Emiliano insegue De Luca: le Regioni diventano Regni

Dalla Repubblica, una e indivisibile, a tante piccole monarchie. L’annuncio di Vincenzo De Luca di riformare la legge elettorale della Campania e aprirsi la strada – in mancanza di meglio – alla terza rielezione, trasforma quello che all’origine era il presidente di giunta, poi divenuto governatore, in monarca regionale. Che si autoproclama, si autoemenda, si autorinnova. E deroga per se stesso, se lo ritiene opportuno.

Luca Zaia, in Veneto, ha tracciato il solco spiegando a tutti che ciascuno è padrone in casa propria. Era il 2012 e interrogato sul vincolo dei due mandati che si erano imposti i grillini, rispondeva caustico: “Sono nostri discepoli. In Veneto il vincolo c’è già ed è per tutti, presidente e consiglieri. Due mandati e stop”. Lui era al primo di quelli che a oggi, conto parziale, sono però divenuti tre i mandati richiesti e ricevuti. Perché alla fine del secondo, cioè nel 2015, il governatore leghista cambia idea senza dover neanche scusarsi, spiegarsi. Decide di riformare la legge elettorale azzerando di fatto la conta per sé e per i suoi colleghi consiglieri, sicché un silenzio complice e omertoso coprì la vergogna, aprendo il varco per la terza candidatura che, puntualmente e trionfalmente, è stata onorata nello scorso anno da un quasi plebiscito. Via il vincolo per lui e via la ghigliottina dei due mandati per tutti i consiglieri ai quali fu concesso, allegria!, la possibilità di candidarsi contemporaneamente i tutti i collegi elettorali regionali. Tecnicamente siamo a quella che in politica si chiama pesca a strascico. Nessun legame col territorio, solo conta dei voti. In genere vince chi detiene la clientela larga, perde chi non ce l’ha. E ben gli sta!

Vero, nel lontano 2004 il Parlamento con una legge cosiddetta di cornice (la 165), ha indicato per i presidenti delle regioni il limite invalicabile dei due mandati. Per essere efficace la legge sarebbe dovuta però essere recepita da ciascuna di esse. E invece? Invece nisba. Quasi nessuno ha accolto l’invito. Spicca infatti – e stupisce anche un po’ – solo la norma, di rango costituzionale, della Sicilia che fa espresso divieto di proseguire senza tempo nell’incarico. In Lombardia, per esempio, Roberto Formigoni si propose per tre volte e per tre volte l’ha avuta vinta. E anche le piccole Marche, con Gian Mario Spacca, ebbero sulla scheda elettorale lo stesso nome per tre volte, consecutivamente. Solo che i marchigiani, a differenza dei veneti e dei lombardi, rifiutarono la gentile proposta e lo mandarono a casa. Perciò quella di De Luca, oggi, è la pagina non inedita ma certo assai intrigante sulle modalità di trasmissione dell’eredità o, nel caso specifico, di conservazione del potere, di quanto si perpetua ma soprattutto del significato di questa mossa che appare, in fin dei conti, una exit strategy per chi, come lui, non immagina per sé postazioni più alte.

Già ha conosciuto Montecitorio ed è scappato via lasciando al Pd, il partito che odia ma a cui è iscritto, l’incombenza di trovar posto al figlio Piero, che infatti ora siede alla Camera. Deputato no, ministro è impossibile. E dunque?

C’è di meglio che governare una regione grande e ricca di finanziamenti che col Recovery saranno di fianchi ancor più possenti? Da governatore a re, così fan tutti. Lui l’ha detto: “Facciamo quel che ha fatto Zaia e altri”. Zaia ha ripercorso le tappe di Formigoni, e così via. Regni assoluti e potere agganciato con l’acciaio alle poltrone.

E dopo De Luca?

Per ora silenzio. Toti ha la Liguria ma pensa a Roma. Dovesse venirgli male, meglio Genova che niente.

La Puglia di Michele Emiliano è un’altra delle regioni che non ha recepito la legge nazionale sul vincolo dei due mandati. “Per ora non è un tema di attualità” fa dire. Non lo è oggi, ma domani forse sì. Ed Emiliano è uno di quelli a cui piace amministrare, si galvanizza nelle piazze e non nel Palazzo. Sindaco di Bari per due volte, governatore rieletto nella scorsa tornata elettorale, anima popolare, forza e profilo indiscutibilmente collegati al suo ruolo, profitti politici incontestabili, fatturato assai positivo. Perché lasciare? E, soprattutto, lasciare per andare dove?

È domanda che verrà ancora più cruda se, come si prospetta, sarà il centrodestra a prendere in mano nei prossimi anni il governo del Paese. In questo caso, per esempio, Stefano Bonaccini, che ora copre palmo a palmo ogni borgo dell’Emilia-Romagna, ha visibilità nazionale e potere di spesa, dovrebbe trasferirsi al Senato se la sua ambizione di fare il segretario del Pd dovesse in futuro ritenerla definitivamente fallita?

La Regione è generosa e per di più insindacabile. Potere autorigenerante, esclusivo, annebbiante. De Luca fa ciò che vuole, come negli anni scorsi nel piccolo Molise fece Michele Iorio (anch’egli tre volte presidente) che, appunto, sgovernava in santa pace. La sua piccola stella ha finito di brillare quando si è trasferito a Roma e ora, per raggiunti limiti di età, è un pensionato della politica.

