioni. A preoccupare, in particolare, sono due aspetti. Il primo è la lievitazione dei costi, schizzati dagli originari 177 milioni (quasi tutti di origine pubblica) agli attuali 264, previsti nella nuova delibera regionale: “Un aumento incomprensibile – secondo Guido Melley, consigliere comunale d’opposizione di centrosinistra a La Spezia – soprattutto perché, a quello che sappiamo oggi, non corrisponde a un incremento dei posti letto. Come tutti vogliamo l’ospedale, ma non a tutti i costi. Va fatto presto, bene e deve essere pubblico”. Il secondo nodo riguarda la sostenibilità finanziaria. Gli 86 milioni di euro oggi mancanti sarebbero messi da un soggetto attuatore privato che, grazie a una convenzione stipulata con la Regione Liguria, avrebbe accesso a un finanziamento di Cassa depositi e prestiti (a un tasso di mercato molto basso). Per contro, l’accordo prevede che lo stesso privato riceva indietro dalla Asl 5 di La Spezia 14 milioni di euro l’anno per 25 anni: 4 a titolo di servizi e manutenzione; ma soprattutto 10 di interessi. In altre parole, il privato pagherebbe l’ospedale con soldi presi a prestito dello Stato a un tasso intorno all’1%, e si farebbe ripagare dalla sanità regionale ligure a un tasso dell’8% (260 milioni di euro). Ed è proprio questa partita ad aver acceso i riflettori del Ministero e della magistratura contabile: “Da un esame sommario della delibera – scrive il procuratore Daniele Giuseppone – non possiamo che auspicare un attento esame della fattibilità finanziaria e della convenienza economica di tale scelta, in considerazione della notevole mole di risorse pubbliche, non foss’altro perché non è stata rinvenuta la matrice dei rischi”. Dai banchi dell’opposizione in consiglio regionale attacca anche Ferruccio Sansa: “È un regalo al privato che comporta rischi enormi per la sanità pubblica spezzina. Attendiamo chiarimenti su questo budget iperbolico”. “L’appalto è stato costruito seguendo le direttive dell’Anac – replica Toti al Fatto – il piano finanziario è stato predisposto da Ire con il supporto di Cdp. Parlare di “premio” per il soggetto attuatore, che deve farsi carico dei rischi connessi, è pretestuoso”.