Gnk, c’è spiraglio: ipotesi cassintegrazione. A Whirlpool 30 milioni in 2 anni dal Mise

Malgrado le pessime premesse, al tavolo di ieri con Gkn si è aperto un piccolo spiraglio: l’azienda valuterà se usare le 13 settimane di Cig per mettere almeno in stand-by i 422 licenziamenti a Campi Bisenzio. Alla riunione in Prefettura a Firenze c’era la vice-ministra dello Sviluppo Alessandra Todde; assente, come sempre, il ministro Giancarlo Giorgetti. La Fiom ha confermato il ricorso al giudice del lavoro; la Uilm ha chiesto di fare presto con il decreto anti-delocalizzazioni. Todde ha ricordato alla Gkn che l’impresa ha ricevuto 3 milioni di finanziamenti pubblici: “Se si prendono soldi dallo Stato – ha detto – non si devono fare scelte unilaterali”. A questo proposito, circola in ambienti sindacali un documento interno al Mise che quantifica i fondi pubblici incassati dalla Whirlpool. Oltre 30 milioni solo dal ministero tra il 2017 e il 2018; circa 3 milioni arrivati da Lombardia, Toscana e Campania negli ultimi 6 anni, e 5,6 milioni di Campania e Marche per i quali non è stato terminato l’iter. Andando indietro agli scorsi decenni, si superano i 68 milioni.

Brunetta arruola pure l’agente “Betulla”

È tornato a Palazzo con tutti gli onori: Renato Farina, l’agente Betulla al servizio dei Servizi, è stato “assunto” al ministero della Pubblica amministrazione dall’amico Renato Brunetta. Che pende dalle sue labbra da sempre. Quando era capogruppo dei berluscones alla Camera, per dire, lo volle come consulente per la comunicazione, nonostante gli inciampi, ché Farina aveva alle spalle già un curriculum niente male: ai bei tempi andati, si era messo al servizio del Sismi di Nicolò Pollari e Pio Pompa, per diffondere veline dei servizi (come la notizia di un denigratorio – e inesistente – video sulla morte in Iraq del giornalista Enzo Baldoni) e per tentare (invano) di spiare i magistrati di Milano Armando Spataro e Ferdinando Pomarici che indagavano sul sequestro Cia dell’imam Abu Omar. Praticava quell’arte convinto di essere in missione per conto di Dio, ma anche in cambio di denaro, visto che Spataro e Pomarici trovarono tracce di un pagamento di 30 mila euro. Farina ammette: “Era un rimborso spese forfettario”.

Per favoreggiamento dei rapitori di Abu Omar, ha patteggiato una condanna a sei mesi, poi convertita in una pena pecuniaria. Un cursus honorum iniziato nel 1999 quando aveva avviato la sua collaborazione con i servizi segreti in occasione della guerra in Serbia, che da allora non si era più fermata, come del resto pure la carriera di giornalista.

Una volta scoperto il suo rapporto di amorosi sensi con i servizi, era stato messo sotto procedimento e poi sospeso dall’Ordine dei giornalisti per “comportamento incompatibile con tutte le norme deontologiche della professione e per aver provocato un gravissimo discredito alla categoria”. In vista della possibile radiazione, nel 2007 si era cancellato di sua iniziativa, salvo poi chiedere di ritornare alla professione che peraltro non ha mai lasciato. Nel 2014 gli è stato ridato il tesserino dopo aver fatto (parziale) ammenda: “Alcuni erano atti che ritenevo doverosi per la mia coscienza, compiuti con la presunzione di andare in soccorso del mondo, altri erano compiuti sulla base di un’ideologia, atti sbagliati perché ho trascurato le regole di comportamento della comunità dei giornalisti”.

Punto e a capo, tutto è perdonato. E con gli interessi: dopo il fattaccio di Abu Omar e la sospensione dall’Ordine era stato premiato con un seggio alla Camera da Berlusconi, ché il motto di Farina rimane sempre lo stesso: “Signore non sono degno, ma di’ una parola e sarò guarito”. E così oggi che c’è da dare una sterzata alla macchina dell’amministrazione (ce lo chiede l’Europa), il “maestro” è stato richiamato in servizio da Brunetta: si accontenterà di un compenso da 18 mila euro come recitano le austere tabelle della presidenza del Consiglio che lo classificano dirigente con funzioni di consigliere giuridico del ministro. Sul sito del ministero risulta invece consigliere per la comunicazione istituzionale delle pubbliche amministrazioni. Ai tornelli di Palazzo Vidoni sì cari a Brunetta, chissà.