Quindi la via della salvezza è tracciata: da presidenti a governatori. Poi a re.

L’Italia era una Repubblica.

Conte diventa leader: già 40 mila voti dagli iscritti

Adesso è davvero l’ultimo miglio. Gli attivisti 5 Stelle hanno tempo fino a stasera alle 22 per esprimersi sulla leadership di Giuseppe Conte, ultima investitura di cui l’ex premier ha bisogno prima di poter rilanciare a suo modo l’azione politica del Movimento. E i primi numeri confortano l’avvocato: alle 19 di ieri i clic erano 40mila, più di tutti quelli registrati nella prima giornata di consultazione sullo Statuto. Archiviato il voto, poco più di una formalità, Conte potrà poi pensare alla sua squadra, per la quale però sarà necessario aspettare ancora qualche settimana.

L’aria che tira, dentro al Movimento, è infatti quella di completare la composizione delle cariche a ridosso delle Amministrative del 3 ottobre se non addirittura nella fase immediatamente successiva al voto. Una strategia che consentirebbe di calmare le acque dopo i tumulti interni di inizio estate – la guerra legale con Rousseau, lo scontro tra Conte e Beppe Grillo e poi i malumori sulla riforma della giustizia – e di prendersi un po’ di tempo per definire ruoli e funzioni.

Intanto però c’è il voto sulla leadership previsto su SkyVote, la piattaforma con cui il Movimento ha stipulato un contratto di servizio dopo il divorzio con Davide Casaleggio. A differenza della consultazione che ha approvato lo Statuto a inizio settimana, questa volta non è previsto quorum. Ergo: non servirà replicare i 60 mila clic di allora, anche se un’affluenza sopra la metà degli aventi diritto (in tutto sono circa 115mila) darebbe vigore all’affermazione di Conte. I dati parziali, in questo senso, sono buoni. I 40mila voti raggiunti ieri alle 19 battono i 35mila annunciati lo scorso lunedì alle 22, quando si sono chiuse le urne per il primo giorno di consultazione sullo Statuto.

Una volta ricevuto il mandato dagli iscritti, Conte sarà quindi “presidente” e a lui spetterà – da Statuto – “la determinazione e l’attuazione dell’indirizzo politico del M5S”. Nell’avvicinarsi al voto nei Comuni – e in attesa che si riempiano le altre caselle – l’avvocato potrà poi contare su quello stesso Comitato di Garanzia in funzione prima della rivoluzione interna, ovvero l’organo presieduto da Vito Crimi e composto da Roberta Lombardi e Vito Cancelleri. I tre resteranno infatti in carica fino all’elezione dei nuovi componenti, scelti all’interno di una rosa di sei nomi proposta da Grillo agli iscritti.

Altre scelte spetteranno invece al leader politico, a partire dai vicepresidenti e da alcuni comitati ad hoc, cariche di fiducia per le quali da mesi si fanno i nomi – tra gli altri – di Chiara Appendino, Alfonso Bonafede e Alessandra Todde. Ma nel nuovo Movimento, Conte immagina centrale anche la Scuola di Formazione, per la quale l’ex premier potrebbe coinvolgere l’avvocato Luca Di Donna, professore di Diritto privato europeo alla Sapienza e molto apprezzato dal leader.

Tanti elogi a Renato: così l’agente Betulla è ritornato a Palazzo

Niente da dire: Renato Farina alias “agente Betulla”, si è conquistato sul campo l’assunzione come consulente giuridico del ministro Renato Brunetta. Da quando il governo Draghi si è insediato, sulle colonne di Libero il giornalista un tempo al servizio dei Servizi ha elogiato e celebrato le magnifiche gesta del premier, del commissario straordinario Figliuolo e di tutti i suoi ministri (tranne uno: Speranza, da lui considerato un pericoloso bolscevico). Ma ancora più di Draghi, Betulla ha dimostrato un particolare affetto nei confronti di Brunetta che, 6 mesi dopo, lo ha portato con sé al ministero della Funzione Pubblica.

Il 14 febbraio, dopo il giuramento, Libero apre il giornale con un titolo al limite del grottesco: “Brunetta ministro di alto profilo”. Svolgimento di Farina: “È la garanzia del ‘nessun dorma’”, “Il migliore che sia capitato all’Italia nel settore della Pubblica amministrazione”, “un professore di rilievo internazionale”. E ancora, il ritratto di Brunetta è un lungo florilegio di note biografiche in cui il ministro appare come il nuovo De Gaulle: “Nasce da famiglia poverissima”, “ha dovuto conquistarsi il diritto di svettare, trasformando le difficoltà in trampolino delle volontà”, “la carriera universitaria sfolgorante” e “una spasmodica lotta ai fannulloni”. Poi, la rivelazione di Farina: “Confesso, non parlo per sentito dire, non ho letto il suo profilo di Wikipedia: lo conosco”. Infatti hanno curato insieme una collana di libri su Libero e per cinque anni sono stati nello staff alla Camera di Forza Italia. E così il giudizio non può che essere imparziale e pungente: “Mi sono convinto per esperienza – scriveva Farina il 14 febbraio – che quest’uomo sia uno dei pochi giganti del pensiero in circolazione”. Un Nobel mancato. Betulla tesse le lodi anche dell’autrice della futura riforma della giustizia, a suo dire denigrata dal centrosinistra: “La Cartabia – scrive Farina il 16 febbraio – è riuscita a far funzionare come un orologio svizzero la Corte costituzionale che con lei, anche se positiva al Covid, marciava al galoppo”. E dal galoppo al galoppino, è un attimo.

