Per due anni e rotti si è difeso con le unghie e con i denti dato il rischio di uscire con le ossa rotte dalla vicenda delle nomine al vertice della Procura di Roma decise a cena all’hotel Champagne insieme a Palamara&C. Ma adesso Cosimo Maria Ferri, magistrato eletto nelle file di Italia Viva, rischia grosso perché il Csm ha chiesto alla Camera di poter utilizzare le intercettazioni agli atti dell’inchiesta di Perugia (dove non è indagato) per definire il procedimento disciplinare che potrebbe costargli comunque la carriera. Questa mattina la Giunta della Camera inizierà a esaminare la richiesta di Palazzo dei Marescialli prima di decidere se dare semaforo verde o accordare al deputato di Italia Viva lo scudo dell’immunità. Che Ferri invoca ritenendo che siano state violate le sue prerogative di parlamentare: le captazioni che lo riguardano ottenute con l’impiego del trojan installato sul cellulare di Palamara, a suo dire, non sarebbero state affatto casuali. E dunque inutilizzabili anche nel procedimento disciplinare. Il collegio del Csm che si è rivolto alla Camera le ritiene rilevanti e anzi “indispensabili per l’accertamento della sussistenza dell’addebito formulato nelle incolpazioni”. Ma di cosa è accusato Ferri? Di esser tra l’altro venuto meno ai doveri di correttezza ed equilibrio di magistrato (benché fuori ruolo per mandato elettorale) per aver brigato per la successione alla poltrona di Giuseppe Pignatone insieme a cinque togati del Csm, ma anche insieme a soggetti estranei alle funzioni del Consiglio superiore e con un diretto e personale interesse a quella nomina: ossia Palamara (che ambiva alla poltrona di aggiunto sempre a Roma) e Luca Lotti anche lui deputato (e già ministro renziano) sulla cui testa, all’epoca dei fatti, pendeva una richiesta di rinvio a giudizio proprio dalla Procura di Roma. Ferri è incolpato per il suo comportamento “idoneo a influenzare, in maniera occulta, la generale attività funzionale dell’organo di autogoverno”: avrebbe fornito un contributo “consultivo, organizzativo e decisorio” rispetto alla vicenda nomine. Insieme agli altri convitati dell’hotel Champagne, “precostituiva e concordava, fin nei dettagli, la strategia da seguire ai fini di pervenire dapprima alla proposta e, quindi, alla successiva nomina di uno dei concorrenti per la funzione di Procuratore della Repubblica di Roma. E ciò indipendentemente dagli eventuali meriti dei candidati”.
Liguria: “L’uomo di Toti guadagnerà più di Mattarella”
Può il segretario generale della Regione Liguria guadagnare più del Capo dello Stato? Secondo il centrosinistra ligure sì. Pietro Paolo Giampellegrini, braccio destro del governatore Giovanni Toti, avrà una retribuzione di 291.461 euro l’anno. “Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, secondo i giornali guadagna 239mila euro”. azzarda Ferruccio Sansa, ex candidato e capogruppo dell’ominima lista. Sansa parla di un emendamento all’assestamento di bilancio che Toti ha presentato ieri in Consiglio. “Il trattamento economico del segretario generale della Regione è costituito da 45.260 euro (retribuzione tabellare), 316 euro (vacanza contrattuale) e 84.730 euro (retribuzione di posizione). Farebbero 130.308 euro”. A tale ammontare, secondo Sansa, si aggiunge la maggiorazione prevista dalla norma in corso di approvazione e un’integrazione di 49.256. Poi sono aggiunti gli oneri riflessi e Irap a carico dell’amministrazione per un ammontare di 291.461 euro”, dice il consigliere su Facebook.
De Luca vuole farsi una legge per il 3° mandato
Si prepara il terreno per il Vincenzo De Luca III, il governatore della Campania ‘minaccia’ di restare in carica altri nove anni, fino al 2030, quando avrebbe 81 anni, Mattarella scansati che a ‘soli’ 80 anni ha annunciato di volersi riposare. Sarebbero 15 anni consecutivi per De Luca, altri nove anni di dirette Fb ogni venerdì. Comunque non sarebbe un record. Roberto Formigoni fu presidente della Lombardia per 18 anni, dal 1995 al 2013.
Insomma, c’è l’ipotesi di approvare la possibilità di un terzo mandato in Regione Campania e De Luca a domanda risponde senza nascondersi dietro a un dito. “Faremo quello che ha fatto la Regione Veneto e altre regioni. Da quando si approva la legge elettorale della Campania scatta la norma dei due mandati, niente di particolarmente innovativo. È una linea già segnata da qualche altra regione”. La nuova legge dovrebbe essere già pronta o quasi, visto che sui tempi De Luca assicura che verrà varata “entro l’anno sicuramente”.
