Questa giustizia aiuta i colpevoli

Il progetto di legge sulla “improcedibilità” dei processi prospettato dal ministro della Giustizia Marta Cartabia, una costituzionalista con tutte le carte in regola ma stretta tra le esigenze contrastanti dei partiti, quelli (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia) che vogliono rendere di fatto non perseguibili i reati di corruzione, e gli altri (5stelle, Leu e nel suo modo tremebondo anche il Pd), somiglia molto da vicino al “calmiere del pane” di manzoniana memoria.

Nella prima metà del Seicento, poiché il pane scarseggiava il suo prezzo salì alle stelle. Le autorità spagnole pensarono allora di imporre per decreto un prezzo ufficiale del pane molto più basso di quello di mercato. Risultato: anche quel poco pane sparì dalla circolazione, si comprava a prezzi ancora più alti al mercato nero oppure causava rivolte popolari di cui, nel romanzo del Manzoni, è protagonista anche Renzo Tramaglino.

Ora imporre per legge che se fra la sentenza di primo grado e la decisione d’Appello passano più di due anni o fra la sentenza d’appello e quella di Cassazione non possono passare più di 18 mesi, ha lo stesso senso. Infatti, data la lunghezza delle nostre procedure, è pressoché impossibile rispettare questi tempi. Quindi sarà facilissimo per gli imputati, soprattutto per quelli che dispongono di un robusto collegio di difesa, arrivare alla “improcedibilità”, cioè al fatto che i reati che hanno commesso non sono più perseguibili. La precedente legge Bonafede che annullava i tempi della prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado scontava anch’essa i tempi lunghi, abnormi del nostro processo, però prima o poi a una sentenza si sarebbe arrivati e l’imputato, se colpevole, sarebbe stato punito e le vittime risarcite. Con la legge Cartabia tutto finisce in cavalleria, gli imputati, colpevoli o innocenti che siano, non possono essere più giudicati e le eventuali vittime dei loro reati non possono essere più risarcite. Per ritornare all’immagine del “calmiere del pane” è inutile, e in questo caso per nulla innocente, decretare per legge l’impossibile.

Qual è allora il vero problema della giustizia italiana? Con tutta evidenza i suoi tempi abnormi. È un tasto su cui batto da quando, come cronista giudiziario, faccio il giornalista, diciamo, ahimè da cinquant’anni. Si tratta quindi di semplificare le procedure. Purtroppo il retaggio storico non ci aiuta. Mentre il diritto anglosassone prende da quello romano, un diritto pratico, diciamo così contadino, che sacrifica l’assoluta certezza del giudizio alla velocità, noi abbiamo ereditato invece il diritto bizantino che con la pretesa di arrivare a una certezza assoluta prevede una serie di ricorsi e controricorsi, misure e contromisure, pesi e contrappesi, che finiscono per fallire l’obiettivo. Perché a distanza di anni i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite o addirittura illeggibili.

Su questa base già compromessa si sono aggiunte negli ultimi trent’anni, in era cioè berlusconiana, leggi cosiddette “garantiste” che appesantiscono ulteriormente l’iter del processo. In realtà si tratta di un “garantismo” peloso perché danneggia proprio l’imputato innocente. Qual è l’interesse dell’imputato innocente? Quello di essere giudicato il prima possibile. Qual è quello del colpevole? Di essere giudicato il più tardi possibile o, meglio ancora, mai. È la storia di Berlusconi e di tutti i ‘berluscones’, cioè dei corruttori e dei corrotti degli ultimi decenni.

Sveltire le procedure non è facile ma è possibile. Siamo, credo, l’unico Paese al mondo ad avere tre gradi di giudizio: primo grado, appello, Cassazione. Ora i primi due gradi si occupano del merito della causa, la Cassazione dovrebbe limitarsi a controllare che tutto si sia svolto secondo le regole. Senonché la Cassazione, col grimaldello che il dispositivo deve essere coerente con le motivazioni, si è trasformata a sua volta in un giudizio di merito. Quindi infinite sono le volte in cui la Cassazione rinvia il processo alla Corte d’appello che deve riesaminare tutto ripartendo da capo. E non è finita qui perché rinviando il suo secondo giudizio alla Cassazione questa può di nuovo bocciarglielo, rimandarglielo, innescando una procedura che non ha mai fine e che porta inevitabilmente alla prescrizione dei reati, senza che si sappia se l’imputato è innocente o colpevole e senza che le vittime, se tali sono, abbiamo il risarcimento che è loro dovuto.

