Dalla Repubblica, una e indivisibile, a tante piccole monarchie. L’annuncio di Vincenzo De Luca di riformare la legge elettorale della Campania e aprirsi la strada – in mancanza di meglio – alla terza rielezione, trasforma quello che all’origine era il presidente di giunta, poi divenuto governatore, in monarca regionale. Che si autoproclama, si autoemenda, si autorinnova. E deroga per se stesso, se lo ritiene opportuno.
Luca Zaia, in Veneto, ha tracciato il solco spiegando a tutti che ciascuno è padrone in casa propria. Era il 2012 e interrogato sul vincolo dei due mandati che si erano imposti i grillini, rispondeva caustico: “Sono nostri discepoli. In Veneto il vincolo c’è già ed è per tutti, presidente e consiglieri. Due mandati e stop”. Lui era al primo di quelli che a oggi, conto parziale, sono però divenuti tre i mandati richiesti e ricevuti. Perché alla fine del secondo, cioè nel 2015, il governatore leghista cambia idea senza dover neanche scusarsi, spiegarsi. Decide di riformare la legge elettorale azzerando di fatto la conta per sé e per i suoi colleghi consiglieri, sicché un silenzio complice e omertoso coprì la vergogna, aprendo il varco per la terza candidatura che, puntualmente e trionfalmente, è stata onorata nello scorso anno da un quasi plebiscito. Via il vincolo per lui e via la ghigliottina dei due mandati per tutti i consiglieri ai quali fu concesso, allegria!, la possibilità di candidarsi contemporaneamente i tutti i collegi elettorali regionali. Tecnicamente siamo a quella che in politica si chiama pesca a strascico. Nessun legame col territorio, solo conta dei voti. In genere vince chi detiene la clientela larga, perde chi non ce l’ha. E ben gli sta!
Vero, nel lontano 2004 il Parlamento con una legge cosiddetta di cornice (la 165), ha indicato per i presidenti delle regioni il limite invalicabile dei due mandati. Per essere efficace la legge sarebbe dovuta però essere recepita da ciascuna di esse. E invece? Invece nisba. Quasi nessuno ha accolto l’invito. Spicca infatti – e stupisce anche un po’ – solo la norma, di rango costituzionale, della Sicilia che fa espresso divieto di proseguire senza tempo nell’incarico. In Lombardia, per esempio, Roberto Formigoni si propose per tre volte e per tre volte l’ha avuta vinta. E anche le piccole Marche, con Gian Mario Spacca, ebbero sulla scheda elettorale lo stesso nome per tre volte, consecutivamente. Solo che i marchigiani, a differenza dei veneti e dei lombardi, rifiutarono la gentile proposta e lo mandarono a casa. Perciò quella di De Luca, oggi, è la pagina non inedita ma certo assai intrigante sulle modalità di trasmissione dell’eredità o, nel caso specifico, di conservazione del potere, di quanto si perpetua ma soprattutto del significato di questa mossa che appare, in fin dei conti, una exit strategy per chi, come lui, non immagina per sé postazioni più alte.
Già ha conosciuto Montecitorio ed è scappato via lasciando al Pd, il partito che odia ma a cui è iscritto, l’incombenza di trovar posto al figlio Piero, che infatti ora siede alla Camera. Deputato no, ministro è impossibile. E dunque?
C’è di meglio che governare una regione grande e ricca di finanziamenti che col Recovery saranno di fianchi ancor più possenti? Da governatore a re, così fan tutti. Lui l’ha detto: “Facciamo quel che ha fatto Zaia e altri”. Zaia ha ripercorso le tappe di Formigoni, e così via. Regni assoluti e potere agganciato con l’acciaio alle poltrone.
E dopo De Luca?
Per ora silenzio. Toti ha la Liguria ma pensa a Roma. Dovesse venirgli male, meglio Genova che niente.
La Puglia di Michele Emiliano è un’altra delle regioni che non ha recepito la legge nazionale sul vincolo dei due mandati. “Per ora non è un tema di attualità” fa dire. Non lo è oggi, ma domani forse sì. Ed Emiliano è uno di quelli a cui piace amministrare, si galvanizza nelle piazze e non nel Palazzo. Sindaco di Bari per due volte, governatore rieletto nella scorsa tornata elettorale, anima popolare, forza e profilo indiscutibilmente collegati al suo ruolo, profitti politici incontestabili, fatturato assai positivo. Perché lasciare? E, soprattutto, lasciare per andare dove?
È domanda che verrà ancora più cruda se, come si prospetta, sarà il centrodestra a prendere in mano nei prossimi anni il governo del Paese. In questo caso, per esempio, Stefano Bonaccini, che ora copre palmo a palmo ogni borgo dell’Emilia-Romagna, ha visibilità nazionale e potere di spesa, dovrebbe trasferirsi al Senato se la sua ambizione di fare il segretario del Pd dovesse in futuro ritenerla definitivamente fallita?
La Regione è generosa e per di più insindacabile. Potere autorigenerante, esclusivo, annebbiante. De Luca fa ciò che vuole, come negli anni scorsi nel piccolo Molise fece Michele Iorio (anch’egli tre volte presidente) che, appunto, sgovernava in santa pace. La sua piccola stella ha finito di brillare quando si è trasferito a Roma e ora, per raggiunti limiti di età, è un pensionato della politica.
Quindi la via della salvezza è tracciata: da presidenti a governatori. Poi a re.
L’Italia era una Repubblica.