Open, Renzi smentito dalla Cassazione
Per la seconda volta la Cassazione segna un punto favorevole alle difese dei renziani indagati nel caso Open e per la seconda volta Matteo Renzi ne approfitta per esagerare e dare per vinta una partita ancora aperta. Non è vero, come ha sostenuto il leader di Iv nella sua ultima Enews, che i giudici del Palazzaccio hanno “chiaramente detto” che “la Leopolda non era una iniziativa di partito”, e dunque avrebbero “smontato tutto il teorema” dei pm di Firenze che lo hanno indagato per finanziamento illecito ai partiti, sull’assunto che la fondazione renziana sia da ritenere “una articolazione di partito”, il Pd.
Si riferisce alle motivazioni, depositate nei giorni scorsi, con cui la seconda sezione della Cassazione ha accolto per la seconda volta il ricorso di Marco Carrai contro la decisione del Riesame, che ribadiva la validità del decreto di perquisizione e sequestro eseguito contro l’ex consigliere Open, indagato pure lui per finanziamento illecito. Cinque pagine dove non c’è scritto da nessuna parte che avrebbero “chiaramente detto che la Leopolda non era una iniziativa di partito”. Tema peraltro già affrontato dalla prima pronuncia dell’autunno scorso, che annullò con rinvio ritenendo non sufficientemente provato che Open fosse un’articolazione del Pd.
La Cassazione stavolta scrive che il Riesame di Firenze, nel dare torto a Carrai, sul presupposto che Open “avrebbe svolto la funzione di strumento per la raccolta del denaro da destinare a supporto delle attività politiche di Renzi, dovendosi escludere che la fondazione avesse avuto una diversa operatività”, non hanno valutato le deduzioni degli avvocati di Carrai, Filippo Cei e Massimo Di Noia. Deduzioni che hanno “messo in rilievo, al contrario, il costante impegno, organizzativo e finanziario, profuso dalla fondazione nel sostenere annualmente gli eventi della Leopolda (…), diretti a stimolare il confronto su temi oggetto delle attività espressamente previste dallo statuto della fondazione, senza peraltro alcun collegamento con le attività del Partito democratico”. La Cassazione bacchetta il Riesame che non si è “fatto carico di valutare questo dato storico, ampiamente documentato dalla difesa, che doveva essere posto a raffronto con attività di tipo diverso svolte dalla fondazione, per apprezzare se, e in che misura, vi fosse deviazione dagli scopi statutari della fondazione”. E dunque chiede a un nuovo Riesame di fare questa valutazione. Che potrebbe, in astratto, finire per dar torto per la terza volta a Carrai (e a Renzi). Invitando però a non appiattirsi sulle tesi dell’accusa: l’ultimo Riesame aveva copiato interi brani di una memoria del pm. E questo non si fa, non si può fare.
Papeete sempre più nei guai: sequestrati altri 500 mila euro
Un sequestro da mezzo milione di euro per illeciti fiscali. È il secondo in pochi mesi (sommato al primo, del novembre scorso, il totale fa 1 milione di euro) che colpisce un luogo simbolo della parabola di Matteo Salvini: il Papeete, locale balneare di Milano Marittima in cui il leader della Lega è solito trasferire la sua attività politica estiva, tra mojito, conferenze stampa e qualche giro alla consolle. È riapparso infatti appena due giorni fa. Nel frattempo i dipendenti della struttura venivano licenziati e riassunti da una “scatola vuota”, la Mib service, che altro non era, secondo il gip di Ravenna Corrado Schiaretti, che un’associazione per delinquere finalizzata a una gigantesca elusione fiscale: da un lato la Mib service risparmiava sui contributi pensionistici dei lavoratori (spesso “ignari” persino di aver cambiato datore di lavoro), trasformando parte degli stipendi in “rimborsi spese”; dall’altro i clienti, colossi come il Papeete (“club trendy dove si tengono vivaci feste sulla spiaggia con dj italiani e musica e lettini prendisole”), oltre a liberarsi della zavorra della manodopera e del rischio d’impresa, scaricavano il costo dei dipendenti dalle tasse, mascherandolo da “contratto d’appalto”. Un giochino remunerativo per le aziende, da ricordare al prossimo tormentone sugli stagionali che non si trovano e i giovani impigriti dal Reddito di cittadinanza.
