La ripresa giova alle semestrali dei maggiori gruppi nazionali

Ben 5 miliardi e 958 milioni, il triplo del 2020. È questa la somma degli utili netti semestrali dei sei grandi gruppi bancari nazionali Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps, Banco Bpm, Bper e Carige. A soffiare nelle vele delle banche è soprattutto il rimbalzo rispetto al disastro del periodo gennaio-giugno dello scorso anno, flagellato dalla recessione innescata dalla prima ondata della pandemia. Ma dietro i numeri positivi ci sono anche fattori non meramente congiunturali.

Buone notizie da Mps che ha chiuso il primo semestre con un utile di 202 milioni che batte le attese e torna in “nero” dopo la perdita di 1,09 miliardi dello stesso periodo del 2020. Al 30 giugno i ricavi assommano a 1,56 miliardi (+7,7% su base annua), mentre le rettifiche nette calano a 89 milioni (-14,8%). I crediti deteriorati lordi sono pari a 4,2 miliardi, in lieve aumento rispetto ai 4 di dicembre.

Anche Carige va meno male di quanto si temesse e perde solo 49,9 milioni rispetto ai 97,8 milioni dello stesso periodo del 2020. Secondo l’ad Francesco Guido i ricavi sono cresciuti a 203,2 milioni dai 148,2 milioni del periodo febbraio-giugno 2020, con l’aumento della raccolta diretta (+0,4 miliardi).

A brindare più di tutti è Intesa Sanpaolo: l’istituto mette a segno un balzo dell’utile netto semestrale a 3,023 miliardi ( +17,8%), con il risultato del periodo aprile-giugno pari a 1.507 milioni, il miglior trimestre di sempre. Tra le altre voci del conto economico, il risultato della gestione operativa è in aumento del 5,9% e il rapporto costi-ricavi è al 49,2%, tra i migliori delle maggiori banche europee. L’ad Carlo Messina annuncia il nuovo piano di impresa e “un livello minimo di utile netto 2002 sicuramente a 5 miliardi”. UniCredit archivia il primo semestre dell’era Orcel con un utile netto di 1,92 miliardi grazie al balzo delle commissioni (+21,4% su base annua a 1,7 miliardi) e al calo dei costi operativi a 4,9 miliardi (-1,2%). Al 30 giugno Bpm ha registrato un utile netto di 361,3 milioni e Bper chiude il primo semestre, in cui dal 22 febbraio ha consolidato le filiali di Ubi Banca, con un utile netto di 502 milioni.

Il falò del credito ha già bruciato oltre 70 miliardi

Le banche italiane hanno “una buona capitalizzazione” e non serve l’ingresso del Tesoro per ripatrimonializzare gli istituti di credito. Era il 28 ottobre 2008, appena sei settimane dopo il collasso di Lehman Brothers, e l’allora presidente dell’Abi, Corrado Faissola, rassicurava così la commissione Finanze del Senato che lo ascoltava sulla crisi dei mercati finanziari. Peccato che tra il 2012 e il 2013 esplodessero le crisi di Carige e Mps. Il 22 gennaio 2015 Matteo Renzi, intervistato dal direttore del Sole 24 Ore, dichiarava che “il sistema” bancario “è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono”. Eppure di lì ad appena dieci mesi il governo Renzi mandava in risoluzione Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. Sempre sicuro di sé, nonostante la strage di piccoli investitori che si era appena consumata, il 22 gennaio 2016 Renzi suonava ancora sulla grancassa del Sole affermando che “Mps è risanata, ora investire è un affare”. Com’è andata a finire lo stiamo vedendo. La crisi del settore del credito per lorsignori non c’è mai stata: ogni volta che salta una banca si tratta di “mele marce”. Ma se si mettono in fila tutti i crac degli istituti di credito avvenuti dal 2001 a oggi il conto è di almeno 70 miliardi (e potrebbe salire ancora) e la distruzione di valore, tra azionisti e obbligazionisti subordinati, ha colpito oltre un milione di famiglie e piccole imprese.