Questa è la prima stortura che potrebbe essere facilmente eliminata riportando la Cassazione ai suoi compiti formali. Il secondo intervento che si potrebbe fare riguarda la cosiddetta reformatio in peius. Attualmente se uno ricorre contro una sentenza di primo grado, il giudice d’Appello non può infliggergli una pena superiore a quella che gli è stata comminata in primo grado. È chiaro che in questo modo tutti hanno interesse a fare appello, tanto peggio di come gli è andata non gli può andare, intasando così ulteriormente i Tribunali.

La lunghezza del processo penale italiano ha poi altre ricadute pesantissime. Sulla detenzione preventiva. Se le istruttorie durano all’infinito l’imputato che è stato incarcerato può rimanere anni in gattabuia (non è necessario ricorrere al clamoroso ‘caso Naria’, un presunto terrorista rosso che rimase in carcere nove anni per essere poi riconosciuto innocente), ci sono altri infiniti casi del genere (ricordiamo per tutti la vicenda Valpreda rimasto in carcere quattro anni prima di arrivare a un processo che lo dichiarò innocente). In Gran Bretagna, che dista da noi un’ora e mezza di volo, la detenzione preventiva dell’indagato, di cui peraltro non può essere fatto nemmeno il nome se non “come persona informata dei fatti”, non può durare più di ventotto o trentadue giorni, a seconda della diversa composizione del Giurì cioè della gravità del reato. Immediatamente dopo segue il dibattimento. Se l’indagato risulterà innocente il suo sarà stato uno spiacevole incidente di percorso ma non la distruzione di una vita come avviene quando la detenzione preventiva dura anni.

Il problema si interseca anche con la libertà di stampa. In Italia basta un avviso di garanzia per innescare quello che si chiama “il tritacarne massmediatico”. La sacrosanta presunzione di innocenza si capovolge, di fatto, in una “presunzione di colpevolezza”. Nel vecchio codice di Alfredo Rocco, che sarà stato anche un fascista ma era un giurista di prim’ordine, le istruttorie erano segrete, perché nella fase delicata delle indagini preliminari in cui la polizia giudiziaria e i Pm vanno a tentoni possono rimanere impigliate persone che nulla hanno a che fare con il reato. Attraverso il vaglio del Gip, il giudice delle indagini preliminari, arriveranno al dibattimento solo gli elementi che sono realmente utili al processo. Insomma in uno stato democratico le istruttorie sono segrete, il dibattimento è pubblico. In uno totalitario anche il dibattimento è segreto. Ma se le istruttorie durano anni come da noi chiedere alla stampa il silenzio vuol dire di fatto metterle la mordacchia.

È quindi sulla devastante lunghezza delle nostre procedure penali e civili che bisognerebbe insistere, più che sulla composizione del Csm o le correnti dei magistrati, che sono problemi certamente importanti ma di secondo grado rispetto al primo. Ma non lo si farà mai per ragioni che con la Giustizia non hanno nulla a che vedere. E mi pare patetico il tentativo di Marco Travaglio, che in questo come in tanti altri casi, cerca di riportare la logica in un Paese in cui la logica, diciamo il principio aristotelico di non contraddizione su cui è basato, tra l’altro, quel computer di cui facciamo quotidianamente uso, è completamente saltata. In Italia ci sarebbero così tante cose da fare, che ormai non c’è più nulla da fare.

