“Aspi, le autorità indaghino sul regalo statale ai Benetton”

La mossa arriva a pochi giorni dal terzo anniversario del disastro del Ponte Morandi coi suoi 43 morti, ma interviene in una partita finanziaria che rischia di costare cara a milioni di automobilisti nel silenzio generale. Ieri 17 parlamentari, 15 del gruppo L’Alternativa C’è, hanno depositato un esposto alla Procura di Roma, alla Corte dei Conti, al Cipess, alla Ragioneria dello Stato, all’Antitrust e all’Autorità di Regolazione dei Trasporti. La richiesta è chiara: indagare se ci sono danni erariali, profili di illegittimità o reati commessi nel passaggio di Autostrade per l’Italia dalla Atlantia dei Benetton al consorzio guidato da Cassa Depositi e Prestiti cui partecipano i fondi Blackstone e Macquarie.

Come noto, il governo Conte bis ha rinunciato a revocare la concessione per il Morandi in cambio dell’uscita di scena di Atlantia. Dopo un braccio di ferro lungo un anno e mezzo, a giugno scorso le parti hanno siglato l’accordo: Cdp e soci valorizzano Aspi 9,1 miliardi di euro, quindi 8 miliardi per l’88% della concessionaria in mano ad Atlantia. Alla holding controllata dai Benetton andrebbero anche parte degli indennizzi Covid per il calo di traffico del 2020 (300 milioni).

L’operazione però non si è ancora chiusa: all’appello manca il Piano economico finanziario (Pef), che fissa il livello di investimenti, manutenzioni e pedaggi di Autostrade nei prossimi anni. Dev’essere approvato dal Cipess (il Comitato per la programmazione economica, presieduto a Palazzo Chigi dal sottosegretario Bruno Tabacci) e i parlamentari lanciano l’allarme: quello proposto dalle Autostrade targate Benetton e accettato dal ministero delle Infrastrutture a ottobre scorso è infatti talmente generoso che l’Autorità dei Trasporti lo ha stroncato con un parere durissimo.

Al netto dei tecnicismi, è costruito su stime di traffico molto alte ed espedienti tecnici per garantire un aumento tariffario sempre al massimo livello consentito dagli accordi col governo (una crescita dei pedaggi dell’1,75% l’anno, mentre secondo l’Authority dovrebbe essere dello 0,87%). In questo modo verrebbero garantiti 21 miliardi di utili nei prossimi 18 anni di concessione: una redditività stellare, perfino superiore a quella che ha fatto ricchi i Benetton. Nell’esposto i parlamentari annotano che “può esservi il rischio che il ministero sia indotto a valutare positivamente il Pef nonostante sia eccessivamente vantaggioso per il concessionario” e questo per “aumentare il valore delle quote di Aspi” e poi “consentire la remunerazione dell’investimento fatto da Cdp e dai fondi”. Tradotto: il sospetto è che la disponibilità a pagare una tombola la concessione sarà compensata in futuro con la garanzia di pedaggi salati che pagheremo tutti noi su oltre il 50 per cento di tutta la rete autostradale italiana.

Il Pef al momento non è stato ancora trasmesso al Cipess, ma solo inviato all’Avvocatura dello Stato per un parere. L’esposto ripercorre le tappe della vicenda e chiede a magistrati e Authority di verificare perché non si è cercata una soluzione migliore che versare 9 miliardi a Benetton e soci. La domanda è legittima: quanto sarebbe costata la strada della revoca? Secondo i calcoli fatti effettuare dai parlamentari, anche con la maxi-penale prevista dalla concessione assicurata ai Benetton nel 2007 non si sarebbero superati i 7,8 miliardi, cioè meno di quanto si spenderà ora. La nuova Autostrade targata Cdp rischia poi “sanzioni amministrative anche pesanti” in caso di condanna nel procedimento del Morandi. Tanto più che l’accordo prevede che Atlantia si accolli solo il 75% delle richieste di danni e fino a un tetto di 459 milioni. Oltre questa cifra, saranno Cdp e soci a pagare. “È ragionevole ritenere che i risarcimenti possano ammontare a cifre ben più elevate, finendo per gravare su Cdp, e quindi sui contribuenti”.