L’elenco inizia col collasso del 2001 di BiPop Carire, costato 6,5 miliardi, e prosegue nel 2006 con il buco da 1,4 miliardi di Banca Italease. Nel 2012 comincia a emergere il dissesto di Carige, per un rosso che a oggi è già salito a 5,2 miliardi. Sono finite in ginocchio non solo le quattro banche “risolte” a novembre 2015 (4 miliardi azzerati), ma a dicembre 2016 anche Mps (il cui conto è già a 32 miliardi), poi a giugno 2017 Popolare di Vicenza e Veneto Banca (18,9 miliardi in fumo), a dicembre 2019 Popolare di Bari (1,5 miliardi). La crisi in precedenza ha colpito Popolare Orvieto e Tercas, a ottobre 2017 ha portato le Casse di Cesena, Rimini e San Miniato in mano a Crédit Agricole e a luglio dell’anno scorso Ubi a venire conquistata da Intesa Sanpaolo, ha fatto emergere l’illiquidità delle azioni non quotate di altre piccole banche, impossibili da vendere: quelle delle Popolari di Ragusa, del Lazio, del Frusinate, di Puglia e Basilicata e Pugliese.

D’altronde, in base ai calcoli di R&S Mediobanca, tra il 2008 e fine 2018 per salvarsi le banche italiane hanno raccolto 74 miliardi con gli aumenti di capitale – su tutte UniCredit, 27,5 miliardi, e Mps 24,3, già bruciati – e altri 60 vendendo bond subordinati anche a ignare vecchiette. Operazioni servite a coprire svalutazioni di avviamenti per 50 miliardi e rettifiche sui crediti vicine a 180 miliardi.

Eppure da Palazzo Altieri, sede romana dell’Associazione bancaria italiana, in tutti questi anni non è mai arrivata non solo un’autocritica, ma nemmeno l’ammissione della crisi di settore. Semmai, a ogni istituto commissariato, liquidato o salvato dallo Stato, l’associazione ripeteva che si era trattato di singole “mele marce”. Poco importa se, anno dopo anno, nel cesto i frutti da scartare continuavano ad aumentare.

D’altronde il 15 luglio 2010 il consiglio dell’Abi aveva eletto all’unanimità alla presidenza Giuseppe Mussari, fresco di addio a Mps, e l’aveva riconfermato, sempre all’unanimità, il 20 giugno 2012. Di lì a pochi mesi, il 22 gennaio 2013, la scoperta del derivato Alexandria costringeva però a repentine dimissioni l’avvocato senese caro al Pd. Il 31 gennaio successivo i banchieri lo sostituivano in fretta e furia con Antonio Patuelli, che a luglio scorso per la quarta volta è stato riconfermato numero uno dell’associazione. Ancora il 5 febbraio dell’anno scorso, quand’era fresca la botta di Popolare di Bari, al corso di alta formazione per gli amministratori e gli organi di controllo delle banche Patuelli faceva registrare la sua “forte indignazione” per gli scandali: “Siamo parte civile morale. Ogni crisi bancaria in più che arriva, io accentuo due elementi: etica e rigore. Li accentuo in quello che può fare un’associazione privata senza compiti di vigilanza”. Patuelli dichiarava di “provare fastidio” per i 13 miliardi che le banche italiane hanno erogato al Fondo interbancario per “salvare le concorrenti”. Dall’Abi non risultano però lamenti per gli aiuti di Stato erogati a Mps e Bari. Se il presidente dei banchieri è infastidito perché le banche hanno versato 13 miliardi, chissà cosa prova il milione di italiani che ha già visto bruciare 70 miliardi dei suoi risparmi.

Colpa per colpa, tutti i carnefici di Mps

L’ultima tappa del disastro Mps – lo spezzatino e la cessione a UniCredit – costerà allo Stato almeno 8 miliardi. A dispetto della cifra, però, nessuno, né il ministro dell’Economia né le autorità bancarie, si prende la briga di spiegare come si è arrivati a questo punto. Ecco una breve e inesaustiva lista dei volenterosi carnefici del Monte.

Giuseppe Mussari. Avvocato cresciuto nei Ds, banchiere dilettante per sua stessa ammissione, nasce dalemiano ma si fa apprezzare dai potentati senesi che lo fanno presidente della fondazione che controlla l’istituto. Nel 2006 si fa nominare presidente della banca e l’anno dopo decide lo sciagurato acquisto di AntonVeneta: la paga tre volte il valore pagato all’olandese Abn Amro dal Santander di Emilio Botin, che gliela vende a scatola chiusa tramite il capo italiano, Ettore Gotti Tedeschi, seguace dell’Opus Dei come Botin. L’acquisto, chiuso a crisi finanziaria mondiale già scoppiata, scasserà la banca. Le famose operazioni in derivati (Alexandria e Santorini) serviranno solo tamponare le falle. Chi ha appoggiato Mussari? La lista di chi applaudì all’operazione è lunghissima. In cima ci sono Franco Bassanini e Giuliano Amato, per un decennio eletti a Siena e forti influencer delle sorti di Mps.

