L’attacco dei “fake”: chi c’è dietro

Un attacco social organizzato nei minimi dettagli. Lo stesso hashtag, un tweet ogni 6 minuti e pochi account probabilmente mossi da un’unica mano. L’obiettivo? Il leader del M5S Giuseppe Conte proprio nel primo giorno della votazione sullo statuto. Lunedì su Twitter sono stati 67 mila i tweet che hanno utilizzato l’hashtag #Conteservodelsistema per delegittimare l’ex premier.

Problema: gli autori di quei tweet sono solo 370 di cui, secondo il software Hoaxy, circa 90 (un quarto) non superano il “test di umanità”, cioè sulla base dei loro comportamenti vengono segnalati come potenzialmente automatici. Dei bot, insomma. Una macchina organizzata e che nel M5S fa pensare a un attacco politico: “Solo la Bestia leghista ha una struttura per organizzare un attacco del genere” dicono fonti del M5S. Difficile dirlo. Anche gli account che sembrano “veri”, però, presentano tutti le stesse caratteristiche. La più evidente è che molti si chiamano allo stesso modo: un nome di persona seguito dalla dicitura “ex 5” e una stella. Tra i più attivi ci sono “Lillo ex 5S”, “Angela ex 5 stelle”, o “Carla Kak ex 5S”, con una bio che è un programma: “Disinfestazione pdocchi e #ServiDiDraghi”. I post seguono tutti un unico canovaccio. Una foto e un post aggressivo che accusa il M5S di “tradimento” e associa Conte, Di Maio e gli altri big al Pd, alla Dc, ai Benetton e alla sciagura del ponte Morandi. Tutti i post iniziano con lo slogan “Con-te Mai”, tutti terminano con l’hashtag #Conteservodelsistema.

I post compaiono il 2 agosto a centinaia, a partire dalle 9. @angela_F222 fa un tweet ogni 6 minuti e la sua ultima attività risaliva al 16 luglio. Utenti come, @Otarvokum, silenziosi a lungo, lunedì arrivano anche a 197 tweet. Sono i ritmi giusti per chi punta a portare un hashtag in tendenza. Osservando la rete di diffusione si vede che i post e le interazioni esplodono in poche ore. Nonostante l’attività intensa, però, l’hashtag non “buca” il web e non riesce a intercettare account esterni alla rete dei presunti “dissidenti” 5S. E così il messaggio non attecchisce.

Il quorum c’è: lo Statuto passa, ora tocca a Conte

È costata battaglie legali, faide interne e interminabili mediazioni. Ma la prima legittimazione della base per Giuseppe Conte dovrebbe arrivare in queste ore. Gli iscritti al Movimento 5 Stelle hanno infatti votato fino alle 22 di ieri il nuovo Statuto, premessa necessaria per affidare, con una nuova consultazione già nel fine settimana, il ruolo di capo politico all’ex premier.

Per convalidare la votazione serviva il quorum del 50 per cento +1 degli aventi diritto, ovvero almeno 56.947 dei 113.894 iscritti da almeno 6 mesi al Movimento. Un dato che già intorno alle 19 di ieri, dunque tre ore prima della chiusura delle urne, fonti del Movimento riferivano come “molto vicino”, per un “cauto ottimismo”. Con una novità rispetto al passato, perché per la prima volta la base si è espressa utilizzando la piattaforma SkyVote, con cui il Movimento ha sottoscritto un contratto di utilizzo dopo il divorzio da Rousseau. E le scorie sono ancora evidenti, visto che anche ieri l’avvocato Lorenzo Borrè, da anni punto di riferimento di espulsi e dissidenti, ha fatto sapere all’Ansa di essere pronto a fare ricorso per conto di diversi iscritti M5S che lamentano di non aver potuto accedere alla consultazione nonostante – a loro dire – ne avessero diritto.

Si vedrà.Al momento resta l’attesa per quell’ufficialità che sancirebbe una svolta politica per il M5S. Conte, da mesi leader in pectore in attesa di formalizzare l’investitura, aveva detto di non accontentarsi di una “risicata maggioranza”, convinto che per farsi carico di una rivoluzione interna così incisiva fosse necessario un consenso senza equivoci. Per questo il raggiungimento del quorum al primo tentativo era l’obiettivo dell’ex premier, che altrimenti dovrebbe attendere una seconda consultazione, questa volta senza limiti minimi di partecipazione. Ma se tutto sarà andato come sembrava praticamente certo ieri sera, già nel fine settima i 5 Stelle potrebbero sottoporre agli iscritti la leadership dell’avvocato. Quel Conte che, sussurrano dai piani alti, potrebbe prendersi qualche settimana per decidere sulle nomine per l’ampia struttura: da quella dei vicepresidenti (ma per Statuto potrebbe essercene anche solo uno) a quelle per i vari Comitati. Potrebbe attendere addirittura le Comunali, l’avvocato. Un modo per calmare le acque dopo mesi vissuti in apnea, tra lo scontro con Davide Casaleggio, la spaccatura con Beppe Grillo e poi la grana della riforma della Giustizia.