L’inarrestabile Farina appunta al petto di Draghi e Cartabia una medaglia al valore per la cattura dei “brigatisti e assassini che se la spassavano in Francia”, definendola una “grande operazione” con un titolone sull’edizione di Libero del 29 aprile 2021. Come se li avessero catturati loro, a mani nude. Certo il soggetto preferito del suo lambire è il sommo Draghi, che affianca in ogni fondamentale e cruenta battaglia, come quella contro l’eccessivo utilizzo di parole inglesi: “Smart working, babysitting… chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”. Una frase che Farina definisce come “memorabile, penetrata negli animi ben oltre la crème intellettuale. […] Un sano moto di rivolta, in fondo patriottica”. Lo ha incensato persino quando, in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid, Draghi ha chiuso la porta ai giornalisti (quindi la sua categoria, almeno sulla carta). Ma non basta. Quando il governo annuncia le riaperture di bar e ristoranti del 26 aprile, il merito di questo incredibile risultato è di Draghi e del suo “algoritmo di buon senso e e buon governo: salute + serenità sociale, fiducia nei cittadini + ragionevolezza = apertura progressiva”. Qualsiasi cosa voglia dire. Ma che ne pensa Betulla delle nomine volute dal premier? Su Libero del 21 aprile, Farina definisce Figliuolo come “l’uomo scelto perché stimato universalmente quale campione di logistica militare”. Mica come Arcuri. Lui ha le medaglie sul petto: “Figliuolo risolve i problemi quando fischiano i proiettili o sono lì per arrivare i missili”. Uno così non poteva che meritare una promozione.

Farina, il contratto da Brunetta mentre rischia il posto a “Libero”

Bene, bravo, bis! Renato Brunetta sorride a quarantadue denti ché ieri ha fatto il pienone: prima il decreto Grandi navi a Venezia al Senato, poi l’ok della Conferenza unificata alla stabilizzazione dei precari in servizio presso gli enti locali e le strutture emergenziali sul post terremoto. Infine, il voto di fiducia alla Camera sul suo decreto “recante misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”: giornata agostana di giubilo, da incorniciare. Se non fosse per le polemiche per un reclutamento speciale, quello di Renato Farina, già al servizio dei Servizi: l’agente Betulla voluto come suo consigliori a Palazzo Vidoni che crea imbarazzo. Il telefono di Brunetta infatti squilla e squilla, ma butta sempre giù. “Cdm”, avverte il ministro via sms giacché presidia la cabina di regia sul Green pass a Palazzo Chigi. “Buona sera, buon lavoro”, risponde di corsa al Fatto che lo tampina mentre col turno si fionda a Montecitorio, per incassare l’ok al dl sulla Pubblica amministrazione. Le polemiche su Betulla? Se ne impipa, anche se monta il caso.

“Vedo che grazie al ministro Brunetta torna a Palazzo il fedelissimo Renato Farina, il giornalista-spia ed ex vicedirettore di Libero, autosospeso dall’ordine nel 2007 perché si scoprì che lavorava al contempo per i servizi segreti e che patteggiò per favoreggiamento dei rapitori nel caso di Abu Omar. Il suo ruolo? Consulente giuridico per il ‘governo dei migliori’. Che dire, la persona giusta nel posto giusto” ha scritto su Facebook il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, commentando l’anticipazione del Fatto Quotidiano. “Davvero un bel capolavoro. Sono l’unico – conclude Fratoianni – a cui tutto ciò sembra assurdo e inaccettabile? Comunque presenteremo un’interrogazione parlamentare al premier Draghi per capire se anche per lui questa nomina è assolutamente inopportuna”. Ma vallo a dire a Brunetta. E a Betulla ché a Libero, il quotidiano in cui lavora, si respira un’aria pesante. Vittorio Feltri dice di aspettarsi addirittura di essere messo alla porta, ora che al giornale comanda Alessandro Sallusti: a sentire il fondatore, il neo direttore ha imposto un nuovo corso, via i bravi, tipo Paolo Becchi a cui hanno tagliato la collaborazione, mentre altri sarebbero stati emarginati e pronti ad andar via. Senza troppi rimpianti nemmeno da parte dell’editore Antonio Angelucci, l’editore di Libero già senatore di Forza Italia, sospettato di voler sforbiciare il compenso d’oro di Feltri. E i feltriani di stretta osservanza che rischiano? Renato Farina non ha di che preoccuparsi: a lui ci ha pensato Brunetta che gli ha spalancato nuove prospettive facendolo ingaggiare dalla Presidenza del Consiglio fino alla fine della legislatura come suo consulente. Sia mai da giornalista dovesse essere umiliato nell’orgoglio o colpito nel portafogli. Paga Pantalone.