Annamaria Tarantola. Nel 2007, responsabile dell’area vigilanza della Banca d’Italia, è la burocrate addetta a interfacciarsi coi vertici del Monte per l’acquisto di AntonVeneta. Li incontra più volte, una anche con il governatore Draghi. “Ci raccomandammo con Mussari di fare l’acquisto per bene”, spiegò ai pm senesi. Nessuno dei vertici di Bankitalia impone una due diligence della banca. “Non ci fu segnalato che Mps aveva acquisito AntonVeneta senza due diligence. Per prassi, Banca d’Italia caldeggia sempre, in caso di acquisizioni, la due diligence preventiva”, spiegò ai magistrati l’allora dg di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, deceduto nel 2019. Monti promuove Tarantola nel 2012 alla presidenza della Rai. Oggi è consigliera economica a Palazzo Chigi.

Vincenzo De Bustis. Banchiere dalemiano, a fine ’99 convince Mps a strapagare per 1,3 miliardi Banca 121, che guida. Operazione che inizia a picconare i conti: lui passa armi e bagagli a Siena, insieme ad alcuni manager fidati. Plurimultato dalle autorità di vigilanza, il suo nome comparirà anche nel disastro della Popolare di Bari.

Mario Draghi. È il governatore di Bankitalia quando Mussari decide di strapagare AntonVeneta. Nel 2008 autorizzò l’acquisto perché “non in contrasto con la sana e prudente gestione della banca”. Eppure la Vigilanza sapeva che AntonVeneta era decotta perché l’aveva ispezionata a fine 2006. Dopo che Mussari e il dg Antonio Vigni lo incontrano in Via Nazionale, il secondo si appunta “Bankitalia sarà al vs fianco”. A gestire la pratica ci sono Tarantola e Saccomanni. Draghi è riuscito a non essere mai sentito da nessuno sulla vicenda: né dai pm, né nei procedimenti giudiziari, né dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche dove il presidente Pier Ferdinando Casini si guardò bene dal convocarlo per non attirare le ire del Quirinale. A novembre 2011 passa alla Bce. Gli ispettori inviati a Siena hanno scoperto il derivato Alexandria. Nello stesso mese, il suo successore Visco convoca Mussari e Vigni e gli dice di togliersi di mezzo. “La Banca d’Italia ha fatto con Montepaschi tutto quanto doveva, in modo appropriato e a tempo debito. Si tratta di un caso isolato e legato non tanto alla gestione quanto a condotte criminali”, spiegherà qualche mese dopo.

Giuseppe Vegas. È un monumento al vigilante distratto. Alla guida della Consob dal 2010, riesce, come la vigilanza di Bankitalia, a non vedere o a intervenire sempre in ritardo. Il trionfo è sulle operazioni in derivati usate dalla banca per mascherare le perdite. Basta leggere la sentenza che ha condannato a 6 anni per falso in bilancio i successori di Mussari e Vigni, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, chiamati a risolvere la grana senese. Nel settembre 2011, l’Authority di Borsa attiva gli ispettori di Bankitalia dopo un esposto anonimo (l’autore è un manager di Mps) sull’operazione Alexandria. Gli ispettori capiscono che si tratta di un derivato creditizio e affidano il sospetto a un rapporto che consegnano (giugno 2012) alla Consob, titolare del potere di vigilanza sui bilanci. Consob avvia un iter lungo e farraginoso per decidere se sono derivati o no e quindi come contabilizzarli (nel primo caso a “saldi chiusi” nel secondo a “saldi aperti”, con riflessi immediati sui bilanci). Insieme a Bankitalia, l’8 marzo 2013 redigono un documento per stabilire che vanno contabilizzati a “saldi aperti” e – incredibilmente – solo dopo chiede un parere agli organismi internazionali di settore. Pochi giorni dopo, il 21 marzo, redige una nota in cui i tecnici dell’Authority scrivono di ritenere Alexandria e Santorini due derivati a tutti gli effetti. Ma non accade nulla.