L’ok al nuovo Statuto consentirebbe adesso all’ex premier di respirare. Anche perché il testo sottoposto agli attivisti delinea un Movimento dove ruoli e funzioni sono quelli immaginati dall’avvocato, al netto di qualche aggiustamento voluto dal Comitato dei Sette che ha mediato tra Conte e Grillo. E soprattutto mette nero su bianco la distinzione tra il capo politico (“il presidente”) e il garante, definito il “custode” dei “valori fondamentali dell’azione politica” del M5S. La rotta, però, la deciderebbe il leader, “l’unico titolare e responsabile della determinazione e dell’attuazione dell’indirizzo politico”, colui che “dirige e coordina i rapporti con altre forze politiche” e ha la responsabilità “dell’utilizzo del simbolo del Movimento 5 Stelle”. Insomma, Conte avrà i poteri che pretendeva. E ora dovrà adoperarli. Il tesoriere alla Camera Francesco Silvestri pensa positivo: “I cambiamenti interni apriranno una fase espansiva che farà di nuovo percepirà il Movimento come forte e organizzato”. Il primo obiettivo di Conte, che il Movimento dovrà innanzitutto salvarlo: anche da se stesso.

“4° grado” di giudizio: nuova norma per B.

Una norma che nei fatti introduce nell’ordinamento italiano un quarto grado di giudizio, che potrà mettere in discussione e ribaltare le condanne definitive, qualora siano state oggetto di un giudizio della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo. Così anche Silvio Berlusconi, la cui condanna definitiva per frode fiscale sarà discussa dalla Cedu a settembre, può tornare a sperare di azzerare quel verdetto che lo fece decadere da senatore. E perfino Bruno Contrada, l’ufficiale dei servizi segreti condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per il suo contributo a Cosa Nostra potrà volere che sia riscritta, se non la sua sentenza, almeno la sua storia. È l’effetto di un articolo della riforma Cartabia, che dispone di “introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso, entro un termine perentorio”.

Il tema è discusso da tempo: quali effetti devono avere le pronunce della Corte europea sulle sentenze italiane? Finora le condanne definitive restavano definitive, anche quando lo Stato italiano veniva condannato dalla Cedu. Così Contrada aveva mantenuto la sua condanna, anche se per effetto della Corte europea – che aveva rilevato che prima del 1994 il reato di concorso esterno non era chiaramente espresso nei codici italiani – gli erano stati annullati gli effetti della condanna, con conseguente congruo risarcimento. Il problema della armonizzazione tra giustizia italiana e giustizia europea anima da anni il dibattito giuridico. Tanto che già nel 2011 la Corte costituzionale ha disposto che nei casi di condanna dell’Italia a seguito di sentenze Cedu per violazione della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, il condannato definitivo possa chiedere la revisione del processo. Ora la legge Cartabia delega il Parlamento a intervenire per regolamentare questa materia. Indicando di “attribuire alla Corte di cassazione il potere di adottare i provvedimenti necessari e disciplinare l’eventuale procedimento successivo”.

Al di là dei tecnicismi giuridici, la riforma Cartabia chiede al Parlamento una norma che permetta di riaprire i procedimenti che abbiano subìto una pronuncia della Corte europea difforme da quella dei giudici italiani. Con quali modalità è ancora tutto da stabilire e non è detto che debba avvenire in maniera automatica. Indicata una direzione, la strada è ancora tutta da costruire. Ma di certo d’ora in avanti le pronunce della Cedu peseranno di più nella situazione italiana. E qualche magistrato già teme che la sensibilità di chi giudica i fatti italiani da Strasburgo non sempre possa essere adeguata alla realtà di un Paese in cui la corruzione è altissima e ben quattro organizzazioni mafiose sono saldamente insediate nel tessuto economico e politico. Di certo una norma come quella che viene ora prefigurata dalla Cartabia avrebbe cambiato la storia processuale del caso Abu Omar, rapito da uomini della Cia a Milano nel 2003. Gli imputati italiani, tra cui il capo del Sismi (il servizio segreto militare) Niccolò Pollari e il suo braccio destro Marco Mancini, furono prima condannati, ma poi prosciolti anche a causa del segreto di Stato. Una sentenza della Cedu nel 2016 ha condannato l’Italia sostenendo che “le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di extraordinary rendition cominciata con il suo rapimento in Italia” e che “l’Italia ha applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili del rapimento, della detenzione illegale e dei maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”.