Il Tesoro chiude ai partiti: “Mps andrà all’Unicredit”

Lo stanco rito si compie quando ormai è ora di cena: Daniele Franco si presenta alle commissioni Finanze di Camera e Senato, come peraltro prescrive la legge, per informarle che per il Monte dei Paschi si sta seguendo la via maestra del mercato – indicata anche dalla Bce, giuste le linee guida di un Dpcm del governo Conte-2 e della Commissione Ue –, che l’unica offerta in campo è quella di UniCredit e che il governo vigilerà sulle ricadute sociali ed economiche dell’eventuale vendita, e lotterà come un leone per difendere l’interesse pubblico. Seguono raccomandazioni, critiche, un po’ di “se”, qualche “ma”, alcuni “Padoan” assortiti delle forze politiche: infine la promessa di non far mancare informazioni al Parlamento da parte del ministro dell’Economia. Pace e bene, ci si rivede dopo le ferie.

Il senso è questo: a tempo debito, e comunque entro l’anno, come da accordo con Bruxelles, la banca presieduta da Pier Carlo Padoan – cioè il ministro che nazionalizzò Mps e poi si fece eleggere deputato proprio a Siena – si prenderà le parti buone del Monte dal Tesoro con cospicua dote pubblica, la cui entità è ancora da definire. Nessuno ha la forza di opporsi e soprattutto nessuno può garantire che l’istituto senese potrebbe restare in piedi da solo senza diventare un inceneritore di risorse pubbliche. In ogni caso, “non si tratterà di una svendita di proprietà statali”.

Il ministro Franco, con tono monocorde e retorica in grisaglia, non lascia spazi a rinvii e ripensamenti. La tesi è questa: il Monte dei Paschi è messo male, le sue performance sono assai sotto la media, gli obiettivi del piano industriale definito con l’ingresso dello Stato “sono stati conseguiti solo parzialmente”, soprattutto quanto a “redditività ed equilibrio tra costi e ricavi”. E dunque i fan dell’opzione “stand alone”, cioè di Mps che va avanti da sola, devono sapere che già così gli esuberi previsti sono 2.500 e la Commissione chiederà di aumentarli perché Mps ha ancora troppi costi; l’aumento di capitale da 2,5 miliardi ipotizzato finora, poi, è oggi largamente insufficiente (e non a caso la Bce non si è ancora espressa). Insomma, secondo Franco e Mario Draghi, dire no a UniCredit costerebbe assai di più dell’operazione che si va definendo. Quanto alla scelta di vendere, dice Franco, è prevista da “un Dpcm del 16 ottobre 2020” (epoca Conte), che affida al Tesoro il compito “di dare avvio alla procedura” e indica tra le strade “una operazione straordinaria di integrazione”. È dall’autunno scorso, dice il ministro, che il Mef e la banca cercano un partner, tanto è vero che “la data room è aperta da gennaio”. Perché UniCredit? Perché l’unico altro interlocutore, il Fondo Apollo, dopo un sondaggio a febbraio è sparito: è l’unica offerta in campo e “non ci sono le condizioni per mettere in discussione la cessione della banca”.

I termini dell’eventuale accordo con la banca guidata da Orcel e Padoan sono quelli noti: niente danni al capitale di UniCredit, esclusione del vecchio contenzioso e dei crediti deteriorati, accordo sul personale, via libera dell’Ue (che dovrà garantire che il tutto avvenga a “condizioni di mercato”). L’apporto dello Stato? Ancora non si sa, ma se UniCredit non deve metterci capitale sarà di sicuro cospicuo e alla fine il Mef potrebbe ritrovarsi azionista di UniCredit.

Ora le rassicurazioni. Franco non vede “rischi di smembramento della banca” e quanto agli esuberi (5-6mila su 21mila secondo indiscrezioni) attenuarli, così come tutelare il marchio della più antica banca del mondo, è “una priorità del governo”: “Garantiremo la massima attenzione alla tutela dei lavoratori nell’ambito degli spazi negoziali e una pluralità di strumenti e iniziative” per chi resterà fuori. Infine il comma Letta, cioè la frase che ammicca all’uscita di ieri del segretario Pd e candidato a Siena alle Suppletive: “La valorizzazione e il rilancio di Siena e della provincia è una priorità indiscussa e incomprimibile per il governo”.

Insomma, a poco servirà – per fermare il treno della vendita all’acquirente unico (difficile strappare qualcosa in una trattativa se non ci sono alternative) – l’utile che oggi la banca senese riporterà nella sua semestrale: Mps doveva morire, Mps morirà annegata nel secondo polo bancario italiano. Chi ha avuto ha avuto…

Nobili e i suoi fratelli: “Va fatto subito, basta prese in giro”