L’inchiesta ha portato al sequestro di 2,3 milioni di euro e coinvolge 120 imprenditori in tutta Italia, di cui 35 solo sulla costiera romagnola, in provincia di Ravenna, ovvero il luogo da cui è decollata la Mib service. Un’ottantina di imprenditori, tra loro i titolari di locali importanti milanesi e romani, sono stati segnalati alle Procure di mezza Italia. Il riferimento più noto fra gli indagati è quello delle aziende della famiglia Casanova, storici impresari di Cervia. Massimo Casanova, fedelissimo salviniano eletto europarlamentare con la Lega nel 2019, è una presenza immancabile quando sul palco del Papeete compare il segretario del Carroccio. Della Papeete Beach srl, società che gestisce lo stabilimento balneare, è stato consigliere per 10 anni, fino al 2018. Legale rappresentante delle due aziende coinvolte è la sorella Rossella, la sola indagata: la Guardia di Finanza, guidata dal colonnello Andrea Mercatili, le contesta 384.676 euro, un totale di tre anni di evasione con la Papeete srl (2017, 2018 e 2019), e 147.142 euro per la Villapapeete srl, la discoteca, per il biennio 2018-2019. Un altro nome noto tra gli indagati è quello di Mascia Ferri, ex Grande Fratello. Archiviata la gloria effimera della prima edizione del reality, aveva aperto una serie di locali con il marito imprenditore, Cristiano Ricciardella. Il Tribunale di Ravenna ha disposto nei loro confronti sequestri per 61.777 euro e 63.157 euro. Fra gli indagati c’è anche Alessandro Mercatali, figlio dell’ex sindaco di Ravenna ed ex senatore (Ds e Pd) Vidmer Mercatali.
gli accertamentinascono quando la Finanza nel 2015 mette il naso negli affari della Mib Service: una start up che, secondo i suoi stessi fondatori, Michele Mattioli e Christian Leonelli, arriva a fatturare “10 milioni di euro l’anno” e a gestire “20mila persone”. Per i pm si tratta solo di “cosmetica d’immagine”: l’esterno è mascherato come una società di risorse umane; secondo l’accusa è una “società nata per intestarsi i dipendenti”, una “scatola vuota, sorretta dal proprio scarno personale amministrativo, ma rappresentata in modo altisonante”. In altre parole, una “cartiera” che emette fatture senza fornire veri servizi, se non un lauto (ma non lecito) sconto fiscale. Lo confermano ai pm anche decine di dipendenti: alcuni nemmeno sapevano da chi dipendevano. Altri hanno firmato il proprio licenziamento collettivo addirittura “presso la sede della Cgil di Ravenna”. I fondatori della Mib si dicono innocenti e accusano le “lobby del settore”. Nel frattempo, scrive il giudice, hanno creato un’altra società (la Lema Group srl), “nella quale far confluire le attività della Mib, con la sola accortezza di acquisire l’autorizzazione all’intermediazione di manodopera”.
Più morti e ricoveri di un’estate fa… perché?
Con un totale di 4.845 nuovi positivi e 27 vittime ieri, il Covid-19 continua a diffondersi e a uccidere in Italia. Aumentano i ricoveri in ospedale, con la Sardegna che ha addirittura già superato la soglia critica del 10% di occupazione delle terapie intensive, soglia fissata dai nuovi parametri: il limite che, una volta superato, determina il passaggio in zona gialla.
Il punto fermo ormai è che i vaccini rappresentano l’arma più efficace per contrastare la pandemia, ma da soli non bastano. A distanza di sette mesi dall’inizio della campagna vaccinale in tutta Europa, in Italia sono state somministrate oltre 63,9 milioni di dosi e hanno completato il ciclo vaccinale più di 33 milioni di persone, pari al 61,11% dei vaccinabili, cioè di età superiore ai 12 anni (dato aggiornato alle 18 di ieri). L’immunità di gregge, con circa l’80% della popolazione vaccinata, è però un traguardo ancora lontano, visto che sulla carta dovrebbe essere raggiunta solo entro l’inizio dell’autunno. Ma in questa fase le variabili in gioco sono ancora tante, come dimostra anche il caso del Regno Unito, dove ieri i nuovi casi di contagio sono stati oltre 21.600 e dove continua a essere abbastanza elevato il numero dei decessi – 579 nella settimana compresa tra il 27 luglio e ieri – e delle ospedalizzazioni. Questo nonostante abbia già completato il ciclo vaccinale il 69,05% della popolazione. Mentre infuriano le polemiche sul green pass, abbiamo analizzato i dati italiani, che presentano un effetto che può sembrare paradossale.
Il lockdown del 2020 e Sarscov2 nel settentrione
Alla fine della primavera del 2020, reduci da tre mesi di lockdown nazionale con l’epidemia confinata al Nord, i pazienti Covid trattati nelle terapie intensive erano in numero inferiore a quelli dello stesso periodo di quest’anno. Così le ospedalizzazioni. Il 1° giugno dell’anno scorso erano occupati 424 posti letto di terapia intensiva (saliti a 989 esattamente un anno dopo), 6.099 dei reparti ordinari (a dodici mesi di distanza gli ospedalizzati erano aumentati: 6.292). Stessa dinamica il 1° luglio: nel 2020, 87 pazienti in terapia intensiva (contro i 225 di quest’anno) e 1.025 ricoveri nei reparti Covid (contro 1.532). Idem in agosto, sempre prendendo in esame il primo giorno del mese: 43 in terapia intensiva nel 2020 (230 nel 2021), 705 ricoverati (contro 1.954). Poi c’è la questione decessi, che sono in aumento. Analizzando il mese di luglio di quest’anno, si vede che sono stati in totale 497 mentre nello stesso periodo l’anno scorso furono 373.
