Green pass: c’è l’obbligo per prof e trasporti, in dubbio gli alberghi

Domani entra in vigore la “prima ondata” di obbligo di green pass, ma restano i nodi di scuola e trasporti, di cui si discuterà oggi. È stata una vigilia di trattative, soprattutto politiche. Perché il nuovo decreto anti-Covid riguarderà l’obbligo del certificato per trasporti a lunga percorrenza e soprattutto per i docenti e il personale scolastico. Draghi si trova stretto tra la morsa del rigorista Roberto Speranza, che vorrebbe norme stringenti da subito, e Matteo Salvini che avrebbe voluto rinviare la decisione a fine agosto ed è contrario a qualsiasi obbligo. Un’opposizione netta: la Lega ha presentato un emendamento al decreto del 22 luglio per abolire il pass. Così, ieri pomeriggio, il premier Mario Draghi ha convocato Speranza, il coordinatore del Cts Franco Locatelli e il commissario per l’emergenza Francesco Paolo Figliuolo. Quanto la questione scuole sia delicata si evince dal fatto che quest’ultimo ieri ha chiesto formalmente alle Regioni di comunicare alla struttura commissariale il dato sui docenti immunizzati entro il 20 agosto.

Scuola.Il nodo centrale del decreto sarà la ripresa dell’anno scolastico. La volontà del governo è quella di far ricominciare le lezioni in presenza al 100% ma per farlo, come spiega un ministro, “servono misure immediate”. Non si arriverà all’obbligo vaccinale per i professori, ma la volontà del governo è quella di imporre il green pass per tutto il personale scolastico: al momento i docenti immunizzati sono l’85% (200 mila i non vaccinati). Non sarà previsto invece alcun obbligo per gli studenti. Ma la didattica a distanza non dovrebbe scomparire del tutto: se una regione dovesse entrare in zona arancione o rossa i governatori potrebbero decidere autonomamente di chiudere le scuole. Su questo fronte, resta la contrarietà della Lega a “qualsiasi obbligo” mentre Forza Italia e Pd sostengono la linea Draghi-Speranza. Nel mezzo, il Movimento 5 Stelle: ieri Giuseppe Conte ha avuto una call con il capo-delegazione Stefano Patuanelli, il ministro Luigi Di Maio e la sottosegretaria alla Scuola, Barbara Floridia, per parlare del nuovo decreto. La posizione è: “Green pass esteso per evitare l’obbligo vaccinale”. Va da sé che si tratta di un modo indiretto per imporlo l’obbligo.

Trasporti.Sul fronte dei trasporti la linea sembra tracciata: da inizio settembre entrerà in vigore l’obbligo del certificato verde per i mezzi a lunga percorrenza (aerei, navi e treni). Il nodo dei mezzi di trasporto locale (bus e metro) sarà affrontato in un prossimo provvedimento. Ma su questo tema, da più parti nel governo, c’è irritazione nei confronti del ministro Enrico Giovannini. “In sei mesi non è stato fatto niente”, è l’accusa. Ci si aspetta che a questo punto trovi delle soluzioni (dalla capienza massima in giù).

Turismo. La Lega, tramite il ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, invece chiede che il governo torni indietro (o nel decreto di oggi o nelle faq di Palazzo Chigi) su alcune misure già prese: l’esenzione del green pass per i minorenni (12-18), per gli alberghi e l’autocertificazione per bar e ristoranti. Qualcosa alla fine potrebbe ottenere per evitare l’astensione in Cdm. Anche se su questioni minori: il green pass per i minori pare blindato. “Fare le barricate, come il M5S sulla giustizia, qualcosa fa ottenere” dice il senatore della Lega Massimiliano Romeo.

Lavoro. Dopo le proteste dei sindacati è stato escluso l’obbligo del pass per i lavoratori.

Tamponi. Il governo inserirà anche prezzi calmierati per i tamponi: il costo dovrebbe essere intorno ai 6-7 euro, comunque sotto gli 8 euro per i minorenni.

Se è lecito

In un Paese senza bussola, ogni tanto è il caso di mettere i puntini sulle “i”. A cominciare da quel che si dice in giro del Fatto. Noi giudichiamo tutti in base alle cose che dicono e fanno alla luce delle nostre idee. Che sono piuttosto note e non usiamo cambiarle appena gira il vento. Ai blocchi di partenza, tutti i governi sono uguali (salvo quelli guidati da delinquenti): poi sono le loro azioni a fare la differenza. Questa è l’imparzialità: applicare le proprie idee a tutti. Il governo Renzi, da quel che diceva il premier nel 2014 (molto simile a ciò che dicevamo noi), partì sotto i migliori auspici. Poi fece l’opposto: Italicum, schiforma costituzionale, Jobs act, Buona scuola, norme pro-evasori e anti-magistrati, rilancio del Ponte sullo Stretto e altre porcate di B., inerzia sui crac bancari. Tutte cose che combattemmo perché erano l’opposto delle nostre idee. Il Conte-1 fece molte cose che reclamavamo anche prima che nascesse il Fatto: spazzacorrotti, blocca-prescrizione, reato di voto di scambio, Reddito di cittadinanza, Quota 100, blocca-trivelle, dl Dignità, analisi costi-benefici sulle grandi opere, taglio dei parlamentari e dei vitalizi, politica estera meno appiattita sugli Usa e più multilaterale verso Est, economia a forte presenza pubblica: applausi. Varò pure il mini-condono fiscale, la (il)legittima difesa e i decreti sicurezza: fischi.

