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La malafede di alcuni colleghi giornalisti

Buongiorno direttore, stamane ho inviato un messaggio critico a Prima Pagina. Il conduttore Merlo ha dato una lettura fuorviante dell’articolo del bravo Salvatore Cannavò che con grande garbo ha “ripreso” il collega del Foglio. Lascia basiti che si strumentalizzi ogni cosa per mettere in cattiva luce a prescindere, il Fatto. Buona giornata e avanti così.

Franca Giordano

 

“La mia copia del ‘Fatto’ letta e regalata al bar”

Solitamente, la mattina, quando vado (o si va) a prendere il caffè al bar, all’interno, sui tavoli si possono leggere, o quantomeno dare una sbirciata ai titoli di alcuni quotidiani che il locale mette a disposizione dei clienti. Nella mia zona i quotidiani locali più diffusi sono: Il Corriere dell’Umbria, Il Tempo di Franco Bechis e Il Messaggero. Di fronte a cotanta, distorta e asservita informazione un piccolo, piccolissimo contributo. Prima passo in edicola, compro il Fatto, lo leggo e poi lo lascio sui tavoli del bar auspicando che, prima o poi, data la qualità dell’informazione, diventi il giornale preferito.

Sergio Grisanti

 

Riforma della Giustizia: non la chiede l’Ue

Caro Direttore, quando ai giornalisti di regime, come la De Gregorio l’altra sera su La7, insistono nel dire che la riforma della Giustizia ce la chiede l’Europa, sono molto attenti a non citare i documenti ufficiali nei quali sono indicate le richieste dell’Ue. Non riesco a trovarli, me li può indicare lei? Mi meraviglia anche che quanti (pochi) si oppongono alla riforma non chiedano proprio alla Cartabia di mostrare tale documentazione.

Paolo Petruzzi

 

Caro Paolo, non solo non esistono, ma la Corte di Strasburgo (vedi gli ultimi articoli di Davigo) ci ha ripetutamente chiesto l’opposto della schiforma Cartabia.

M. Trav.

 

Spazio all’impegno dei volontari italiani

Ci sono delle categorie sociali in questo paese poco considerate. Vorrei sottolineare il grande lavoro, impegno e passione di tanti ragazzi e ragazze che tutti giorni dentro le associazioni di volontariato danno un grandissimo contributo (vedi Misericordie d’Italia), Pubblica Assistenza e Croce Rossa. Le mattine iniziano presto con le persone anziane accompagnate in ospedale oppure trasferiti in altre strutture sanitarie. I codici rossi per emergenze, il grande impegno in questi lunghi mesi per il Covid e i vaccini. Una bellissima realtà della nostra Italia.

Massimo Aurioso

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo “Il video di Amara? Eni sapeva tutto”, a firma di Gianni Barbacetto e Antonio Massari, Eni tiene a precisare quanto segue.

1. Eni, prima del luglio 2019, non è mai stata in possesso della copia del video di Armanna del 28 luglio 2014, né della sua trascrizione integrale, ma solo di due pagine (incomprensibili e inutilizzabili ai fini della difesa) su 73.

2. Il video è stato registrato da Ezio Bigotti (e non da Amara), che usava registrare gli incontri che avvenivano presso la propria sede, alla presenza sua e dello stesso Amara. Gli stessi inquirenti dispongono di almeno un altro video a supporto di questo elemento fattuale. Non ci fu nessuna azione di Amara per conto di Eni volta a incastrare Armanna.

3. È oggettivo che il video dimostri l’esistenza di un piano di Armanna e Amara ai danni di Eni e dei suoi vertici, a fini di lucro personale. Piano da loro perseguito in altre occasioni successive (esistono prove inconfutabili e clamorose).

4. Il codice di procedura penale impone ai pm di ricercare anche prove a favore degli indagati, che nella fattispecie le avrebbero usate subito. Continuiamo (come il tribunale) a non comprendere perché questo non sia avvenuto. Sulla rilevanza del video ai fini della prova si è già espresso il Tribunale di Milano.

5. Sulle “qualità” di Armanna, si sono già espressi il Tribunale di Milano e la Procura generale presso la corte d’Appello di Milano. Infine, Vincenzo Armanna non venne licenziato dopo i fatti registrati nel video, ma diverso tempo prima per aver recato danni economici a Eni nella gestione delle proprie note spese.