Il paradosso però è solo apparente, come spiegano gli esperti dell’Istituto superiore di sanità. Il crollo dei contagi e delle ospedalizzazioni è da correlare alla chiusura del Paese tra la fine dell’inverno e la tarda primavera. Chiusura che ha bruscamente frenato la circolazione del virus. Ma va detto anche che non aveva ancora fatto la sua comparsa, la scorsa estate, la variante inglese. Identificata per la prima volta nel Regno Unito nel dicembre 2020, è stata poi denominata variante Alfa.
La variante Delta e gli stadi (quasi) pieni
Un fattore che incide particolarmente sulla circolazione del virus è la sempre più forte e progressiva insofferenza per misure restrittive, mascherine e distanziamento. E soprattutto va considerata la nuova variante Delta, che è più trasmissibile del 40-60% di quella inglese e contro la quale chi ha ricevuto solo la prima dose è meno protetto. Secondo gli esperti, inoltre, l’aumento dei contagi e delle ospedalizzazioni potrebbe avere una correlazione con gli assembramenti dei tifosi di Euro 2020: è una ipotesi che non può essere esclusa. La stessa analisi contenuta nell’ultimo report di aggiornamento dell’Istituto superiore di sanità rileva come l’aumento dei contagi a luglio, in Italia, abbia riguardato soprattutto maschi di età compresa tra i 10 ei 39 anni. “Verosimilmente tale andamento – scrive l’Iss – può essere dovuto a cambiamenti comportamentali transitori, ad esempio feste e assembramenti per gli Europei di calcio”.
C’è anche il fattore dei fallimenti vaccinali
Tutti i vaccini – non solo quelli contro il Covid – presentano una quota di “fallimento vaccinale”, vale a dire di inefficacia. Indicativamente è di circa il 10% per quanto riguarda la contrazione della malattia, del 5% per quanto attiene il rischio di ospedalizzazione. Significa che a parità di condizioni di contagio, su 100 persone dalle cinque alle dieci si possono ammalare in modo più o meno grave. Questo non vuol dire che i vaccini anti-Covid non sono efficaci: proteggono infatti dal rischio di ospedalizzazione nel 95% dei casi, nel 96% dal pericolo di morte, nel 97% da quello di un ricovero in terapia intensiva. Al contrario, vuol dire invece che la variante Delta, ormai dominante, essendo molto più contagiosa circola di più anche tra i vaccinati. Per esempio in Israele, scrive Haaretz, il 42% dei ricoverati in ospedale è in gravi condizioni: nessuno di questi ha completato il ciclo vaccinale. Tra i vaccinati e non vaccinati che sviluppano l’infezione, secondo uno studio del British Medical Journal, si rileva la stessa carica virale: i dati sono emersi da un recente focolaio verificatosi nel Massachusetts; i test condotti dal 3 al 17 luglio tra i residenti dello Stato americano a Provincetown, hanno rilevato infatti che il 75% delle persone infette era completamente vaccinato. “Tra i vaccinati con infezione, la difficoltà di rilevare il virus nei tamponi nasali (valore di soglia del ciclo) era quasi identica a quella osservata nei non vaccinati. Questa scoperta suggerisce che entrambi i gruppi hanno la stessa carica virale e hanno la stessa probabilità di trasmettere le loro infezioni, hanno avvertito i Centri statunitensi per il controllo (Cdc) e la prevenzione delle malattie”. Delle 346 persone vaccinate che sono risultate positive nell’epidemia di Provincetown, il 79% era sintomatico e il test del genoma del campione ha suggerito che il 90% aveva la variante Delta. Quattro sono stati ricoverati in ospedale e nessuno è morto.
La soluzione drastica: nuova serrata a Wuhan
Tamponi a tappeto e lockdown a zone. Così la Cina risponde a una decina di casi dopo oltre un anno registrati nello Hubei, la regione da cui tutto pare essere iniziato a fine 2019: 11 milioni di persone saranno sottoposte a tampone e diverse aree di Wuhan saranno isolate in zona rossa. Tracciamento capillare e chiusure totali, quindi, oltre ai vaccini, per non rivivere una storia che Pechino vorrebbe scrollarsi di dosso per sempre.
