La Ue “killed the Radio Star”: l’Fm sarà spento per far posto al digitale

È attacco alla Radio. A colpi di legge. Il cannone normativo che può far saltare in aria il comparto è il controverso Tusmar, il Testo Unico sui Servizi Media Audiovisivi Radiofonici Digitali del 2005, che sta per essere modificato per recepire la Direttiva Ue 1808/2018. Oggi sarà sul tavolo del governo prima di approdare, entro l’8 agosto, in Parlamento.

Cosa contiene, di così esplosivo? Gli insider notano, tra le pieghe di un decreto labirintico, l’ordigno dello switch off, lo spegnimento prematuro della rete della modulazione di frequenza: quella analogica, la via antica ma più battuta dagli oltre 34 milioni di fruitori italiani per accedere all’ascolto. Non bastasse, fuori testo si valuterebbe uno switch off da portare a compimento entro il 2023, per poi affidarsi definitivamente alla tecnologia più avanzata, quella digitale del Dab+ (Digital audio broadcasting) e di internet. Soluzione ottimale a medio termine, non per una scadenza ravvicinata. Non tutti possiedono una vettura accessoriata con un’autoradio Dab. Né gli utenti sembrano già totalmente avvezzi a orientarsi tra le app e le piattaforme per godersi dirette o podcast.

Tagliare via anzitempo le antenne dell’Fm equivarrebbe a decimare il bacino di utenza del sistema. In uno scenario “purificato”, resterebbero attive in digitale solo 9 emittenti nazionali su 13, con un’ecatombe tra le locali: su mille se ne salverebbero appena 300. Ma perché temere l’apocalisse con il nuovo Tusmar? Insistono i diffidenti: perché è stato messo a punto con criteri lunari. Due giorni fa il ministero per lo Sviluppo Economico ha invitato in audizione gli operatori della filiera, in assenza del ministro Giancarlo Giorgetti e con la presenza per pochi minuti del sottosegretario piddino Anna Ascani. Gli esponenti dei gruppi radiofonici e dei nuovi temibili player (Discovery, Netflix, Disney) hanno messo alle strette il Mise, guadagnandosi una rassicurazione off the record: “Non procederemo con mosse incaute finché il mercato del Dab non sarà maturo”.

Ma quando cadrà dall’albero il frutto del Dab? Un’ipotesi allarmante è già nel pre-decreto del Tusmar, prima di ripensamenti dell’esecutivo o di maquillage in Commissione. Nell’articolo 50, comma 10, è detto che “l’Autorità adotta il piano nazionale di assegnazione delle frequenze radiofoniche in tecnica analogica, tenendo conto del grado di sviluppo della radiodiffusione sonora in tecnica digitale. Nelle more di una effettiva diffusione della radiodiffusione sonora in tecnica digitale, il Ministero, in coordinamento con l’Autorità, procede ad attività di ricognizione e progressiva razionalizzazione dell’uso delle risorse frequenziali in tecnica analogica in particolare al fine di prevenire o eliminare situazioni interferenziali con i paesi radio-elettricamente confinanti, ed incoraggiare l’efficiente uso e gestione delle radiofrequenze, tutelando gli investimenti e promuovendo l’innovazione”. Traducendo da Bisanzio: qui si parla non di uno switch off, ma di uno switch over, cioè la potatura graduale delle antenne Fm in parallelo con il passaggio al Dab.

Parrebbe quasi una mossa virtuosa: meno inquinamento, minor consumo di energia, migliore fruizione, nessuna sovrapposizione (anche potenziale!) con le stazioni estere, dalla Francia ai Balcani. Peccato che, ancora a lungo, le emittenti italiane dovranno sopravvivere con l’Fm, e senza i lacciuoli di un “piano di assegnazione delle frequenze in tecnica analogica”: se ne parla dagli anni Ottanta, ma nessuno lo ha varato perché non ve ne era necessità. Bastava la libera iniziativa. E occhio: mentre il governo provvede a “pulire” l’etere italiano (di fatto desertificandolo), l’aggressione più insidiosa al sistema Radio arriva dai colossi globali Ott (Over the top). Spotify, Amazon, Facebook, Google, YouTube occupano il campo digitale a suon di playlist disumanizzate, pagando un’inezia di tasse, con ricavi miliardari. Spotify ha lanciato una campagna esplicita: “Dimentica la radio” per conquistare inserzionisti e far affondare gli editori tricolore. Quanto al “grado di sviluppo digitale” evocato nell’articolo, non viene chiarito se si riferisce allo stato degli impianti, o al loro numero e all’area servita.