Erika Mandraffino, ufficio stampa Eni

 

1. Sui contenuti dell’incontro videoregistrato (pur parziali, come l’articolo specifica), Eni ha addirittura chiesto un audit nell’estate 2018 alla Kpmg. La trascrizione integrale era comunque certamente a disposizione della difesa Eni (Casula) dal febbraio 2020.

2. È Amara (evidentemente d’accordo con l’amico Bigotti, che non era neppure presente a quell’incontro) a confessare di aver “avuto l’incarico di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo”.

3. Le affermazioni di Amara dimostrano oggettivamente soltanto l’intenzione di andare a raccontare la sua versione ai pm. Verità o calunnie? Tutto da dimostrare.

4-5. I pm, evidentemente, non hanno ritenuto il video (che neppure avevano a disposizione, essendo depositato in un’altra indagine) una prova a favore degli indagati.

G. B. e A. Mass.

Green pass. L’esperienza kafkiana di un turista, vittima dell’ottusità

Buongiorno, vi racconto cosa è successo a fine luglio all’aeroporto di Bari: episodio che ritengo molto grave e incredibile. Un turista straniero in Italia di nome Aivars (compagno di mia sorella ed entrambi residenti a Londra) aveva l’aereo prenotato regolarmente per martedì 27 luglio. Il giorno prima ha effettuato un tampone in una farmacia specializzata che gli ha rilasciato il Green pass in lingua inglese/italiano. Dopo aver superato in aeroporto tutti i controlli, al momento dell’imbarco, Aivars è stato bloccato da una operatrice di terra che gli contestava la regolarità del Green pass. Il motivo? Perché non era in lingua inglese! Incredulo, Aivars ha chiesto spiegazioni dato che il pass era chiaramente in inglese e l’operatrice gli ha fatto notare che la parola “negativo” non era inglese! Sempre più stupito, Aivars ha detto che era ininfluente – dopotutto, cambia solo l’ultima lettera (“negative”) – e ha richiamato la signora al buonsenso. Non c’è stato nulla da fare. Oltretutto, l’operatrice non ha applicato nemmeno la regola: il Green pass deve essere scritto per legge in una delle tre lingue tra inglese, francese e spagnolo, lingua in cui “negativo” si scrive come in italiano. Nulla, la donna non si è mossa dalla sua assurda posizione e, dopo un tira e molla, ha riferito al passeggero di andare a fare il tampone all’interno dell’aeroporto e che lo avrebbero aspettato. Aivars si è precipitato così a fare il tampone, ha pagato 30 euro extra e infine ha scoperto di essere rimasto a terra: aereo partito. Questo ha ovviamente ha comportato un disagio notevole, anche economico: sono dovuto andare a riprenderlo (150 km dista la mia residenza da Bari), ha dovuto effettuare una nuova prenotazione, pagare un altro aereo, ecc… E la polemica è proseguita il giorno successivo, quando ho accompagnato Aivars in aeroporto e mi sono rivolto io personalmente a uno sportello chiedendo spiegazioni su quanto accaduto il giorno prima. Insomma, quanto è accaduto è scandaloso: il fine è sconfiggere il virus o fare i burocrati? E se un passeggero avesse avuto la coincidenza per New York? E se qualcuno dovesse partire con urgenza per vedere un parente in fin di vita? E se qualcuno avesse difficoltà personali? E che figura ci facciamo con i turisti in vacanza in Italia, nonostante il Covid? Qualsiasi fosse il motivo della partenza, nessuno dovrebbe rimanere a terra così ingiustamente. Ho deciso così di scrivervi perché, spesso, grazie al vostro lavoro, si riesce a sensibilizzare l’operato di questi enti e a rendere un servizio ai cittadini.

Simon Faregna

 

I partiti al governo possono trovare un nome per il Colle

Ieri è iniziato il semestre bianco, ovvero l’ultima fase del mandato del presidente della Repubblica durante la quale il capo dello Stato perde il potere di sciogliere le Camere. Sul Corriere Marzio Breda ha raccontato le origini della norma pensata dai Costituenti come “antidoto in grado di rendere non praticabili tentazioni manovriere e di stampo autoritario da parte di un presidente, chiunque fosse. Il quale presidente, se le cose fossero invece rimaste come si era fino a quel momento previsto, avrebbe potuto esercitare pressioni o addirittura sbarazzarsi in anticipo degli inquilini di Montecitorio e Palazzo Madama, per far eleggere assemblee a lui più favorevoli e confidare magari in un secondo mandato”. Secondo mandato a cui invece il Corriere, esattamente come l’ultima volta con Napolitano e in buona compagnia della maggioranza dei commentatori, sembra guardare con estremo favore. Pazienza per le intenzioni dei Costituenti e pure per quelle del diretto interessato. Tutto purché si evitino “turbolenze politiche” che disturbino il governo impegnato nella ricostruzione del Paese. Eppure il conflitto politico – ormai completamente anestetizzato, e non da oggi – è un ingrediente fondamentale del sistema democratico.

