È attacco alla Radio. A colpi di legge. Il cannone normativo che può far saltare in aria il comparto è il controverso Tusmar, il Testo Unico sui Servizi Media Audiovisivi Radiofonici Digitali del 2005, che sta per essere modificato per recepire la Direttiva Ue 1808/2018. Oggi sarà sul tavolo del governo prima di approdare, entro l’8 agosto, in Parlamento.
Cosa contiene, di così esplosivo? Gli insider notano, tra le pieghe di un decreto labirintico, l’ordigno dello switch off, lo spegnimento prematuro della rete della modulazione di frequenza: quella analogica, la via antica ma più battuta dagli oltre 34 milioni di fruitori italiani per accedere all’ascolto. Non bastasse, fuori testo si valuterebbe uno switch off da portare a compimento entro il 2023, per poi affidarsi definitivamente alla tecnologia più avanzata, quella digitale del Dab+ (Digital audio broadcasting) e di internet. Soluzione ottimale a medio termine, non per una scadenza ravvicinata. Non tutti possiedono una vettura accessoriata con un’autoradio Dab. Né gli utenti sembrano già totalmente avvezzi a orientarsi tra le app e le piattaforme per godersi dirette o podcast.
Tagliare via anzitempo le antenne dell’Fm equivarrebbe a decimare il bacino di utenza del sistema. In uno scenario “purificato”, resterebbero attive in digitale solo 9 emittenti nazionali su 13, con un’ecatombe tra le locali: su mille se ne salverebbero appena 300. Ma perché temere l’apocalisse con il nuovo Tusmar? Insistono i diffidenti: perché è stato messo a punto con criteri lunari. Due giorni fa il ministero per lo Sviluppo Economico ha invitato in audizione gli operatori della filiera, in assenza del ministro Giancarlo Giorgetti e con la presenza per pochi minuti del sottosegretario piddino Anna Ascani. Gli esponenti dei gruppi radiofonici e dei nuovi temibili player (Discovery, Netflix, Disney) hanno messo alle strette il Mise, guadagnandosi una rassicurazione off the record: “Non procederemo con mosse incaute finché il mercato del Dab non sarà maturo”.
Ma quando cadrà dall’albero il frutto del Dab? Un’ipotesi allarmante è già nel pre-decreto del Tusmar, prima di ripensamenti dell’esecutivo o di maquillage in Commissione. Nell’articolo 50, comma 10, è detto che “l’Autorità adotta il piano nazionale di assegnazione delle frequenze radiofoniche in tecnica analogica, tenendo conto del grado di sviluppo della radiodiffusione sonora in tecnica digitale. Nelle more di una effettiva diffusione della radiodiffusione sonora in tecnica digitale, il Ministero, in coordinamento con l’Autorità, procede ad attività di ricognizione e progressiva razionalizzazione dell’uso delle risorse frequenziali in tecnica analogica in particolare al fine di prevenire o eliminare situazioni interferenziali con i paesi radio-elettricamente confinanti, ed incoraggiare l’efficiente uso e gestione delle radiofrequenze, tutelando gli investimenti e promuovendo l’innovazione”. Traducendo da Bisanzio: qui si parla non di uno switch off, ma di uno switch over, cioè la potatura graduale delle antenne Fm in parallelo con il passaggio al Dab.
Parrebbe quasi una mossa virtuosa: meno inquinamento, minor consumo di energia, migliore fruizione, nessuna sovrapposizione (anche potenziale!) con le stazioni estere, dalla Francia ai Balcani. Peccato che, ancora a lungo, le emittenti italiane dovranno sopravvivere con l’Fm, e senza i lacciuoli di un “piano di assegnazione delle frequenze in tecnica analogica”: se ne parla dagli anni Ottanta, ma nessuno lo ha varato perché non ve ne era necessità. Bastava la libera iniziativa. E occhio: mentre il governo provvede a “pulire” l’etere italiano (di fatto desertificandolo), l’aggressione più insidiosa al sistema Radio arriva dai colossi globali Ott (Over the top). Spotify, Amazon, Facebook, Google, YouTube occupano il campo digitale a suon di playlist disumanizzate, pagando un’inezia di tasse, con ricavi miliardari. Spotify ha lanciato una campagna esplicita: “Dimentica la radio” per conquistare inserzionisti e far affondare gli editori tricolore. Quanto al “grado di sviluppo digitale” evocato nell’articolo, non viene chiarito se si riferisce allo stato degli impianti, o al loro numero e all’area servita.
Fortunatamente, grazie al pressing dei radiofonici, nel decreto è stato almeno accolto l’aumento, per le locali, del limite da 15 milioni di ascoltatori fino al 50 per cento della popolazione nazionale. Un bonus salvifico per le realtà minori: certo, possono già essere pescate sul web. Lì, però, vengono cannibalizzate dai competitor più attrezzati. Chi ci guadagna, nel potenziale pasticcio ferragostano? Solo la Rai: sulla gestione dell’Fm non è competitiva, ma per adeguare la sua offerta Dab conterebbe sui finanziamenti pubblici. Il direttore di Rai Radio, Roberto Sergio, auspica il colpo di machete sulle frequenze: “Spegnere si deve”. Replica l’ad di Rds Eduardo Montefusco: “Gesto coraggioso, da una Rai ben sostenuta dalle elargizioni di Stato”. Affonda la lama il presidente di Rtl Lorenzo Suraci: “Con le nuove tecnologie arriviamo in tutto il mondo. Ma il nostro business si basa ancora sull’Fm e dobbiamo difenderlo con i denti: una eventuale pianificazione sarebbe la morte della radiofonia”. Accendete la Radio, è già bollettino di guerra.