Fortunatamente, grazie al pressing dei radiofonici, nel decreto è stato almeno accolto l’aumento, per le locali, del limite da 15 milioni di ascoltatori fino al 50 per cento della popolazione nazionale. Un bonus salvifico per le realtà minori: certo, possono già essere pescate sul web. Lì, però, vengono cannibalizzate dai competitor più attrezzati. Chi ci guadagna, nel potenziale pasticcio ferragostano? Solo la Rai: sulla gestione dell’Fm non è competitiva, ma per adeguare la sua offerta Dab conterebbe sui finanziamenti pubblici. Il direttore di Rai Radio, Roberto Sergio, auspica il colpo di machete sulle frequenze: “Spegnere si deve”. Replica l’ad di Rds Eduardo Montefusco: “Gesto coraggioso, da una Rai ben sostenuta dalle elargizioni di Stato”. Affonda la lama il presidente di Rtl Lorenzo Suraci: “Con le nuove tecnologie arriviamo in tutto il mondo. Ma il nostro business si basa ancora sull’Fm e dobbiamo difenderlo con i denti: una eventuale pianificazione sarebbe la morte della radiofonia”. Accendete la Radio, è già bollettino di guerra.

“Le bastonate del padre e i libri che mi spiegava”

Pubblichiamo stralci della storia personale di Felicia Impastato raccontata nel libro “Io Felicia”

Mi piace ricordare le cose mie di picciridda, si dice che alla mia età i tempi passati si ricordanu megghiu. Ci penso spesso a quando ero felice, perché dopo che mi sono maritata ho avuto solo guerra e sofferenza in casa.

Io nascivi il 24 maggio 1916, me patri si chiamava Giovanni Bartolotta e me matri Girolama Ruffino. Me matri era un poco rigida, severa, insomma si faceva valere come donna di allora. Me patri era un poco più tranquillo con noi figghi e in paese era molto stimato. La mia era una famigghia unita, eravamo due sorelle: io e Fara e poi c’era me frati Matteo, il grande, con lui mi levavo 5 anni, mentre con mia sorella solo 22 mesi. Insomma stavamo bene. Me patri era impiegato comunale, lavorava all’anagrafe popolare.

Sono arrivata fino alla quinta elementare. A Cinisi non c’erano le superiori e a Palermo non ci mandavano a noi ragazze da sole, assolutamente! Se avevamo intenzione di studiare, c’era il collegio. Me patri me lo disse, ma io che volevo stare dalle suore, chiusa!? no, no… collegio niente! E così studiai fino a quando ho potuto. Per le femmine era tutto cchiù difficile e così crescevamo per la famigghia e per i figghi.

(…) Al mare andavamo nella nostra proprietà che poi ci fecero l’aeroporto e ce l’hanno espropriata, ma non solo a noi, per costruire le piste livarono i tirreni magari ai contadini che ci campavano. È stata una tragedia! Intere famiglie lassate a pani e alivi, nella fame! C’è chi è morto pure di crepacuore.

(…) In casa c’era qualche libro di quelli che potevo capire però! Poi, come matri, invece cercavo di capire i libri e i giornali che leggeva Giuseppe, ma erano troppo difficili ppi mmia che studi non ne avevo! Ma lui si metteva con la santa pazienza e mi spiegava, anche. Ora che sono vecchia sono fatta così, mi piaci capiri e farmi domande. Dalla politica a tutte le cose che succedono nel mondo. Visto che soffro di insonnia, che nun pozzu dòrmiri, da anni mi guardo i telegiornali fino a tarda notte e sono informata su tutto.

(…) Me frati (Matteo, ndr) è stato l’unico, tra i fratelli, ad avere gli studi, era un uomo molto intelligente, perbene, come si diceva ai tempi: un galantuomo. Quando me patri murìu a 75 anni, c’erano tutte le nostre proprietà da accudire, così iniziò a stare dietro ai contadini. Era un bel giovane, ma non si è maritato mai. I tempi allora erano diversi, non è come ora! Prima ppi parrari con una ragazza era difficile, ci voleva l’aiuto di diu, si andava avanti a forza di lettere e messaggi. Oppure si aspettava alla fine della messa per scanciare du paroli e non era detto che la cosa finiva buona. Non c’era l’incontro come ora, che ora si capiscono, parlano, si conoscono. (Il matrimonio) era un melone chiuso, come diceva me matri: “Si rapi lu muluni e po ièsseri bellu come po ièsseri bruttu”. Era come capitava, mica c’era il divorzio allora. Era, certe volte, tutta sopportazione. Però, a me, i tempi antichi mi piacevano di più, c’era più rispetto, più unione, più semplicità. Oggi c’è poca umanità.

