Il fuoco corre nei boschi di Sardegna. Si propaga nelle steppe siciliane e travolge la Pineta Dannunziana di Pescara, minacciando case e polmoni – la nostra parte più vulnerabile.
Negli stessi giorni, in Yakutia siberiana gli incendi hanno percorso 1,5 milioni di ettari di boschi – un’area grande come la Calabria. E tra Oregon e California un singolo incendio innescato da fulmine, il Bootleg Fire, ha bruciato 160.000 ettari, un territorio oltre otto volte più ampio di quello bruciato nel Montiferru.
Dalla macchia mediterranea alle foreste artiche, l’estate 2021 certifica l’ingresso del nostro pianeta in una nuova epoca geologica, segnata dalle fiamme degli incendi boschivi e dalla combustione, più controllata ma altrettanto dirompente per la Terra, del carbone e del petrolio. L’epoca del Pirocene.
Come è possibile che ecosistemi così diversi siano colpiti dal fuoco simultaneamente su scala planetaria? Come stanno cambiando gli incendi? Quali minacce dobbiamo aspettarci? Come scongiurarle – o prepararci ad affrontarle? La pericolosità di un incendio sta nella sua capacità di propagarsi su un territorio ampio. Diamo un’occhiata allora alle statistiche sull’area percorsa dal fuoco, più eloquenti rispetto al mero numero delle accensioni.
I dati raccontano due storie tra loro opposte. Come tendenza media, l’estensione dei territori bruciati sta diminuendo da oltre trent’anni, sia in Italia che globalmente. Un effetto dei miglioramenti nelle strategie di spegnimento e nella formazione delle squadre antincendio. Ma la media non dice tutto. Ad aumentare sono infatti altri due indicatori, come suggerito nel rapporto Un paese che brucia pubblicato da Sisef e Greenpeace Italia nell’agosto 2020. Il primo è la variabilità: aumenta la probabilità di incendi estremi, la cui intensità e velocità di avanzamento superano le condizioni entro cui le squadre di spegnimento possono operare in sicurezza. L’abbiamo visto nel 2017 in Italia, nel 2018-2019 in California, nel 2020 in Australia: eventi con caratteristiche nuove e più pericolose, anche in territori “abituati” a vedere periodicamente il fuoco. Il secondo indicatore è la dipendenza degli incendi dal clima: in Italia, la forza della relazione fra la superficie bruciata e l’indice di predisposizione meteorologica agli incendi è aumentata del 35% in 15 anni. Significa che gli incendi sono sempre più influenzati dall’andamento meteorologico, in Italia come in Australia o in Siberia, che sta vivendo l’estate più secca degli ultimi 150 anni. Quando l’incendio si fa estremo, spegnerlo diventa molto difficile, oltre che costoso. Milioni di euro vengono spesi ogni anno in Italia per provare a spegnere incendi sempre più intensi e riparare ai loro danni.
Eppure anche per gli incendi, così come per le alluvioni, prevenire costerebbe dieci volte meno. Ma come è possibile prevenire il passaggio del fuoco? La narrativa tradizionale si concentra sugli incendiari (non chiamateli “piromani”: non serve invocare il disagio mentale per spiegare le accensioni illegali, criminose o involontarie, che insieme rappresentano il 95% degli inneschi in Italia). Per azzerare gli inneschi basterebbe estendere a tappeto la sorveglianza, con migliaia di uomini, telecamere o droni impiegati sul territorio? L’incendio della Pineta Dannunziana è partito da un canneto: possiamo sorvegliare, oltre ai 10 milioni di ettari di boschi nazionali, ogni metro quadrato di territorio infiammabile? Chiaramente no. Ma non tutto è perduto: l’innesco di un incendio e la sua propagazione sono due fasi radicalmente diverse – e la più pericolosa è la seconda.