Luciano Nobili sembra coltivare per il Ponte di Messina la stessa bruciante, insospettabile passione che ha per i monopattini. In audizione, dopo aver ascoltato il ministro Enrico Giovannini, il renziano è tra i più perentori: “Per noi di Italia Viva è un’opera cruciale”. Le aperture di Giovannini non bastano, anzi. “Non possiamo permetterci un’eterna melina. C’era un iter che si poteva recuperare, ma ogni volta si riparte da zero”. L’iter da recuperare è quello che tutela gli interessi del gruppo Webuild, ex Salini-Impregilo, vincitore nel lontanissimo 2006 della gara internazionale per la costruzione dell’opera. Big Luciano detta i tempi: “Bastano sei mesi per approvare il progetto, apriamo il cantiere entro fine legislatura”. D’altra parte i rapporti del capo di Nobili con Pietro Salini sono da sempre più che eccellenti. Non sorprende quindi la posizione di Iv, come quella degli altri partiti che tirano la giacca al ministro delle Infrastrutture, e per interposta persona a Mario Draghi. Stupisce, semmai, la compattezza e la virulenza degli interventi dei “pontisti”. Stefania Prestigiacomo (ex ministra di Forza Italia) interrompe Giovannini durante la replica, con rivedibile garbo istituzionale. La forzista è velenosa: “Lo studio di fattibilità (che vuole il governo) è uno spreco: servono altri 50 milioni di euro per decidere se è meglio un progetto che già esiste o uno che non esiste?”. Edoardo Rixi della Lega non è più soave della collega: “Si rischia di bloccare tutti i grandi progetti, non si costruisce più una grande opera. Pensare di risolvere tutto comprando 3 navi e 4 locomotori vuol dire non volere investire sul Sud”. Pure l’opposizione (Fratelli d’Italia) è pro-ponte: “Le forze che ci credono devono collaborare per aprire questo cantiere”, suggerisce il meloniano Tommaso Foti. Il più polemico è ancora un leghista, il nisseno Alessandro Pagano: “Avete impiegato otto mesi per una relazione che non dice nulla. Deve parlare il presidente del Consiglio… qui ci proponete un investimento fantasmagorico di 3 traghetti nel 2025… È una presa in giro”. L’ennesimo giro per il Ponte di Messina.

Riecco il ponte: altri 50 milioni per lo studio

Nella pluridecennale vicenda del Ponte sullo Stretto di Messina, sembra di rivivere il “giorno della marmotta”. Quasi dieci anni fa, il governo Monti ha archiviato la mega-opera perché considerata un inutile spreco di denaro, scatenando un maxi-contenzioso con il consorzio Eurolink, capeggiato da Salini-Impregilo, vincitore della gara. Oggi si riparte dal più classico “studio di fattibilità tecnico-economica”. L’ufficialità è arrivata ieri dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, in audizione alle Camere. Due ore surreali in cui la parola “ponte” non si è sentita per 40 minuti, sostituita da un più laico “attraversamento stabile dello Stretto di Messina”. È toccato al renzianissimo deputato Luciano Nobili, dire pane al pane e vino al vino: “Possiamo togliere l’ipocrisia del lavoro degli ultimi mesi e parlare di ponte?”.

Giovannini è riuscito nell’impresa di scontentare pure i pasdaran dell’opera, che in realtà si spendono per Pietro Salini e Webuild, il colosso delle costruzioni nato dopo che la Cassa depositi e prestiti ha messo in sicurezza con soldi pubblici la Salini-Impregilo.

Breve premessa. Il mese scorso, la Camera ha approvato a larghissima maggioranza (tranne Leu e M5S) una mozione che “impegna il governo ad adottare le opportune iniziative al fine di individuare le risorse necessarie per realizzare un collegamento stabile, veloce e sostenibile dello Stretto di Messina estendendo, così, la rete dell’Alta velocità fino alla Sicilia”. Il ponte è la conclusione logica del mega-progetto dell’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria (22 miliardi, di cui 10 già finanziati nel fondo complementare al Pnrr) anch’esso fermo allo “studio di fattibilità tecnico-economica”.

Giovannini si è presentato per elogiare il lavoro consegnato dalla commissione di esperti nominata a suo tempo da Paola De Micheli. L’illustre task force è stata chiamata a rifare una discussione chiusa 40 anni fa: meglio un ponte, un tunnel sotto il fondale (sub alveo) o solo ancorato al fondale (alveo)? Vale a dire, le opzioni del concorso internazionale di idee del 1969, chiuso 20 anni dopo con la scelta del ponte, l’unica considerata percorribile. Il team di esperti ministeriali – dove non compare nessun ingegnere strutturista esperto di costruzioni di ponti – ha concluso che in effetti il ponte è l’unica soluzione, ma ha ipotizzato che forse invece di quello a un’unica campata, oggetto della gara del 2006, si può fare a più campate. Il costo, però, deve sobbarcarselo tutto lo Stato. Quanto? I 10 miliardi del vecchio progetto? Non si sa, e per questo serve lo studio. Giovannini ha annunciato che ci sono già 50 milioni stanziati nella vecchia legge di Bilancio, e a farlo sarà Italferr, controllata di Fs: si dovrebbe chiudere entro la primavera 2022 per arrivare poi al dibattito pubblico e a stanziare i fondi in autunno con la legge di Bilancio.