(…) Giuseppe aveva un fratellino più piccolo, si chiamava Giovanni ed era nato nel 1949. si distanziavano di poco, ma questo picciriddu a un certo punto aveva un forte raffreddore e c’era una specie di malattia che prima girava, mi pare che si chiamava meningite o encefalite ed eravamo preoccupati. Il dottore che lo visitò a Palermo mi fa: “Lei ha solo questo bambino?”. “No, ne ho un altro più grande, ma è uscito fuori casa, u purtammu nei nonni”. Insomma avevamo fatto bene a portare Giuseppe a casa di me patri che poteva ammalarsi puru iddu. (Giuseppe è poi morto di acetone a 3 anni, ndr). Me matri e me patri gli volevano bene (a Giuseppe, ndr) sapiddu comu! Non lo volevano toccato più e sinceramente neanche lui voleva più tornare a casa mia. Veniva sì, ma poi se ne voleva tornare sempre. Aveva quattro anni quando si è trasferito dai nonni. Io ero felice lo stesso perché lo guidavano, lo educavano alla perfezione. Se rimaneva con me maritu chissà chi fini faciva! (…) Stavano tutti assieme e lui è cresciuto con i nonni fino a quando erano vivi e poi è rimasto coi miei fratelli, Matteo e Fara. Mio padre morì prima di mia madre che invece se ne andò nel 1962. È cresciuto qui, in corso Umberto 220, in questa casa dove siamo ora. (…) Matteo lo seguiva in tutto. Per farvi un esempio, siccome Giuseppe era nato a gennaio, per un mese unn’u pigghiaru in prima elementare, allora me frati disse: “Mica ci possiamo fare appizzare un anno di scuola” e lo iscrisse dalle suore, in collegio, e poi fece l’esame dall’esterno e così incominciau a scuola un anno prima. Si capiva che era intelligente fin da bambino, gli occhi erano furbi e vispi! Giuseppe quannu era nicu era simpatico, più simpatico di quando poi è cresciuto che certe volte era triste. era un giocherellone insomma! (…) Criscìu e incuminciàu con la politica e fu da lì che iniziarono i disturbi in famiglia. Me maritu era un poco aggressivo, per fare un esempio, ci cuntàvano le cose contro il figlio e iddu non si metteva di fronte a discutere con lui, che ne sacciu, magari a dire: “Siediti e discurremu e sistemiamo le cose”. No! niente, solo bastonate. Giuseppe ha iniziato ad andare al liceo classico a Partinico, un paese vicino Cinisi ed è così che ha conosciuto la politica, tramite anche compagni cchiù granni che leggevano ogni giorno i giornali di sinistra.

Conti Rai, la cura Fuortes al vaglio dei partiti Vietate le “ospitate” a conduttori e giornalisti

“Intendiamo questo incarico come un affidamento, che restituiremo alla fine”. Così Carlo Fuortes e Marinella Soldi si sono presentati, ieri sera, alla loro prima audizione in Vigilanza. “Siamo ancora in una fase di studio e di ascolto, ma alcuni punti li abbiamo focalizzati. La Rai deve essere rilevante, sostenibile, deve creare valore, il tutto con un uso rigoroso delle risorse”, ha detto Soldi all’inizio della seduta. “Dobbiamo andare a conquistare nuovo pubblico, specie tra i giovani, con i nuovi media”, ha aggiunto. Fuortes ha messo al primo punto, invece, l’informazione, che deve essere “pluralista, imparziale e indipendente”. Con particolare attenzione “alle prossime amministrative e ai quesiti referendari sulla giustizia”. Ma il nuovo ad ha fatto un accenno anche ai diritti sportivi. “Per i prossimi appuntamenti acquisteremo pure quelli per il web, così da poter trasmettere in streaming”, ha spiegato. Cosa che non è accaduta con le Olimpiadi, suscitando polemiche. Sul bilancio, invece, ha annunciato di “puntare al pareggio già nel prossimo anno, con interventi che non avranno incidenza sul prodotto”. “Non presenterò mai un bilancio in perdita”, ha sottolineato l’ad, che ha assicurato: “Le esigenze di taglio sui costi sono minimali, in media non superiori all’1% dei budget”.