Mille emendamenti di Salvini contro green pass e Draghi

Il numero non è stato scelto per caso. È stato calibrato scientificamente per mandare un messaggio al governo: 916 emendamenti. Gli stessi, spiegano fonti leghiste, presentati una settimana fa dal M5S in commissione Giustizia sulla riforma Cartabia. Ma se i 5S chiedevano di modificare la norma sull’improcedibilità, proprio nel giorno in cui inizia il semestre bianco la Lega mette nel mirino un altro provvedimento del governo Draghi: il decreto sul green pass approvato il 22 luglio anche con il voto dei ministri del Carroccio. La norma, che impone il certificato verde per ristoranti al chiuso, musei, teatri, cinema, è arrivata in commissione Affari Sociali della Camera e ieri è stata sommersa di emendamenti, la maggior parte proprio della Lega: su 1300, 916 sono firmati da deputati del Carroccio contro i 40 di Pd e M5S e i 20 di Italia Viva. Un segnale chiaro al premier Draghi che domani vuole approvare un altro decreto ancora più restrittivo per rendere obbligatorio il pass per i trasporti e per la scuola. Anche perché i dati della pandemia preoccupano: la Sardegna oggi avrebbe i dati da zona gialla con il 10% delle terapie intensive occupate e la Sicilia rischia di averli dal 6 agosto visto che i reparti ordinari sono pieni all’11%. Ma Matteo Salvini è contrario a ogni misura restrittiva e spinge per rinviare la decisione a fine agosto. Ieri, da Palermo dove ha incontrato i leghisti in Regione e i due renziani che entreranno nel partito (Sammartino e Sudano), ha chiamato Draghi avvertendolo in vista della cabina di regia di oggi: “Prudenza sì, ma senza rovinare l’estate agli italiani”.

Ma dietro alla decisione di seppellire il decreto di emendamenti in commissione – strategia concordata con il capogruppo Riccardo Molinari e con Salvini stesso – c’è sì quella voglia di rincorrere a destra Giorgia Meloni, ma soprattutto un messaggio diretto al presidente del Consiglio e confermato dai fedelissimi del segretario della Lega: “Ora Draghi deve ascoltare anche noi, altrimenti diventa un problema” è l’umore che circola ai piani alti di via Bellerio. Claudio Borghi, tra i deputati più ascoltati dal segretario, sceso in piazza contro il pass, la mette così: “Così come il governo ha accontentato i 5S sulla giustizia, ora deve accontentare anche noi”. Anche perché, al netto delle dichiarazioni di facciata (“avanti con Draghi”), Salvini è molto irritato per l’atteggiamento del premier sulla giustizia. Una settimana fa infatti i due si erano incontrati a Palazzo Chigi e il leader della Lega aveva ottenuto il rinvio delle misure anti-Covid in cambio del sostegno incondizionato alla riforma Cartabia. “Siamo sempre stati leali ma ogni giorno leggo sui giornali che il governo vuole nuove restrizioni e che Draghi non vuole cambiare sull’immigrazione: ma così non va bene” va dicendo Salvini.

E così,prima è partito l’assalto (con tanto di ultimatum entro agosto) al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che “deve darsi una svegliata” perché “se non blocca gli sbarchi è un problema sostenere il governo”. Poi ieri sono stati depositati i quasi mille emendamenti che sanno tanto di imboscata parlamentare. Molti sono ostruzionistici contro pass e vaccini (Borghi chiede addirittura un risarcimento per i danni da siero), altri volti a spaccare la maggioranza. Si va dall’abolizione del pass per eventi e ristoranti alla soppressione dell’obbligo per i minorenni, fino alla richiesta di verificare se il certificato sia in linea con le normative europee. La Lega inoltre chiede di riportare i parametri delle terapie intensive e dei posti ordinari al 30% e al 40% rispetto al 10 e 15% decisi dal governo per passare in zona gialla. Intanto ieri il collegio dei Questori della Camera e il presidente Roberto Fico hanno deciso che da venerdì il pass sarà obbligatorio anche per i deputati per accedere alla mensa, alla biblioteca e per le conferenze stampa. Non servirà invece per aule e commissioni. “Le regole valgono per tutti” ha commentato Fico.

Una valanga di assenti per il sì al ddl Cartabia

È andata come sempre, cioè come voleva Mario Draghi. Con la riforma della giustizia, la controriforma Cartabia che partorisce l’improcedibilità al posto della prescrizione, approvata dalla Camera entro la pausa estiva, come pretendeva il presidente del Consiglio. A settembre, con comodità, passerà all’esame del Senato. Nell’attesa Montecitorio dà il via libera con 396 sì e 57 no, più tre astenuti. La maggioranza, tutta, si allinea. Compreso il M5S che ha limitato i danni, ma non l’amarezza per un’altra bandiera caduta. Però la realtà di una riforma votata da quasi tutti, ma che piace a pochi, la racconta la valanga di assenti, abbondantemente sopra il centinaio. E le scorie ovviamente sono evidenti soprattutto nel M5S.