Ma torniamo al semestre bianco. Perché si vuole abolire e perché è problematico? Il timore più diffuso è che in mancanza della mannaia dello scioglimento delle Camere i partiti facciano i capricci o che (ci siamo fatti il segno della croce prima di scriverlo) facciano cadere il governo. Preoccupazione in sé assurda visto che questo esecutivo ha una maggioranza larghissima, e quindi le singole forze politiche non pesano nulla o quasi. Detto ciò, è divenuta prevalente e pericolosamente condivisa una visione paternalistica secondo cui i partiti sarebbero scolaretti che vanno tenuti a bada dal maestro Mattarella, in modo che Mario Draghi possa compiere senza essere disturbato quelli che a leggere i giornali sembrano i miracoli del Pnrr. E vanno tenuti a bada whatever it takes, Costituzione compresa.

Mattarella dovrebbe quindi restare per permettere a Draghi di finire la legislatura dal momento che, a parte lo stesso Draghi, non ci sono altri possibili presidenti (senza dire che qualcuno si spinge ad auspicare un prolungamento del mandato dello stesso Draghi oltre la legislatura per consentire al suo esecutivo di portare a termine le riforme che sono state per ora soltanto approntate). Nessuno sembra preoccuparsi della gravità di queste tesi che affermano la prevalenza delle persone sulle regole: La Stampa si spinge a prefigurare un governo militare per paradosso o provocazione e lo fa perché il clima è quello ultimativo dell’ora grave. La sirena dell’allarme sempre accesa nelle orecchie dei cittadini serve a giustificare strappi istituzionali che però non sono dettati né da vere necessità né da urgenze. I partiti hanno sei mesi per confrontarsi sul nome di un capo dello Stato. Al tempo si aggiunga il fatto che stiamo parlando di partiti che stanno insieme al governo! Perché mai non potrebbero trovare un nome condiviso per il Quirinale in così tante settimane? In un sistema democratico, se è davvero tale, c’è sempre un’alternativa.

Non sono le istituzioni o le regole il problema: istituzioni e regole sono solo il capro espiatorio di una classe politica inetta, incapace perfino di difendere la propria onorabilità. Finirà come l’altra volta, con i partiti sculacciati e sbeffeggiati in aula? Speriamo di avere anticorpi sufficienti per evitarlo.

 

Sport e propaganda. La politica vuole sempre saltare sul podio coi campioni

Houston, abbiamo un problema. Cioè, come si sa, più d’uno, ma quello che è emerso nei giorni dei trionfi azzurri – calcio, atletica, coppe, medaglie – è così evidente che già è scattato il paradosso: abbiamo un problema con l’epica, la retorica, le parole per dirlo. Insomma, esageriamo un po’, ecco, niente di male, se non fosse che il linguaggio è abbastanza rivelatore, e quindi eccoci improvvisamente – a ondate – a cercare l’orgoglio nazionale dove si può e si riesce. Un oro nei cento metri piani è un vittoria pazzesca, così come un oro nel salto in alto: è comprensibile che siano medaglie che ci mettiamo un po’ tutti, e ci sentiamo migliori. Una gioia condivisa.

Lo dico subito: sfrondiamo la faccenda dalle cretinate politiche: che le medaglie e le coppe alzate dagli azzurri siano merito di questo o di quello, del nuovo rinascimento italiano (sic), di Draghi, del Paese che rialza la testa e altre amenità, fa parte di quella propaganda un po’ ridicola che percorre come un brivido dannunziano corsivi e commenti. La riscossa, la rinascita, grazie Draghi (ma quando si allena? Di notte?). Insomma, non è solo la risibile retorica dell’omaggio al capo (vinciamo perché c’è Lui) che si commenta da sé, ma proprio una difficoltà oggettiva di trovare parole misurate e credibili. Ecco invece il profluvio: dal glorioso manipolo, alla giornata storica, dai nostri gladiatori all’osanna che coinvolge tutto: vinciamo e quindi siamo un Paese vincente – finalmente! Era ora! – equazione banalotta e facile, che sembra piacere a tutti.