Risultato: solo nel 2015 Consob decide che Mps deve correggere i bilanci perché, trattandosi di derivati, andavano contabilizzati a “saldi chiusi” mentre l’omologa tedesca Bafin aveva imposto a Deutsche Bank di considerare Santorini come tale già nel 2013. Le multe per la vicenda a Mussari e compagnia arrivano solo nel 2018, sei anni dopo, e per questo gigantesco ritardo sono state quasi tutte annullate. La Corte d’appello di Catanzaro, per dire, ha annullato quella di Mussari “per decadenza della Consob dall’esercizio della potestà sanzionatoria, in ragione della riscontrata inerzia nel- l’accertamento degli illeciti” visto che l’Authority “già dal 2014 era al corrente almeno del nucleo essenziale delle condotte contestate”.

Pier Carlo Padoan. È il conflitto d’interessi incarnato. Nel 2016, da ministro dell’Economia lascia il Monte in crisi a bagnomaria per non disturbare la campagna referendaria di Renzi, di cui accetta tutti i diktat, compreso quello di cacciare l’ad di Mps Viola per far posto a un manager gradito a Jp Morgan, con cui Renzi si era speso in promesse. Nel 2017 nazionalizza Mps con 5,4 miliardi. Dopo averli bruciati, si candida a Siena col Pd, poi abbandona il seggio dopo la nomina a presidente di UniCredit, la banca che ora si prenderà la polpa di Mps dopo la pulizia a carico dello Stato.

Andrea Orcel. Oggi guida UniCredit e il cerchio si chiude. Dalla banca d’affari Merrill Lynch partecipa a tutte le tappe del disastro (non il solo della sua lunga carriera). È il consulente dello spezzatino di Abn Amro: prima rifila l’Antonveneta a Botin, poi convince Mussari a prendersela al triplo. Oggi, in UniCredit, può godersi il frutto di quelle scelte.

Il Dottor 46 scende dalla moto: un GP lungo ventisei anni

Primi di agosto. L’Italia delle ferie è già in vacanza. Ma Valentino Rossi no. Ha meditato settimane, fino a decidersi: “Smetto di correre”. E per annunciarlo, conscio dell’effetto, ha indetto una conferenza stampa “straordinaria”. Vale parla come corre. Palpiti mai sospettati. Parole rivelatrici: “Ho deciso di fermarmi al termine di questa stagione”, ha detto emozionato, ma ormai irremovibile nella sua drastica decisione. Il volto teso, lo sguardo perduto nei ricordi trionfali della sua lunghissima carriera. “Avrei voluto correre per altri 25 anni, ma non è possibile. È un momento molto triste, anche se mi sono divertito molto”, ha aggiunto. Cercava d’essere spiritoso, brillante come la gente delle sue parti, però la voce gli si è un po’ velata per la commozione, perché quando si decide un passo così radicale, si ha sempre un po’ di paura.

Che smettesse di indossare il 46, inteso come numero di gara, ce l’aspettavamo, prima o poi. Ha 42 anni, l’età in cui è prudente mettersi da parte, in uno sport dove il rischio è in agguato a ogni curva: negli ultimi tempi hanno perso la vita due giovani che correvano nei Moto Gp, uno Vale l’ha sfiorato. Rassegniamoci. Magari ascoltiamo Ne me quitte pas di Jacques Brel, non lasciarci Valentino, e infatti il marpione di Tavullia ha ipotizzato una nuova vita agonistica, non più su due ruote, ma su quattro: ci aveva provato qualche anno fa con la Ferrari, ci riuscirono con ottimi risultati Hailwood e Surtees.

Gli addii dei fuoriclasse sono ferite indelebili. Valentino Rossi è un figura fissa del nostro presepe sportivo. Il mondo della pubblicità lo definisce “un brand del made in Italy”. Un’effigie vincente, anche quando perde. Rossi è stato il Migliore, non in senso dalemiano, per un tempo infinito: su 26 stagioni disputate è stato ai vertici per 18 anni. Ha disputato 423 Gran Premi, ne ha vinti 115, in 235 è salito sul podio, nel 2002 e nel 2005 ha vinto undici Gran Premi, cioè quasi sempre. Dalla gara del Portogallo del 2002 a quella del Sudafrica 2004, è salito 23 volte di seguito sul podio. Nessuno come il Dottore, così lo abbiamo ribattezzato, proprio perché correva con la finezza dei chirurghi. E ancora: nella stagione del 2018, cioè l’altroieri, ha cumulato 373 punti. I numeri sono importanti, fondamentali negli sport: raccontano la star. Ne edificano il mito. I numeri brillano, e illuminano: sinora Valentino ha totalizzato 6330 punti, di gran lunga il primo di sempre. Segue, a distanza, Pedrosa, a 4162.