Perché dicono no in due, Giovanni Vianello – che aveva già votato contro il dl Semplificazioni – e il veterano Luca Frusone. Mentre Angela Masi si astiene. A norma di regolamento, dovrebbero essere espulsi. Ma ci sono anche gli assenti, 16, tre in più rispetto ai voti di fiducia di lunedì. Con l’ex sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, che diserta di nuovo la Camera. “Ci sono delle regole da rispettare, chi ha fatto il furbo deve renderne conto” ringhia subito al fattoquotidiano.it Stefano Buffagni. Però poteva andare peggio dentro quel Movimento a cui Giuseppe Conte aveva ordinato “unità” nell’assemblea di domenica. Un M5S che quasi si aggrappa al discorso dell’ex Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Gli avevano chiesto di pronunciare la dichiarazione di voto anche per richiamare alla Camera diversi malpancisti, per dare l’esempio. E l’uomo a cui hanno cambiato la riforma parla, eccome, dentro un’aula che reagisce con urlacci e boati al Bonafede che parte forte: “Non rispondo a provocazioni, la riforma della giustizia non è un fatto personale”. Per poi rivendicare la trattativa per incidere sulla riforma Cartabia: “Abbiamo orgogliosamente alzato le barricate, è nel nostro Dna stare in trincea sulla giustizia”. Alla fine il sì per il Movimento lo scandisce proprio lui, che deve ammetterlo: “Non è il testo che volevamo”. E promette: “Con il Movimento al governo non ci sarà alcuna restaurazione”. Ma al presidente del Consiglio Mario Draghi va benissimo anche così.

Anche se la sua maggioranza di quasi tutti è così fragile da litigare in aula su un ordine del giorno di Fratelli d’Italia – un mero atto d’indirizzo – sulla responsabilità civile dei giudici, con tanto di accuse incrociate di slealtà. Soprattutto, si sfiora l’incidente su un odg presentato da Rossella Muroni (FacciamoEco) per sottrarre i reati ambientali all’improcedibilità. Il parere del governo è ovviamente contrario, eppure la proposta viene respinta per soli cinque voti, perché il M5S vota sì mentre il Pd si astiene, anche se diversi dem si spaccano tra favorevoli e contrari. La conferma che i giallorosa sono ancora solo un’idea di coalizione, su tanti temi e molte dinamiche parlamentari. E infatti in serata un grillino di rango si lamenta: “Era una battaglia da non perdere se vuoi parlare di centrosinistra”. Ma sussulti e nervosismi ribadiscono che il peso del sì grava innanzitutto sulla spalle dei Cinque Stelle. Anche se la deputata in commissione Giustizia, Angela Salafia, insiste: “I risultati questa volta li abbiamo portati a casa anche grazie alla guida di Giuseppe Conte”.

Già, l’avvocato, che prima del voto in aula incontra i parlamentari via Zoom. E con quelli della commissione Affari costituzionali si sofferma su un nodo che riemergerà presto a galla: la legge elettorale. “Forza Italia si sta tirando indietro sul proporzionale, e la situazione al momento è troppo confusa per varare a breve una nuova legge”, sostiene (in sostanza) l’ex premier. Conte vede “troppe differenze” tra i partiti, per immaginare ora un’alternativa al Rosatellum. Eppure sarà un nodo cruciale, anche se non urgente come quello del Quirinale.

Di sicuro l’avvocato vuole un M5S diverso, innanzitutto nell’atteggiamento. “Ho trovato un Movimento troppo sulla difensiva, e invece noi dobbiamo essere intraprendenti, dinamici” ha ripetuto l’ex premier nei vari colloqui in questi giorni. Tradotto: Conte vuole che i 5Stelle facciano proposte, si facciano sentire sui provvedimenti. Adoperando “nuovi toni” e puntando sulle “competenze”.

Sono le leve che l’ex premier vuole adoperare per recuperare consensi tra i cosiddetti moderati e al Nord, dove terrà tutta la prima parte del suo tour per l’Italia (ma la prima tappa sarà a Palermo).

Però, prima dovrà fare davvero suo il M5S, che oggi non è di nessuno. E non sarà impresa facile, soprattutto con un governo che divora le riforme. Quelle di Conte e del Movimento.

Cyberfaccedaculo

Qualcuno forse ricorderà che, tra le poderose ragioni della guerra dei renziani e del resto del centrodestra al Conte-2, insieme all’imprescindibile Mes, ai tecnici del Recovery e al Ponte sullo Stretto, c’era la fondazione o agenzia pubblico-privata per la cybersicurezza, coordinata dal Dis presso Palazzo Chigi. Il progetto, nato sotto il governo Gentiloni e rimasto nel cassetto sebbene finanziato con 2 miliardi di fondi europei, serviva ad attrezzare lo Stato contro gli attacchi hacker. Ma bastò che lo riproponessero Conte e il capo del Dis Vecchione per scatenare l’allarme democratico: orrore, scandalo, abominio, chissà cosa c’è sotto di losco. Il 6 dicembre, prima di bloccare il Pnrr in Consiglio dei ministri, l’italovivo Rosato tuonò: “Guai a inserire nella legge di Bilancio la cybersicurezza”. E la sua spalla dem Delrio rincarò su Rep: “Sulla cybersicurezza, senza il parere positivo del Copasir, non si deve procedere”. Il 9 dicembre, in Senato, l’Innominabile strillò: “Così si aggira il Parlamento. Se nella legge di Bilancio ci sono norme sulla governance del Recovery e sulla Fondazione per la cybersicurezza, votiamo no” (lui che nel 2016 aveva tentato di piazzare l’amico Carrai a capo di un’Unità di missione sulla cybersecurity a Palazzo Chigi, poi stoppata da Mattarella).