Ai parlamentari di Lega, Forza Italia e Italia Viva, che lo accusavano di prender tempo per non fare nulla, il ministro ha replicato che lui l’opera la vuole fare e di averne discusso con Mario Draghi e il resto del governo: “Sposando la linea del gruppo di lavoro non riteniamo affatto che quest’opera sia inutile, anzi: motivazioni di carattere trasportistico, economico e sociale la giustificano”. E quindi si farà e “verrà chiesto alla Ue di partecipare al finanziamento”. Sembra una barzelletta: in studi, lavori, consulenze e altro, per il ponte sono stati spesi già 960 milioni (300 nel solo 2010-2013); intanto la concessionaria, la Stretto di Messina Spa, da 10 anni in liquidazione, è ancora lì. Ora si riparte.

Nelle slide illustrate da Giovannini, tra le “motivazioni socio-economiche” che giustificano il ponte c’è l’arretratezza dell’area: calo ventennale della popolazione (-1,2% tra 2000 e 2019 rispetto al Nord); dell’occupazione (-11,7% rispetto al Centro-Nord e allo stesso Mezzogiorno) e del Pil (-15,3% rispetto al Centro-Nord). Dati che dovrebbero migliorare grazie a una mega-opera di cui non si conoscono nemmeno le stime di traffico. Giovannini ha spiegato che “l’assenza di un collegamento stabile penalizza in modo rilevante il traffico ferroviario, gli spostamenti di breve distanza e quelli da e per il Mezzogiorno” e che l’attraversamento “potrebbe modificare nel tempo le scelte di approdo di taluni traffici”. Quali? Non si sa, ma a braccio (il testo non compare nelle slide) il ministro ammette che “analisi condotte mostrano che gran parte del traffico merci marittimo non si fermerebbe in Sicilia, ma proseguirebbe verso scali del Centro-Nord, Genova e Trieste per i costi decisamente più bassi”.

Curioso, visto che la mozione parlamentare motiva il ponte con la possibilità di “intercettare il traffico merci che, dal Canale di Suez, oggi si dirige verso Gibilterra per puntare sui porti del Nord Europa, quando invece la Sicilia col porto di Augusta collegato all’Alta velocità potrebbe rappresentare un hub strategico nel Mediterraneo”. Giovannini è costretto ad ammettere che il ponte lo deve pagare lo Stato, perché “se anche partecipassero i privati il costo di realizzazione e manutenzione imporrebbe dei canoni di utilizzo estremamente elevati che finirebbero per scaricarsi sulla finanza pubblica”. Tradotto: il progetto non sta in piedi a meno di chiedere dei pedaggi ad auto e treni così elevati da renderli anti-economici (e quindi, alla fine, pagherebbe comunque lo Stato).

Centrodestra e Iv, come detto, si sono scagliati contro il ministro. Vorrebbero che si ritornasse al progetto di Eurolink. Subito. “Si mette in discussione un iter iniziato da qualche decennio, con atti che sono ancora validi – dice Stefania Prestigiacomo (Fi) –. Il progetto ha superato tutti i vagli di legge”. La realtà è ovviamente diversa. Giovannini ha dovuto ricordare che il vecchio progetto ha problemi enormi: non ha mai ottemperato a tutte le prescrizioni della valutazione di impatto ambientale e che per una parte dell’anno il ponte a campata unica dovrebbe stare chiuso a causa del vento, costringendo comunque a mantenere in vita il sistema dei traghetti.

L’impatto ambientale, peraltro, è assente nella relazione dei tecnici ministeriali: verrà approfondito più avanti, pare, visto che la commissione non aveva al suo interno tecnici del settore. Senza considerare il fatto che il progetto, in qualunque caso, non potrà essere finanziato dal Pnrr o altro, perché “non rispetta il requisito di non danneggiare l’ambiente”.

Vale la pena, a questo punto, ricordare che Eurolink ha fatto causa allo Stato. Mentre Renzi e Di Maio lo elogiavano, Salini chiedeva 700 milioni di danni: in primo grado ha perso, la sentenza d’appello è attesa a breve. Ora ha delle ragioni in più: il suo progetto potrebbe essere recuperato. Mal che vada, c’è comunque qualche decina di milioni in nuove consulenze…

Scivolone Anas: partiti in rivolta, salta il nuovo ad

Sarà vero che Mario Draghi, già poco propenso ad ascoltare i partiti, non discute le nomine con la politica, ma stavolta ha dovuto cedere. Una rivolta pressoché unanime dell’arco parlamentare – con l’eccezione di Italia Viva – ha fatto saltare ieri la nomina di Ugo De Carolis al vertice dell’Anas. Come anticipato dal Fattoquotidiano.it il nome del manager romano compariva nella lista entrata nel cda delle Ferrovie dello Stato – che controllano Anas – riunitosi ieri mattina per scegliere il nuovo vertice dopo la scadenza del mandato di Massimo Simonini, vicino ai 5Stelle ma senza alcuna possibilità di riconferma.