Può darsi, naturalmente, che i successi sportivi facciano bene a chi comanda: si ricorda il mondiale argentino del 1978, quando una delle dittature più feroci del dopoguerra si costruì la sua vetrina, e questo senza bisogno di tornare alle Olimpiadi del ’36. Insomma, non voglio esagerare nemmeno io, ma che lo sport sia motore di propaganda non è certo cosa nuova, il tentativo di saltare sul podio insieme ai campioni per prendersi dei meriti senza aver sudato nemmeno cinque minuti è un classico di ogni tempo.

Resta il fatto: ciò che rimproveriamo alla vita politica e al dibattito pubblico, cioè di essere dominati dalle tifoserie, di essere orgogliosamente anti-oggettivi, si riflette perfettamente nelle cronache sportive. Il fallo di un nostro giocatore è un fallo, quello dell’avversario è un attentato terroristico che “voleva fare male”. Gli altri vincono, noi trionfiamo. Gli altri sono bravi atleti, i nostri sono mostri, giganti, immensi gladiatori, e via così, in un’ordalia verbale in cui si sprecano parabole belliche, retoriche nazionaliste, narrazioni trionfali dove l’epica è costruita lì per lì, a volte addirittura attribuita a poteri superiori e disegni celesti. Non siamo lontani, in certe cronache che debordano dalle pagine dello sport, dal vecchio “Dio è con noi”. Corre più forte, salta più in alto, para i rigori, una specie di popolo eletto per interposto atleta.

Così si corre il rischio, sfuggendo al coro unanime, di passare per rosicatori anti-italiani se ci si colloca in un ragionevole mezzo tra la gioia collettiva per la vittoria e la retorica sul riscatto nazionale: o si accetta tutto il pacchetto (vinciamo perché siamo un Paese migliore, più unito, pronto finalmente alla ripartenza) oppure si finisce nel limbo dei disfattisti, equazione irricevibile per chi ancora riesce a vedere le dimensioni delle cose. Tipo: hurrà per le medaglie, evviva, ma scambiarle per riscossa etica, morale, politica, economica, sociale, non sarà un po’ troppo?

Così il primo grado sarà eterno: effetto Cartabia

Nel pieno del feroce dibattito sulla riforma del processo penale, sulla cui utilità avrei francamente molti dubbi, ci mancano le magistrali lezioni di due grandissimi giuristi che ci hanno lasciato: Stefano Rodotà e Franco Cordero. I Maestri, ne sono certo, non si sarebbero sottratti al dibattito e, anzi, avrebbero fornito contributi sicuramente utili a comprendere portata e limiti delle nuove disposizioni contenute in uno o più maxi-emendamenti al disegno di legge delega su cui il governo ha chiesto la fiducia. Attenderemo fiduciosi i decreti legislativi di attuazione nella speranza che essi non debbano esser sottoposti al vaglio della Corte costituzionale (in larga parte ancora composta da colleghi dell’attuale ministra della Giustizia e del professor Cassese, quest’ultimo fra i supporter più convinti della riforma).