Quindi, ci siamo abituati a lui. Come alla Ferrari. La sua leggenda è oltre il traguardo. È diventato la moderna incarnazione dell’eroe di questi tempi. Dalla generazione Millennial a quella Covid. Non importa se l’ultima vittoria risale al 2017 (Assen), giusto vent’anni e 311 giorni dopo la prima di Brno, nel 1996. Per il solito inesausto gioco dei destini incrociati, sopra Brno incombe la cupa fortezza dello Spielberg, che ci ricorda il patriota Silvio Pellico e le sue prigioni. E a Spielberg, ma in Stiria, dove c’è il Red Bull Ring, il circuito di Formula 1 e delle MotoGp, Rossi ha fatto il suo coming out dalle gare. Stufo di vedersi superare e sorpassare dai pivelli; di baccagliare con quelli della Yamaha, che pure dovrebbero elevargli un monumento visto che l’ha fatta vincere 56 volte (Lorenzo, l’antagonista in casa, 44). Lo vedremo al volante? Probabile: “Le macchine mi piacciono solo un poco meno delle moto, da sempre è il mio sogno, vedremo, sto ancora decidendo”, ma Valentino Rossi oltre a essere un formidabile campione è anche un bravissimo imprenditore. Di se stesso, ovviamente: ha una società (la VR/46 Racing Apparel srl) con la quale gestisce il merchandising di quasi tutti i migliori piloti di Moto Gp, e un rispettabile giro d’affari, ha guadagnato cifre astronomiche (e ha avuto anche qualche guaio con il Fisco, ma sanati). Ha una sua scuderia. Ha persino un bar: “Da Rossi”, a Tavullia. Le sue aziende fatturano oltre 30 milioni, carisma e rivoluzione sono un volano redditizio. Sta sfruttando abilmente la scia delle sue corse, dei suoi trionfi, del suo impatto mediatico. È tra i campioni più popolari del mondo, una figura globale di uno sport che è più di uno sport. È un modo di vita.

Hacker, l’Fbi ha preso contatto con i “pirati”. Poi Zingaretti esulta: “Salvi i nostri backup”

Gli investigatori dell’Fbi e dell’Europol hanno preso contatto con i pirati informatici. Nel frattempo i tecnici della Polizia postale italiana hanno aiutato quelli della Regione Lazio a ritrovare, probabilmente “intonsi”, i file di backup dell’intero centro elaborazione dati, compromessi dal virus RamsonExx che la notte fra il 31 luglio e il 1º agosto aveva “bucato” la rete regionale criptando tutti gli archivi. Il ripristino potrebbe avvenire entro il mese di agosto. A dare la “buona notizia” è stato lo stesso presidente del Lazio, Nicola Zingaretti. L’analisi dei file è ancora in corso, ma i tecnici sono ottimisti. A quanto pare, i backup non erano stati “persi”, come sembrava in un primo momento, ma solo “nascosti” dal criptaggio del software che gestiva i server dove erano ospitate le copie degli archivi.

Ma andiamo con ordine. L’inchiesta sull’hackeraggio è salita di livello dopo che affianco alla Polizia postale e all’Europol è scesa in campo l’Fbi. Al lavoro per i federali americani lo stesso pool investigativo che aveva condotto la trattativa dopo l’attacco di maggio a Colonial Pipeline. Alla società petrolifera statunitense, gli hacker avevano chiesto ben 70 milioni di euro, riscatto sceso a 4,4 milioni proprio grazie alla trattativa dell’Fbi (soldi pagati e poi “recuperati” grazie a un successivo blitz dell’intelligence). La notizia dell’interessamento dei federali al caso-Lazio è arrivata poche ore dopo l’audizione Copasir – secretata – di Elisabetta Belloni, capo del Dis dei servizi segreti. Fonti investigative confermano i contatti fra i federali e la crew di hacker denominata “Spider Sprite”: i pirati nel frattempo hanno fatto partire il countdown alla scadenza del quale – sabato notte – potrebbe esserci la distruzione dei file criptati. Cosa che ha mandato in apprensione non solo la Regione Lazio, ma tutte le istituzioni nazionali (vista anche la presenza di dati sensibili riguardanti le più alte cariche dello Stato). Timori attenuati dopo la scoperta di ieri pomeriggio. Regione e Postale in un primo momento avevano rilevato come anche i file di backup fossero stati criptati: i server infatti erano collegati e il virus sembrava essersi “mangiato” sia l’archivio principale sia la copia di sicurezza. Ieri, invece, la buona notizia: “I dati non sono stati compromessi”, ha detto Zingaretti. Tutto è bene quel che finisce bene. Per ora. Il ministro dell’Innovazione tecnologica, Vittorio Colao, a margine del G20, ieri ha dichiarato: “Tutte le pubbliche amministrazioni sono a rischio”. Tradotto: c’è ancora molto da fare.