Anche il Conte-2 fece molte cose buone, alcune riprese dalle battaglie del Fatto (e non viceversa): manette agli evasori, limiti al contante e incentivi alla moneta elettronica (cashback), fuori i Benetton da Autostrade, Green new deal; poi bloccò l’aumento dell’Iva, diede più soldi a sanità e istruzione, gestì bene pandemia e i ristori fino al miracolo del Recovery fund: applausi. Ma fece anche una Sblocca-cantieri spericolata e svuotò il reato di abuso d’ufficio: fischi. Ora c’è Draghi: sulla persona e sui trascorsi di banchiere europeo, nulla da dire. E sulla lotta al virus, applausi. Ma, oltre a riportare al potere B. e la sua banda più Salvini&C., ha fatto il condono fiscale, la sanatoria dei precari della scuola, una “riforma” della giustizia da far impallidire B. (anche se alla fine Conte ha evitato i danni peggiori), cancellato cashback e salario minimo, sbloccato i licenziamenti, ingaggiato i responsabili e gli ideologi dei disastri del passato (Brunetta, Gelmini, Fornero, Giavazzi e turboliberisti minori), riasservito l’Italia agli Usa, riesumato il Ponte, avviato politiche anti-ambientali, rallentato a suon di stop&go la campagna vaccinale, rimesso a tavola le lobby e ancora dorme sulla scuola. Perciò speriamo che duri il meno possibile. Non perché siamo vedovi di chi c’era prima: perché – parlando con pardòn, se è ancora lecito – non siamo d’accordo.

Il cinecocomero infinito: la Nona (miliardaria) di “Fast & Furious”

Uno dei franchise più munifici della storia del cinema – veleggia verso i sei miliardi di dollari – saluta il ritorno alla regia di Justin Lin, già al volante del terzo, quarto, quinto e sesto capitolo: Fast & Furious 9 (F9: The Fast Saga) si prende la rivincita sul Covid e incassa a oggi 625 milioni di dollari.

Dal 18 agosto nei nostri cinema, con anteprime fino a domani, sfreccia da Londra a Tokyo, dall’America a Edimburgo, dall’Azerbaigian a Tblisi, ma il movimento più importante è quello familiare: Dom Toretto (Vin Diesel) ritrova il fratello Jakob (John Cena) che aveva ripudiato, e lo rinviene dalla parte opposta della barricata. L’ordigno fine di mondo, Project Ares, ha l’innesco di un figlio di papà dittatore (Thue Ersted Rasmussen), il software della bella cyber-terrorista Cipher (Charlize Theron, c’è in ballo uno spin-off) e un’architettura satellitare: servirà un viaggio nello spazio, ovviamente in automobile, per scongiurare l’apocalisse, e al solito l’unione – Letty (Michelle Rodriguez), Romasn (Tyrese Gibson), Tej (Chris Bridges), Mia (Jordana Brewster), Ramsey (Nathalie Emmanuel) e una vecchia conoscenza… – farà la forza.

Lin è un tamarro d’alto bordo: con le macchine, da presa e non, ci sa fare. Non bastasse, al formato famiglia sa applicare una palette da soap opera non peregrina, il problema semmai è di scrittura: la sceneggiatura a quattro mani con Daniel Casey confeziona dialoghi imbarazzanti – su tutti la disamina di Star Wars della Theron – e non sa giostrare la componente shakespeariana, ovvero la vendetta fratricida dei Toretto. Meglio sgommare e menar le mani, e più non dimandare, ma dopo vent’anni – il primo Fast and Furious è del 2001 – è ancora sufficiente? Certo, l’ex wrestler John Cena oltre alla mascella e ai bicipiti ha un’utile fissità facciale; certo, Dame Helen Mirren ruba la scena con una sola scena; certo, le auto, dai giganteschi camion militari alla Dodge, fanno la loro rombante figura e, certo, Vin Diesel è il superhero in carne e ossa per antonomasia, e pazienza se la sceneggiatura gli sta stretta o, forse, gli chiede troppo. Insomma, tocca accontentarsi, di più, gioire di questa Nona che mette le telenovelas nel serbatoio, il Bardo nel motore e l’albero genealogico negli specchietti. Dopo il lockdown pandemico e il trionfo dello streaming, l’estate 2021 ha il suo blockbuster in sala: una derapata ci salverà.