 

Conte, Dpcm legittimi “Tutelavano la salute”

I provvedimenti governativi adottati mediante Dpcm dal governo Conte durante la prima ondata di Coronavirus “non appaiono manifestatamene irragionevoli o sproporzionati”. Per diverse ragioni: sono stati “assunti per garantire il diritto” alla tutela della salute della collettività; “si sono dimostrati concretamente utili allo scopo, come dimostrato dal calo della curva del contagio” e perché “non erano sostituibili con misure dotate di pari efficacia e meno lesive dei diritti dei cittadini”. I giudici del Tribunale dei ministri in un provvedimento di archiviazione – pur ribadendo che i Dpcm sono atti politici e dunque non soggetti alla valutazione del giudice penale – mettono un punto alle polemiche che per mesi hanno infiammato il dibattito politico e non solo sulle scelte – i lockdown – del governo Conte. Polemiche che si sono riversate anche in centinaia di denunce, che contengono tutto e il contrario di tutto. C’è chi ha chiesto ai magistrati di indagare perché le misure restrittive sono state “adottate con colpevole ritardo” e quindi hanno favorito la diffusione del virus. E chi invece a quello stesso governo contesta l’illegittimità delle misure: “l’esecutivo… ha ridotto le libertà individuali”. Sono gli esposti presentati nei mesi scorsi contro l’ex premier Giuseppe Conte (difeso dall’avvocato Franco Coppi) e contro i ministri Luigi Di Maio (difeso dall’avvocato Daniela Petrone), Roberto Speranza, Luciana Lamorgese, Lorenzo Guerini, Roberto Gualtieri e Alfonso Bonafede. Tutti fino a poco fa indagati per reati che vanno dall’abuso d’ufficio all’epidemia, all’omicidio colposo, all’attentato contro la Costituzione. Dopo le iscrizioni (praticamente automatiche quando la denuncia è nominale) la Procura di Roma ha inoltrato il fascicolo, con richiesta di archiviazione al Tribunale dei ministri. Che a maggio ha archiviato tutte le posizioni.

In 23 pagine, i giudici restituiscono quello che è stato lo spaccato del Paese fin dall’inizio della pandemia: “La diffusione del Coronavirus rappresenta il fenomeno più grave e nocivo per gli interessi dei singoli e della collettività dopo la fine della Seconda guerra mondiale”, scrivono i giudici. Secondo i quali, le misure “particolarmente rigorose” adottate “sono state giustificate dai dati epidemiologici e dalle informazioni trasmesse dagli organi competenti”. A chi contesta al governo Conte ritardi, i giudici spiegano che all’inizio della pandemia “la valutazione comparativa degli interessi in gioco” non poteva che basarsi da un lato su dati epidemiologici ancora incompleti, dall’altro su una “percezione progressiva, confusa e caotica delle ricadute negative soprattutto sul piano economico, delle misure restrittive”. “Non è neppure astrattamente ipotizzabile – scrivono i giudici – che il governo, in un determinato giorno e sulla base di determinate informazioni, fosse tenuto ad assumere determinate misure restrittive”. Un lockdown anticipato dunque “non avrebbe avuto l’effetto di evitare la pandemia”. C’è poi la questione dei Dpcm: sono “infondate – è scritto nel provvedimento di archiviazione – le denunce che prospettano svariati reati come conseguenza di un abuso degli strumenti normativi del decreto-legge e del Dpcm da parte del governo”. I giudici, facendo proprie le osservazioni dei pm, spiegano come i provvedimenti governativi non appaiono sproporzionati: tutelano il diritto alla salute, non erano sostituibili in quel momento con misure altrettanto efficaci. “Si sono dimostrati utili allo scopo”, scrivono dopo aver chiarito come i provvedimenti sui quali i denuncianti chiedevano di indagare sono valutazioni di carattere politico, non scelte sindacabili in sede penale.

“Io non ne so niente”. “Controlliamo a vista”. “L’app non funziona”

Si farà alla romana. O meglio, si perdoni il francesismo, col metodo del maestro René Ferretti: “un po’ a cazzo di cane”. Arriva il primo giorno di green pass e nei locali di Roma si respira un’aria, peraltro ben nota, di fatalismo e approssimazione. Al bar “Xenia” di via Sacconi, quartiere Flaminio, da dietro il bancone e da sotto la mascherina si allunga un sorriso sardonico: “A noi non c’ha detto niente nessuno”. In che senso? “Nessuna comunicazione, non c’hanno dato nessuno strumento, non sappiamo niente”. E come fate? “Chiediamo a voce e verifichiamo coi nostri occhi”. Si va sulla fiducia. “Esatto”. Fiducia à gogo anche nel ristorante a fianco, “La Gallina capricciosa”, cucina peruviana. Chi lavora dietro la cassa non sa granché: “La titolare è andata proprio adesso a informarsi con la Regione Lazio”, dice. Siamo a metà pomeriggio dell’ultimo giorno e i dipendenti attendono indicazioni dall’alto. Nella via ad angolo c’è “Bistrot64”, ristorante da una stella Michelin. Ci accoglie una dipendente in sala: “Chiederemo del green pass al momento della prenotazione”. E poi? “Il proprietario del ristorante è in riunione con i collaboratori, proprio in questo momento, per decidere gli aspetti organizzativi”. Per avere una risposta impeccabile bisogna spostarsi in un circolo sportivo sul lungotevere, il “Thaon di Revel”, un grande spazio con piscina, campi da tennis e da calcetto. In segreteria sono preparati, mostrano sullo smartphone l’applicazione VerificaC19 per scansionare i green pass e spiegano la procedura (pure qui un po’ di fiducia ci vuole): “In caso di esito negativo, facciamo firmare un modulo di autocertificazione con cui la persona non vaccinata garantisce che eviterà di frequentare gli spazi al chiuso, come gli spogliatoi”.