C’era molta attesa per l’esordio. Anche perché le voci che trapelano dagli incontri di Fuortes con i suoi diretti riporti e con i direttori di reti e testate raccontano di una possibile cura lacrime e sangue per Viale Mazzini, dato che l’ad si è posto come obbiettivo quello di recuperare 57 milioni di euro nel primo anno, con un piano che prevede tagli ai budget delle reti, alle collaborazioni esterne, ma pure l’accorpamento di alcune reti tematiche che, secondo la nuova governance, sono troppi. Ottanta milioni si risparmierebbero poi dalla creazione delle due famose newrooms dell’informazione, piano approvato e mai applicato di Luigi Gubitosi. Il tema news, comunque, non sarà il primo ad essere affrontato da Fuortes, che preferirebbe mettere mano all’informazione dopo le amministrative. Mentre in una prima fase, a settembre, si occuperà del rinnovo delle cariche aziendali, come il direttore finanze, il direttore generale, la comunicazione e l’ufficio legale e acquisti.

Nel frattempo ieri è arrivata la prima decisione aziendale di Fuortes. Che ha deciso di vietare, in periodo di par condicio e in vista delle Amministrative, a conduttori e giornalisti Rai di andare ospiti in programmi di canali concorrenti. Per quanto riguarda invece il siluramento di Enrico Varriale dalla vicedirezione di Raisport, decisione che ha destato “sorpresa” in azienda, sarebbe una decisione presa esclusivamente dal direttore Auro Bulbarelli.

Obama ci ripensa: il Covid incombe, allora no-party

Pochi auguri per i suoi 60 anni, moltissime le polemiche per la festa che aveva organizzato per festeggiarli senza pensare alla diffusione del virus: l’ex presidente Barack Obama avrebbe aperto le porte ad almeno 700 persone (tra ospiti e personale di servizio) per brindare nella sua residenza nell’isola di Martha’s Vineyard, nel Massachussets, Stato particolarmente colpito dalla variante Delta. A quanti avrebbero partecipato, sarebbe stato chiesto di presentare il certificato di avvenuta vaccinazione e un test negativo. Bersagliato dalle critiche per il mancato rispetto delle restrizioni dell’era Covid, l’ex presidente americano ha deciso di spegnere le candeline solo con i parenti e qualche amico nella proprietà di 30 acri acquistata per quasi dodici milioni di dollari nel 2019 su quella che molti chiamano “l’isola dei vip”. Sempre più immerso nel mondo dell’intrattenimento, Obama ha appena annunciato la prossima uscita di un libro tratto dal podcast Renegade scritto con Bruce Springsteen. L’anno scorso, nel giorno del suo compleanno, erano stati invitati Stevie Wonder, Magic Johnson e Paul McCartney. Stavolta erano attesi il regista Steven Spielberg, la conduttrice Oprah Winfrey, l’attore George Clooney assieme a centinaia di politici, esponenti del Partito democratico e ufficiali del Pentagono. Non era previsto spacchettare regali: gli Obama avevano chiesto agli invitati di finanziare la loro fondazione e altri enti che si occupano di progetti di solidarietà. Chi per una volta aveva previsto tutto – nonostante il soprannome di Sleepy Joe (Joe il dormiglione) – è stato il presidente Biden, declinando l’invito fin da subito e mandando gli auguri tramite un portavoce. No Joe, no party.

Palpeggiamenti e mani sul seno: tutte le accuse fatte a Cuomo

Il rapporto sulle accuse di molestie sessuali rivolte al governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, firmato dalla procuratrice dello Stato, Letitia James, è lungo 165 pagine. Ma chi decidesse di scorrerlo – il Washington Post lo pubblica integrale – sappia che non c’è dentro nulla ‘a luci rosse’. Piuttosto tracce di “una condotta che corrode il tessuto delle nostre istituzioni”, scrive la procuratrice. James, 62 anni, nera, democratica, che sul fronte fiscale sta tentando d’incastrare Donald Trump, ha raccolto le testimonianze di 11 donne, tra cui nove dipendenti pubbliche. Tutte accusano Cuomo di comportamenti inappropriati: battute, allusioni, commenti, “contatti fisici”, tipo palpeggiamenti (mani poggiate sul sedere o sul seno) e “abbracci” sollecitati e “più stretti del necessario” – una segretaria ricorda: “Mi serrava fino a sentire il mio petto contro il suo”; altre raccontano di baci, o meglio bacetti. James nota: “Sono violazioni delle leggi statali e federali”. Il governatore ha pure compiuto abuso di potere, mettendo in atto rappresaglie contro chi contestava le molestie, creando “un clima di paura e di intimidazione”. Cuomo, 63 anni, nega tutto, o almeno nega che i suoi comportamenti siano stati inappropriati; e cerca di difendersi con un video. Ma Charlotte Bennett, una delle sue accusatrici, forse la più determinata, perché già passata attraverso l’esperienza di un’aggressione sessuale, non pensa che sia pentito, ma che non voglia “assumersi le sue responsabilità”. Bennett sostiene che il governatore le fece esplicite avances di natura sessuale nel giugno del 2020, mentre erano nella sede del Congresso statale, ad Albany. Cuomo le chiese se fosse monogama e se avesse fatto sesso con altri uomini; e le chiese pure se per lei fosse un problema la differenza di età nelle relazioni, aggiungendo – racconta la donna – di essere aperto a rapporti anche con ventenni (il governatore ha 63 anni). Sempre Bennett contesta a Cuomo di averle canticchiato al telefono Do you love me? Do you love me?, un motivetto dei Contours popolare all’inizio degli anni 60. In un audio acquisito dall’inchiesta, la donna risponde apparendo divertita. Politicamente, la sorte del governatore appare segnata. Lo ha scaricato il suo partito, che ha avviato una procedura d’impeachment; e il presidente Joe Biden pensa che dovrebbe dimettersi. La sua vice, Kathy Hochul, un’avvocato che prendendone il posto diverrebbe, a 62 anni, la prima governatrice donna dello Stato di New York, parla di “comportamenti ripugnanti, inaccettabili e illegali”.