Nell’antro della Sibilla: quel delirio selvaggio che sconvolse Dino

“Arrestato a Novara vieni a vedermi Campana”. Il telegramma venne inviato dalla città piemontese a mezzogiorno dell’11 settembre 1917. Ne furono spediti due: uno a un indirizzo di Milano, l’altro alla Pensione Alpi di Cà di Janzo, una frazione di Alagna Valsesia. Il destinatario era il medesimo: la poetessa e narratrice Marta Felicina “Rina” Faccio, nota nel mondo della letteratura come Sibilla Aleramo (Alessandria, 1876-Roma, 1960). Anche il mittente era lo stesso: il poeta Dino Campana (Marradi, 1885-Castel Pulci, 1932). In una testimonianza depositata nel 1950 all’Istituto Antonio Gramsci di Roma, e riportata nel libro di Dino Campana, a cura di Gabriel Cacho Millet, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, Sibilla racconterà che a Milano, in quel settembre del ’17, “là, all’Hotel Manin, ebbi un telegramma di Campana, da Novara, che mi supplicava di andarlo a visitare alle Carceri di quella città. Sgomenta, mi feci dare dall’avv. Gonzales una lettera di presentazione per il Procuratore del Re di Novara e accorsi. Campana era stato arrestato per vagabondaggio e insufficienza di documenti, ecc. Il suo aspetto l’aveva fatto prendere per un tedesco”. Proseguiva: “Ottenni di rivederlo attraverso le sbarre. Egli singhiozzava, mi chiamava Rina, Rina, mi baciava le mani fra i ferri. Fuggii. Ebbi dal Procuratore la promessa che sarebbe stato liberato. Qualche mese dopo seppi da Cecchi che era tornato in Toscana, e là rinchiuso in manicomio, dove morì 14 anni dopo”.

Fu l’ultima volta in cui Sibilla e l’autore dei Canti orfici si incontrarono. Anche se, come scrive Sebastiano Vassalli nel suo bellissimo libro su Campana, La notte della cometa, “secondo una leggenda fiorita negli anni Settanta, all’epoca della sua beatificazione da parte delle femniniste”, Sibilla “lo andò a visitare, irriconosciuta, fino alla morte nel 1932” di Dino nel manicomio di Castel Pulci, vicino a Firenze. Il loro amore bruciante e violento , fatto “di voluttà e di dolore”, come in un verso di La Chimera, una delle liriche di Dino, durò poco. Era cominciato nell’estate del 1916. “A Firenze, settimane prima – rievocò lei – avevo sentito parlare, forse da Franchi, di uno strano volumetto: Canti orfici, pubblicato in veste meschina a spese dell’autore Dino Campana. L’avevo portato con me in campagna. Lo lessi, ne rimasi abbacinata e incantata insieme, tanto che scrissi al poeta alcune parole d’ammirazione. Egli mi rispose, una bizzarra cartolina. Abitava anche lui in quel momento nel Mugello, nel suo paese nativo”. Vi fu “uno scambio epistolare, dopo di che ci incontrammo a Barco, un gruppetto di case a un valico dell’Appennino Toscano. L’amore divampò, in un delirio selvaggio. Campana era già pazzo, già stato rinchiuso due volte per qualche settimana in manicomio, ma io non volevo crederlo tale, e nei primi tempi, per tutto il mese anzi che passai con lui lassù, in una località detta Casetta di Tiara, egli fu, pur in mezzo a mille stravaganze, molto tranquillo, dolcissimo innamorato come un bimbo. Diceva di non esser più capace di scrivere, ma non pareva soffrirne. Progettava, per l’inverno, di impiegarsi, di lavorare, di vivere con me e per me. Eravamo felici. Scrissi Fauno. Ma appena sceso a Firenze, a settembre, incominciarono a manifestarsi segni gravi di squilibrio. Tutto il mio passato lo ingelosiva atrocemente”. Era un passato di molteplici passioni amorose. “L’elenco degli ex amanti d Sibilla – narra Vassalli – comprende già quasi tutta la letteratura italiana vivente, buona parte delle arti figurative, qualche rappresentante del teatro e un numero imprecisato di aviatori, cavallerizzi, rivoluzionari e banchieri”. Tra di loro quegli scrittori e quei critici, tra tutti Giovanni Papini, che non avrebbero mai compreso il genio di Campana, poeta puro, uomo dalle suole di vento come Arthur Rimbaud. Si conobbero, si amarono, esplose la follia, baci e botte. “Egli giungeva, ripartiva – ricorderà Sibilla – scriveva pentito, implorava perdono e amore. Giunsi ad un tale stato d’esaurimento e di panico, pur col cuore gonfio di pietà e di passione, che mi rifugiai, senza dargli l’indirizzo, presso un’altra amica mia ch’egli non conosceva. Gli scrissi supplicandolo di eseguire il progetto di recarsi in montagna, un luogo delle Alpi piemontesi ov’era già stato, mi pare, e là cercar di ritrovare salute e calma”. Così “finalmente fece, e io tornai alla stanza sull’Arno, ma ero disfatta da quei brevi eterni mesi di martirio. Passai tutto l’inverno così, squallidamente, attendendo le rade lettere di Dino, aggrappandomi alla speranza d’una guarigione che nel fondo di me stessa sapevo impossibile ormai”. Finì in quel settembre del 1917: Dino arrestato per vagabondaggio, Sibilla che lo fa liberare. Poi il silenzio di lei, le missive disperate di lui. Come quando le scrisse: “Ho sofferto in modo inumano. Voglio vedere Sibilla” (la lettera inedita è stata ora pubblicata nella splendida edizione dei Canti orfici dell’editore Tallone). Fino al manicomio, dove fu rinchiuso per sempre: “Manicomio di S. Salvi, Firenze, 17 gennaio 1918. Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo Dino”.