Non mi intendo di processi penali, avendo dedicato una vita allo studio del diritto pubblico (tanto interno, quanto comparato), tuttavia non mi è affatto sfuggito che la riforma, per una strana e originale eterogenesi dei fini, nel tentativo di rispondere, forse in maniera un po’ sgangherata all’idea di far durare meno i processi penali, finisce con l’intaccare pesantemente il principio dello ius puniendi: si tratta del potere attribuito allo Stato di infliggere punizioni, per imporre la propria volontà sui cittadini e sanzionarne i comportamenti contrari all’ordinamento giuridico. Pare che la potestà punitiva si esaurisca (o degradi in improcedibilità) con il semplice trascorrere di un tempo processuale. Non mi soffermo sulla bontà della scelta per la quale manifesto le medesime perplessità di Gian Carlo Caselli e Nicola Gratteri, ma segnalo che una delle più ovvie conseguenze sarà quella di avere processi di primo grado infiniti (in considerazione della sospensione della prescrizione contenuta nella riforma Bonafede) per il solo fatto di “evitare” punti di debolezza contestabili in appello o in Cassazione: in altri e più concreti termini, potremmo assistere, fatte le debite differenze, a comportamenti simili alla “medicina difensiva”, nota agli addetti ai lavori, che nel tentativo di evitare procedimenti civili risarcitori, ordina al paziente un ventaglio di esami di laboratorio così ampio da escludere ogni tipo di patologia, anche prestazioni “a rischio” del tutto non necessarie o quantomeno avulse da ogni ipotesi diagnostica. Così il giudice di primo grado, nel tentativo di evitare l’improcedibilità in appello o in Cassazione, celebrerà un processo di primo grado così zelante e pignolo da provocare, irrimediabilmente, un infinito allungamento dei tempi! Nella riforma è contenuta una disposizione che appare in netto contrasto con la Costituzione, segnatamente con il suo art. 112: mi riferisco alla possibilità che il Parlamento con proprio atto (di che natura?) possa “indicare” i reati che prioritariamente le Procure dovrebbero perseguire sul territorio di competenza. Gli studenti universitari sanno che l’obbligatorietà dell’azione penale è disposizione che dà attuazione al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 e che la ragione della sua adozione – basterebbe al riguardo andare a leggere gli atti dell’Assemblea costituente – risiede nella necessità che lo ius puniendi sia egualmente applicato, indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione e, soprattutto, condizione economica e sociale. So bene che oggi l’obbligatorietà dell’azione penale non è effettiva, ma questo non significa che la si debba “rimuovere” con un provvedimento del Parlamento; basterebbe renderla effettiva raddoppiando l’organico della magistratura, sanando una volta per tutte, la scandalosa situazione della magistratura onoraria (caricata del lavoro più ignobile, mal pagata e priva d qualsivoglia tutela lavorativa e previdenziale), riformare l’organizzazione interna del ministero (non ho mai compreso, per esempio, le ragioni che impediscono ai dirigenti generali di altri ministeri di ricoprire il medesimo incarico al ministero della Giustizia), separare nettamente, in ogni Palazzo di Giustizia, le attività dei magistrati da quelle dei dirigenti e del personale amministrativo, prevedendo che siano questi ultimi a gestire l’organizzazione e non i magistrati che dovrebbero essere coinvolti esclusivamente nelle questioni di loro competenza, non consentire ai magistrati incarichi diversi da quelli istituzionali (mi riferisco, per esempio, alle docenze universitarie, alle Commissioni tributarie, ecc.) che finiscono per “diminuirne” la produttività. Evidentemente questo governo ha pensato che ridurre (o quasi azzerare) il numero dei procedimenti penali pendenti in appello e in Cassazione sia un ottimo viatico per evitare critiche in Europa e per ottenere facilitazioni e denari di cui si sente un gran bisogno, con buona pace della Costituzione e delle vittime dei reati (o delle loro famiglie).

 