 

Il senso della storia per i cronisti a Tokyo

Ogni quattro anni si crea in qualche parte del mondo una città artificiale, l’Olimpiade. Più di diecimila atleti di tutto il mondo si danno appuntamento per affrontarsi e darsele di santa ragione in discipline classiche (il lancio del disco, le staffette, la maratona, i tuffi) o in gare improbabili e spesso sconosciute ai più (il taekwondo, lo skateboard street, il bmx). In aggiunta, almeno ventimila altre persone fra familiari, staff, preparatori, giudici di gara, organizzatori e giornalisti. Un circo Barnum che inevitabilmente stravolge tutte le regole di comportamento a cominciare dal linguaggio e dai criteri di valutazione. I giornalisti per primi, a cominciare dai telecronisti, o meglio, a cominciare dai telecronisti italiani. Nel mese olimpico trionfa l’esagerazione. Il senso critico diventa una opzione inutile e poco praticata. Tutto diventa stupendo, eccezionale, clamoroso. Ma soprattutto “storico”. Per il telecronista italiano basta poco perché a un atleta azzurro capiti di “entrare nella storia”. Abbiamo vinto finora pochissime medaglie d’oro, ma non abbiamo fatto altro che entrare nella storia. Basta arrivare in finale per ottenere un risultato storico. “Vai, vai, sei nella storia!”. Qualche volta in realtà si è anche nella leggenda, ma per entrare nella leggenda (anche i telecronisti italiani hanno una specie di senso del limite) ci vuole almeno un record mondiale. D’altra parte per i telecronisti italiani la vita è dura. O sanno pochissimo, e quindi si dilettano a raccontare la rava e la fava, da quello che hanno fatto il giorno prima, alle loro opinioni su qualsiasi sciocchezza, spesso ridacchiando, oppure sanno troppo e allora ci ammorbano con termini tecnici insopportabilmente incomprensibili e quasi sempre in lingue straniere (vedere per credere le gare di ginnastica e di tuffi). E comunque, appena sono in difficoltà, parte l’affondo. “Il nostro azzurro è entrato nella storia!” Ma come sarebbe a dire? È entrato nella storia? Ma è arrivato sesto! “Certo, ma mai nessun italiano era arrivato sesto”. Be’ certo, se la metti così! Odio il linguaggio dei telecronisti sportivi. “Interpreta bene la competizione”, “Sa leggere con cura la gara”, “È molto forte, soprattutto mentalmente”. Per non parlare di quelli che ogni tre per due “fanno la differenza”. Però debbo ammetterlo, fare la differenza è meglio che fare la storia.

Cyber-security chi? Solo Paita a parlarne

Così passa la gloria del mondo; figurarsi quella dell’agenzia per la cybersecurity, che per restare in tema di citazioni sembra aver goduto giusto di un quarto d’ora di celebrità prima di eclissarsi nel disinteresse generale. I più attenti ricorderanno come, per mesi, Italia Viva e il centrodestra, a cavallo tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, crocifissero Giuseppe Conte sul tema della cybersecurity, tutti preoccupati che l’ex premier volesse creare una sorta di fondazione fantoccio per occuparsene, in sostanza muovendone i fili quale oscuro burattinaio. E il tema riempiva pagine e pagine di giornali, inondava le agenzie e i resoconti stenografici del Parlamento: tutti sembravano non pensare ad altro. Un tema dirimente, centrale. Ora che la cronaca ci racconta di un pericolosissimo attacco hacker alla sanità, per paradosso l’argomento non interessa più. Basta una ricerca online con la parola chiave “cybersicurezza” per accorgersi di quanto sia moda passata, dopo che peraltro il nuovo governo ha ridefinito i contorni dell’agenzia dedicata. Ultima giapponese nella giungla è Raffaella Paita, renziana di cui qui elogiamo la costanza: “L’agenzia per la cybersicurezza parta subito”. Prossima resurrezione: il Mes.

Mail box

 

La nostra Fondazione e il sostegno dei lettori

Ho letto che da settembre sarà creata la Fondazione per cercare di migliorare la società in cui viviamo. Ho provato un moto di speranza e di vera gioia, come quando qualcuno ti tende la mano per aiutarti a uscire da una situazione difficile. Per me il Fatto rappresenta una mano tesa ogni giorno, per tenere duro di fronte allo sfacelo che molti politici e quasi tutta l’informazione schierata palesano, per mantenere un sistema di privilegi e di corruttele. Sono stato tra i primi a sottoscrivere l’abbonamento al Fatto e anche in questa occasione vorrei ripetermi ed essere tra i primi a sostenere la nascente Fondazione. Fatemi sapere come aderire.