“Il crollo del Morandi, che è costato la vita a 43 persone ha rappresentato, con drammatica iconicità, il fallimento delle privatizzazioni italiane – spiega Mattia Crucioli di Alternativa C’è –. Nonostante sia chiaro a tutti che quanto è avvenuto a Genova sia frutto della cupidigia del concessionario, il governo è a un passo dal ricompensare con miliardi chi ha tradito la fiducia degli italiani nonché specifici obblighi contrattuali, invece che sanzionarlo rigorosamente. Credo che quanto sta avvenendo sia, oltre che immorale, anche illegittimo”.

Proprio ieri, però, il governo ha dato il via libera finale non esercitando il golden power, i poteri speciali per le operazioni strategiche.

“Via Falcone e Borsellino, il parco torni a Mussolini”

Il cognome, da quelle parti, è di quelli che a qualcuno, non più giovanissimo, fa ancora inumidire gli occhi di nostalgia. E solletica anche la fantasia di chi di quelle famiglie è leva più recente, è cresciuto ascoltando i racconti fatti dai nonni e magari, quando l’occasione è propizia o lo richiede, non si trattiene dal tendere romanamente il braccio. Claudio da Santa Fecitola lo sa e alla prima occasione utilizza il richiamo alle origini della città e del suo mito fondativo. “La storia di Latina è quella che qualcuno ha voluto cancellare, cambiando il nome a quel nostro parco che deve tornare a essere quel parco Mussolini che è sempre stato”, ha detto la sera del 4 agosto il sottosegretario della Lega, Claudio Durigon, durante un evento elettorale nel capoluogo pontino. Il parco è quello intitolato dal 2017 a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’idea è quella di tornare a dedicarlo ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce che della città, nata come Littoria, posò la prima pietra il 30 giugno 1932. “Su questo vogliamo andare avanti”, ha aggiunto il leghista. Innescando il putiferio.

Durigon, l’ex vicesegretario dell’Ugl che ha consegnato a Matteo Salvini le strutture del sindacato per farne la base organizzativa della Lega nel centro-sud Italia, è uomo di qui. Nato e cresciuto a Santa Fecitola, incrocio di strade a perpendicolo volute dal Duce per tagliare a perpendicolo l’Agro redento dalla palude, sa come solleticare le nostalgie di chi vive da queste parti. Come altri, del resto: il 6 ottobre 2018, Orlando Tripodi presentò alla cittadinanza il direttivo locale del Carroccio in una sala in cui campeggiava un manifesto di Mussolini. Mercoledì sera, invece, per scaldare la campagna elettorale e introdurre sul palco il suo leader Matteo Salvini, Durigon ha scelto la damnatio memoriae dell’iniziativa voluta 4 anni fa dal sindaco civico Damiano Coletta, contro la quale fin da subito aveva fatto battaglia il centrodestra in Consiglio comunale, definendolo un atto “contro la storia della città”. “Figuriamoci se voglio andare contro due eroi come Falcone e Borsellino – ha detto ieri Durigon –. Il mio intervento, in quel contesto, con le persone di Latina, voleva solo ribadire la storia della città, che non va dimenticata”. Quindi la precisazione: “Io non sono fascista né lo sono mai stato”. No, ma neanche ha mai disdegnato l’apporto di chi è stato da quella parte della barricata. Come quando nell’ex Cisnal, sindato che fu caro a Giorgio Almirante, trovò un posto da dirigente a Stefano Andrini, ex militante di ultradestra, che ha scontato il carcere dopo aver partecipato nel 1990 a una rissa con un gruppo di giovani di sinistra, due dei quali finirono con il cranio fracassato a sprangate.

Durigon “dovrebbe chiedere scusa, tenta solo di celare la totale mancanza di unità e di programmi della destra”, attaccava ieri il Pd Lazio. Ora “la sua presenza al governo diventa inaccettabile”, ha sibilato Alessandra Carbonaro, capogruppo M5s in commissione Cultura alla Camera. Persino Vincenzo Zaccheo, primo cittadino di An negli anni 2000, già senatore del Pdl e oggi candidato in pectore del centrodestra alle Comunali del 3 ottobre, usa l’arma della diplomazia: “Se dovessi tornare sindaco, non cambierei il nome al parco”, ha detto ieri l’ex missino, la cui candidatura non è stato ancora ufficializzata da FdI, Lega e Forza Italia. “Tutt’al più potremmo scrivere: ‘Parco Falcone e Borsellino, già parco Arnaldo Mussolini’”, ha aggiunto da politico navigato con il più classico dei cerchiobottismi. Non si sa mai.

