L’abbraccio europeo fra Gianluca Vialli e Roberto Mancini, così forte, così spontaneo, ha riportato la vita, non solo lo sport, alla scintilla che ne sprigionò e alimentò il fuoco. Lo scudetto della Sampdoria. L’ultimo fuori del triangolo Juventus-Milano-Roma. Trent’anni fa. Il 19 maggio 1991: la domenica del 3-0 al Lecce. Il mondo distratto dalla guerra del Golfo e sollevato dalla fine di un incubo, l’apartheid in Sudafrica. L’Europa alle prese con le ceneri dell’impero sovietico e le briciole bollenti della ex Jugoslavia. In Italia, il Partito comunista diventa democratico, nasce la Lega Nord di Umberto Bossi, sta per divampare Mani Pulite.
E il calcio? Reduce dalle notti del Mondiale 90, tutte magiche tranne una: quella con l’Argentina di Maradona. Mancini non vide mai il campo, Vialli lo perse incalzato dai gol e le pupille invasate di Schillaci. Non fu uno sparo, l’impresa della Sampdoria: fu una sparatoria. Non veniva dal nulla, come il Leicester di Ranieri. Società relativamente giovane (1946), sbocciata dalla fusione fra Sampierdarenese e Andrea Doria e soffocata dalla gloria antica del Genoa, nove scudetti dal 1898 al 1924, trovò in Paolo Mantovani lo strumento del destino. Originario di Roma, petroliere facoltoso e temerario, generoso al punto da versare un paio di milioni (di lire) purché i “cugini” non cedessero Gigi Meroni al Toro, doriano fino al midollo. Da addetto stampa a proprietario, nel 1979. Raccolta in B, la costruì pezzo su pezzo, attento allo stile, alle differenze, lui che sognava, un giorno, di essere citato: ci sarebbe riuscito. Scovò Vialli a Cremona, Mancini a Bologna. Tre Coppe Italia e una Coppa delle Coppe introdussero l’ultimo balzo, sempre il più arduo. Le gerenze, all’epoca, erano snelle. Un presidente, un direttore sportivo (Paolo Borea, gran fiuto), un mister: Vujadin Boskov. Allenatore istrione, un po’ padre e un po’ precettore. Belle, le battute: “Fuoriclasse vede autostrade dove altri solo sentieri”; “Se uomo ama donna più di finale di Champions in tv, forse vero amore ma non vero uomo”. Sotto le gag, però, un gigante. Con un vice del calibro di Narciso Pezzotti. E, colonna sonora, l’allegoria dei sette nani: Vialli era Pisolo, Mancini Cucciolo. Si litigava, ma poi stop: uno per tutti. È lo spirito che il Ct ha travasato nella Nazionale, portandosi dietro teste e testi: il concetto di famiglia, il piacere del dovere.
Gli avversari erano il Napoli del Pibe, campione uscente, l’Inter tedesca del Trap, il Milan che Arrigo Sacchi aveva spinto oltre le tradizioni e le convenzioni, la Juventus di Roberto Baggio agghindata dalla zona champagne di Gigi Maifredi, un ibrido che l’avrebbe relegata al settimo posto e cacciata dall’Europa. La Samp, “quella” Samp, praticava un calcio misto, fondato su una difesa sobria e un contropiede “ebbro”: nel senso che ubriacava. Il portiere era Gianluca Pagliuca. Libero, Luca Pellegrini, il capitano, o Marco Lanna. Marcatori ad personam, Pietro Vierchowod detto lo zar e Moreno Mannini: guai a voi, anime prave. Quindi una linea che coinvolgeva Attilio Lombardo, ala tornante; Fausto Pari, il classico mediano che poco segnava e molto sgobbava; Cerezo, il podista che rovesciava il fronte alla brasiliana, tutto samba e chissenefrega; Srecko Katanec, giraffone sloveno; Beppe Dossena, bussola o trequartista in base alle esigenze, con Ivano Bonetti e Gianni Invernizzi jolly preziosi. Più Marco Branca, bomberino di scorta, e Aleksei Mikhailichenko, ucraino di lotta e di governo. Su tutto, e su tutti, i “gemelli”: Vialli, lo scultore. Mancini, il pittore. L’uno, trascinava e tracimava; l’altro ispirava, già leader, sempre lì a imbeccare, a cazziare (gli arbitri, spesso). E quanti gol, insieme. Perché sì, Boskov aveva un debole per gli attaccanti con poche fisse. Meglio se una: la porta. In questi casi scatta, automatico, lo slogan: nostalgia canaglia. E allora? Pensate: le squadre in lizza erano 18 e zio Vuja ruotò, complessivamente, 19 giocatori. Due in più di quanti ne ha impiegati Mancini nell’epilogo di Londra con l’Inghilterra.
Ne perse solo tre, di partite, la “Sampdoro”, come iniziammo a chiamarla. Anche se la prima fu il derby casalingo del 25 novembre (1-2). Seppe reagire a una doppia sconfitta: 6 gennaio, 1-2 con il Toro; 13 gennaio, 0-1 a Lecce. Batté due volte il Milan e due volte l’Inter. Liquidò la Juventus su rigore, inflisse un duplice 4-1 al Napoli e il secondo atto, a Marassi, coincise con il passo d’addio di Maradona, in odore di doping. Era il 24 marzo 1991, marcò di penalty. Triste, solitario y final.
Con la Samp non volammo sulla luna. Andammo al luna park. Le maglie di foggia missoniana, l’indole dei ragazzi della via Pal adeguata alla volontà – ben retribuita, ma genuina – di essere anti. Mantovani rimane il perno della sfida. Si compose, attorno alla sua eleganza, il Cerchio blu, una sorta di Camelot di giornalisti tifosi della Doria, o comunque a lei vicini, dal quale, in un ristorante di Milano, sarebbe nata l’idea della Supercoppa domestica su dritta di un collega, Enzo D’Orsi. “Scusi, signor presidente, ma come vede…”. “La vedo benissimo”, rispose. E nell’agosto del ’91 la soffiò alla Roma. Si chiuse, il libro, proprio a Wembley, nel 1992, sulla cannonata di Ronald Koeman e la Champions al Barcellona. Wembley, là dove il cuore della sua Samp è tornato, trent’anni dopo, a fare pace con la storia. Immagino, dalle nuvole, la gioia di Edilio, l’oste che, nei panni di Biancaneve, rifocillava i sette nani.