Francesco Albanese

Cara Monteverdi, la vostra iniziativa mi riempie di gioia. Sono un lettore della prima ora (conservo il primo numero di Padellaro) e pur non pensandola (politicamente parlando) come voi, continuerò a sostenervi perché voi onesti e indipendenti, possiate dare il vostro contributo al miglioramento anche umanitario della società in aggiunta alla libera informazione. In bocca al lupo!

Raffaele Fabbrocino

Voglio esprimere la mia ammirazione nei vostri confronti: la Fondazione che avete annunciato è sicuramente un progetto utile, una sorta di “luce nelle tenebre” in questi tempi bui. Vi auguro il maggior successo, al quale cercherò di contribuire (nei limiti delle mie possibilità). Buona fortuna!

Mauro Chiostri

Ecco perché ritengo il Fatto una diversità nel panorama della informazione. Con l’ultima iniziativa della Fondazione umanitaria ne è la conferma dei valori dalla sua nascita indipendenza, trasparenza, rapporti coi suoi lettori, di cui come socio sostenitore abbonato a Millennium mi pregio di contribuire affinché questa testata abbia un lungo futuro. Buon lavoro a tutti.

Aldo Gardi

Che dire, oltre che grazie? Che siete uno stimolo per coloro che vogliono appartenere a un’Umanità solidale.

Graziano Borniotto

Gentile presidente Monteverdi, accolgo con grande favore e partecipazione l’annuncio della Fondazione! Aggiungo che sono interessato a unirmi come volontario per le iniziative rivolte a favore di chiunque ne abbia bisogno, soprattutto tra le fasce deboli. Mi appassiona aiutare gli indigenti e bisognosi, ma anche l’ambiente. Sono convinto che la dinamite dei cambiamenti climatici stia annientando il mondo. Se è possibile e mi aiutate a individuare come, ne sarò contento e motivato.

Ambrogio Lualdi

Sono abbonato partner plus, vi seguo (quando posso) in ogni dove! Anche in questo caso, mi farò trovare pronto. Bellissima iniziativa quella della Fondazione. Forza, andiamo avanti.

The_doctor

Bravi, bella iniziativa. Sono più che certo che la Fondazione opererà nella massima trasparenza per zittire chi da subito vi getterà fango addosso accostandola ad altre fondazioni, e relativi fondatori, cui niente importa dell’umanità ma molto dell’utilità.

Ifonly

Ho cominciato a leggere Il Fatto fin dal primo numero, proveniente dall’esperienza di “avvenimenti” che spero qualcuno ricordi e sono orgoglioso di essere un abbonato. Certamente ci sarà chi proverà a infangare questa fantastica iniziativa, noi abbonati siamo certamente tutti con voi.

Mario

 

Mentirei se dicessi che non me l’aspettavo. Sono arrivate tantissime email, tantissimi messaggi e tantissimi commenti da parte dei nostri lettori e di chi ci segue, sui social e sul sito per manifestare l’entusiasmo e l’approvazione nei confronti della costituzione della Fondazione Fatto Quotidiano con scopi umanitari. Molte persone ci chiedono come contribuire, e ancora una volta raccogliamo in primis la fiducia della nostra comunità. La Fondazione verrà costituita entro metà settembre e poco dopo, cioè entro la fine dello stesso mese, lanceremo i primi progetti sui quali lavoreremo. Tutti coloro che vorranno sostenerci lo potranno fare su progetti chiari, tangibili e verificabili. L’obiettivo a breve termine è partire, prima possibile; l’obiettivo a lungo termine è parlare con le persone, conoscere sempre meglio il territorio e per questo partirà un tour di incontri apposito. Sceglieremo i progetti grazie a un comitato scientifico e di indirizzo, ma anche grazie alla base sociale con la quale dovremo comunicare sempre di più, perché i bisogni nascono lì. Ogni anno avremo progetti ben definiti sui quali lavorare confrontandoci anche con associazioni di volontariato che già operano egregiamente nel nostro Paese e che potranno ricevere il nostro sostegno. La sfida che ci aspetta è importante e molto ambiziosa, dunque difficile. Ma siccome le nostre intenzioni sono serie e sane, ce la faremo sicuramente. A presto.