Cambiamo scenario: il Pigneto è tra i quartieri con la maggiore densità di locali e ristoranti della città. Entriamo da “Fattori”, uno dei bar più famosi della zona. Le tre gentili ragazze dietro il bancone non hanno idea di cosa dovranno fare dal 6 agosto. O meglio, sanno del green pass, ma non sanno come verificare: “Aspettiamo informazioni dal titolare”. Discutono della procedura con un avventore: “Ma bisogna chiedere anche un documento di identità? Altrimenti chiunque ti può mostrare il green pass di un’altra persona, no?”. Pochi passi più in là c’è il ristorante “Mr. Manzo”. “Ci scriveremo in fronte la parola ispettore”, ironizza Claudio, il titolare. “Questa situazione rischia di creare dinamiche poco simpatiche con i clienti”. Anche qui, i controlli sono “artigianali”: “Non usiamo nessuno strumento, chiediamo ai clienti al momento della prenotazione, altrimenti facciamo a vista. Pare che l’app del ministero della Salute non funzioni” (e in effetti in Rete fioccano articoli sui bug dell’applicazione per la verifica). Ancora pochi passi e si arriva da “Whishlist”, caffè e cocktail bar con serate di musica dal vivo. Una lavoratrice all’ingresso confessa col massimo candore di essere in attesa di istruzioni: “So che da domani dobbiamo controllare chi consuma dentro”. Usate l’applicazione? “Oddio, boh”. Alla “Bottiglieria Pigneto” il proprietario si sfoga: “Siamo molto contrari a questa misura. Sul green pass la gente è divisa a metà, questo crea situazioni spiacevoli, siamo investiti di un’autorità che non ci spetta. Se un cliente che viene qui da 10 anni non si è vaccinato, lo mandiamo via?”. In piazza Re di Roma c’è “Sisini”, meglio nota – per meriti acquisiti – come “La casa del supplì”. Un piccolo locale con coperti solo al chiuso, dove nell’ora di punta si fatica a stare dietro al flusso continuo di chi entra ed esce. Qui come si fa? “E come famo, come gli antichi. A vista”. Niente applicazioni? “Macché. Servirà una persona solo per controllare all’ingresso. Domani (oggi, ndr) vediamo se è fattibile, sennò mettiamo tutti fuori”.

Ultimo giro, sotto la giostra panoramica del Luna Park dell’Eur. I parchi giochi sono i luoghi più sensibili. Fino ai 12 anni i bambini sono esentati dal green pass, ma dai 13 in su, tra i ragazzi, i vaccinati sono pochissimi. I due giovani controllori agli ingressi rispondono alle domande con silenzi e sguardi interrogativi, poi chiamano una responsabile. Piuttosto sgarbata: “Se vuole informazioni, mandi una email”. In bocca al lupo.

Green pass: caos scuola e Lega. E Draghi non ci mette la faccia

Non potranno entrare in classe senza esibire il certificato verde e saranno considerati assenti ingiustificati, con sospensione dello stipendio dopo cinque giorni, i docenti scolastici e universitari: è questa la misura più dura approvata ieri dal Cdm, in un finale di stagione non facilissimo per Mario Draghi, che sceglie di non presentarsi in conferenza stampa.

Oggi parte l’obbligo di green pass per ristoranti al chiuso, cinema, piscine, stadi, palestre, musei, eventi vari. E già non sarà facile farlo rispettare. Soprattutto il Cdm di ieri ha approvato un decreto che introduce l’obbligo per i docenti e il personale scolastico e quello universitario e – dal 1° settembre – per i trasporti a lunga percorrenza (navi, treni, aerei). Controverso fino all’ultimo, alla fine viene previsto l’obbligo anche per gli studenti universitari. Mentre i minorenni possono entrare a scuola anche senza il certificato verde. E la scuola sarà in presenza al 100%. La Lega ha cercato di contrastare la linea del rigore, riuscendo però a strappare solo qualche modifica nel nome del turismo: il mancato obbligo negli alberghi, per il quale si spende molto il ministro Massimo Garavaglia e il rinvio alla data del 1° settembre per quello nel trasporto. Esultano gli albergatori (gli ospiti potranno accedere senza certificato pure agli spazi ristoro) e il Carroccio rivendica una bandiera.

Il provvedimento lascia una serie di nodi, che dovranno sciogliere il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini e il ministro della Scuola, Patrizio Bianchi. Con Giovannini e Bianchi, invece, c’è Roberto Speranza, ministro della Salute, che fino all’ultimo si è speso per il massimo rigore possibile. “L’assenza di Draghi? Non riesco a rispondere” replica alla domanda del Fatto. A conferenza stampa finita esce la portavoce del premier, Paola Ansuini, per dire che Draghi ha scelto di non partecipare per dare più spazio ai ministri.