Il genocidio degli Uiguri, la propaganda cinese, i bigotti e gli eco-fascisti

Il quotidiano israeliano Haaretz ha smontato il documento di propaganda cinese (Xinjiang: capire la complessità, costruire la pace) che Beppe Grillo ha sciaguratamente controfirmato e pubblicato sul suo blog qualche giorno fa. In quanto abbonato ad Haaretz, l’ho letto nella sua integrità, calamitato fin dal titolo: “Ecco i nuovi alleati neo-fascisti della ‘progressista’ Grayzone nel negare il genocidio degli Uiguri”. Il documento, scrive Alexander Reid Ross (che è un esperto delle nuove destre internazionali, fra cui gli eco-fascisti: cfr. bit.ly/3CanM3v), è “revisionismo sgangherato” che respinge le accuse di atrocità cinesi (genocidio e campi di concentramento, come evidenziano due inchieste monumentali, uscite la settimana scorsa, dell’Associated Press e del team di BuzzFeed che ha vinto il Pulitzer), e diffama gli attivisti uiguri, accusandoli di sostegno al jihadismo. 28 pagine del rapporto farlocco sono un riassunto pettinato di storia dell’Asia; le altre 10 riguardano la detenzione di massa e la “lotta al terrorismo”. Il dettaglio rivelatore dell’intera operazione è la citazione iniziale di Lev Gumilev, un antropologo alle cui teorie etniche si ispira il fascista russo Alexandr Dugin: non a caso, fa notare Reid Ross, il documento è stato promosso dal Centro studi Eurasia e Mediterraneo (CeSE-M), un think tank nato dal network di Claudio Mutti, un “nazi-maoista” che combina il neo-fascismo a idee di estrema sinistra (secondo la lezione di Franco Freda: bit.ly/3ftl3bN), e organizza eventi con Dugin. Qui una scheda dettagliata su Mutti: bit.ly/3ilvMa9. Chi non sa dell’esistenza di queste terze posizioni cade in dissonanza cognitiva quando quelli di CasaPound vanno in piazza con i no-vax lamentando di essere discriminati come gli ebrei; o quando Aaron Maté, del blog apparentemente “di sinistra” Grayzone, esalta il rapporto CeSE-M definendolo la prova che le accuse di genocidio sono una bugia “di moda”. Il rapporto propagandistico filo-cinese controfirmato e pubblicato da Grillo ripete, sui campi di detenzione, gli stessi argomenti usati spesso da Grayzone, sottolinea Reid Ross. Maté ha anche retwittato il tweet dove Regina Ip Lau Suk Yee, presidente del Consiglio legislativo ed esecutivo di Hong Kong, descrive le accuse di abusi cinesi come fabbricate negli Usa per ottenere vantaggi geo-politici. I media cinesi a loro volta danno risalto ai post di Grayzone. La bugia-chiave del rapporto farlocco è che le accuse si basino sulle ricerche di Adrian Zenz, un professore tedesco che Maté definisce “favolista bigotto”: non è vero, ma Zenz, che ha scritto qualche articolo sullo Xinjiang, è un cristiano “di destra”, premessa ottima per l’argomento del fantoccio usato da chi vuole sconfessare le accuse del genocidio contro gli uiguri con malizia. L’altra fallacia classica è smentire la verità di tutte le accuse adducendo le inconsistenze di due testimoni: ad avvalorare le accuse, invece, ci sono innumerevoli testimonianze (bit.ly/2WEXx51), immagini satellitari (bit.ly/3ik2rwM), visite nei campi di detenzione (bit.ly/37f6ioD), documenti interni del partito comunista cinese (nyti.ms/2V9ZyWJ), statistiche (bit.ly/3ysHJk8) e milioni di file della polizia cinese (bit.ly/3ynYCwf). Date un’occhiata, per favore, a tutti i link che ho indicato, perché la cazzata di Grillo stavolta è così grossa da essere inqualificabile. Dirà di nuovo che stava scherzando?

Ultim’ora. *Il trattamento umano nelle carceri italiane “un caso isolato”, rassicura la ministra Cartabia.

*Benzina, prezzo record: 1,655 euro al litro. Colpa della nuova accisa sul caldo record.

*Crisi ambientale. “Il mondo sta finendo l’energia eolica”, dicono gli esperti.

 

La successione al Quirinale e la trappola per il leader Pd

Complici i nuovi, dirompenti guai di Mps, la battaglia per il collegio elettorale di Siena (Camera) rischia di trasformarsi in una trappola mortale per Enrico Letta, tornato alla politica come segretario del Pd. C’è infatti uno strano clima attorno all’ex premier. Le varie correnti dem già si attrezzano per la successione, nell’ipotesi di una sconfitta che suonerebbe come la bocciatura definitiva del leader democratico. Senza dimenticare, ovviamente, l’incognita “pokerista” del solito Renzi, sempre lesto a sabotare il suo ex partito. Ed è per questo che si scrive Siena e si legge anche Quirinale, nel senso dell’elezione del prossimo capo dello Stato nel febbraio 2022. Oggi come oggi, la poltrona di segretario del Pd conta soprattutto in funzione di questa scadenza. Sarà dunque Letta junior a dare le carte per conto dei dem oppure no?

La domanda rimbalza in questi giorni di manovre agostane, tra “sondaggi” e previsioni, per il Grande Gioco del Colle. Le quotazioni di Marta Cartabia sono in netto ribasso dopo il disastro dell’ex Salvaladri e simmetricamente stanno crescendo quelle di Pier Ferdinando Casini, parlamentare da trentotto anni e fatto eleggere senatore nel 2018 a Bologna dall’allora Pd renziano. In caso di impasse tra Draghi e il Mattarella bis, Casini può diventare il vero candidato di Sistema, in grado di compattare la nuova destra renzian-salviniana con l’aggiunta del “suo” Pd, isolando così gli odiati pentastellati di Conte. Ecco perché fa gola la poltrona di Letta, che sulle alleanze invece si pone nella continuità giallorosa di Zingaretti. Peraltro nella battaglia tra Siena e Quirinale, giova ricordare una coincidenza: nel 2017, Casini fu presidente della commissione Banche volute da Renzi ed evitò di convocare, proprio sul caso Mps, l’attuale premier. Qualche credito potrebbe vantarlo.