L’operaio di lettere. Pennacchi

Coppola e sciarpa rossa, sguardo scanzonato, lingua impertinente. Una figura inconfondibile nello stagno conformista della nostra narrativa. Antonio Pennacchi, morto di infarto ieri a 71 anni, incubo di tutti i suoi uffici stampa in Mondadori per il temperamento sanguigno (le sue partecipazioni televisive erano sorvegliate col batticuore per il timore di qualche battutaccia di troppo), non abbandonava mai le sue sigarette e un senso del dovere che aveva radici nella sua esperienza professionale. “Non è un piacere scrivere, ma dolore” era solito ribadire, memore dei suoi turni di notte alla Fulgorcavi.

Ha scritto i suoi libri con la stessa tenace abnegazione con la quale ha attraversato trent’anni di fatica e di sudore in una “fabbrica che ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie”. Un operaio, che si è fatto scrittore, lontanissimo dallo stereotipo dell’intellettuale borghese del generone romano, uno che è entrato nel salotto buono della letteratura dopo una vita esposta all’amianto. Nessuna via di fuga nel sottobosco editoriale a pietire collaborazioni e strapuntini. Pennacchi viveva della sua pensione di operaio e dei diritti d’autore.

Era riuscito a strappare al suo destino apparentemente inamovibile una laurea in lettere alla Sapienza, profittando di un periodo di cassa integrazione. Quando prova a misurarsi con il demone della scrittura non può che raccontare se stesso e la propria esperienza. Porta a termine una storia di lotte operaie e di rivendicazioni sindacali, mostrando la condizione dei lavoratori in tutta la loro impudicizia. “L’unico modo di conoscere me stesso è capire gli altri”, aveva affermato in un’intervista, quasi una dichiarazione di poetica, la traccia di tutta la sua narrativa.

L’esordio, Mammut, esce solo nel 1994 da Donzelli dopo avere collezionato la bellezza di 55 rifiuti. Non si arrende l’operaio diventato scrittore, consapevole che la verità del suo racconto saprà fare giustizia delle trame inverosimili di certa narrativa. Una tigna che lo ha portato a trionfare al premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini: la storia dei Peruzzi e dell’Agro Pontino, fino al 1930 un deserto paludoso malarico con continui flussi migratori, prima veneti, poi ferraresi e friulani che si mischiano e diventano un popolo che costruisce la città di Latina si lancia verso l’espansione del boom economico. Una saga proseguita con Canale Mussolini. Parte seconda e La strada del mare, uscito lo scorso anno e centrata sugli anni Cinquanta.

Aveva scelto di defilarsi, di diradare la sua attività pubblica, fedele alla sua vena fumantina: “Mi rifiuto di andare in quei teatrini, mi hanno rotto i coglioni”. Forse scontava la delusione di una certa marginalità dopo i fasti del Premio Strega. Successo che aveva redento le sue radici dimesse. Dopo un primo approccio con la destra, in contrasto con i fratelli, si avvicina al marxismo e partecipa alle contestazioni del Sessantotto.

Il suo Il fasciocomunista del 2003 (da cui il film Mio fratello è figlio unico di Luchetti, con Riccardo Scamarcio, Elio Germano, Luca Zingaretti et al.) racconta il suo stesso turbamento ideologico nella storia di Accio Benassi, che passa dal Movimento sociale italiano (Msi, ndr) a un gruppo maoista, con tanto di cameo di Pier Paolo Pasolini, col quale litiga dopo un passaggio in autostop.