Sugli ultimi studi e su Anthony Fauci che ha sottolineato come con la variante Delta anche i vaccinati, pur se in casi rari, possono essere contagiosi e contagiabili, Speranza spiega che secondo Fauci “c’è una minoranza di cittadini che non svilupperà una risposta immunitaria”, ma “non ci possono essere ambiguità sui vaccini”.

Per Draghi, comunque, i problemi aperti non sono solo quelli sul green pass: rimandate a dopo la pausa estiva la riforma del Fisco e la Concorrenza, e accusato il colpo della mancata nomina di Ugo De Carolis alla guida dell’Anas, è dentro a questa cornice che ieri si svolgono cabina di regia e Cdm. Al primo punto, l’obiettivo di riportare la scuola in presenza al 100%, anche se nulla è stato previsto sulle cosiddette “classi pollaio”: confermato l’affollamento degli studenti per aula, mentre l’organico d’emergenza per il Covid non è stato rafforzato. Per gli insegnanti, passa il green pass, ma non l’obbligo vaccinale. Questione di lana caprina, visto che chi non vuole immunizzarsi sulla carta deve fare tre tamponi alla settimana. Previste sanzioni per i ribelli: “Il mancato rispetto delle disposizioni è considerata assenza ingiustificata e, a decorrere dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro è sospeso e non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato”, si legge nel testo. Se è chiaro che non ci sarà l’obbligo di green pass per entrare a scuola per i minorenni, non c’è per loro l’esenzione (come voleva il Carroccio). Ma chi sarà vaccinato avrà un obbligo di quarantena di 10 giorni e non di 7.

Poi, c’è la questione trasporti. L’obbligo non vale per le brevi percorrenze e per quelli regionali. E il green pass non sarà richiesto neppure per attraversare lo Stretto di Messina. Non è prevista per il momento alcuna misura di messa in sicurezza dei mezzi pubblici locali, tema legato a quello della scuola: prepariamoci allora a pendolari stipati come sardine su treni e autobus.

In tarda serata, a conferenza stampa conclusa, Palazzo Chigi rilascia alle agenzie alcune frasi del premier in Cdm (i più maliziosi fanno notare perché forse piccato dalla domanda del Fatto sul perché della sua assenza): “Draghi ha sottolineato come l’esame delle misure anti Covid siano avvenute in un’atmosfera ben diversa da quella delle riunioni di marzo”. Lega avvertita, mezza salvata.

Un Betulla è per sempre

L’arruolamento di Renato Farina nello staff del ministro Renato Brunetta in qualità nientemeno che di “consulente giuridico” è un segnale incoraggiante per almeno tre motivi. Il primo è etico: il Governo dei Migliori premia un giornalista che violò la legge prendendo soldi dai servizi segreti come “agente Betulla”. Il secondo è deontologico: il Governo dei Migliori porta a esempio per i giovani un giornalista espulso dall’albo per aver venduto la professione al Sismi del generale Niccolò Pollari e del fido Pio Pompa non per 30 denari, ma per 30mila euro, pubblicando fake news e realizzando false interviste per carpire informazioni ai pm e depistare l’indagine sul sequestro dell’imam Abu Omar, rapito e deportato in Egitto dalla Cia per torturarlo in santa pace. Il terzo è meritocratico: se il Governo dei Migliori ha un tale culto della competenza da promuovere a “giurista” un tizio che ha patteggiato 6 mesi per favoreggiamento in sequestro di persona, c’è speranza per tutti. Si dice sempre che l’America è il paese delle opportunità: e l’Italia, allora? Basta conoscere le lingue, ma soprattutto la lingua come ascensore sociale, e nessuna via è preclusa. Il 14 febbraio, appena Brunetta tornò sul luogo del relitto, cioè della PA, Farina gli dedicò su Libero un sobrio ritratto dei suoi: “Meno male che c’è lui. È l’unica autentica sorpresa di questo governo… È un numero primo. Il migliore ministro che sia capitato all’Italia nel settore… Un professore di rilievo internazionale… la stampa internazionale l’aveva individuato nel campo dell’economia del lavoro come un potenziale Nobel… uno dei pochi giganti del pensiero in circolazione… altissimo profilo intellettuale e morale”. Infatti gli ha fatto un contrattino piuttosto stitico da 18mila euro l’anno: solo per il rimborso saliva, meritava ben di più, specie ora che a Libero gli Angelucci tagliano i compensi.

Il curriculum del giureconsulto è di tutto rispetto. Ciellino, prima al Sabato, poi all’Indipendente e al Giornale con Vittorio Feltri, si sbuccia le ginocchia intervistando B. e si specializza in bufale: interviste mezze inventate alla Ariosto e a Massimo Fini, campagna contro la Boccassini accusata di “rapire bambini”, cose così. Nel ’94 diventa portavoce di Irene Pivetti, di cui – politicamente, s’intende – si invaghisce. Un giorno Feltri gli racconta, d’accordo con l’intera redazione, di avere in pagina un servizio fotografico della Pivetti senza veli: lui se la beve, le prova tutte per bloccare la pubblicazione e alla fine, fra l’ipossia e l’ictus, s’inginocchia al direttore sporgendogli un assegno ed esalando un “Ti prego, le foto le ricompro io, metti tu la cifra”, prima di essere sommerso da una risata omerica.