I pareri
Andamento delle curve: ipotesi a confronto
Massimo Galli Aspettiamo: la campagna vaccinale è entrata nel vivo ad aprile
Nel 2020 eravamo alle prese con la coda di un’epidemia che era concentrata soprattutto al Nord Italia e in particolare in Lombardia. Era un momento di oggettiva diminuzione dei casi, tanto che qualcuno aveva detto che il Covid-19 era “clinicamente morto”. In effetti in quel momento in molte aree non ancora colpite dall’infezione l’epidemia non c’era. E nel limitarla ha avuto un grande effetto il primo lockdown. Poi abbiamo avuto il periodo estivo, ci siamo rilassati troppo e il virus si è propagato anche nel resto del Paese, con il fenomeno che da lombardo è diventato nazionale. Ora, pur avendo molto persone vaccinate, abbiamo una coda della seconda ondata che è stata molto più forte della prima: se quest’ultima ha fatto 2 milioni di infettati e 30mila morti, dal 1° settembre le vittime sono state oltre 90mila. A ciò bisogna aggiungere che i decessi possono essere espressione di ospedalizzazioni registrate settimane prima. Ora dobbiamo aspettare gli effetti della campagna vaccinale, che è entrata nel vivo solo ad aprile.
Paolo Spada Il confronto però andrebbe fatto con lo scenario di ottobre
Il confronto da fare non è quello con luglio e agosto, ma eventualmente con ottobre 2020, perché quella che stiamo vivendo è una nuova ondata. La ragione sta tutta nella variante Delta, molto più contagiosa della precedente variante Alpha e, a maggior ragione, di quella del 2020: in poche settimane è passata da una diffusione sul territorio del 20% a una del 95%. Ma per capire cosa sta succedendo dobbiamo guardare i numeri, in primis quello dell’incidenza: oggi abbiamo 65 casi per 100 mila abitanti, quando in passato siamo arrivati a quota 400. Se, poi, guardiamo alle variazioni percentuali di incidenza, ricoveri, terapie intensive e decessi vediamo che hanno lo stesso andamento di ottobre, ma siamo a circa 30-40 punti più in basso. Come lo si spiega? Con le vaccinazioni. Rispetto al 2020 oggi siamo messi meglio perché siamo in buona parte vaccinati. Non possiamo escludere una risalita dei casi in autunno. Ma di certo se non avessimo i vaccini rischieremmo un’ondata molto peggiore di quella del 2020.
Silvio Garattini Necessario convincere i docenti a ora scoperti a immunizzarsi
Rispetto all’estate 2020 sono cambiate diverse cose. In primis il nostro atteggiamento: oggi le persone si espongono molto di più ai contatti con il prossimo di quanto non facessero lo scorso anno. Basta guardare agli assembramenti che si sono verificati durante i festeggiamenti per la vittoria della Nazionale agli Europei. La scorsa estate, invece, venivamo da un lockdown molto significativo, che il governo aveva cominciato ad allentare solo agli inizi di maggio: nel 2021 non abbiamo avuto restrizioni paragonabili a quelle. Di conseguenza oggi aumentano i contagi, le ospedalizzazioni e, purtroppo, i decessi. Rispetto al 2020, poi, siamo alle prese con un virus molto diverso: la variante Delta, che oggi è prevalente, è molto più contagiosa della Alpha. Le contromisure? Dobbiamo proseguire con la campagna vaccinale e raggiungere gli oltre 2 milioni di over 60 che ancora non ha ricevuto il siero. E, in vista della riapertura delle scuole, convincere a vaccinarsi i docenti che non lo hanno ancora fatto.
Andrea Crisanti Ripetiamo gli stessi errori di sempre: il tracciamento così non va
La trasmissione virale è ancora molto alta e i motivi sono diversi. Oggi siamo alle prese con una variante, la Delta, che riesce a “bucare” anche il vaccino, con l’aggravante che in questo momento il numero delle persone immunizzate è insufficiente. Non dobbiamo dimenticare, poi, che la scorsa estate eravamo usciti da poco da un lockdown che aveva ridotto al minimo i nuovi contagi. Ma, soprattutto, abbiamo fatto gli stessi errori: il principale è stato quello di non creare un sistema di sorveglianza in grado di interrompere le catene di trasmissione, basato su un uso ragionato dei tamponi molecolari e su un’infrastruttura informatica in grado di individuare in poco tempo tutti i contatti avuti da ogni singolo contagiato, come hanno fatto Paesi come Giappone e Taiwan. La stessa Inghilterra fa un milione di molecolari al giorno, ha un sistema di tracciamento migliore del nostro e un’app per la geolocalizzazione dei contatti. Invece da noi si stanziano 45 milioni per i tamponi rapidi nelle farmacie: è una goccia nel mare, un errore metodologico.
Enrico non sta sereno. Le garanzie di Franco beffate dai tempi stretti
C’è molta preoccupazione, unita a una certa dose di sconcerto, nel Pd, per la scelta di Enrico Letta di candidarsi alle elezioni suppletive nel collegio di Siena ora che il caso Monte dei Paschi è scoppiato. Mentre la gestione del dossier in questi giorni a molti pare troppo esitante, poco incisiva. Se non viene eletto è pronto a dimettersi, ha fatto sapere Letta, con una dichiarazione che riecheggia stranamente la promessa di Matteo Renzi di farsi da parte in caso di sconfitta al referendum del 2016. Ma a quel punto è il Pd stesso che rischia di saltare. Perché da una parte c’è Base Riformista, pronta a candidare Stefano Bonaccini (con i soliti sospetti che danno Renzi sulla strada del rientro) e l’ala più sinistra del partito, decisa a organizzarsi intorno a Goffredo Bettini e Andrea Orlando. Scenario potenzialmente deflagrante.