SuperMario moralizza e abolisce le vacanze

Udite udite: vacanze proibite nell’èra Draghi. Lo scrive proprio lui, il zelante Marcello Sorgi, editorialista della Stampa: il nostro santissimo premier è troppo impegnato – salva il Paese, rilancia l’economia, spezza le reni al virus, vince Europei-Olimpiadi-Universiadi – per lasciarsi sfiorare dall’idea di prendersi qualche giorno di ferie. No, SuperMario non va in vacanza. E ha imposto questo regime marziale anche alla sua squadra: “Quest’anno – scrive Sorgi – nessuno dei ministri sa ancora quando e per quanto potrà staccare: chi ha chiesto, non ha trovato risposta da parte di Draghi. Il quale Draghi, ovviamente, ritiene che in un anno eccezionale come quello che stiamo vivendo l’idea stessa di vacanza, nel senso di allontanamento, distacco, pausa prolungata, non abbia senso”. Addio Casta, addio ozio dei potenti: il Santo ha lavato vizi e peccati della classe politica. D’altra parte – come già ci aveva ammonito Sorgi – dopo di lui non ci restano che i militari. “In un anno così, fermarsi è quasi impossibile. Chi si ferma è perduto”. E il governo Draghi non fa più fermate neanche per pisciare.

Hacker, attacco nazionale. I pm: “Ipotesi terrorismo”

Un attacco alla sanità italiana che solo per un caso è stato “limitato” al Lazio. Ne sono convinti gli investigatori della Polizia postale, che stanno ricostruendo le modalità con cui gli hacker con Ip russo la notte fra sabato e domenica hanno messo ko il sistema informatico della Regione guidata da Nicola Zingaretti. E infatti la Procura di Roma ieri ha aggiornato con l’aggravante della finalità di terrorismo il fascicolo già aperto per accesso abusivo al sistema informatico e tentata estorsione. Fonti della Postale riferiscono al Fatto che i “pirati” sono entrati “bucando” il sistema di un’importante società di servizi informatici, la Engineering Spa, partner – per i database sanitari, ma non solo – di una gran parte degli enti locali nazionali, dalle regioni Veneto e Lombardia passando per il comune di Milano. Secondo gli investigatori, attraverso la Engineering (che ovviamente è estranea ai fatti se non come parte lesa), gli hacker avrebbero carpito le credenziali del dipendente di LazioCrea in smart working a Frosinone, facendo penetrare il virus RansomEXX nella rete regionale e andando a criptare perfino i backup. In realtà lunedì il Cyber Security Officer di Engineering, Marco Tulliani, ha respinto su tutta la linea la pista investigativa, inviando una nota ai clienti del gruppo dove conferma sì il tentato accesso abusivo, datato 30 luglio, ma dove afferma che “tutte le analisi e gli approfondimenti effettuati escludono una correlazione tra quanto descritto e gli eventi che riguardano la Regione Lazio”.

In attesa di saperne di più, gli enti locali e le società private associate di tutto il Paese sono al lavoro per un’operazione di bonifica delle Vpn (reti locali). “Se le indagini evidenziassero qualche collegamento tra Engineering e l’attacco alla Regione questo dovrebbe essere subito notificato al gruppo per limitare possibili propagazioni e non lo hanno fatto”, ha ribadito ieri l’ufficio stampa dell’importante gruppo informatico.

Al momento, l’archivio della Regione Lazio è totalmente bloccato. “Ci vorranno degli anni per liberare quei file”, avrebbe detto in sostanza ieri la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, durante l’audizione presso il Copasir. Anche perché “è stato criptato anche il backup dei dati”, come spiegato ieri a Italian Tech dall’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, contraddicendo quanto sostenuto il giorno prima dal governatore Zingaretti. L’unico modo per recuperare milioni di file criptati, secondo molti esperti, è quello di pagare il ransom, il riscatto, appunto. Come ha fatto lo scorso maggio il colosso americano Capitol Oil, che ha pagato ai pirati la bellezza di 5 milioni di euro. “Lo Stato non tratta”, avrebbe detto con forza Lamorgese durante l’audizione al Copasir, mentre l’intelligence ovviamente sta monitorando le mosse degli hacker.

Intanto oggi alle 14, il capo del Dis dei Servizi segreti, Elisabetta Belloni, sarà anche lei al Copasir per riferire anche su questo punto. Audizione che tra l’altro coincide con l’arrivo al Senato del decreto sulla Cybersecurity, che prevede l’introduzione di un’Agenzia di Sicurezza Cibernetica. C’è forte preoccupazione anche per un eventuale effetto domino, ossia la possibilità che a questo attacco ne seguano altri magari presso diverse Istituzioni.