“Istituzioni permeabili: la criminalità tentava di infiltrarsi da 10 anni”

Antonio Laronga è procuratore aggiunto a Foggia: da vent’anni segue le indagini sulla criminalità organizzata pugliese. Conosce bene il territorio e quelle infiltrazioni tra cosche e politica che ora hanno portato allo scioglimento del comune di Foggia.

Procuratore, ritiene che la decisione di sciogliere il Comune di Foggia sarebbe dovuta arrivare prima?

Non spetta a me valutare la tempistica, ma un dato certo, emerso in alcuni processi definiti con sentenze irrevocabili, è che da oltre 10 anni uomini legati ai clan hanno tentato di infiltrarsi nelle attività economiche della pubblica amministrazione locale, mettendo pericolose radici all’interno di società interamente riconducibili al Comune di Foggia. Come nel caso dell’Amica Spa, società ex municipalizzata che si occupava della raccolta dei rifiuti solidi urbani, dichiarata poi fallita nel luglio del 2012. In quel caso il metodo seguito fu duplice: da un lato, venne imposta l’assunzione di soggetti affiliati all’associazione mafiosa o legati da rapporti di parentela a esponenti di rilievo della stessa; dall’altro, i vertici della società comunale affidarono in via diretta a cooperative infiltrate da uomini dei clan una serie di servizi pubblici per importi esorbitanti.

La società civile e la politica nazionale hanno sottovalutato la criminalità organizzata in Puglia? Come se fosse un problema solo calabrese, siciliano e campano.

Fino al 9 agosto 2017, data del quadruplice omicidio in cui persero la vita anche i fratelli agricoltori Aurelio e Luigi Luciani, delle mafie foggiane non si sapeva quasi nulla. Le associazioni mafiose del foggiano sono rimaste ignorate per decenni da mass media e stampa nazionali, avvantaggiandosi del clima di generale sottovalutazione. Oggi queste mafie si sono trasformate in strutture multi-business con una forte capacità di infiltrazione nell’economia legale del territorio e di interlocuzione con uomini delle pubbliche amministrazioni locali.

Per il prefetto, “il quadro inquietante della realtà amministrativa dell’ente attesta uno sviamento del munus pubblico in favore degli interessi della criminalità organizzata”. Quanto hanno inciso i comportamenti degli amministratori per favorire l’infiltrazione della Società foggiana?

È innegabile che il disastro civile che di solito si registra nelle comunità costrette a convivere quotidianamente con fenomeni di illegalità, è favorito dalla presenza di istituzioni pubbliche “deboli”, incapaci di respingere con nettezza i tentativi di infiltrazione e di condizionamento esercitati dalla criminalità organizzata.

Adesso serve un processo di “ripristino della legalità”. Processo che deve interessare non solo i magistrati, i prefetti e le forze dell’ordine, ma anche la società civile. Anche i cittadini hanno un ruolo importante.

È indispensabile creare nella società civile un ambiente ostile a qualsiasi forma di accettazione o, peggio, di connivenza con le mafie. Purtroppo, la città perbene, quella delle persone oneste, appare sempre più spaventata e disorientata dalla continua crescita della cosiddetta fascia grigia, di quella società – si fa per dire – civile, che certamente non può dirsi mafiosa, perché non commette reati di mafia, ma che con essa convive, la accetta, non si ribella né ha alcuna intenzione di ribellarsi. Un’ambiguità di fondo che non permette più di distinguere nitidamente chi sta dalla parte della legalità e chi no. Occorre, dunque, una scelta decisa in favore delle regole da parte di tutti.

“Legami concreti coi clan”: Foggia è ri-sciolta per mafia

Elementi “concreti, univoci e rilevanti” sui “collegamenti” tra gli amministratori comunali e la criminalità organizzata. Eccola la Foggia degli ultimi sette anni, secondo la relazione del ministero dell’Interno che ha portato, per la seconda volta in 21 anni, al commissariamento per 18 mesi di un capoluogo di provincia. Al centro, il settennato dell’ormai ex sindaco Franco Landella, forzista convertitosi al leghismo, dimessosi a maggio, alla vigilia degli arresti domiciliari (poi revocati) con l’accusa di corruzione.