Il 30 dicembre Conte insisté col progetto, anche perché l’Italia rischiava di perdere i 2 miliardi Ue. Ma, oltre ai renziani, insorse pure il Pd: Linkiesta, mai smentita, scrisse che “Zingaretti, Orlando e tutto il vertice Pd hanno notificato a Conte che questa Agenzia non si farà mai”. L’8 gennaio Conte incontrò le delegazioni di M5S, Pd, Leu e Iv per chiudere l’accordo sul Pnrr. Ma il capogruppo Iv Faraone gettò subito la palla in tribuna con i soliti Mes&cybersecurity. Una settimana dopo l’Innominabile aprì la crisi ritirando le sue ministre e tacciando il premier di “vulnus per la democrazia”. Poi arrivò Draghi e il 14 aprile Gabrielli, sottosegretario ai Servizi, annunciò un’Agenzia pubblico-privata per la cybersicurezza coordinata dal Dis presso Palazzo Chigi, finanziata con 2 miliardi Ue. Applausi scroscianti da Pd, Iv e destre. L’altroieri l’attacco hacker alla Regione Lazio. Raffaella Paita (Iv): “L’agenzia per la cybersicurezza parta subito”. E i giornali che gridavano all’attentato alla democrazia quando la voleva Conte si spellano le mani. Rep: “Siamo rimasti fermi al Giorno Zero con una sovranità digitale limitata o totalmente assente”. Giornale: “Urso: siamo in ritardo, ma ok dal Senato prima delle ferie’”. Stampa: “L’Italia in ritardo ora corre ai ripari”. Fusani (Riformista): “L’Italia, con un colpevole ritardo di tre anni, ha dato il via all’agenzia”. Peggio dei cyberpirati ci sono soltanto i cyberspudorati.

Pino, il cuore batte ancora in un’Opera “da camera”

Era il 4 gennaio del 2015 quando il cantautore, musicista e compositore napoletano, tra i più amati d’Italia, è venuto a mancare. Aveva sessant’anni e “una vita appesa a un filo”, come disse all’indomani della morte il suo cardiologo di fiducia. Se lo è portato via un infarto, ma i suoi brani restano incisi nella memoria collettiva. Domenica 8 agosto torneranno ancora a vivere nel Teatro romano di Ostia antica, grazie allo spettacolo Pino Daniele Opera. Il live è stato preceduto dalla pubblicazione dell’album omonimo, prodotto da Jonathan Goldsmith a maggio 2018. Contiene tredici grandi successi dell’artista partenopeo, rivisitati in chiave cameristica dal maestro Paolo Raffone. Il legame tra i due è datato e intenso: li unisce una profonda amicizia e una collaborazione in ambito discografico che viene da molto lontano. Nel 1985 nacque l’idea di portare sui palcoscenici dei maggiori teatri italiani alcuni arrangiamenti dei brani di Pino Daniele realizzati dal maestro con l’accompagnamento di un’orchestra classica. Il tour venne molto apprezzato, tuttavia il progetto di farne un disco rimase chiuso nel cassetto. Raffone decise di riprendere a lavorarci nel 2014. Poco dopo Pino Daniele morì. E quello che era un lavoro a quattro mani divenne un omaggio all’amico artista – oramai scomparso – realizzato con la collaborazione di Michele Simonelli, che partecipa come voce solista allo spettacolo Pino Daniele Opera, in scena tra qualche giorno per la prima volta a Ostia. L’ensamble da camera è formato da 11 musicisti, oltre i sei special guests tra i più stretti collaboratori dell’artista di Nero a metà. Sono Ernesto Vitolo, Rosario Jermano, Antonio Onorato, Jerry Popolo, Roberto Giangrande e Donatella Brighel. A promuovere il progetto è l’associazione culturale Record M. E. assieme a Wing srl. Quello che andrà in scena domenica “non sarà un musical, né una cover band – assicura Michele Simonelli – sarà un concerto vero e proprio. Con gli arrangiamenti di Paolo Raffone – spiega – abbiamo potuto rivisitare canzoni memorabili, come Anna verrà, Gesù Gesù, Qualcosa arriverà e Sicily. Non mancano brani che rappresentano la sua vena artistica blues come Yes I know my way, A me me piace ‘o blues, A testa in giù e – immancabilmente – Napul’è”.