La Polizia postale, dal canto suo, in queste ore sta percorrendo due strade alternative, entrambe impervie. La prima è quella di provare a trovare traccia degli archivi in un “centro di elaborazione dati secondario”. La seconda, muoversi con le fonti e gli informatori nel dark web – proprio come avviene con le investigazioni nel “mondo reale” – per provare a rimediare, in qualche modo, il decripter, ovvero la “chiave” che permetterebbe di togliere il lucchetto ai file. Archivi che contengono ogni genere di informazioni: le cartelle cliniche, le certificazioni, gli incartamenti per le richieste di finanziamento dei progetti e perfino i report sui pagamenti del bollo auto. “Siamo in guerra, come sotto un bombardamento. Si contano gli edifici che stanno in piedi e quelli che sono crollati”, ha detto sempre ieri D’Amato.

Il problema è che il “bombardamento” sembra essere ancora in corso. Ieri la Regione Lazio ha inviato una nota in cui spiega che “i sistemi informatici hanno subito e respinto l’ennesimo attacco hacker”. E se entro la fine della settimana potrebbero riprendere le prenotazioni per i vaccini – attraverso un portale reimpostato ex novo – è grave la situazione in relazione alle prenotazioni delle visite mediche ordinarie. Rallentate le prenotazioni per le visite specialistiche e diagnostiche ambulatoriali, ma anche gran parte dei servizi extra-sanitari collegati, con lo stop alle prenotazioni di esami ematici, allergici, biopsie, indagini endoscopiche, radiologiche o strumentali come Tac e risonanze magnetiche. Il risultato è che in molte strutture sanitarie e Asl del Lazio – per fortuna non tutte – da domenica sono fermi Cup e Recup del sistema sanitario regionale.

Modena, operaia uccisa da un macchinario. Lascia bimba di 4 anni. Indaga la Procura

Un’operaia 40enne, Laila El Harim, è rimasta incastrata in un macchinario e ha perso la vita. Laila lavorava da pochi mesi in un’azienda che si occupa di packaging e lavorazione della carta, alla Bombonette di Camposanto, in provincia di Modena. Tra i suoi compiti, anche quello di gestire una fustellatrice, strumento sagomatore in grado di intagliare in modo preciso molti materiali. Proprio da quel macchinario i Vigili del Fuoco e i soccorritori l’hanno estratta dopo l’incidente, quando ormai era troppo tardi. La donna sarebbe morta sul colpo. In Italia da diversi anni, Laila El Harim, lascia una bambina di 4 anni e il compagno. Sul caso la Procura di Modena ha aperto un fascicolo per omicidio colposo e il macchinario è stato sottoposto a sequestro. Saranno svolti accertamenti in relazioni alle condizioni di sicurezza sul lavoro. Sempre nel Modenese, a Ubersetto di Fiorano, un uomo di 67 anni è morto in seguito a una caduta, che pare essere avvenuta a causa del cedimento della copertura del suo capannone industriale. Secondo una prima ricostruzione dell’accaduto, l’uomo si trovava sul tetto per verificare che il capannone non avesse subito dei danni a causa del maltempo. Se le dinamiche di entrambi gli incidenti restano ancora da chiarire, quello che invece è ormai chiaro è il numero crescente delle morti sul lavoro. Secondo l’Inail le morti bianche sono in aumento: nel 2020, gli infortuni con esito mortale sono stati 1.270, il 16,6% in più dell’anno precedente, per una media di 3,47 morti al giorno (un decennio fa i morti restavano sotto quota 1000). Nei primi trimestre del 2021, le denunce di infortunio mortale sono state 185, 19 in più rispetto al primo trimestre del 2020 (+11,4%). Dati che sembrano trovare conferma nella cronaca: un mese fa un operaio di 56 anni è morto all’interno di uno stabilimento di trattamento dei rifiuti nel cagliaritano; a Mondello un operaio è deceduto dopo una caduta dal ponteggio sul quale stava lavorando. Lo scorso maggio un operaio meccanico di 49 anni è rimasto schiacciato tra gli ingranaggi di un macchinario con cui lavorava, proprio mentre l’aula del Senato osservava un minuto di silenzio per ricordare Luana D’Orazio, l’operaia tessile di 22 anni che qualche giorno prima subì la stessa sorte. E l’elenco delle morti sul luogo di lavoro, purtroppo, potrebbe continuare.