La diatriba Sheikh Jarrah. Un quartiere per due popoli

Sheikh Jarrah è un quartiere a Gerusalemme est, due chilometri a nord della città vecchia, sulla strada per il monte Scopus. Ha ricevuto il suo nome dallo sceicco Jarrah, un medico di Saladino, la cui tomba è situata lì accanto. Sarebbe in teoria un quartiere come tanti altri, ma in realtà non lo è affatto. E se il nome non suona nuovo un motivo c’è: è diventato uno dei simboli della disputa tra Israeliani e Palestinesi degli ultimi mesi. Nel mese di maggio, Sheikh Jarrah è stato infatti tra le micce che hanno fatto esplodere la guerra tra Israele e Gaza, auto dichiaratasi per l’occasione tramite il movimento islamico Hamas “paladina” di Gerusalemme. La controversia in realtà gira intorno alla proprietà di alcune unità abitative del quartiere, in cui vivono da decenni alcune famiglie di palestinesi.

Ma per capire, torniamo indietro nel tempo. Nel 1876 il comitato degli ebrei sefarditi di Gerusalemme compra per 16.000 franchi un pezzo di terreno vicino alla tomba di Shimon ha Zadik (Simone il giusto) e vi costruiscono un piccolo quartiere. Nel 1948, con la Dichiarazione di indipendenza israeliana, la conseguente guerra e la nascita dello Stato ebraico, molti arabi fuggono dalle loro case, e hanno lo stesso destino anche gli abitanti ebrei di quel quartiere, che fuggono quando Sheikh Jarrah diventa giordana. Nel 1956, con l’aiuto dell’Onu (l’Unrwa) i giordani vi costruiscono 28 case per profughi palestinesi. Nel 1967 arriva la ‘Guerra dei sei giorni’. Gerusalemme est torna a essere sotto dominio israeliano. E poco dopo nascono le colonie israeliane. E i coloni.

Questi ultimi, carte di proprietà alla mano, iniziano una complicata diatriba legale per sfrattare i palestinesi che vi abitano ormai da decenni. Riescono a sfrattare quattro famiglie mentre altre 13 famiglie allargate, carte alla mano anche loro, continuano a combattere per rimanervi, aiutati da attivisti israeliani di sinistra. Entrambi dichiarano i documenti dell’altro falsi; ma i palestinesi perdono nelle due prime istanze del tribunale israeliano. La causa è ora sotto l’esame della Corte suprema di Gerusalemme che ha concesso alle parti una settimana per giungere a un compromesso. La Corte ha anche proposto alle famiglie palestinesi di rimanere nelle loro case come locatari protetti. I palestinesi si sono rifiutati. La vicenda è un microcosmo delle controversie israelo-palestinesi iniziate nel 1948.