New York choc: “Il governatore Andrew Cuomo un molestatore”

Andrew Cuomo “ha molestato sessualmente diverse donne, molte giovani, violando le leggi statali e federali”. Non solo: con “un chiaro abuso di potere, ha messo in atto delle rappresaglie contro chi ha provato a denunciare le molestie, creando all’interno dei suoi uffici un clima di paura e intimidazione”. Così stabiliscono le 165 pagine di conclusioni choc dell’indagine annunciate dal procuratore generale di New York, Letitia James, sulle accuse di molestie contro il governatore democratico. Si tratta di attuali ed ex dipendenti, così come di donne estranee all’amministrazione, come agenti di polizia, che Cuomo avrebbe “toccato in modo sgradito e non consensuale” o sulle quali avrebbe fatto “commenti di natura sessuale”. Il che avrebbe trasformato, secondo James, il gabinetto del procuratore in “un ambiente di lavoro ostile per le donne”, e “mentre allo stesso tempo normalizzava i frequenti flirt e i commenti di genere di Cuomo, ha contribuito alle condizioni che hanno permesso alle molestie sessuali di verificarsi e persistere”. In tutto a denunciare il governatore sono state 11 donne, ritenute credibili dagli investigatori Joon Kim e Anne Clark perché le loro tesi sono state confermate da più parti. Una delle accusatrici di Cuomo, Charlotte Bennett, ha inviato messaggi ad altre persone in tempo reale sulle sue interazioni con il governatore, mentre all’incidente con un’agente di polizia avrebbe assistito un collega che lo ha dunque confermato agli investigatori. Al contrario, “a mancare di alcuna credibilità” sono le smentite di Cuomo in quanto non coerenti con le prove raccolte”, hanno scritto Kim e Clark che hanno ascoltato per l’indagine 179 persone ed esaminato 74 mila prove, arrivando a dipingere un “quadro profondamente inquietante ma chiaro”. In tutto questo però, conferma una nota a piè di pagina del rapporto, questo non arriva alla conclusione “che la condotta sia o debba essere oggetto di un procedimento penale”. L’indagine sulle molestie sessuali è una delle tante che l’ufficio del procuratore generale dello stato ha avviato su Cuomo e sulla sua cerchia ristretta, mentre negli ultimi mesi si è scatenata una tempesta politica intorno al governatore, come le accuse sul Covid che hanno portato alla scoperta che la sua amministrazione ha sottostimato di circa il 50% le morti nelle case di cura. Quella sulle molestie sessuali, però, è la ragione che ha spinto il governatore a rinunciare alla corsa alla Casa Bianca nonché il suo stesso partito a voler chiedere l’impeachment e costringerlo così alle dimissioni e alla rinuncia al quarto mandato.

Minsk stringe il cappio. Vitaly e il club dei “suicidi”

Il corpo senza vita del dissidente bielorusso Vitaly Shishov è stato ritrovato ieri, con un cappio al collo, in uno dei parchi verdi di Kiev, una delle città divenute rifugio per gli oppositori in fuga dal regime di Minsk. “Il nostro Vitaly è morto, è difficile per noi parlare ora”. Lo riferiscono subito su Telegram gli amici che ne avevano denunciato la scomparsa alle forze dell’ordine ucraine lunedì scorso, quando Vitaly è uscito di casa per allenarsi nei dintorni di casa sua e per quella che è diventata l’ultima corsa della sua vita. I membri della Bdu, “Casa Bielorussia in Ucraina”, Ong che l’attivita guidava per aiutare nella logistica e sistemazione all’estero i dissidenti di Minsk che fuggivano oltre confine, ora accusano Lukashenko: “Non c’è dubbio che sia un’operazione dei suoi servizi segreti per liquidare quello che costituiva un vero pericolo per il regime”.

Una protesta nei pressi dell’ambasciata bielorussa nella Capitale ucraina si è tenuta ieri sera: la precedente, in città, l’aveva organizzata proprio “Vitalik”, il diminutivo usato dagli amici per quel ragazzo biondo che riusciva “a fare ironia perfino su chi lo pedinava”. Altre informazioni al Bdu non si sbilanciano a darle perché stanno ancora indagando. Shishov sapeva di essere seguito, ma soprattutto un suicida non organizza una giornata che non vivrà mai: “La sua agenda per il 9 agosto era già piena”, riferiscono dall’Ong. La polizia ucraina ha aperto un’inchiesta per “sospetto omicidio”, ma il cadavere del dissidente “è un segnale per tutti gli oppositori bielorussi che vivono in questo Paese”, una nazione dove le squadre del Kgb, servizi segreti di Minsk, sono libere di operare senza difficoltà, al contrario che in Lituania e Polonia, gli altri Stati in cui si sono rifugiati quanti sono sfuggiti alla lista di chi ha avuto per destino un cappio.