Il nome, indicato dal nuovo capo delle Fs, Luigi Ferraris, e caldeggiato, a quanto pare, dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, si è schiantato sul passato del manager. De Carolis è infatti l’ex ad di Aeroporti di Roma, società controllata da Atlantia dei Benetton, e uomo storicamente vicino a Giovanni Castellucci, l’ex braccio destro della famiglia di Ponzano veneto, imputato a Genova per il disastro del Ponte Morandi. Nato a Roma nel 1965, De Carolis è entrato nel gruppo Atlantia nel 2008. Di formazione ingegnere meccanico, è stato in passato in Procter & Gamble, General Electric, Fiat, Cnh e in Telepass, la controllata di Autostrade per l’Italia. È stato anche nel cda di Edizione, la cassaforte con cui i Benetton controllano l’impero finanziario. Nell’aprile 2020 è stato costretto a lasciare Adr in seguito alle polemiche per lo strano caso della vendita delle azioni della società. Pochi mesi prima, a gennaio, aveva venduto i titoli della società che controllava prima del declassamento deciso dalle agenzie di rating, incassando dalla vendita 573mila euro. Due mesi dopo, ha rassegnato le dimissioni.

In mattinata, appena uscite le prime indiscrezioni, tra i partiti è scoppiata una mezza rivolta. Una batteria di dichiarazioni contro la designazione mentre il cda, in teoria, aveva già indicato il nome (spettava al Tesoro, azionista di controllo, la decisione finale portandolo oggi nell’assemblea dei soci Anas). Il M5S parla di nomina “irricevibile”, il deputato leghista Edoardo Rixi lo chiede direttamente a Giovannini in audizione sul Ponte sullo Stretto. La richiesta al ministro e al collega dell’Economia, Daniele Franco, di riferire immediatamente arriva anche da Raphael Raduzzi (Misto) e Raffaele Trano (Alternativa c’è). Anche il Pd è critico. Raccontano di una chiamata del ministro Andrea Orlando per chiedere spiegazioni a Franco. Nel pomeriggio, il capogruppo M5S al Senato, Licheri, raccoglie in una lettera le firme di tutti i capigruppo a Palazzo Madama, a eccezione di Italia Viva. Nella lettera inviata a Draghi, viene espressa la totale contrarietà all’ipotesi di nomina.

Alla fine, in serata, arriva il dietrofront. Con Palazzo Chigi e il Tesoro imbarazzati, De Carolis annuncia il passo indietro “alla luce delle dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti di forze politiche, anche in considerazione della rilevanza strategica di Anas in un momento particolarmente difficile in cui è richiesta serenità e collaborazione di tutti per permettere al Paese di uscire il prima possibile dall’emergenza”.

Il nome del manager era stato selezionato dai cacciatori di teste delle Fs. Dagli uffici del ministero dell’Economia filtra distanza per una decisione, quella di indicare De Carolis, che viene imputata alla società. Ma per il passo indietro sono servite ore ed è chiaro che la pressione è arrivata. Toccherà a un nuovo cda indicare il nome dell’ad da affiancare al presidente, per il quale resta confermata la scelta di Edoardo Valente, generale della Guardia di Finanza. Gli altri nomi in lista sono quelli di Ugo Dibennardo, manager interno di lungo corso, e Massimiliano Bianco, in passato alla guida di Iren, la multiutility dove poi è stato sostituito dall’ex ad di Anas, Gianni Armani.

I partiti hanno sempre riversato attenzioni particolari verso la società pubblica delle strade, che ora avrà un ruolo centrale nella gestione dei fondi del Pnrr. Nelle nomine, finora Draghi aveva scelto senza consultare i partiti. Stavolta, invece, questi gli hanno imposto il dietrofront. Un precedente che può pesare.

Nola, procuratrice accusata dai pm: “Insulta le donne”