Perché Letta abbia deciso di correre questo rischio se lo chiedono in molti. E c’è chi racconta che avesse ricevuto rassicurazioni a livello istituzionale sul fatto che l’operazione di vendita di Mps non sarebbe partita prima di ottobre, a elezioni fatte. Al Nazareno negano, pur ammettendo che non si aspettavano questa accelerazione e che non sapevano nulla dell’operazione Unicredit, nel modo in cui si va configurando. Non esattamente un dettaglio.
C’è però stata un’interlocuzione – oltre a quelle con gli ex sindaci di Siena e con il Pd locale – molto importante per sciogliere la riserva: Antonio Misiani, responsabile economico dem (e lo stesso Letta) aveva chiesto rassicurazioni al ministro dell’Economia, Daniele Franco, sul destino della banca. Il quale le avrebbe fornite non sui tempi (dei quali però non avrebbe parlato, raccontano) ma soprattutto sulla massima attenzione all’occupazione. Che però non è chiaro se e come garantirà.
A campagna elettorale in corso sembra proprio un trappolone. Una sorta di “Enrico stai sereno”, seconda edizione. Dove il segretario dem non è l’oggetto di un complotto per defenestrarlo, ma piuttosto un danno collaterale per tenere segreta l’acquisizione da parte di Unicredit. Non a caso era stato il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, insieme al suo consigliere, Stefano Bruzzesi, a consigliargli di pensarci bene, per non trovarsi a gestire una patata bollente. Lo stesso Giani ha detto ieri sia pubblicamente, sia durante una riunione del Pd toscano, che bisogna convincere l’Europa ad allungare i tempi. Letta, almeno per ora, non è su questa posizione. Chiede al governo garanzie sull’occupazione, sul marchio, sulla permanenza sul territorio oltre a esprimere il suo no allo spezzatino. Come ribadisce oggi in un intervento su un giornale nazionale. Ma non è chiaro fino a dove si voglia spingere. A questo punto deve impostare la campagna elettorale come colui che strappa le migliori condizioni per Siena. Ma anche se sottolinea la necessità di coinvolgere il Parlamento non sembra che voglia andare allo scontro con Mario Draghi, come alcuni nel Pd sarebbero pronti a fare, magari presentando una mozione parlamentare contro l’acquisizione. Al Nazareno cercano intanto di attribuire qualche responsabilità: Padoan – ex ministro del Tesoro, poi deputato eletto nel collegio di Siena e oggi presidente di Unicredit – ha agito in modo personale, inopportuno e inelegante, dicono. Tra l’altro, proprio Alessandro Rivera, dg del Tesoro già ai tempi di Padoan, è quello che ha tenuto i contatti (ancora informali) con l’Europa.
Oggi Franco riferisce in aula, ma ci si aspetta che i dettagli dell’operazione verranno definiti in seguito. Palazzo Chigi ostenta lontananza dal dossier, ma Draghi ha chiarito all’inizio l’indirizzo entro cui muoversi. Se Letta pensa di ricevere delle attenzioni particolari, in quanto candidato, è destinato a rimanere deluso: è convinzione diffusa a Palazzo Chigi, peraltro, che neanche questo segretario garantisca di parlare per tutto il Pd. Non c’è mai riuscito nessuno. E il caso Mps non aiuta.
Oggi il ministro in aula, ma il Mef non vuole rinunciare a Unicredit
Partiti e sindacati si agitano per l’imminente spezzatino del Montepaschi e consegna, con tanto di dote pubblica, a Unicredit. Oggi toccherà al ministero dell’Economia pronunciarsi. Per ora – in perfetta linea con Palazzo Chigi – fa filtrare di essere pronto a difendere le ragioni che l’hanno spinto ad avviare una trattativa in esclusiva con la banca guidata da Andrea Orcel e presieduta dall’ ex ministro Pier Carlo Padoan, l’uomo che nazionalizzò Siena nel 2017. Alle 20, davanti alle commissioni Finanza di Camera (nella foto, il presidente Luigi Marattin) e Senato, il ministro Daniele Franco cercherà di indorare la pillola: massimo impegno a minimizzare gli esuberi, rassicurazioni sulla sopravvivenza del marchio – magari in custodia per qualche anno agli sportelli toscani – e porte chiuse alla proroga dei tempi, chiesta a gran voce da destra a sinistra. La linea del Tesoro – che stando agli accordi siglati con l’Antitrust Ue al momento della nazionalizzazione dovrebbe uscire dall’azionariato entro l’anno – è che la proroga andrebbe motivata. Franco e lo staff del Tesoro, in gran parte composto dagli stessi uomini che nazionalizzarono il monte, ritengono che al momento piani B non ce ne siano e che l’unica soluzione sia Unicredit.