In quattro mesi la Commissione di accesso agli atti ha rintracciato “forme di ingerenza” degli uomini della Società Foggiana in diversi settori pubblici. Dai bidelli negli asili alla riscossione tributi. In sei, dure, pagine di relazione, la ministra Luciana Lamorgese parla di un “quadro inquietante”, elencando i “rapporti di frequentazione” e di “parentela” tra amministratori e “soggetti controindicati”. I nomi furono in parte anticipati dal sito Immediato.net, che aveva già sollevato alcune questioni riassunte nel documento. Si tratta delle ex consigliere di Fdi, Liliana Iadarola ed Erminia Roberto, che era stata anche assessora. Un terzo consigliere risulta residente in una casa “abitata da un intraneo a una locale consorteria”. Nella relazione anche Landella e la moglie Daniela Di Donna, dipendente del Comune, il cui ruolo viene definito “emblematico” perché si “sarebbe occupata di distribuire” 4mila euro ai consiglieri “frutto di una ‘tangente’”. Una “ingerenza favorita da una colpevole inosservanza” delle normative, a iniziare dalle verifiche antimafia. È accaduto per i servizi di installazione dei semafori, il cui affidamento è stato rinnovato nel 2016 a una società poi colpita da interdittiva. Stesso scenario per il sistema di videosorveglianza, assegnato con “ripetuti affidamenti diretti per circa 380mila euro”: una dei soci è “legata” da “interessi economici con un soggetto contiguo alle cosche”. “Anomalie e irregolarità” evidenziate anche nella gestione dei servizi cimiteriali.

Il Comune non aveva vigilato nemmeno sulla società che si occupa del verde pubblico: una “ingiustificabile omissione dei controlli” nei confronti di un’azienda i cui amministratori hanno “legami societari” con “ditte contigue” ai clan. “Costanti e colpevoli modalità operative” nelle verifiche antimafia “hanno consentito” inoltre “ad aziende riconducibili ad ambiente criminali” di “ottenere l’affidamento” del “servizio dei bidelli” negli asili. E i clan erano riusciti a mettere le mani anche sulle case popolari.

“Voto di scambio”: indagato un eletto di Fd’I, ora in FI

Si allarga al fronte politico l’inchiesta “Inter Nos” della Procura di Reggio Calabria che lunedì ha arrestato per corruzione il consigliere regionale Nicola Paris e che ha fatto luce sugli appalti dell’Asp. Affidamenti nel settore delle pulizie assegnati alle imprese ritenute vicine alle cosche Serraino e a quelle di Melito Porto Salvo e Locri.

Il politico, eletto con la lista dell’Udc e oggi nel gruppo misto, è indagato per scambio elettorale politico-mafioso. Un’accusa che condivide con un altro consigliere regionale, Raffaele Sainato candidato con la lista di Fratelli d’Italia ed entrato a Palazzo Campanella dopo l’arresto del consigliere Domenico Creazzo. Oggi Sainato è transitato a Forza Italia e assieme a Paris è stato iscritto nel registro degli indagati per il sostegno elettorale ricevuto, alle regionali del 2020, da Silvio Floccari, ritenuto dagli inquirenti vicino alle cosche Cataldo e Cordì di Locri. Quest’ultimo si sarebbe incontrato il 21 novembre 2019 proprio con Nicola Paris. L’appuntamento, avvenuto a Reggio Calabria, era monitorato dalla guardia di finanza secondo cui dal “dialogo – è scritto in una nota delle fiamme gialle – emerge che il Floccari sia ‘impegnato’ per le prossime Regionali con Sainato Raffaele, attuale vicesindaco nonché assessore alle politiche ambientali e al bilancio del Comune di Locri, il quale si è candidato nelle file di Fratelli d’Italia”.

“Da me non sono venuti loro… – Floccari prova a giustificare il suo sostegno a Sainato – per caso tempo fa… ha detto ‘vedete di darmi una mano’… io non gli potevo dire di no… a chi è venuto non gli ho potuto dire di no”. Tuttavia, stando alle intercettazioni, Floccari ha promesso il suo sostegno a Paris: “Qualcosa per voi c’è… – dice – voglio dire dieci, venti, trenta… riusciamo a toglierli da una parte e… metterli all’altra”.