Quel giudice non è imparziale e va trasferito. Anzi no, meglio aspettare. Così il plenum del Csm ha sospeso il 28 luglio la delibera di trasferimento per incompatibilità ambientale emessa lo stesso giorno dalla prima commissione a carico della procuratrice di Nola, Laura Triassi, per fatti che “incidono sull’immagine di imparzialità, indipendenza, credibilità del dirigente dell’Ufficio di Procura”. Alla procuratrice sono contestati comportamenti sopra le righe nei confronti dei suoi sostituti e i rapporti difficili con ufficiali dei carabinieri e personale amministrativo. Motivazione della sospensione: c’è un procedimento disciplinare a carico della stessa. Tutto nasce con una nota inviata in Csm il 4 giugno 2021 dal procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, al quale erano giunte lamentele da parte di alti ufficiali dei carabinieri della zona. Secondo la Triassi e il suo vice Stefania Castaldi (che ha chiesto e ottenuto il trasferimento a Santa Maria Capua Vetere), infatti, molti di quei carabinieri erano professionalmente inadeguati. Giudizi che avevano creato malumori nell’Arma. Laura Triassi, però, pare non andasse d’accordo neppure coi suoi sostituti: dodici pm su 13, infatti, avevano inviato tre mesi prima un esposto al procuratore generale. “Il magistrato che non ha firmato l’esposto – si legge nella delibera – si è dichiarato, comunque, disposto a essere audito per confermare i fatti riportati, nonché solidale coi colleghi”. E problemi c’erano anche con gli impiegati della Procura, firmatari di un terzo esposto contro la Triassi. Nell’esposto dei sostituti la procuratrice viene descritta come magistrato incline a esprimersi “abitualmente in maniera scomposta, gratuitamente offensiva e denigratoria, in merito a tematiche sensibili quali la gravidanza e la maternità, apertamente e pubblicamente additate quale colpevole disfunzione per l’ufficio”.

A proposito di un sostituto in maternità, così si sarebbe espressa nel corso di una riunione: “Je nun capisco cheste femmene ca se fanno mettere incinta e poi pretendono ‘o stesso trattamento de l’uommene, de’ mariti, pure si nun faticano tale e quale. Si nun vuo’ fatica’, statte a casa”. Tra gli episodi contestati, quello di cui sarebbe stata vittima la pm Mucciacito, che seguiva il caso di Maria Paola Gaglione, morta in motorino mentre sfuggiva all’inseguimento del fratello contrario alla sua relazione con un ragazzo transgender, Ciro Migliore. Mucciacito aveva interrogato Migliore e la procuratrice avrebbe commentato: “Che te piace Ciro?” e avrebbe definito il fascicolo come “o caso d’o ricchione”. La Triassi ha riconosciuto di avere un carattere esuberante, ma si è difesa parlando di affermazioni generiche ed evocando il complotto: “Perché firmare in dodici, in un patto di sangue, anche episodi accaduti mesi prima, ai quali non si è stati presenti?”. Scrive però la prima commissione del Csm: “È difficile ipotizzare che un numero così cospicuo di soggetti, con ruoli diversi e molti neppure in contatto tra loro, abbiano concordato una strategia contro il Procuratore”. Sulla decisione del plenum di sospendere il trasferimento, la segreteria napoletana di Mi in una nota parla di “decisione distonica rispetto all’urgenza di intervenire per garantire la serenità del lavoro quotidiano nell’interesse dei cittadini”.

Csm: Storari resta a Milano “Non ci fu alcuna violazione”

Paolo Storari resta a Milano come pubblico ministero. I consiglieri-giudici disciplinari del Csm hanno rigettato la richiesta del Pg della Cassazione, Giovanni Salvi, di cambiarlo di funzione e di trasferirlo di sede, provvisoriamente. La richiesta respinta è nata dal procedimento disciplinare a cui è sottoposto Storari, per aver consegnato i verbali segreti dell’ex legale esterno dell’Eni Piero Amara, plurindagato, nella primavera scorsa, all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, in formato Word e non firmati. Il tutto all’insaputa del procuratore Francesco Greco e della procuratrice aggiunta Laura Pedio, con la quale Storari aveva raccolto le dichiarazioni del controverso Amara su una presunta loggia massonica denominata “Ungheria”. Per il collegio, non solo non ci sono motivi urgenti (periculum) ma neppure indizi tali (fumus) da giustificare la misura cautelare. Prima di entrare nel merito di questa ordinanza, una premessa per sgomberare il campo da equivoci: l’accusa di rivelazione di segreto per cui Storari è indagato dalla Procura di Brescia, assieme a Davigo, è fuori da questa decisione del Csm e dal procedimento disciplinare: Salvi ha ritenuto di lasciarla in sospeso perché c’è il penale ancora in corso.

Il Pg aveva chiesto la misura perché, secondo lui, la consegna dei verbali a Davigo, “informale e irrituale” viola le circolari del Csm del 1994-95 secondo le quali un pm deve esporre per iscritto le sue rimostranze al proprio procuratore generale o al comitato di presidenza del Csm. Non per il collegio giudicante, relatore Filippo Donati (laico M5S). Sostiene che quelle circolari hanno una “interpretazione normativa di non piena soluzione… perlomeno è poco agevole che sia così chiaramente individuabile” che non si possa “interloquire” con un singolo consigliere. Quindi, si deduce che dopo questa ordinanza se un pm ha dissidi col suo ufficio, invece di metterli per iscritto a chi di competenza, può prendere carte anche riservate e consegnarle a un consigliere del Csm (nel caso di Davigo ha poi informato a voce e/o facendo vedere i verbali, il Comitato di presidenza e 5 consiglieri sentiti a Brescia come testimoni) col rischio di divulgazione di quell’indagine. Perché questo è ciò che è avvenuto, al di là delle intenzioni dei protagonisti: quei verbali rimasti in Consiglio e mai protocollati sono finiti in forma anonima al Fatto e a Repubblica. Solo grazie alla denuncia dei giornalisti, prima Antonio Massari e poi Liana Milella, è emerso quanto è accaduto. Per quelle spedizioni ai cronisti è indagata a Roma Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, che finora non ha detto ai pm perché lo ha fatto e se l’ha fatto per conto terzi.