Le leggi israeliane sulla proprietà degli assenti (cioè coloro che avevano lasciato le loro case nel 1948) e la legge sulle questioni legali e amministrative del 1970 consentono agli ebrei di presentare reclami su proprietà a Gerusalemme Est che possedevano prima del 1948, ma rifiutano le rivendicazioni palestinesi su proprietà in Israele che un tempo possedevano. Oggi ci sembra difficile capirlo, ma la decisione presa nel 1948 da Ben Gurion fu chiara, anche se moralmente difficile; bisognava partire da zero, ci racconta nel film Scatola blu Michal Weits, il cui bisnonno Joseph Weitz si occupò di comprare terre dai palestinesi, di piantare alberi ovunque fosse possibile, e di aiutare a costruire uno Stato ebraico pezzo per pezzo. E per farlo ci voleva una stragrande maggioranza ebraica e una non troppo grande minoranza araba. Sheikh Jarrah è l’ennesima patata bollente lasciata in eredità dall’ex premier Netanyahu al neo primo ministro Bennett.

La scorsa settimana, il Jerusalem Post ha rivelato che probabilmente Bennett non ha intenzione di sfrattare le famiglie e nemmeno l’Alta Corte pare lo renderà possibile. Fonti vicine a Bennett hanno affermato di non aspettarsi che il tribunale costringa al governo di far rispettare alcun ordine di sfratto o di imporre una scadenza. Tra le possibili soluzioni di cui si parla è che lo Stato espropri il quartiere, togliendo ai privati – le famiglie palestinesi da una parte e il gruppo di coloni dall’altra – la causa legale civile per poi decidere come risolvere la questione. Sarebbe una decisione davvero molto coraggiosa, anche perché Bennett stesso proviene dal mondo della destra nazionalista e dei coloni.

SuperMario-1 vs Supermario-2

Oggi è l’anniversario tondo: giusto 10 anni fa, a Silvio Berlusconi arrivò la letterina della Bce che mise in mora il suo governo e l’Italia, innescando l’arrivo del primo SuperMario, Monti s’intende, oggi ingiustamente dimenticato a favore di quello nuovo e guardato pure con un po’ di sospetto, perché l’austerità non si porta più. Forse per questo il nostro negli ultimi mesi è impegnato in una solitaria e ingrata battaglia per rimettere in fila certi fatti di dieci anni fa: per aiutarlo nel difficile compito abbiamo deciso di tradurre per i non addetti ai lavori il suo intervento di ieri sul CorSera, un selvaggio attacco alla santificazione del nuovo SuperMario. Torniamo allora alla lettera della Bce, che ha “profondamente influenzato la politica e l’economia” ed è oggi oggetto di molte “dimenticanze”: chi la firmò? Monti ci ricorda che furono Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, governatore uscente ed entrante della Bce. Cosa abbiamo imparato da quella vicenda? Primo: “Non rendersi dipendenti dagli aiuti altrui”, non dando più modo alla Bce di ergersi “a ‘potestà straniero’ travalicando il proprio mandato” (capito sì?), una cosa “umiliante e pericolosa” (sic) che mise nei guai anche il governo successivo, cioè quello di Monti. E in che modo? “Sotto il profilo del riequilibrio di bilancio – o dell’austerità, che per anni avrebbe reso più difficile la vita degli italiani (sic) e avvelenato il dibattito politico – la Bce peccò decisamente per eccesso”. Sia “in generale, quando a dicembre 2011 il presidente Draghi chiese il Fiscal compact” (capito sì?) e contro l’Italia in particolare perché lui e Trichet pretesero “che per il nostro Paese, e solo per esso” il pareggio di bilancio “venisse anticipato dal 2014 al 2013” (è chiaro sì?). E adesso Draghi fa pure il figo: “Anche prima della pandemia, autorevoli banchieri ed economisti – compresi alcuni che più avevano spinto a suo tempo per severe restrizioni (corsivi nostri, ndr) – hanno sostenuto, e ancor più sostengono oggi, la necessità di politiche monetarie e fiscali durevolmente espansive”.

La nostra traduzione: cioè lui m’ha costretto a incaprettarvi, ora si rimangia tutto quello che diceva prima e voi lo trattate come il salvatore della patria? Machedaverodavero? Ma allora ho ragione a pensare che siete cretini!