Come Vitaly, anche il giovane bielorusso Konstantin Shishmakov, direttore di un museo militare, è stato ritrovato “suicidato”. Galleggiava in un fiume a testa in giù in una foresta bielorussa il giorno dopo la chiusura delle urne dell’anno scorso, dopo essersi rifiutato di protocollare voti falsi per il presidente al potere dal 1994.

Alle manifestazioni di piazza scoppiate in quegli stessi giorni aveva preso parte il ribelle Nikita Krivtsov, 28 anni, poi rinvenuto mentre pendeva da un albero. Il marito di Kristina Tsimanovskaya – la velocista “minacciata di suicidio” ai Giochi di Tokyo dal Comitato olimpionico guidato dal figlio di Lukashenko a cui è stato garantito asilo in Polonia –, si trova ora a Kiev, dove nel 2016 è già stato ucciso, con una bomba nascosta nell’auto, il coraggiosissimo e pluripremiato Pavel Sheremet, giornalista che ha documentato gli abusi delle autorità bielorusse, ma aveva denunciato anche il presidente Putin e l’omologo ucraino dell’epoca, Petro Poroshenko.

Invece il cadavere di Oleg Bjabenin, fondatore del giornale indipendente Charter97 e addetto stampa di un candidato che sfidava Lukashenko alle elezioni del 2010, è stato rinvenuto con una corda al collo nella sua casa a Minsk. Tanti lividi sul corpo, proprio come Vitaly, e nessuna lettera d’addio. Qualche ora prima, però, Oleg aveva chiamato gli amici per andare insieme al cinema.

I Vaccini e noi, un popolo comprato col gelato

Il posto che il destino mi ha assegnato al desco domestico è tale per cui la tivù mi sta alle spalle. È la ragione per cui non mi sfuggono le notizie a differenza del viso, ed eventuale mimica, dello speaker che le legge. A volte tuttavia, con una mezza rotazione dell’asse cervicale, cerco di cogliere l’attimo del volto di colui o colei che occupa il monitor quando qualcosa di singolare viene offerto agli ascoltatori. Così è stato poche sere orsono quando nell’ormai estenuante bollettino su vaccinati e no, prime e seconde dosi, indici, appelli, eccetera, ho udito di varie iniziative mirate a spingere gli incerti a farsi vaccinare. Tra le quali, anche, l’offerta di un gelato. Mi sono stupito, non credevo che un tale omaggio potesse avere ancora tanta forza contrattuale. Anzi, lo credevo ormai sepolto negli anni della mia fanciullezza quando era regola ferrea tagliarsi i capelli a regolari scadenze e noi bambini, con altrettanta regolarità, subivamo l’offerta del detto gelato da parte di questo o quell’adulto che comperava così il nostro posto, evitando l’attesa. La notiziola di cui sopra, oltre ad avermi riportato alla memoria quei tempi, mi ha anche portato a una riflessione: accettavo, accettavamo, lo scambio per il guadagno di un gelato oppure ci mancava il coraggio di opporci alla richiesta di un adulto a cui, per educazione, si doveva sempre obbedienza? Il risultato era comunque scontato e talvolta, quando le cose andavano per le lunghe, non era raro, una volta tornati a casa, subire rampogne per la prolungata assenza. Una lavata di capo, insomma, su quegli stessi capelli da poco regolati. Mi illudo di poter ascoltare nei giorni a venire un’intervista a uno dei tanti incerti che si è lasciato convincere al vaccino mercè l’offerta di un gelato e non mi nascondo al pensiero che, se così poco raggiunge tanto risultato, significa probabilmente che è dura a morire in noi una cert’anima da “popolo bambino”.

Prepariamoci al “Pirocene”

Il fuoco corre nei boschi di Sardegna. Si propaga nelle steppe siciliane e travolge la Pineta Dannunziana di Pescara, minacciando case e polmoni – la nostra parte più vulnerabile.

Negli stessi giorni, in Yakutia siberiana gli incendi hanno percorso 1,5 milioni di ettari di boschi – un’area grande come la Calabria. E tra Oregon e California un singolo incendio innescato da fulmine, il Bootleg Fire, ha bruciato 160.000 ettari, un territorio oltre otto volte più ampio di quello bruciato nel Montiferru.

Dalla macchia mediterranea alle foreste artiche, l’estate 2021 certifica l’ingresso del nostro pianeta in una nuova epoca geologica, segnata dalle fiamme degli incendi boschivi e dalla combustione, più controllata ma altrettanto dirompente per la Terra, del carbone e del petrolio. L’epoca del Pirocene.