La “Sampdoro” dei 7 nani. Un fiore sbocciato dal Boskov

L’abbraccio europeo fra Gianluca Vialli e Roberto Mancini, così forte, così spontaneo, ha riportato la vita, non solo lo sport, alla scintilla che ne sprigionò e alimentò il fuoco. Lo scudetto della Sampdoria. L’ultimo fuori del triangolo Juventus-Milano-Roma. Trent’anni fa. Il 19 maggio 1991: la domenica del 3-0 al Lecce. Il mondo distratto dalla guerra del Golfo e sollevato dalla fine di un incubo, l’apartheid in Sudafrica. L’Europa alle prese con le ceneri dell’impero sovietico e le briciole bollenti della ex Jugoslavia. In Italia, il Partito comunista diventa democratico, nasce la Lega Nord di Umberto Bossi, sta per divampare Mani Pulite.

E il calcio? Reduce dalle notti del Mondiale 90, tutte magiche tranne una: quella con l’Argentina di Maradona. Mancini non vide mai il campo, Vialli lo perse incalzato dai gol e le pupille invasate di Schillaci. Non fu uno sparo, l’impresa della Sampdoria: fu una sparatoria. Non veniva dal nulla, come il Leicester di Ranieri. Società relativamente giovane (1946), sbocciata dalla fusione fra Sampierdarenese e Andrea Doria e soffocata dalla gloria antica del Genoa, nove scudetti dal 1898 al 1924, trovò in Paolo Mantovani lo strumento del destino. Originario di Roma, petroliere facoltoso e temerario, generoso al punto da versare un paio di milioni (di lire) purché i “cugini” non cedessero Gigi Meroni al Toro, doriano fino al midollo. Da addetto stampa a proprietario, nel 1979. Raccolta in B, la costruì pezzo su pezzo, attento allo stile, alle differenze, lui che sognava, un giorno, di essere citato: ci sarebbe riuscito. Scovò Vialli a Cremona, Mancini a Bologna. Tre Coppe Italia e una Coppa delle Coppe introdussero l’ultimo balzo, sempre il più arduo. Le gerenze, all’epoca, erano snelle. Un presidente, un direttore sportivo (Paolo Borea, gran fiuto), un mister: Vujadin Boskov. Allenatore istrione, un po’ padre e un po’ precettore. Belle, le battute: “Fuoriclasse vede autostrade dove altri solo sentieri”; “Se uomo ama donna più di finale di Champions in tv, forse vero amore ma non vero uomo”. Sotto le gag, però, un gigante. Con un vice del calibro di Narciso Pezzotti. E, colonna sonora, l’allegoria dei sette nani: Vialli era Pisolo, Mancini Cucciolo. Si litigava, ma poi stop: uno per tutti. È lo spirito che il Ct ha travasato nella Nazionale, portandosi dietro teste e testi: il concetto di famiglia, il piacere del dovere.

Gli avversari erano il Napoli del Pibe, campione uscente, l’Inter tedesca del Trap, il Milan che Arrigo Sacchi aveva spinto oltre le tradizioni e le convenzioni, la Juventus di Roberto Baggio agghindata dalla zona champagne di Gigi Maifredi, un ibrido che l’avrebbe relegata al settimo posto e cacciata dall’Europa. La Samp, “quella” Samp, praticava un calcio misto, fondato su una difesa sobria e un contropiede “ebbro”: nel senso che ubriacava. Il portiere era Gianluca Pagliuca. Libero, Luca Pellegrini, il capitano, o Marco Lanna. Marcatori ad personam, Pietro Vierchowod detto lo zar e Moreno Mannini: guai a voi, anime prave. Quindi una linea che coinvolgeva Attilio Lombardo, ala tornante; Fausto Pari, il classico mediano che poco segnava e molto sgobbava; Cerezo, il podista che rovesciava il fronte alla brasiliana, tutto samba e chissenefrega; Srecko Katanec, giraffone sloveno; Beppe Dossena, bussola o trequartista in base alle esigenze, con Ivano Bonetti e Gianni Invernizzi jolly preziosi. Più Marco Branca, bomberino di scorta, e Aleksei Mikhailichenko, ucraino di lotta e di governo. Su tutto, e su tutti, i “gemelli”: Vialli, lo scultore. Mancini, il pittore. L’uno, trascinava e tracimava; l’altro ispirava, già leader, sempre lì a imbeccare, a cazziare (gli arbitri, spesso). E quanti gol, insieme. Perché sì, Boskov aveva un debole per gli attaccanti con poche fisse. Meglio se una: la porta. In questi casi scatta, automatico, lo slogan: nostalgia canaglia. E allora? Pensate: le squadre in lizza erano 18 e zio Vuja ruotò, complessivamente, 19 giocatori. Due in più di quanti ne ha impiegati Mancini nell’epilogo di Londra con l’Inghilterra.