Agamben&C., le stelle della vanità

Nelle olimpiadi estive a chi la spara più grossa, conquistano il podio più alto i filosofi arrembanti che scalzano i virologi discordanti, mentre più indietro restano i giornalisti stravaganti (tipo ipotesi di governi militari). Uno studioso della materia ha detto che spararla grossa non costa nulla, ma fa fare bella figura. Non siamo tanto d’accordo, perché tra i protagonisti della lista parlate tanto di me ci sono personaggi di chiara fama e anche persone che normalmente sembrano serie. E allora perché lo fanno? Forse perché si annoiano, forse perché nel tedio di una stagione pigra e di vacanze che stentano a decollare, meritarsi, che so, un seguirà dibattito sui giornali, un sapido alterco nei talk, o una citazione con foto su Dagospia, può aiutare. Cosa pensare altrimenti quando un intellettuale del livello di Giorgio Agamben paragona su La Stampa l’obbligo del Green pass, deciso dal governo in determinate situazioni, alle Stelle gialle imposte agli ebrei durante il nazismo? Con il filosofo collega Massimo Cacciari (un altro eternamente scocciato), Agamben aveva già evocato il rischio che con provvedimenti del genere si potessero sopprimere le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Ciò, evidentemente, non è bastato a sottrarlo all’ansia di prestazione se ieri ha sviluppato il concetto, che non è vero, che la scienza ha sempre ragione. Ha scritto infatti che “quando Mussolini decise di introdurre le leggi razziali in Italia, si preoccupò di dare a esse una legittimazione e un fondamento scientifico”. Con un evidente riferimento all’infame Manifesto sulla razza, sottoscritto nel 1938 da dieci cosiddetti “intellettuali” fascisti. Un’escalation di paragoni insensati che in assenza di autocontrollo verbale ha già indotto qualcuno fuori di testa (nelle piazze, non ancora nelle accademie) a tirare in ballo Auschwitz e la soluzione finale. Ha detto Liliana Segre che “il paragone vaccini-Shoah dei “no green pass” è un misto di ignoranza e cattivo gusto”. E tanto basta.

Via i segreti dell’Italia stragista: l’ultima promessa di Draghi

Il 2 agosto, anniversario della più grave strage italiana, quella del 1980 alla stazione di Bologna, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato una direttiva in cui dispone la desegretazione dei documenti sull’organizzazione Gladio e sulla loggia massonica P2: “Appare necessario che sia adottata ogni iniziativa che possa rivelarsi utile alla ricostruzione di vicende che hanno rappresentato passaggi drammatici della recente storia del Paese”. Per questo, Draghi “dispone la declassifica dei documenti” ancora segreti su Gladio e P2 e il loro “versamento anticipato all’Archivio centrale dello Stato”.

È una buona notizia. Con la direttiva del 2 agosto – data simbolica – Draghi amplia gli effetti della direttiva Renzi del 2014, che disponeva la declassificazione dei documenti sulle stragi, da piazza Fontana a Bologna. Ma come si è arrivati a questa decisione? E che effetti concreti potrà avere?

La direttiva Draghi accoglie, almeno in parte, una delle richieste che da due anni sono state fatte dal “Comitato consultivo sulle attività di versamento”, composto dai dirigenti dell’Archivio di Stato, da storici, esperti e rappresentanti delle associazioni dei famigliari delle vittime di Brescia, Ustica e Bologna: non basta togliere il segreto sui documenti delle stragi — sostiene il comitato — se poi manca tutto il contesto in cui queste sono state realizzate. “Non saranno versati”, denunciava al Fatto già nel 2017 un componente della commissione, l’ex magistrato Leonardo Grassi, “i documenti sulle strutture di guerra non ortodossa, cuore segreto della strategia stragista: da Gladio ai Nuclei per la difesa dello Stato, dalla Rosa dei venti all’Anello, dal Mar di Carlo Fumagalli a Pace e libertà di Luigi Cavallo. Tutte strutture degli apparati dello Stato o con forti connessioni con apparati dello Stato”. E poi “niente sui due principali gruppi dell’eversione italiana, Ordine nuovo di Pino Rauti e Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie, entrambi con consolidati rapporti con servizi e apparati”. E ancora: “Nessun fascicolo personale dei protagonisti delle stragi e dell’eversione, da Licio Gelli a Francesco Pazienza, dal comandante Junio Valerio Borghese al colonnello Amos Spiazzi, dal colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte al generale del Sismi Pietro Musumeci, niente su Vito Miceli e Gianadelio Maletti, su Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, sul Piano Solo, sul golpe Borghese, sul banchiere Michele Sindona”. Sono tanti i “buchi” che impediscono di ricostruire un quadro completo. È clamoroso, per esempio, che l’archivio del ministero dei Trasporti sia letteralmente scomparso: e molti attentati e stragi sono avvenuti sui treni e nelle stazioni.

Ora almeno due temi, Gladio e P2, dovrebbero diventare più trasparenti. Ma restano i dubbi sui tempi (quanto ci metteranno le diverse amministrazioni centrali e periferiche a decidere che cosa declassificare, a digitalizzare e versare all’Archivio centrale dello Stato?) e sui finanziamenti (è un’operazione che costa e che senza fondi adeguati è destinata a restare un progetto irrealizzato). Su tutto incombe poi il problema dei problemi, già sollevato a proposito della direttiva Renzi: che cosa sarà declassificato? A deciderlo saranno gli stessi che hanno classificato: chiediamo dunque la verità a chi fino a oggi l’ha nascosta, domandiamo di svelare i segreti dell’eversione a quelli che ieri hanno organizzato i depistaggi e nascosto documenti e prove alla magistratura che indagava.