Ma torniamo alla decisione del Csm a favore di Storari: il pm ha sempre sostenuto di essersi rivolto a Davigo consigliere, per “autotutelarsi” dopo “4 mesi di sollecitazioni a voce” a Greco e Pedio e che Davigo lo aveva rassicurato sulla correttezza della procedura. Un concetto confermato da Davigo a Brescia. Secondo i consiglieri-giudici del Csm, non c’è stata neppure alcuna “grave scorrettezza” di Storari verso i colleghi milanesi per averli accusati, sostiene il Pg, “di inerzia nelle indagini” e per “non aver formalizzato il suo dissenso”. Sulla base degli indizi in mano al collegio, da parte di Storari “c’è piuttosto la preoccupazione per la gravità delle eventuali ipotesi di reato configurabili” e ciò appare confermato dal fatto che Davigo gli consiglia “di insistere col Procuratore sulla necessità di procedere a iscrizioni”. Infine, il collegio ha dato torto al Pg, che non avrebbe fornito neppure “meri indizi” anche in merito alla mancata astensione dall’inchiesta sulla fuga dei verbali. Non cì stata l’ipotizzata, dall’accusa, “violazione consapevole di astensione” dato che – ragiona il collegio – quando Massari consegna i verbali a Storari e Pedio, il pm non poteva immaginare che fossero una copia di quelli dati a Davigo e che in quel momento “gravasse” su di lui “un concreto obbligo di astensione”.

Cioè, secondo i consiglieri-giudici, un bravo ed esperto pm come Storari, vede quei verbali a fine ottobre e non sospetta che siano una copia dei suoi dati a Davigo. Ed è pure normale che da fine ottobre 2019 ai primi di aprile 2020, Storari non dica nulla a Greco e Pedio.

Infine, i giudici ritengono che la permanenza di Storari a Milano come pm “non pregiudica la buona amministrazione della giustizia” anche perché da gennaio “è passato ad altro dipartimento”, quello guidato da Maurizio Romanelli, fra i candidati a procuratore al posto di Greco, in pensione da novembre.

500 mila guariti col lasciapassare già quasi scaduto

Mattia Baglieri, dottore di ricerca della facoltà di Scienze Politiche all’Università di Bologna, si sente in ostaggio. È guarito dalla polmonite provocata dal Covid-19, contratto nel marzo scorso, nel pieno della terza ondata pandemica. Ma il suo green pass – che gli sarà necessario dal 6 agosto per circolare liberamente tra musei, ristoranti, eventi – è ormai quasi carta straccia: scadrà il 28 agosto e non sa a quel punto che cosa potrà fare. Considerando i guariti lo scorso marzo come riferimento, lo stesso problema dovrebbero averlo nel medesimo periodo più di 500 mila persone.

“Ricevo telefonate da molte altre persone che sono nella mia identica situazione e che non sanno come comportarsi”, dice Baglieri, che ha presentato una istanza a Giovanni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, e al vice del ministro Roberto Speranza, Andrea Costa. Vittima di un paradosso, ma Baglieri è solo uno tra i tanti, appunto. Cos’è accaduto? Il green pass per gli ex pazienti Covid ha una validità di sei mesi, non di nove come per chi ha completato il ciclo vaccinale. Ed è anche retrodatata perché scatta dal giorno in cui è stato effettuato il primo tampone molecolare risultato positivo: una disposizione prevista dal regolamento europeo sul green pass approvato il 9 giugno scorso. Significa che molti, tra i guariti, lo hanno ricevuto già prossimo alla scadenza. “E nessuno di noi ha elementi per ritenere che possa essere disposta una proroga”, aggiunge Baglieri.

Attualmente per chi ha contratto il virus, si è ammalato ed è guarito, è prevista una sola dose di vaccino. Fino al 20 luglio doveva essere somministrata dopo i primi tre mesi ed entro i 6 mesi dall’infezione. Poi Rezza ha firmato la circolare con la quale ha stabilito che “è possibile considerare la somministrazione di un’unica dose di vaccino anti Covid-19 nei soggetti con pregressa infezione da SarsCov2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita preferibilmente entro i 6 mesi dalla stessa e comunque non oltre 12 mesi dalla guarigione”. Trascorso un anno bisogna sottoporsi a un ciclo vaccinale completo. Ma tanti ex pazienti temono la vaccinazione perché presentano ancora una quantità di anticorpi specifici molto elevata. E più volte, recentemente, l’infettivologo Massimo Galli, direttore Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, ha sostenuto che “i soggetti guariti non dovrebbero essere vaccinati perché hanno sviluppato anticorpi e perché il vaccino potrebbe indurre effetti collaterali senza aggiungere molto alla loro capacità di difendersi”.