Di Maio ha deciso: Diodati in Congo dopo Attanasio

Luce verde dal Consiglio dei ministri alle nomine dei nuovi ambasciatori in Egitto, Turchia, Iraq, Guinea e Repubblica Democratica del Congo proposti dal ministro Luigi Di Maio (nella foto). Al termine della riunione a Palazzo Chigi, è stato stabilito che al Cairo andrà Michele Quaroni, mentre ad Ankara l’ambasciatore italiano sarà Giorgio Marrapodi. A Baghdad arriverà invece Maurizio Greganti, al posto di Bruno Antonio Pasquino, mentre in Guinea Stefano Pontesilli sostituirà Livio Spadavecchia. Nella Repubblica Democratica del Congo Luigi Diodati prenderà il posto di Luca Attanasio, ucciso il 22 febbraio scorso. Diodati avrà il delicato compito di instaurare un rapporto franco e produttivo con le autorità della Repubblica Democratica del Congo, per dare una spinta alle indagini sull’omicidio di Attanasio. Da quel 22 febbraio, quando il 43enne diplomatico lombardo veniva ucciso nel Nord Kivu insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista Mustapha Milambo, in un’imboscata resta ancora tanto da chiarire.

Rider, il Tar Lazio respinge il ricorso di Assodelivery

Si consuma al Tar del Lazio l’ennesima sconfitta giudiziaria per le multinazionali del food delivery. I giudici hanno respinto il ricorso contro la circolare con cui il ministero del Lavoro aveva bocciato il contratto di comodo firmato dall’Assodelivery e l’Ugl, indicando agli ispettori di non considerarlo valido. Secondo Deliveroo, Glovo e Uber Eats, quell’atto – emanato a novembre 2020, ministra Nunzia Catalfo – è illegittimo e viola la libertà sindacale. Le aziende hanno quindi chiesto che venga annullato. I giudici hanno risposto picche, dando un nuovo colpo a quell’accordo firmato il 15 settembre 2020 con un solo sindacato, non il più rappresentativo ma l’unico disposto ad accettare le condizioni di estremo precariato imposte dalle piattaforme. Il ricorso è stato definito “inammissibile” e infondato nel merito. In sostanza, il tribunale stabilisce che l’Ugl non ha mai dimostrato di essere la sigla più rappresentativa dei rider.

Amazon dà, Amazon toglie: le strane regole del marketplace che “usa” i commercianti

Amazon dà, Amazon toglie. Per la gran parte dei commercianti, durante la pandemia, il più noto portale di e-commerce ha rappresentato un mercato d’ultima istanza vitale, l’ancora di salvezza per attività atrofizzate da mesi di chiusure. Ma non per tutti. Sono tantissimi i venditori che sul marketplace del portale hanno perso migliaia di euro per account bloccati senza una data di ripristino e per ricorsi a ostacoli di durata infinita. Decisioni prese sulla base delle analisi di algoritmi utilizzati dalla multinazionale – per reprimere azioni sospette – in grado di paralizzare per mesi le attività online di piccole aziende e di rivenditori al dettaglio. In un’asimmetria informativa e in una sperequazione di poteri che rendono minima la possibilità di far valere i propri diritti nel gran bazar digitale. A raccontarlo un’inchiesta di FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani con inchieste e approfondimenti dedicati a “riccanza e povertà” nell’Italia del Covid.

“Ci sono casi da centinaia di migliaia di euro e tanti altri da cifre molto più esigue”, spiega l’avvocato Paolo Cesiano, fondatore di Diritto-del-web.it, legale di alcuni dei casi riportati nell’articolo. Si va dal rivenditore di ricambi per auto, il cui account è stato hackerato da terzi, senza alcuna responsabilità soggettiva, con oltre 80mila euro di guadagni in giacenza, al più esperto commerciante di sedie da gaming, i cui affari sono cresciuti troppo rapidamente, a insindacabile giudizio dei bot che setacciano il portale a caccia di truffe. Denominatore comune, il calvario burocratico per vedere riconosciuti i propri diritti. “Non tutti vanno in fondo – commenta l’avvocato – si tratta di procedimenti che costano fino a 7mila euro a chi li intraprende”.