Due indagati per la morte di Laila el Harim. L’operaia si lamentava della poca sicurezza

Tre giorni dopo la morte di Laila el Harim, operaia rimasta schiacciata in un macchinario alla Bombonette di Camposanto (Modena), spunta un nuovo indagato: dopo il legale rappresentante dell’azienda, la Procura ha iscritto anche il delegato alla sicurezza, nipote dello stesso legale rappresentante. Ieri si è anche rincorsa la voce per cui sullo smartphone della lavoratrice sarebbero presenti foto della fustellatrice, scattate probabilmente per testimoniare il malfunzionamento. L’avvocato della famiglia l’ha smentito, ma il compagno di Laila ha confermato che l’operaia aveva confidato preoccupazione sulla sicurezza della macchina. Sempre ieri, i sindacati hanno incontrato l’azienda. “Volevamo vederli di mattina – spiega la Cgil Modena – poi hanno rimandato perché avevano le consegne. Quando ci hanno accolti, il turno era finito e non abbiamo parlato con i lavoratori. Non ci hanno nemmeno fatto vedere il macchinario dicendo che è sotto sequestro”. Ieri è stato l’ultimo giorno lavorativo prima della pausa estiva.

Verbali di Amara: quando Storari intercettò l’ex segretaria di Davigo

La segretaria di Piercamillo Davigo al Csm, Marcella Contrafatto, fu intercettata dalla Procura di Milano, nell’ipotesi che fosse complice di un furto informatico. Perché a Milano era giunta la notizia (dalla Procura di Roma) che era sospettata di essere la postina che aveva mandato a un paio di giornalisti e al magistrato Nino Di Matteo, i verbali segreti che erano stati trafugati illegalmente dai computer del pm Paolo Storari e del procuratore aggiunto Laura Pedio: le trascrizioni degli interrogatori in cui Piero Amara aveva rivelato l’esistenza di un presunto gruppo di pressione, che l’avvocato esterno dell’Eni presentava come una loggia massonica coperta denominata Ungheria.

Siamo nella primavera del 2021. Storari e Pedio hanno avviato una indagine da brivido: un giornalista del Fatto ha portato loro, a Milano, una copia “apocrifa”, senza firme, dei verbali segretati in cui Amara parlava della loggia Ungheria, ricevuti a Roma in plico anonimo nell’ottobre 2020. Il Fatto li consegna temendo una polpetta avvelenata o, peggio, il tentativo di distruggere un’inchiesta. La Procura milanese teme che sia avvenuto un accesso abusivo al sistema informatico. Ipotizza che i verbali siano stati trafugati dai computer dei due magistrati, che sia stato dunque commesso un furto informatico, con il fine di distruggere l’inchiesta sulla nuova P2.

Storari sul momento omette di raccontare che sei mesi prima, nell’aprile 2020 (la data precisa non è ancora stata accertata), aveva consegnato una copia proprio di quei verbali a Davigo, all’epoca consigliere del Csm, per tutelarsi da quella che giudicava una grave inerzia investigativa dei suoi capi (ora la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, sulla base degli elementi forniti dallo stesso Storari, declassifica quell’inerzia in più morbide “divergenze” e “preoccupazioni” e stabilisce che non esiste una incompatibilità ambientale che possa impedire a Storari di continuare a lavorare alla Procura di Milano).

A ottobre 2020, i verbali di Amata dunque arrivano, anonimi, alla redazione del Fatto e nella primavera seguente a Liana Milella di Repubblica, che denuncia la cosa alla Procura di Roma. Questa avvia immediatamente indagini, poi continuate anche dalla Procura di Perugia, che portano all’identificazione della “postina” che li aveva consegnati ai due quotidiani: è Marcella Contrafatto, segretaria di Davigo al Csm, che in quel momento non è più consigliere essendo andato in pensione e che ha ribadito di non sapere nulla degli invii dei verbali ai quotidiani e a Di Matteo. Contrafatto viene indagata per violazione del segreto d’ufficio dalla Procura di Perugia che, in coordinamento con quella di Milano, sta investigando sulla diffusione dei verbali. Ma né i magistrati di Milano, né quelli di Perugia sanno chi ha fatto uscire quei verbali dalla dalla Procura di Milano. Il reato per cui sta indagando la Procura di Perugia — violazione del segreto istruttorio — non permette la realizzazione di intercettazioni. Lo permette però un altro reato, quello di accesso abusivo a sistema informatico: l’ipotesi formulata a Milano. Così, scatta l’intesa tra la Procura di Perugia e Storari e Contrafatto viene indagata e intercettata. Per lei si valuta persino l’arresto, sul quale Storari dice di essere disponibile a una valutazione.