Dal ministero della Salute spiegano che non è possibile fare un distinguo tra chi ha un livello anticorpale basso e chi ce l’ha alto, “le norme non vengono fatte sui singoli casi”. Ma è lo stesso Baglieri a ricordare i risultati dello studio condotto a Vo’ Euganeo (epicentro dell’epidemia in Veneto nell’inverno/primavera 2020) dall’Università di Padova insieme all’Imperial College di Londra. Studio, coordinato dal virologo Andrea Crisanti, che ha dimostrato come nella quasi totalità dei guariti (il 98,8%) a nove mesi dal contagio siano ancora presenti anticorpi specifici contro il Covid a livelli significativi.

“Io voglio vaccinarmi – si sfoga Baglieri –, ma visto che l’arco temporale per la vaccinazione è stato portato a dodici mesi, in base anche all’evidenza degli studi scientifici, come è possibile assicurare a un’ampia platea di persone di non restare scoperta? Questo anche alla luce di quanto asserito dal virologo Massimo Galli, che ha suggerito l’inutilità vaccinale per le tante persone che si sono ammalate e fortunatamente sono guarite”.

Disastro tracciamento: hanno fallito quasi tutte le “Immuni” del mondo

Nonostante gli sforzi pubblici, Immuni, l’app di tracciamento contro il Covid, non ha avuto successo: secondo gli ultimi dati è stata scaricata solo dal 16,2% degli italiani, meno di uno su sei. La prima causa del suo fallimento è stato il timore per la privacy. Ma l’Italia non è il solo Paese che ha gettato la spugna: i sistemi di contact tracing non hanno sfondato nemmeno all’estero. Secondo uno studio dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore) su nove Paesi Ocse (Italia, Australia, Corea del Sud, Francia, Germania, Irlanda, Nuova Zelanda, Russia e Spagna), i software di tracciamento sono stati scaricati dal 26,6% della popolazione in Australia, 26,3% in Irlanda, 21,7% in Germania e appena il 3,3% in Francia: ben al di sotto della soglia di 60% di popolazione considerata necessaria.

L’utilizzo delle app come possibile soluzione alla diffusione del virus è stato spinto da molti Paesi nella fase iniziale della pandemia, sull’onda della speranza (rivelatasi un po’ naïve) che il pubblico si muovesse in questa direzione grazie alle garanzie di rispetto della protezione dei dati personali. Garanzie che, nei Paesi Ue, sono state rafforzate da una serie di principi fondamentali: volontarietà, interoperabilità, copertura normativa, specificazione delle finalità, minimizzazione, trasparenza, protezione, sicurezza e tempestività. Ma nonostante gli sforzi, le app di tracciamento non hanno sfondato. Lo dimostra l’analisi condotta da marzo a luglio e diretta da Margherita Russo, docente di Politica economica nel dipartimento “Marco Biagi”, e realizzata dagli studenti Claudia Cardinale Ciccotti, Fabrizio De Alexandris, Antonela Gjinaj, Giovanni Romaniello, Antonio Scatorchia e Giorgio Terranova, durante il loro tirocinio per la laurea triennale svolto a distanza a causa delle restrizioni per la pandemia.

“Le principali lezioni che abbiamo appreso da questa vicenda – spiega Margherita Russo – riguardano innanzitutto ‘il paradosso della privacy’: mentre i consumatori lasciano gratis con grande disinvoltura i loro dati digitali ai privati, non si fidano di cederli al settore pubblico. Il problema non è di protezione dei dati, ma di comprensione della finalità di protezione generale per la quale è stata chiesta la condivisione dei dati. La fiducia dei cittadini negli interventi pubblici e l’impegno per gli obiettivi sociali devono essere coltivati sin nei tempi normali per poter essere efficaci durante le situazioni di emergenza”.

“C’è poi la questione della scelta della tecnologia e dell’intreccio dei sistemi che l’attuazione di una politica pubblica deve considerare per migliorare l’efficacia di queste azioni. L’integrazione delle app con i software usati dal sistema sanitario non è stata portata avanti in nessun Paese e in Italia ha scontato anche i problemi del federalismo regionale. Digitale vuol dire immateriale ma non a costo zero: occorre investire in competenze, infrastrutture, sicurezza. Le vicende dell’attacco hacker contro la Regione Lazio ce lo ricordano amaramente”, conclude Russo.