Ne perse solo tre, di partite, la “Sampdoro”, come iniziammo a chiamarla. Anche se la prima fu il derby casalingo del 25 novembre (1-2). Seppe reagire a una doppia sconfitta: 6 gennaio, 1-2 con il Toro; 13 gennaio, 0-1 a Lecce. Batté due volte il Milan e due volte l’Inter. Liquidò la Juventus su rigore, inflisse un duplice 4-1 al Napoli e il secondo atto, a Marassi, coincise con il passo d’addio di Maradona, in odore di doping. Era il 24 marzo 1991, marcò di penalty. Triste, solitario y final.

Con la Samp non volammo sulla luna. Andammo al luna park. Le maglie di foggia missoniana, l’indole dei ragazzi della via Pal adeguata alla volontà – ben retribuita, ma genuina – di essere anti. Mantovani rimane il perno della sfida. Si compose, attorno alla sua eleganza, il Cerchio blu, una sorta di Camelot di giornalisti tifosi della Doria, o comunque a lei vicini, dal quale, in un ristorante di Milano, sarebbe nata l’idea della Supercoppa domestica su dritta di un collega, Enzo D’Orsi. “Scusi, signor presidente, ma come vede…”. “La vedo benissimo”, rispose. E nell’agosto del ’91 la soffiò alla Roma. Si chiuse, il libro, proprio a Wembley, nel 1992, sulla cannonata di Ronald Koeman e la Champions al Barcellona. Wembley, là dove il cuore della sua Samp è tornato, trent’anni dopo, a fare pace con la storia. Immagino, dalle nuvole, la gioia di Edilio, l’oste che, nei panni di Biancaneve, rifocillava i sette nani.

 

“L’amore va dove gli pare: Lgbtq significa umanità”

Lgbtq+: a quanto pare questo acronimo altro non serve che a identificare tutte le sfumature della sessualità umana (eccetto quella comunemente più accettata dell’eterosessualità): Lesbiche, Gay, Bisex, Transgender, Transessuali, Queer, Questioning, Intersex, Pansessuali, Two-Spirit, Asessuati, Ally (amico, sostenitore e difensore della causa della comunità Lgbt, ndr). Ecco, Ally è la “categoria” in cui posso essere me stessa, sono una “Ally ante litteram”. Da sempre ho supportato e mi sono trovata quasi più a mio agio con la comunità Lgbtq+, pur non facendone necessariamente parte, anche quando nessuno ci diceva che fosse giusto farlo, a noi Ally.

Al contrario, “ai miei tempi”, oltre a non esserci nessun riconoscimento in quanto comunità di persone vere, in carne e ossa come tutti gli altri, anche solo il simpatizzare per un non-eterosessuale o con qualcuno fuori dalla “norma” non era visto di buon occhio, per usare un eufemismo. Anche tra ragazzi, a parte nell’ambiente artistico, c’era una sorta di ghettizzazione, di repulsione verso ciò che non era uguale, omologato. Ricordo una volta, ero con Panatta, verso gli inizi degli anni 70, dovevamo andare a prendere Renato (Zero, ndr) in macchina e quando Adriano lo vide, vestito con un costume attillato e boa di piume di struzzo, tutto truccato e con i capelli lunghi, non voleva farlo salire in auto con noi. Non ho mai capito il perché. Io, da eterna outsider, mi sono sempre trovata meglio con le persone fuori da certi schemi, con altri outsider come me.

Per me “diversità” è sempre stata sinonimo di originalità, di unicità. La cosiddetta “normalità” dopo un po’ mi annoiava. Ancora oggi, io stessa, non posso di certo essere considerata una “normale signora di 70 anni”. Io da sempre mi considero una persona diversa e aperta, ma non aperta come quelle che dicono “ho tanti amici gay”, aperta nel senso del “vivi e lascia vivere”: l’amore per me dovrebbe essere una cosa universale. L’amore, quello vero, spazia dentro e fuori dai confini imposti dalla società. Va un po’ dove gli pare, non lo puoi “inscatolare” in una confezione come, ad esempio, la “famiglia tradizionale”. Io sono cresciuta in una famiglia etero tradizionale, eppure di amore non se ne respirava un briciolo. Esistono tante sfumature, tanti modi di sentire, di essere, di amare, di voler esprimersi… io stessa sono stata tante persone, nel corso dei miei “secoli”, un po’ come l’Orlando di Virginia Woolf. E ne ho anche viste e fatte tante… Alla luce di quanto ho vissuto, vi posso assicurare che la comunità Lgbtq+ proprio una minoranza non è. Da sempre… non lo è. Purtroppo in Italia vigeva e vige ancora questo retaggio bacchettone e ipocrita per cui le cose si fanno ma non si dicono… Quando invece bisognerebbe sempre battersi per la propria libertà e per quella degli altri: vivi e lascia vivere, continuo a ripetere. Vivi la tua propria libertà e fa sì che anche per gli altri possa essere lo stesso.