Nella primavera 2021 ci sono 72 ore decisive: quelle tra il 6 e l’8 aprile. Il 6, lo scenario è da spy story: l’inchiesta cerca gli hacker che stavano minando l’indagine sulla nuova P2 e Storari dà il via libera all’intercettazione di Contrafatto. L’8 aprile, Storari va nell’ufficio del suo capo, il procuratore Francesco Greco, e “liberandosi di un peso che aveva da tempo” gli rivela d’aver consegnato un anno prima quei verbali a Davigo. Crolla l’ipotesi di accesso abusivo ai sistemi informatici della Procura. E quindi anche la possibilità di intercettare Contrafatto, che con il furto (inesistente) di quei verbali dai computer dei pm di Milano non ha alcun collegamento.

Palamara si candida alla Camera. E firma il referendum di Salvini

Radiato dalla magistratura, rinviato a giudizio a Perugia per corruzione delle funzioni, dunque candidato al Parlamento. Per ora si chiude così il cerchio di Luca Palamara, l’ex pm di Roma, ex consigliere del Csm, ex presidente dell’Anm e leader di Unicost che ieri, con il dispositivo della Cassazione che ribadiva l’espulsione dalla magistratura ancora fresco d’inchiostro, ha annunciato di voler scendere in campo alle elezioni suppletive della Camera. Come? Cavalcando i temi del referendum sulla giustizia e del crescente malessere verso la corporazione dei giudici. Praticamente, un ossimoro politico. Palamara vorrebbe candidarsi nel Lazio, nel collegio uninominale di Roma Monte Mario-Primavalle, lasciato libero dopo la nomina nel giugno scorso dell’attuale deputata dei 5Stelle, Emanuela Del Re, a rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel.

Con il Partito radicale, secondo Il Giornale che ieri ha anticipato la discesa in campo del fu dominus di un sistema lottizzatorio delle nomine in magistratura. Una mezza smentita, che suona come una conferma che questa è la direzione, arriva dal segretario dei Radicali, Maurizio Turco, che ha partecipato alla conferenza stampa di Palamara. “È dal 1989 che il Partito Radicale ha deciso di non presentarsi alle elezioni in quanto tale – ricorda Turco – dopo tanti anni grazie a Salvini siamo riusciti a mettere al centro del dibattito politico i temi della giustizia. Se una presenza elettorale può aiutare, avremmo fatto un ulteriore passo avanti”.

Palamara ha annunciato che firmerà i referendum sulla giustizia promosso dai Radicali e dalla Lega, di qui la conferenza stampa. Tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati “perché la mia battaglia non sarà mai contro di loro”. E da candidato – e chissà, se eletto, anche da deputato – sarà un imputato modello. “Mi difenderò nel processo penale, andrò ogni volta in udienza, rispettando il mio giudice in un processo pubblico”. Ma senza peli sulla lingua: “Continuerò a raccontare come ha funzionato il meccanismo delle autopromozioni”. Palamara si candida “da cittadino libero”, con un suo simbolo, dove campeggiano la dea Giustizia, che regge la bilancia, e vicino un hashtag tricolore. Lo avrebbe deciso come risposta ai cittadini che hanno affollato le presentazioni del suo libro Il Sistema e che gli avrebbero chiesto “di dare forza” al racconto. “Da parte mia non c’è preclusione né per la destra né per la sinistra. In questo momento la mia priorità è sposare le istanze della città in cui sono cresciuto e di territori periferici caratterizzati da numerose problematiche. E anche sul versante della giustizia cerco di rivolgermi a tutti coloro i quali mi fermano per strada, con mia sorpresa, e mi domandano ‘perché i processi durano così tanto, perché sono stato carcerato ingiustamente’”. Conclusioni: “Dopo Mafia Capitale, Roma deve riabilitarsi a partire dalle realtà considerate più periferiche. Una delle mie ambizioni è l’educazione alla legalità e al rispetto delle regole”.