Al momento, il conto del regalo pubblico a Padoan e compagnia sfiora gli 8 miliardi. Il nodo su cui più si agitano i partiti riguarda però l’occupazione. Eppure ieri la Fabi, il principale sindacato dei bancari, ha ridimensionato gli allarmi sull’ipotesi di 5-6 mila esuberi che una fusione tra Unicredit e Mps minaccia di generare. Secondo il segretario nazionale, Lando Sileoni il problema si risolve con i prepensionamenti garantiti dal fondo di settore, ovviamente rimpinguato dallo Stato: Il tesoro stima un conto tra 1 e 1,4 miliardi, in base al numero di aderenti e alla durata dello scivolo, “che può durare fino a 7 anni”. Secondo gli analisti di Equita Unicredit “potrebbe rilevare il network di Mps nel Centro-Nord”, con 950 filiali, senza aumentare la sua esposizione al Sud.
Mps terremota i conti del Tesoro. Al falò di Siena bruciati 32 mld
Sarà una serata calda a Montecitorio. Alle 20 il ministro dell’Economia Daniele Franco parlerà del caso Mps alle commissioni Finanze di Camera e Senato nella sala del Mappamondo. La politica è in fibrillazione per le sorti dell’istituto di credito sulle quali si è ormai aperta la trattativa tra il Tesoro e l’UniCredit di Andrea Orcel. Dalla Camera l’eco delle dichiarazioni di Franco rimbomberà in un’altra sala del Mappamondo, quella al piano nobile del palazzo pubblico di Siena che teme di perdere la “sua” banca. O meglio, la direzione generale di Mps che da sola vale 2.100 posti di lavoro, un decimo degli occupati del gruppo che è il maggior datore di lavoro del capoluogo toscano. Perché dal 2017 la banca non è più davvero di Siena, ma di Roma: è tornata in mano pubblica con il “salvataggio” (che in realtà non ha salvato nulla) che ha portato il ministero del Tesoro a diventarne primo azionista con il 68,25%. Tra i 21,3 persi dal 2008 a oggi sulle azioni e altri 3 sui bond subordinati, il conto totale del disastro di Siena oggi è di quasi 24 miliardi e mezzo. Ma a questi potrebbero aggiungersi presto altri 5,7 miliardi che il Tesoro potrebbe spendere per uscire dal Monte, senza contare un miliardo e 400 milioni per spesare gli esuberi di personale e i rischi delle cause legali che valgono oltre 6 miliardi. Il falò toscano potrebbe dunque finire per bruciare almeno 32 miliardi. Se Siena piange, Roma dunque non può affatto ridere. Non a caso il sindaco di Siena, Luigi De Mossi, spiega che “contro UniCredit non ho nulla, ma il tema è cosa vuole UniCredit per acquisire Montepaschi. Quali condizioni vuole dettare?”.
Già, cosa vuole Orcel? I desiderata del possibile acquirente sono opposti a quelli del Tesoro venditore: vuole scegliere uno a uno gli asset da acquisire e lasciare tutto ciò che non funziona (e perde) in mano pubblica. Il Mef, invece, vorrebbe una cessione in blocco per ottemperare agli accordi pattuiti nel 2017 con la Commissione Ue e la Bce. Per gli analisti di Bloomberg, “i requisiti cruciali per Unicredit” sono “la capital neutrality( la garanzia che l’acquisizione non deprima il patrimonio dell’acquirente, ndr), gli utili e l’aumento del valore per azione”. Secondo gli analisti di Fidentiis, un’acquisizione di Mps “neutrale” per il capitale di UniCredit, che ha un indice patrimoniale di vigilanza Cet1 del 15%, implica che il Tesoro eroghi al Monte una dote di 5,7 miliardi, tra incentivi fiscali e ricapitalizzazione per spesare i costi degli esuberi, stimati tra 5 e 6 mila, coprire i rischi legali, aumentare le rettifiche sui crediti deteriorati e saldare l’opzione put da 1 miliardo in mano alla francese Axa per sciogliere la joint venture nella bancassurance. Poiché gli incentivi fiscali alla fusione valgono 2,3 miliardi, il Tesoro dovrebbe versare a Mps 3,4 miliardi. Cifra non lontana da quella emersa nel recente stress test dell’Autorità bancaria europea. Secondo l’Eba, nello scenario avverso il Monte perderebbe 2,7 miliardi in tre anni, il risultato peggiore tra tutti i 50 grandi gruppi sotto esame. La banca già prevedeva un aumento da 2,5 miliardi, ma Morgan Stanley ora calcola il deficit di capitale in 3,1 miliardi. Va ricordato che a giugno 2017, per il salvataggio di Popolare Vicenza e Veneto Banca da parte di Intesa Sanpaolo, lo Stato pagò oltre 5 miliardi.