Come è possibile che ecosistemi così diversi siano colpiti dal fuoco simultaneamente su scala planetaria? Come stanno cambiando gli incendi? Quali minacce dobbiamo aspettarci? Come scongiurarle – o prepararci ad affrontarle? La pericolosità di un incendio sta nella sua capacità di propagarsi su un territorio ampio. Diamo un’occhiata allora alle statistiche sull’area percorsa dal fuoco, più eloquenti rispetto al mero numero delle accensioni.

I dati raccontano due storie tra loro opposte. Come tendenza media, l’estensione dei territori bruciati sta diminuendo da oltre trent’anni, sia in Italia che globalmente. Un effetto dei miglioramenti nelle strategie di spegnimento e nella formazione delle squadre antincendio. Ma la media non dice tutto. Ad aumentare sono infatti altri due indicatori, come suggerito nel rapporto Un paese che brucia pubblicato da Sisef e Greenpeace Italia nell’agosto 2020. Il primo è la variabilità: aumenta la probabilità di incendi estremi, la cui intensità e velocità di avanzamento superano le condizioni entro cui le squadre di spegnimento possono operare in sicurezza. L’abbiamo visto nel 2017 in Italia, nel 2018-2019 in California, nel 2020 in Australia: eventi con caratteristiche nuove e più pericolose, anche in territori “abituati” a vedere periodicamente il fuoco. Il secondo indicatore è la dipendenza degli incendi dal clima: in Italia, la forza della relazione fra la superficie bruciata e l’indice di predisposizione meteorologica agli incendi è aumentata del 35% in 15 anni. Significa che gli incendi sono sempre più influenzati dall’andamento meteorologico, in Italia come in Australia o in Siberia, che sta vivendo l’estate più secca degli ultimi 150 anni. Quando l’incendio si fa estremo, spegnerlo diventa molto difficile, oltre che costoso. Milioni di euro vengono spesi ogni anno in Italia per provare a spegnere incendi sempre più intensi e riparare ai loro danni.

Eppure anche per gli incendi, così come per le alluvioni, prevenire costerebbe dieci volte meno. Ma come è possibile prevenire il passaggio del fuoco? La narrativa tradizionale si concentra sugli incendiari (non chiamateli “piromani”: non serve invocare il disagio mentale per spiegare le accensioni illegali, criminose o involontarie, che insieme rappresentano il 95% degli inneschi in Italia). Per azzerare gli inneschi basterebbe estendere a tappeto la sorveglianza, con migliaia di uomini, telecamere o droni impiegati sul territorio? L’incendio della Pineta Dannunziana è partito da un canneto: possiamo sorvegliare, oltre ai 10 milioni di ettari di boschi nazionali, ogni metro quadrato di territorio infiammabile? Chiaramente no. Ma non tutto è perduto: l’innesco di un incendio e la sua propagazione sono due fasi radicalmente diverse – e la più pericolosa è la seconda.

Se non è possibile evitare tutti gli incendi – così come, per analogia, non sarebbe possibile evitare tutti gli incidenti stradali solo a suon di multe – si può invece prevenire la fase di propagazione. Nella analogia “stradale”, sarebbe l’equivalente di rendere più sicure strade e automobili. Le “strade” che permettono agli incendi di diffondersi sono solamente due: il clima e la vegetazione. Entrambi stanno attraversando enormi cambiamenti nel bacino mediterraneo. Qui, foreste e cespuglieti prendono rapidamente il posto di pascoli, coltivi, e terre marginali abbandonate e spopolate. Nel solo Bel Paese nascono sessantamila campi da calcio di nuovi boschi ogni anno: una diffusione invisibile per chi abita in città, ma ben percepita dal fuoco, il più grande erbivoro che esista, che può correre su nuove “autostrade verdi”, non più rallentato dall’antico mosaico di foreste, vigneti e campi coltivati, presidio scomparso del nostro territorio.

Secondo un recentissimo studio coordinato da Davide Ascoli dell’Università di Torino, in Italia le aree più colpite dal fuoco sono proprio quelle che hanno subito questa trasformazione. In presenza di una vegetazione più abbondante e continua, il fattore determinante diventa il clima.

Un clima che cambia rapidamente a causa nostra – e a casa nostra: in Italia il riscaldamento è due volte più veloce che nel resto del mondo, anche a causa dell’anticiclone africano, che ha sostituito quello delle Azzorre, precipitando la penisola in ondate di calore e siccità estive sempre più frequenti e prolungate. Vegetazione abbondante, continua, e disseccata: una ricetta perfetta per grandi incendi. Questo, e non i piromani, è il pericolo che deve essere al centro dell’attenzione e delle risorse pubbliche. Cosa fare allora? Se non possiamo fermare del tutto le fiamme negli anni di siccità estrema, possiamo però diminuire la loro velocità e il calore che sprigionano, in modo da facilitare il lavoro delle squadre antincendio, aumentare le chance di sopravvivenza degli alberi, accelerare la ripresa spontanea del bosco e dei benefici che ci offre, dall’assorbimento di anidride carbonica alla protezione dal dissesto. Il segreto è diminuire la quantità di vegetazione infiammabile e interrompere la sua continuità sul territorio. Si può fare con le piste tagliafuoco, con i diradamenti che aumentano lo spazio tra un albero e l’altro, con l’uso scientifico di una fiamma di bassa intensità per consumare parte della vegetazione morta infiammabile – il cosiddetto “fuoco prescritto”.