Lo nota subito l’Ufficio Disinformatija del Sismi, diretto da Pompa, che i giornalisti scomodi li spia e quelli come lui li arruola. “Io – gli dice Farina – ti do anche la pattumiera, poi sei tu a scegliere, perché molte cose che girano nell’ambiente giornalistico sono anche tentativi di depistaggio, no?”. In cambio di cotanta monnezza, Pompa gli passa “soffiate” basate sul nulla, che Betulla mette in pagina sotto dettatura e senz’alcun controllo. Annuncia attentati di al Qaeda mai esistiti. Sputtana nemici veri o presunti del Sismi, tipo Prodi e De Gennaro. Insulta gli ostaggi italiani in Iraq: Simona Pari e Simona Torretta (“le vispe terese”), Giuliana Sgrena (rapita dai “suoi amici terroristi”), Enzo Baldoni (“un pirlacchione” da “vacanze intelligenti”). In cambio si contenta di poco: ai Mondiali in Germania, Pompa gli regala due biglietti di tribuna per Italia-Ghana e lui lo ringrazia sulla prima di Libero, in codice cifrato: “Ho usato amici che la sanno lunga. Fatta! Grazie a Pio e a Dio”.

Nel maggio 2006, in missione per conto di Pio, realizza una falsa intervista ai pm Spataro e Pomarici che indagano sul sequestro Abu Omar per rubare i segreti dell’inchiesta. Non sa che Pompa è intercettato e dunque pure lui che lo chiama mentre va all’appuntamento per ripassare le domande. Pensa di buggerare i due pm, che invece lo aspettano al varco per buggerare lui. Domanda loro cosa sappiano di Pollari, con una scusa astutissima: “Io sono cattolico, Pollari è cattolico, mi spiacerebbe se un cattolico facesse cose brutte”. Manca poco che i pm finiscano sotto il tavolo per le risate. Poi, appena esce, l’agente Farina Doppio Zero fa rapporto telefonico a Pompa: “È stata durissima, quasi quasi Pomarici mi voleva arrestare, ma alla fine li ho messi nell’angolo e ho avuto quel che cercavo”. Stavolta i pm all’ascolto possono sbudellarsi tranquillamente. Indagato per favoreggiamento, si difende alla grande. Si dipinge come un patriota della “quarta guerra mondiale” (senza spiegare quale sia la terza) in difesa della “civiltà ebraico-cristiana”. Sostiene di aver mediato nel ’99 nientemeno che tra Milosevic e D’Alema (che smentisce). Racconta di aver aderito al Sismi perché “è come se mi fossi innamorato di Pollari”. Ricorda una velina su eventuali attentati a Londra che lui, su Libero, tradusse così: “Tettamanzi e Formigoni nel mirino del terrorismo”, ma ammette: “Fu una mia esasperazione”. E ai 30mila euro preferiva “una nomina a commendatore”, però la cosa sfumò e allora li prese, ma solo per donarli a un santuario. Alla fine patteggia. E vince di diritto un seggio di FI alla Camera, poi torna sparare betullate su Libero. Voi capite perché ora è “consigliere giuridico” dei Migliori. Averne.

C’è posta per Tei: “Meglio cowgirl, quad o polycule?”

Breve video, “Quando esco con gli short e non mi fanno catcalling”, ed esulta, come se avesse appena vinto alle Olimpiadi. Ecco la sua recensione di sex toys d’ultimissima generazione. Si mette a perorare la causa della masturbazione femminile, e a mo’ di claim: “Vengo anch’io, sì tu sì”. Poi rivela: “Ho smesso di guardare porno per un mese e vi racconto com’è andata”. Oppure: “Perché esordire con una ‘dick pic’ in chat non è una buona idea. Cosa spinge alcuni uomini a inviare selfie dei loro genitali?”. Tei Giunta ha 33 anni, una laurea in Cinema al Dams di Bologna, vive a Urbino ed è tra le prime sex influencer italiane ed europee. “Cerco di influenzare davvero le persone sul loro modo di vivere la sessualità” ci dice.

La sua avventura è cominciata da poco, in primavera quando ha aperto il blog OhMyTei! e, a seguire, una pagina Instagram molto seguita e una rubrica il giovedì mattina su Radio Deejay, nel programma di Andrea Marchesi e Michele Mainardi. Ma la durata non è tutto, in certe cose, si sa; conta l’intensità con cui racconta e interagisce su tematiche ancora divisive o tabù. Istanze Lgbt, superamento degli stereotipi, conoscenza del proprio corpo, educazione all’emotività. Per un sesso consapevole, inclusivo e positivo. Sempre con leggerezza “e un tono di voce ironico e diretto”: l’ironia può più di mille simposi. E le dimensioni non sono fondamentali. Se capita un mini-dotato, è facile bypassare il problema. Come? Tracciando una di queste posizioni: “gambe in alto”, “la montagna” e “cowgirl reverse”. Tei le mima tutte e tre, giocondamente. E quando è l’uomo a non avere voglia, “Maschio Alfa ca**o duro sempre… o forse no?”. Bando a ogni psicodramma latente: Tei snocciola le ragioni a nostra discolpa eventuale. È il momento di una guida al sesso anale “in nove passi”; al poliamore (dalla “triade al quad, dal polycule al tavolo da cucina poliamoroso”); allo squirting (“lo spruzzo diventa accessibile a tutti!”). Uno sguardo alle fantasie erotiche maschili e femminili, anche le più indicibili, “le mie risalgono a quando, da bambina, vedevo Sailor Moon”. E “sì, mi considero una femminista. Il femminismo di oggi è per tutti. Si basa sulla parità, non sulla superiorità di un genere rispetto a un altro”. Che poi non dovrebbero esistere più “brave ragazze o ragazzi”, ma solo persone evolute e libere, sui social e offline. C’erano una volta le domande a Cioè…