L’operazione per UniCredit avrebbe anche una logica territoriale: con l’acquisizione del Monte la banca di Milano aumenterebbe la sua presenza nel Centro-Nord, dove si trova il 77% degli sportelli di Mps, accrescendo la propria quota di mercato in Toscana, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Secondo il segretario della Fabi, Lando Sileoni, UniCredit potrebbe prendere 1.250 sportelli di Mps su 1.400, con circa 100 filiali del Sud che sarebbero rilevati dal Mediocredito Centrale che con quelli della Popolare di Bari potrebbe realizzare “il progetto di una grande banca del Sud”. Ma per Orcel l’integrazione si farà solo nel caso si raggiunga un “accordo sulla gestione del personale” delle attività commerciali per “assicurare un’integrazione agevole, rapida ed efficace”. Ecco perché i sindacati dicono no allo “spezzatino” e chiedono che gli esuberi siano gestiti con prepensionamenti volontari attraverso il fondo esuberi di settore, per un costo stimato in 1 – 1,2 miliardi.
Cifre che non impattano sulla semestrale che Mps presenterà domani. Alcune fonti prevedono un utile netto tra i 150 e i 200 milioni. Una goccia nel mare di quanto è andato perso nell’infinita crisi del Monte.
Ai massimi del maggio 2007, il Monte in Borsa valeva 16,1 miliardi: ieri il valore delle azioni si era ridotto ad appena 1,16 miliardi. La raccolta diretta è crollata dai 157,6 miliardi del 2010 ai 103,7 del 31 dicembre scorso: -34%. I ricavi sono passati da 5,83 miliardi nel 2008 a 2,92 l’anno scorso: -50%. Dal 2008 a fine 2020 l’istituto ha perso 21,3 miliardi, bruciando quasi integralmente i 21,9 miliardi raccolti nei sei aumenti di capitale dello stesso periodo. Rispetto ai 47 miliardi di sofferenze lorde a fine 2015, oltre un terzo dei 130 miliardi di crediti, a marzo scorso ne erano rimasti 1,5 miliardi. Il resto sono state ceduti o spesati a perdita. Il Governo Gentiloni ad agosto 2017 “mise in sicurezza” il Monte pagando 5,4 miliardi per diventarne primo azionista al 68,25%: ora quelle azioni valgono 796 milioni, hanno perso 4,6 miliardi.
L’operazione, oltre alle azioni, azzerò anche 10 bond subordinati per 4,25 miliardi, compreso quello decennale del 2008 da 2 miliardi venduto anche alle vecchiette per contribuire a pagare AntonVeneta. Dopo la sospensione in Borsa decisa da Consob a fine 2016 per il fallimento del piano “di mercato”, quando l’azione fu riammessa al listino, il 26 ottobre 2017, valeva 4,28 euro. Ieri ha chiuso a 1,12: un tracollo del 73,65%. Ne valeva la pena?
La Meloni da B. in Sardegna: “Nome di destra per il Quirinale”
Per Giorgia Meloni era la prima volta a Villa Certosa. Ma pure per Ignazio La Russa. Quindi il giro turistico era d’obbligo. Piscine, parco, vulcano. “Spettacolare! È il complesso privato più bello del mondo…”, il giudizio estasiato dell’ex ministro della Difesa. L’invito in Sardegna è partito da Silvio Berlusconi. Del resto i temi sul tavolo sono tanti e i due non si vedevano da un paio d’anni. Con momenti di notevole frizione negli ultimi mesi: Berlusconi che per citarla usava l’espressione “la signora Meloni…”, lei a replicare con gelido silenzio. L’ultimo scontro, sulla Rai, con l’asse FI-Lega per portare in Cda l’azzurra Simona Agnes al posto del meloniano Giampaolo Rossi. Così, se da entrambi i fronti si assicura che “di Rai non si è parlato”, pare difficile che un passaggio non ci sia stato. Con l’ex Cavaliere può promettere solo un impegno per un riequilibrio.
A Meloni però premeva soprattutto verificare se il centrodestra ha un futuro. “Esistiamo ancora come coalizione o FI e Lega guardano altrove?”, ha chiesto, ricevendo rassicurazioni sul fatto che “l’appoggio a Draghi è solo una fase, alle prossime elezioni torneremo uniti”. Meloni, però, ha chiesto un impegno più stringente. “Non voglio stare in una coalizione dove mi devo guardare dagli alleati come fossero avversari”, ha detto, chiedendo una prova di compattezza, per esempio, sul Quirinale. “Finalmente potremmo eleggere un presidente non di sinistra”, ha detto Meloni, solleticando le ambizioni dell’interlocutore. Messa da parte, invece, la federazione: “Non ha senso parlarne finché voi state al governo e noi all’opposizione”. Federazione che però viene rilanciata da Matteo Salvini, giusto per marcare il territorio in un giorno che lo vede “escluso”.