L’annuncio di Draghi, dunque, è una buona notizia. Ma è solo la promessa di un’operazione-verità ancora tutta da realizzare, per passare dall’annuncio ai fatti.

 

Storari, salvi e quella “lettera scarlatta” scomparsa al csm

C’è un documento che manca, per quanto ci risulta, negli atti che hanno consentito alla sezione disciplinare del Csm di valutare la posizione del pm milanese, Paolo Storari, e di stabilire che – contrariamente a quanto richiesto dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi – può restare nella Procura di Milano, poiché non sussiste incompatibilità ambientale. E vorremmo comprendere – se davvero manca come ci risulta – il perché della sua assenza.

Sia chiara una premessa: siamo contenti per Storari, non tifiamo per una sua punizione, così come non tifiamo per Salvi, né per nessuno dei personaggi che citeremo in queste righe. La nostra unica partigianeria è per l’accertamento dei fatti e il rispetto delle regole.

E quindi partiamo da un dato storico. Tra ottobre e novembre 2020, chi vi scrive, avendo ricevuto una copia (cartacea e non firmata) dei verbali resi da Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, nel timore che fossero falsi o che, ancora peggio, qualcuno volesse distruggere l’indagine spingendoci a pubblicarli e, in questo modo, avvisare gli indagati, denuncia proprio a Storari (e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio) di averli ricevuti. E consegna loro una lettera anonima – allegata agli atti – nella quale si sostiene che, dell’indagine sulla loggia Ungheria, sono al corrente anche Salvi e il consigliere giuridico del presidente Mattarella, Stefano Erbani. Si scoprirà che Storari, sei mesi prima – per tutelarsi da quelle che il Csm oggi definisce “divergenze” con i capi su alcune iscrizioni – aveva consegnato a Piercamillo Davigo i verbali di Amara, non firmati, in formato Word e su una pen drive. E quindi: li aveva consegnati proprio per informare il Csm, del quale Salvi fa parte, come lo stesso Mattarella, del quale Erbani è consigliere. Quella lettera – il lettore giudichi da sé – rappresentava un indizio che i verbali giunti al Fatto potessero avere un collegamento con quelli consegnati da Storari a Davigo? Andiamo avanti. Storari omette a Pedio di averli consegnati e indaga sulla fuga di notizie. Salvi – che Davigo avvertì verbalmente ad aprile e che nulla, in quel momento, ebbe da obiettare sull’oralità della comunicazione – accusa Storari di irritualità nella consegna degli atti allo stesso Davigo. Ma aggiunge: Storari avrebbe dovuto astenersi dall’indagare e riferire ai suoi capi della consegna dei verbali. Storari avverte i suoi superiori solo l’8 aprile – quando si scopre che a inviare gli atti, anche a Repubblica, fu proprio la segretaria di Davigo (a sua insaputa, per quanto ci risulta). Ora il Csm scrive: “Non appaiono forniti elementi, anche di natura meramente indiziaria” per ritenere che sin dall’inizio Storari fosse “consapevole” che i verbali consegnati dal Fatto potessero “ricollegarsi alla documentazione consegnata a Davigo”. E quindi: non v’era per Storari un “concreto obbligo d’astensione”. Peraltro – e siamo all’incredibile – fino all’aprile 2021, quindi sei mesi dopo la denuncia del Fatto, non poteva astenersi da nulla, poiché il Csm scrive che non c’era neanche un fascicolo con l’iscrizione di una notizia di reato. Quel che colpisce, però, è l’assenza di “elementi, anche di natura meramente indiziaria”: e la lettera anonima che abbiamo depositato? Che fine ha fatto? Non vorremmo che si fosse incagliata nel tragitto tra le varie Procure – Milano, Perugia, Roma, Brescia, Procura generale della Cassazione – che in varie fasi si sono occupate della vicenda. Davigo ha dichiarato di aver avvertito a voce Salvi e di aver saputo che, proprio attraverso Erbani, fu avvertito anche il Quirinale. E quella lettera, a maggior ragione se scritta dalla sua segretaria, lo riscontra. Noi l’abbiamo depositata. O è scomparsa oppure qualcuno – se anche fosse scomoda per tutti – la tiri fuori.