“Kaputt” mundi Malaparte

Indro Montanelli, il “bastian contrario” per eccellenza negli anni che partono dal dopoguerra e arrivano quasi ai nostri giorni, è ancora ben presente nel dibattito pubblico italiano. Su di lui si scrivono libri e tutti cercano di tirarlo dalla loro parte come se una figura come la sua fosse inquadrabile in questa o quella corrente di pensiero.

Invece su Curzio Malaparte, che per quarant’anni fu il suo grande rivale, è sceso da tempo il silenzio. E si capisce facilmente il perché. Montanelli, morto nel 2001, ebbe il tempo di vedere e denunciare magagne che tuttora pesano sul nostro Paese, a cominciare da quel berlusconismo che non accenna a voler morire, che anzi pare destinato a seppellirci tutti. Malaparte è morto nel 1957 quando “il delinquente naturale”, per la fortuna di tutti, non era ancora comparso all’orizzonte.

La rivalità fra i due, Curzio e Indro, era tale che sul letto di morte, mentre i comunisti e i gesuiti si contendevano la sua anima, Malaparte gridava: “No, non posso morire prima di Montanelli!”. Da questo punto di vista si era scelto l’avversario sbagliato: Montanelli è morto a novantadue anni, Malaparte a cinquantanove per un tumore (“lo stramaledetto” come lo chiamava lui) conseguenza dell’iprite che aveva respirato quando nella Prima guerra mondiale, giovanissimo, sedicenne, era andato a combattere, come volontario, nelle Ardenne.

Il peggior affronto che si possa fare a Curzio Malaparte è ignorarlo, dimenticarlo. Fu uno scandalo politico e letterario durato quasi quarant’anni. Dal 1920 anno in cui pubblicò il suo primo libro, La rivolta dei santi maledetti, fino al giorno della sua morte, Malaparte ha seminato intorno a sé, alla propria opera di scrittore e al suo personaggio, scalpore, fascino, odio, amore, invidia. Tutto si può dire insomma di Malaparte tranne che abbia attraversato inosservato la sua epoca.

Affascinò e sedusse tutti i grandi e i grandissimi del suo tempo, da Stalin a Mussolini, da Gobetti a Togliatti. Con molti altri fece baruffa, rissa, lite, come con Gramsci che lo bollò con parole di fuoco o Nenni col quale ebbe un duello. Attirò l’attenzione di Trotskij che lo definì, con un misto di ammirazione e di sospetto, l’“enfant terrible” della cultura italiana. Fu l’unico giornalista occidentale a intervistare Mao. Pubblicò libri, La pelle e Kaputt, che furono per anni best-seller internazionali, fu giornalista e polemista unico, ebbe amici e nemici ovunque, a destra e a sinistra. Si azzuffò insomma con mezza Italia, e con l’altra mezza fece l’amore. Certo, se seppe farsi molto amare Malaparte fu altrettanto abile nel suscitare odi profondi. Una volta disse arrogantemente: “Non mi hanno mai perdonato di essere venti centimetri più alto della media degli scrittori italiani”.

E allora chi è stato più grande fra Malaparte e Montanelli? Come personaggio non c’è partita, troppo dirompente il primo, più riservato, nonostante tutto, il secondo. Su un altro piano io penso che Malaparte sia due categorie sopra Montanelli. Aveva una visione internazionale che mancava a Indro, certe sue corrispondenze dal Cile sono ancora attuali per capire il Sudamerica. Inoltre aveva una cultura figurativa che nessun giornalista italiano, a parte gli specialisti, né di ieri, né tantomeno di oggi, ha mai avuto. Il giudizio definitivo lo lasciamo però a un divertente aneddoto che ci ha raccontato Arturo Tofanelli, direttore del Tempo. Una volta, all’epoca in cui Malaparte faceva “Battibecco” (50.000 copie in più quando iniziò la rubrica, 50.000 in meno quando dovette abbandonarla, nessun giornalista italiano di oggi è in grado di spostare un così alto numero di copie che da sole fanno un giornale) a Tofanelli venne l’idea di scatenare una bella e fruttuosa polemica fra lui e Montanelli. Malaparte cioè avrebbe dovuto attaccare in “Battibecco” Montanelli, questi gli avrebbe risposto per le rime, e i giornali su cui scrivevano i due sarebbero andati a ruba. Per perfezionare il piano ci fu un incontro fra Tofanelli, Montanelli e Malaparte. I tre discussero a lungo, l’accordo sembrava raggiunto, ma all’ultimo momento Malaparte si ritirò: “No, non ci sto, non mi conviene, conviene di più a lui”.