Ora, non vorrei essere banale ma, il mio migliore amico, Leonardo Pastore, gay dichiarato nonché uno dei bracci destri di Fiorucci, l’ho perso perché si è ammalato. A metà degli anni 80 andammo in ospedale a Parigi da Luc Montagnier. Allora nessuno conosceva l’Hiv, c’era tanta ignoranza e si pensava che il contagio potesse avvenire anche solo stringendo la mano, che fosse la “malattia degli omosessuali”, addirittura: l’omosessualità in sé era considerata una malattia ed era fonte a sua volta di un’altra malattia ancora. Leonardo morì poco dopo, l’ho assistito fino alla fine, lavandogli anche i vestiti e le lenzuola sporchi… ancora oggi porto con orgoglio appuntato sui miei abiti il fiocco rosso simbolo della lotta contro l’Hiv. Tanto per non dimenticare.

Negli anni 80 ho frequentato assiduamente la discoteca No Ties di Milano, per gusto e per divertimento (così come tanti centri sociali, come il Leoncavallo). E negli anni 2000 si può dire che abbia fatto più serate in locali Lgbtq+ che concerti canonici: erano anni duri e volevo sentirmi “a casa”. In fondo anche io sono sempre stata una “non-binaria”, non ricordo chi, una volta, mi ha definita come “la donna più dolce e allo stesso tempo l’uomo più incazzato che avesse mai conosciuto”. Ma poi chi lo ha mai stabilito che una donna debba essere per lo più dolce e un uomo per lo più rude? È una sciocchezza bella e buona. Anche nel vestire adoro spaziare. Vesto a seconda di come mi va. Come ha detto Stephen Hawking, “l’intelligenza è la capacità di adattarsi al cambiamento”. E i tempi per fortuna sono cambiati, solo gli stupidi vogliono vedere ancora tutto grigio, guai a colorarlo.

A volte mi sembra di assistere al nuovo Medioevo, pandemia inclusa! Ed è davvero un paradosso perché da una parte vedi giovani tranquilli, rilassati, sessualmente fluidi e dall’altra il rinascere di gruppi e idee di estrema destra, pronti a intervenire con brutalità e violenza (anche verbale) al minimo accenno di libertà e lo Stato è assente. Dobbiamo uscire da questo Nuovo Medioevo e riscrivere tutto l’immaginario.

Spero solo, davvero, che un giorno, “da qualche parte oltre l’arcobaleno” non ci sia più bisogno di sventolarla questa bandiera poiché saremo tutti liberi e fusi in un’unica parola senza bisogno di acronimi: umanità. E l’umanità, si sa, è variegata.

 

C’è la Delta, W la mascherina

Dopo aver espresso tanto entusiasmo per il successo di Israele e Gran Bretagna per la strategia adottata, consistente nel somministrare una prima dose a una popolazione più vasta possibile e aver constatato che funzionasse nei confronti della variante UK, in attesa della seconda dose, abbiamo presto dovuto cambiare parere. Responsabilità della variante Delta, che ci ha posto davanti a un “altro” virus. Dalla prima apparizione in India alla fine del 2020, la variante Delta di SARS-CoV-2 è diventata il ceppo predominante in gran parte del mondo. Secondo le stime attuali, la variante Delta potrebbe essere più del doppio trasmissibile rispetto al ceppo originale come afferma l’epidemiologo Jing Lu presso il Centro provinciale per il controllo e la prevenzione delle malattie del Guangdong a Guangzhou, in Cina, che ha evidenziato “cariche virali” fino a 1.260 volte superiori a quelle delle persone infette dal ceppo originale. In un preprint, pubblicato il 12 luglio, riferisce che il virus è stato rilevabile per la prima volta nelle persone con la variante Delta quattro giorni dopo l’esposizione, rispetto a una media di sei tra le persone con il ceppo originale.

Abbiamo poi constatato che solo la vaccinazione completa possa costituire un valido scudo nei suoi confronti e, purtroppo, non totale. Bisogna informare che la guerra è cambiata.

Quante volte si vede gente che, giustificando il loro gesto con il fatto d’essere vaccinati, non usa la mascherina! Purtroppo non c’è green pass che ci protegga. Neanche aver avuto un referto negativo per un tampone (potremmo diventare positivi un’ora dopo), né l’assenza di sintomi, possono rassicurarci. L’unica nostra assoluta garanzia si affida al più economico dei mezzi disponibili, la mascherina. Siamo in una fase molto delicata. Il virus circola soprattutto fra i giovani, che spesso non sono tracciabili per paura di venire bloccati da un esito positivo del tampone, circola fra i vaccinati, spesso asintomatici o paucisintomatici. Purtroppo il pericolo è per i fragili. È per loro che tutti dovremmo indossare la mascherina, unica barriera totale.