L’Italia alla prima prova del lasciapassare

 

 

 

Ristoranti Così la pizzeria si sposta sul marciapiede: “Impossibile gestire dentro”

A Roma da “Checchino” a Testaccio – cucina romana da sei generazioni e dal lontano 1887 – il primo giorno col green pass fila via abbastanza liscio. “Oggi era una giornata tranquilla – dice il titolare –. La gente preferisce mangiare all’aperto. Ma quando ci saranno servizi più impegnativi bisognerà trovare una figura apposita e di un certo carisma, come un responsabile di sala, per gestire le pratiche. In compenso una signora si è lamentata perché con la scansione del green pass abbiamo visto la sua età…”. Problemi più concreti alla storica “Casa del supplì” di piazza Re di Roma. “Vediamo se riusciamo ad adeguarci, altrimenti mettiamo tutti fuori”, spiegavano giovedì. Hanno optato per la seconda ipotesi: “Abbiamo spostato i coperti sul marciapiede all’esterno”. Soluzione informale, diciamo. “Controllare tutti, dentro, non era fattibile, avremmo dovuto mettere qualcuno a fare solo quello. Dopo l’estate vedremo”. A Napoli all’esterno della celebre pizzeria Sorbillo i clienti in fila come sempre, ma in più all’ingresso c’è un dipendente per il controllo dei certificati. Una donna incinta non vaccinata torna indietro, le consigliano di andare in farmacia per effettuare un tampone rapido. “La misura ci penalizza”, è il commento di Gino Sorbillo.

 

L’acquario incassi dimezzati Il gestore: “Perché da noi controlli, ma all’Ikea no?”

Acquario di Genova, venerdì d’agosto. Normalmente la coda di turisti si allungherebbe per decine di metri. Oggi no. L’effetto green pass salta all’occhio: quattro operatori addetti ai controlli dove il giorno prima ce n’era uno solo e uno sparuto gruppetto di visitatori che mostra documenti e certificazioni. “Gli ingressi sono dimezzati, da oltre 4mila a poco più di 2mila – dice sconfortato Beppe Costa, amministratore della società di gestione Costa Edutainment – e i costi per i controlli sono aumentati. C’è altro da dire? Noi le leggi non le facciamo, ci adeguiamo… Certo una domanda viene spontanea: secondo quale criterio qui serve il green pass e all’Ikea no?”. L’ingresso alle vasche è monitorato con una app, cui segue il controllo dell’identità. E per chi non fosse vaccinato c’è l’accordo con una farmacia vicina per effettuare tamponi rapidi. Verifiche decisamente stringenti nel panorama di caos generale. “Al governo contesto la mancanza di equità, noi non abbiamo avuto nemmeno un positivo – prosegue Costa –. Ho sollevato questi problemi ieri al sottosegretario alla Sanità, Andrea Costa, e ai collaboratori del ministro Speranza. Nessuno ci ha risposto. Evidentemente contiamo troppo poco per l’economia. Speriamo almeno che si ricordino di stanziare dei ristori”.

Marco Grasso

 

Siti archeologici A Pompei attese lunghe, ma si entra “Che senso ha all’aperto?”

Oltre seimila visitatori e 330 tamponi antigenici effettuati gratuitamente ai turisti privi di attestazione anti-Covid. Sono i numeri del primo giorno di entrata in vigore del green pass agli scavi archeologici di Pompei (Napoli), dove c’è una postazione nella zona di piazza Anfiteatro, dove i visitatori sprovvisti di green pass hanno potuto effettuare un tampone antigenico rapido dopo essere stati informati dagli addetti alla biglietteria dell’opportunità.
Le cifre in possesso dell’ufficio stampa del parco archeologico parlano appunto di più di seimila visitatori nel primo venerdì di agosto, primo giorno con obbligo del green pass. Alla postazione per il tampone sono andate 330 persone. Gli accessi durante tutta la giornata sono stati costanti e regolari, anche se le procedure di entrata sono risultate più rallentate rispetto al solito a causa dei controlli supplementari imposti dalle verifiche alle certificazioni Covid. Qualche lamentela durante la fila si è sentita soprattutto da parte di diversi turisti stranieri, che sostenevano di non essere informati e di non credere necessarie le precauzioni in un’area archeologica a cielo aperto.