Non sono strategie fortemente impattanti: sappiamo come applicarle in modo “chirurgico”, selezionando con l’aiuto dei simulatori al computer i corridoi più frequentemente percorsi dalle fiamme. In questo modo, prevenzione antincendi e conservazione della biodiversità non saranno in contrasto, ma potranno essere applicate contemporaneamente, ognuna sui territori dove l’una o l’altra sono più urgenti. Una zonizzazione possibile grazie alla pianificazione forestale, da estendere a scala operativa su tutte le aree boscate italiane – oggi coperte solo al 20%. Sul lungo periodo, la prevenzione più efficace è invece sostenere l’economia rurale, mantenendo vivo il mosaico di territori boscati e coltivati. Un presidio capace di fondere la prevenzione antincendi con filiere economiche sostenibili e a chilometro zero. Esistono luoghi in Portogallo, Spagna e oggi anche in Val di Susa, in cui è possibile passare una sera d’estate attorno a un tavolo in legno, gustando un buon bicchiere di vino e un formaggio fresco, grazie al fatto che quel tavolo, quel vino e quel formaggio provengono da filiere territoriali che contribuiscono anche a prevenire gli incendi – utilizzando parte del legno che cresce nel bosco, mantenendo fasce a vigneto che fanno da barriera naturale al fuoco, pascolando gli animali per mantenere sotto controllo la componente erbacea e arbustiva, la più pronta a infiammarsi. Una gestione del territorio informata dalla scienza, sostenibile e attenta alle particolarità di ogni zona. Un investimento pubblico per trasformare l’abbandono e l’approccio emergenziale agli incendi in responsabilità e cura. Una “transizione ecologica” su vasta scala, che può coinvolgere da protagonisti tutti coloro che vivono e hanno a cuore il paesaggio italiano e la sua bellezza.

Bologna 1980, la strage e la “verità”

Nonno, cos’è la strage di Bologna? Nipotino mio, fu una bomba alla stazione che fece una strage spaventosa, 85 morti e oltre duecento feriti, ma perché me lo chiedi? Perché in tv il presidente Mattarella ha detto che l’impegno per la ricerca di una completa verità è ancora forte, anche se ci sono ancora ombre sui colpevoli. Dimmi nonno, li troveranno i colpevoli? Lo speriamo tutti, anche se è trascorso tanto tempo. Perché, nonno, quanto tempo è trascorso? L’altroieri sono 41 anni da quel 2 agosto 1980. Quarantuno anni??? Dài nonno, mi prendi in giro, possibile che dopo 41 anni ci sono ancora ombre sui colpevoli, come è possibile? È difficile da spiegare nipotino mio, vedi, mentre i buoni indagavano c’era sempre qualcuno che cancellava le prove. Ho capito nonno, a cancellare le prove erano i cattivi, quelli che avevano messo la bomba, ora mi è tutto chiaro. No, è più complicato, perché anche tra i buoni c’erano dei cattivi che aiutavano a farla franca i cattivi che avevano messo la bomba. Nonno, non ci capisco più niente. Neppure io, ma anche se può sembrare tutto così confuso, e dopo 41 anni forse anche inutile, dobbiamo continuare ad avere fiducia nella giustizia, soprattutto per onorare le vittime e per rispetto alle loro famiglie, che in tutto questo tempo non hanno mai mollato e hanno sempre continuato a chiedere verità e giustizia. Sì, nonno, è quello che ha detto Mattarella: verità e giustizia. Sì, nipotino mio, subito dopo lo scoppio anche Pertini chiese verità e giustizia. E poi anche Francesco Cossiga chiese verità e giustizia. E poi anche Oscar Luigi Scalfaro chiese verità e giustizia. E poi anche Carlo Azeglio Ciampi chiese verità e giustizia. E poi anche Giorgio Napolitano ha chiesto verità e giustizia. Nonno, scusa, tu che fai il giornalista mi sai dire chi ha messo la bomba a piazza Fontana? E quella a piazza della Loggia? E le bombe sui treni? E chi provocò la strage di Ustica, quella dell’aereo esploso. Sai, nonno, ho cercato su Wikipedia, ma non ci ho capito niente. Scusa nipotino mio, ma non so cosa rispondere, perché sono un po’ svanito, e anche un po’ stanco.