Sono le logiche del marketplace di Amazon, il luogo degli scambi virtuali dove i venditori si trovano a concorrere tra di loro, e con prodotti firmati Amazon, con regole e algoritmi scelti dal proprietario del mercato stesso.

Ora la Cassazione acquisirà dal Csm la lettera anonima

La Procura generale della Cassazione ha chiesto al Csm di acquisire una lettera anonima molto importante, per allegarla al fascicolo disciplinare a carico del pm milanese Paolo Storari, indagato anche a Brescia per rivelazione di segreto, per aver dato, lo scorso anno, all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo – indagato pure lui – una copia non firmata, in Word, dei verbali segreti dell’avvocato Piero Amara, che descriveva una presunta loggia massonica denominata Ungheria. La richiesta della Procura generale arriva dopo che Il Fatto ha reso nota quella lettera, che era nel plico con una copia dei verbali di Amara, spediti al nostro giornale, per la seconda volta, a novembre. C’era scritto: “Salvi (Giovanni, Pg della Cassazione, ndr) è al corrente ma non vuole fare nulla”. E ancora: “È al corrente anche Erbani (Stefano, consigliere giuridico del presidente Mattarella, ndr), aggiungendo che c’erano “molti altri al corrente, soprattutto alcuni di Area”. Salvi, per chiarire che Davigo gli aveva parlato solo di un conflitto a Milano, scrive una nota: “Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza della disponibilità da parte di Davigo o di altri, di copie di verbali” di Amara. Torniamo all’anonimo: secondo la procura di Roma si tratta dell’ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto, anche sotto procedimento disciplinare amministrativo. Ed è nel suo fascicolo disciplinare che si trova, secondo quanto ci risulta, una copia della lettera anonima, trasmessa dalla procura di Roma. Quel fascicolo è a disposizione dei consiglieri del Csm, diversi dei quali sono giudici disciplinari, dato che a luglio c’è stato un plenum, aggiornato poi a settembre, per votare sul licenziamento della funzionaria.

Il Fatto ha scoperto anche che quel biglietto non è stato trasmesso alla Procura generale della Cassazione per il procedimento a carico di Storari. Perché è un particolare importante? Non certo perché Storari abbia a che fare con le spedizioni di cui è accusata Contrafatto, quanto perché potrebbe corroborare la tesi della Procura generale di violazione della mancata astensione del pm dall’inchiesta milanese sulla fuga dei verbali. Una violazione negata dai giudici disciplinari che hanno rigettato la richiesta di trasferimento e cambio di funzioni per Storari. Nell’ordinanza si legge che dal Pg “non sono stati forniti neppure meri indizi” di questa ipotizzata violazione, ritenendo, quindi, che a un pm esperto come Storari, vedendo la copia dei verbali consegnati dal Fatto, a prescindere dalla lettera anonima che i giudici non hanno, non gli possa venire il dubbio che siano identici a quelli dati a Davigo e che debba astenersi. Una circostanza è certa: se la procura generale avesse ricevuto quella lettera, l’avrebbe allegata alla richiesta di cautelare e sarebbe stata a disposizione del collegio. A quel punto, per i giudici sarebbe stato arduo sostenere, come hanno fatto con una tesi singolare, che Storari fosse inconsapevole. In realtà Il Fatto ha consegnato ai pm Pedio e Storari anche un’altra lettera anonima, ricevuta con il primo plico dei verbali a fine ottobre: “Una testa l’hanno fatta cadere a causa di questi documenti”. Forse si parla del togato Marco Mancinetti dimessosi a settembre per un disciplinare legato alle chat di Palamara. Secondo Amara faceva parte della loggia Ungheria insieme al consigliere Sebastiano Ardita, su cui, però, ha fatto retromarcia in tv: “Non ha mai fatto nulla di illecito”.