Se non è possibile evitare tutti gli incendi – così come, per analogia, non sarebbe possibile evitare tutti gli incidenti stradali solo a suon di multe – si può invece prevenire la fase di propagazione. Nella analogia “stradale”, sarebbe l’equivalente di rendere più sicure strade e automobili. Le “strade” che permettono agli incendi di diffondersi sono solamente due: il clima e la vegetazione. Entrambi stanno attraversando enormi cambiamenti nel bacino mediterraneo. Qui, foreste e cespuglieti prendono rapidamente il posto di pascoli, coltivi, e terre marginali abbandonate e spopolate. Nel solo Bel Paese nascono sessantamila campi da calcio di nuovi boschi ogni anno: una diffusione invisibile per chi abita in città, ma ben percepita dal fuoco, il più grande erbivoro che esista, che può correre su nuove “autostrade verdi”, non più rallentato dall’antico mosaico di foreste, vigneti e campi coltivati, presidio scomparso del nostro territorio.
Secondo un recentissimo studio coordinato da Davide Ascoli dell’Università di Torino, in Italia le aree più colpite dal fuoco sono proprio quelle che hanno subito questa trasformazione. In presenza di una vegetazione più abbondante e continua, il fattore determinante diventa il clima.
Un clima che cambia rapidamente a causa nostra – e a casa nostra: in Italia il riscaldamento è due volte più veloce che nel resto del mondo, anche a causa dell’anticiclone africano, che ha sostituito quello delle Azzorre, precipitando la penisola in ondate di calore e siccità estive sempre più frequenti e prolungate. Vegetazione abbondante, continua, e disseccata: una ricetta perfetta per grandi incendi. Questo, e non i piromani, è il pericolo che deve essere al centro dell’attenzione e delle risorse pubbliche. Cosa fare allora? Se non possiamo fermare del tutto le fiamme negli anni di siccità estrema, possiamo però diminuire la loro velocità e il calore che sprigionano, in modo da facilitare il lavoro delle squadre antincendio, aumentare le chance di sopravvivenza degli alberi, accelerare la ripresa spontanea del bosco e dei benefici che ci offre, dall’assorbimento di anidride carbonica alla protezione dal dissesto. Il segreto è diminuire la quantità di vegetazione infiammabile e interrompere la sua continuità sul territorio. Si può fare con le piste tagliafuoco, con i diradamenti che aumentano lo spazio tra un albero e l’altro, con l’uso scientifico di una fiamma di bassa intensità per consumare parte della vegetazione morta infiammabile – il cosiddetto “fuoco prescritto”.
Non sono strategie fortemente impattanti: sappiamo come applicarle in modo “chirurgico”, selezionando con l’aiuto dei simulatori al computer i corridoi più frequentemente percorsi dalle fiamme. In questo modo, prevenzione antincendi e conservazione della biodiversità non saranno in contrasto, ma potranno essere applicate contemporaneamente, ognuna sui territori dove l’una o l’altra sono più urgenti. Una zonizzazione possibile grazie alla pianificazione forestale, da estendere a scala operativa su tutte le aree boscate italiane – oggi coperte solo al 20%. Sul lungo periodo, la prevenzione più efficace è invece sostenere l’economia rurale, mantenendo vivo il mosaico di territori boscati e coltivati. Un presidio capace di fondere la prevenzione antincendi con filiere economiche sostenibili e a chilometro zero. Esistono luoghi in Portogallo, Spagna e oggi anche in Val di Susa, in cui è possibile passare una sera d’estate attorno a un tavolo in legno, gustando un buon bicchiere di vino e un formaggio fresco, grazie al fatto che quel tavolo, quel vino e quel formaggio provengono da filiere territoriali che contribuiscono anche a prevenire gli incendi – utilizzando parte del legno che cresce nel bosco, mantenendo fasce a vigneto che fanno da barriera naturale al fuoco, pascolando gli animali per mantenere sotto controllo la componente erbacea e arbustiva, la più pronta a infiammarsi. Una gestione del territorio informata dalla scienza, sostenibile e attenta alle particolarità di ogni zona. Un investimento pubblico per trasformare l’abbandono e l’approccio emergenziale agli incendi in responsabilità e cura. Una “transizione ecologica” su vasta scala, che può coinvolgere da protagonisti tutti coloro che vivono e hanno a cuore il paesaggio italiano e la sua bellezza.