 

Parchi Code a Mirabilandia, invece a Gardaland va comunque tutto liscio

C’è chi ha addirittura scelto la data del 6 agosto proprio perché scattava l’obbligo del green pass. “Molti visitatori sono contenti e sono venuti oggi proprio per avere un’ulteriore sicurezza”, spiega Danilo Santi, General Manager di Gardaland, il più grande parco divertimenti del Nord Italia che ogni anno richiama milioni di visitatori. Anche in epoca di Covid. “Ci siamo adeguati alle richieste del governo con il controllo del green pass che – aggiunge Santi – avviene prima dell’accesso al parco e al primo giorno non abbiamo riscontrato criticità”. Il green pass, controllato con un documento di identità, è solo l’ultimo step di un percorso in sicurezza. Lo scorso anno è stato stanziato un milione di euro. “Continuiamo a mantenere anche tutte le misure previste nel nostro protocollo di sicurezza già attive: limitazione degli ingressi giornalieri, prenotazione obbligatoria, sanificazione delle attrazioni dopo ogni giro e gestione delle code virtuali con un’app. La mascherina è obbligatoria per ogni attrazione”.
Peggio è andata a Mirabilandia, nel Ravennate, dove chi non ha il green pass deve sottoporsi gratis a un tampone. Procedura che ha causato lunghe file all’ingresso per tutta la giornata.

Urbano Croce

 

 

Draghi s’inventa il saluto di “buone vacanze”: accetta solo 3 domande

“Non ho disertato la conferenza stampa, come ha detto qualcuno, ma non c’era materia per farla”. Mario Draghi lo ripete ieri mattina durante una specie di punto stampa convocato a Palazzo Chigi per augurare buone vacanze ai giornalisti e agli italiani. Il format è atipico, le modalità pure. Draghi è in piedi, davanti a un microfono; nelle precedenti occasioni parlava dall’alto di un tavolo, di fronte a telecamere e taccuini. Tutto avviene con la logica del tam tam.

Alle agenzie la sera prima viene preannunciata una conferenza stampa. Non parte nessuna convocazione. I giornalisti vengono allertati in maniera vagamente casuale, si passano la parola l’uno con l’altro. E improvvisamente si capisce che il “saluto” è alle 11 e 20. Il cronista della Reuters si precipita in bermuda, c’è chi si cambia la maglietta per strada per fare in tempo. Il premier risponde a tre domande tre. Alla terza (già fuori programma, rispetto alle due previste), risponde con una notizia: “Sul principio del Reddito di cittadinanza sono d’accordo”. Al Fatto, che vorrebbe fare la quarta, dice no: “Non era una conferenza stampa, se no l’avrei fatta ieri”. Fine. Se si riavvolge il nastro, diventa chiaro che le cose non sono affatto lisce. Giovedì sera la presenza di Draghi alla conferenza stampa che deve presentare il green pass per scuola e trasporti è prevista. Centrale per la rinuncia è una telefonata con Matteo Salvini: dopo averlo attaccato a testa bassa la volta precedente, il premier non può e non vuole infierire. Il leader della Lega gli chiede un incontro dopo la pausa, per parlare di immigrazione e riforma del Fisco, l’altro accetta. Va detto poi che Draghi non ci tiene a metterci la faccia: le misure sono insufficienti, il disastro di scuola e trasporti è dietro l’angolo. E poi c’è Mps: al netto del suo coinvolgimento personale, Draghi sa che qualsiasi cosa dica avrà ricadute sulla Borsa. Alla domanda del Fatto sui motivi dell’assenza del premier, Roberto Speranza (in rappresentanza) risponde con evidente imbarazzo. La portavoce del premier, Paola Ansuini, che stava già tornando nel suo ufficio, fa dietrofront, solo per dire davanti alle telecamere che Draghi ha preferito dare spazio ai ministri. Seguono battute con i presenti sul caso. Dopodiché Palazzo Chigi fa filtrare alla stampa opinioni del premier: sarà per rispondere indirettamente alla sua assenza, evidenziata dal Fatto?

Ieri mattina il titolo di questo giornale non sfugge a Draghi e ai suoi. In mattinata, a Palazzo Chigi c’è un certo dibattito su come uscire. Uno statement, senza domande? Una più classica conferenza? Un incontro del tutto informale? Va detto che la cifra comunicativa, Draghi la cerca dall’inizio, tra bisogno di parlare ai media (e agli italiani), poca voglia di comportarsi da leader politico tradizionale (da quando è premier non è andato a un talk show, né ha dato un’intervista a un giornale), tendenza a esibire una specie di diritto acquisito al decisionismo, attitudine coprire, fingendo di svelare. Ma le insidie e le difficoltà della fase evidenziano una scelta, ieri: meglio evitare del tutto le domande scomode. Che poi il saluto che si voleva informale, venga fuori come un ibrido ingessato è un effetto collaterale.