Amara, gli 8 mancati indagati: così iniziò la guerra tra pm

Il sostituto procuratore Paolo Storari chiese di iscrivere otto persone sul registro degli indagati, nella primavera 2020, dopo gli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, che tra dicembre 2019 e gennaio 2020 aveva raccontato a Storari e al procuratore aggiunto Laura Pedio l’esistenza di un presunto gruppo di pressione chiamato loggia Ungheria. Inizia così lo scontro che sta dividendo la Procura di Milano. Emerso molto tempo dopo, quando si è saputo che Storari aveva passato all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali segretati di Amara sulla loggia Ungheria: a sua autotutela – sostiene – poiché era preoccupato per l’inerzia investigativa dei suoi capi, l’aggiunto Pedio e il procuratore Francesco Greco.

Ora, negli atti del Csm che ha respinto la richiesta di spostare Storari dalla Procura di Milano per incompatibilità ambientale, l’inerzia investigativa è diventata preoccupazione e differenza di vedute tra il pm e i suoi capi. Ma quali sono i fatti accaduti? Il 24 aprile Storari affida alla polizia giudiziaria la delega a identificare alcune persone citate nei verbali di Amara. Il 26 manda a Laura Pedio la richiesta di iscrivere otto persone, tra cui il consigliere del Csm Marco Mancinetti e il magistrato torinese Andrea Padalino. Il giorno seguente, la proposta arriva a Greco, che convoca per il 29 aprile una riunione per discutere la vicenda.

Il procuratore propone di individuare alcuni criteri per scegliere chi iscrivere, tra le oltre 70 persone (magistrati, funzionari dello Stato, imprenditori, avvocati, generali, monsignori vaticani) citate da Amara nei suoi verbali. Propone anche di iniziare iscrivendo tre persone che non erano comprese nelle otto segnalate da Storari, ma avevano ammesso il loro coinvolgimento: e cioè Amara e i suoi collaboratori Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro; e magari anche Vincenzo Armanna.

Greco ha presente anche il problema della competenza territoriale, che sarebbe rimasta a Milano con l’iscrizione di Amara, Calafiore e Ferraro, già da tempo indagati a Milano per il cosiddetto complotto Eni; mentre avrebbe rischiato di passare a Roma o altrove, se le iscrizioni avessero riguardato fatti avvenuti a Roma o altrove. Il procuratore segnala che c’è pure il tema dell’inquadramento delle accuse: quella che Amara chiama loggia Ungheria è un insieme di gruppi di pressione o un gruppo stabile e organizzato? Esiste una lista degli iscritti? Amara promette di portarla in Procura ma poi rimpalla le responsabilità con Calafiore e la lista non compare. Ha una sede? Un capo? Dei rituali d’affiliazione? E il capo, se esiste, come è scelto? Tutte queste domande sono essenziali per poter iscrivere gli indagati per violazione della legge Anselmi (varata dopo la scoperta delle liste P2) che vieta le organizzazioni segrete. Poiché sono ancora senza risposta, i magistrati decidono di porle al più presto ad Amara, per poi procedere alle iscrizioni. Nel frattempo però l’indagine non precipita nel vuoto, perché – secondo il “rito ambrosiano” che ha dato buoni risultati fin dalle inchieste di Mani pulite – tutti gli atti restano saldamente ancorati al fascicolo “contenitore” (in questo caso quello del complotto Eni trattato da Pedio e Storari), da cui è possibile fare uno stralcio non appena si concretizzi un filone abbastanza consistente da poter diventare autonomo.

Ma intanto Amara non poteva più venire a Milano per essere interrogato. Era entrato in carcere, a Rebibbia, già il 10 febbraio 2020, in esecuzione dei suoi patteggiamenti per altre indagini a Messina e a Roma. Esce di cella il 14 febbraio, ma poi dall’8 marzo 2020 l’Italia diventa zona rossa ed è praticamente impossibile spostarsi, sia per gli indagati, sia per i magistrati.

Intanto si compie l’atto che segna tutta questa storia: Storari ad aprile (ma non c’è certezza oggettiva sulla data) consegna a Davigo copie word e senza firma dei verbali segreti di Amara sulla loggia Ungheria. Questo prima che Greco rifiuti, nella riunione del 29 aprile, le otto iscrizioni proposte da Storari. E prima di ricevere la richiesta di fissare dei criteri oggettivi per scegliere chi iscrivere e di delineare i contorni del reato per cui iscrivere. Difficile anche scegliere a chi delegare le indagini di polizia giudiziaria: sul complotto Eni era già al lavoro la squadra della Guardia di finanza di Milano, cui non viene però dato il mandato di indagare sulla loggia Ungheria: perché – secondo Amara – ne facevano parte anche due generali delle Fiamme gialle.