Cinzia Monteverdi

 

I NOSTRI ERRORI

Nel mio articolo di ieri (“Libertine, amorevoli, pazze: il ramo femminile dei van Gogh”), la citazione “infelice a modo proprio” appartiene a Tolstoj e non, come scritto, a Dostoevskij. Me ne scuso con i lettori.

AMF

“Le tante dispute tra ricercatori non smentiscono l’esistenza dell’Hiv”

Sul “Fatto” di qualche giorno fa, la professoressa Gismondo ha scritto che Gallo dimostrò che “la malattia poteva essere attribuita a un retrovirus” e definisce l’Hiv come “il virus responsabile dell’Aids”. Io però non posso che continuare a credere al premio Nobel, Kary Mullis, che non è riuscito a trovare uno straccio di prova di un ruolo causale dell’Hiv nell’Aids e ci ha lasciato un paio di anni fa, senza ritrattare. Nel 1983, Montagnier ha isolato l’Hiv e l’ha inviato a Robert Gallo, come si fa tra colleghi, essendo entrambi esperti di virus. Gallo si è trovato quel virus in mano proprio quando aveva il ministro della Sanità sulla porta con una pioggia di finanziamenti pronti. Così ha dichiarato di avere trovato la causa dell’Aids e che gli ci volevano un paio di anni per trovare la cura. Montagnier gli ha fatto subito causa e dopo anni l’ha vinta, ma nel frattempo si sono passati pane e forchetta, dividendosi le royalty (i diritti sui brevetti) dei test per l’Hiv. Difficile scrivere di questo argomento: si viene accusati di indurre comportamenti a rischio. Ma affermare che l’ipotesi virale dell’Aids sia una cazzata non è uguale a dire che non si tratti di malattia contagiosa.

Alessandro Freddi

 

Gentile signor Freddi, come peraltro affermato nell’articolo che lei cita, sono molte le scoperte scientifiche che hanno alimentato ipotesi diverse e dibattute attribuzioni. Purtroppo non esiste in questi casi un “test genetico” per l’attribuzione della paternità, come accade nel diritto forense. Conosco le querelle che lei riferisce e certo non ho strumenti per apporre l’ultima parola nella disputa Gallo-Montagnier. L’esito della causa, che rispetto dal punto di vista legale, non mi fa cambiare idea, visto che ho avuto contatti diretti con Gallo in quegli anni, all’inizio dei miei interessi scientifici. Accolgo la sua richiesta di citare le fonti, ma potrei risponderle con identica richiesta. Non mi risulta affatto chiara la sua posizione sul virus. Posso solo dirle che, lavorando ormai da più di vent’anni al Sacco di Milano, il virus l’ho “incontrato” molto spesso, negli occhi spaventati di giovani che hanno perso la vita. Oggi la situazione, grazie alla ricerca scientifica, è cambiata. L’Aids, che è stato per decenni una condanna a morte, è diventato una malattia curabile. Purtroppo, come spesso accade, questi traguardi inducono a comportamenti irresponsabili. I giovani, a causa di una totale assenza di informazione, credono che l’Aids non esista più. Pochi sono consapevoli che ancora se ne può morire e che curarsi vuol dire condizionare la propria vita e quella di chi ci vive accanto.

Prof. Maria Rita Gismondo

Renzi non ha mai sudato in vita sua, tranne che a tennis

Dall’alto del suo 2% stitico e forte del titolo di “politico più odiato d’Italia”, Renzi è tornato a cannoneggiare il Reddito di cittadinanza. Lo ha fatto durante una delle sue presentazioni del suo nuovo libro, intitolato con commovente eufemismo Controcorrente: tenendo conto di come nessuno come lui incarni – da sempre – potere e restaurazione, sarebbe quasi come se Giletti intitolasse la sua autobiografia “Onestà intellettuale”.

Renzi si stava intervistando da solo, con somma gioia anche di colei che alla sua destra era lì – in via meramente teorica – per porre domande. Si sa però come funzioni ormai quel che resta del renzismo: null’altro che lunghi monologhi del tramontante Capo, circondato da silenti giannizzeri disposti a tutto pur di farlo sentire ancora Re. La donna, da Bellanova a Bonetti giù giù fino a chi c’è, in queste meste recite pubbliche è spesso ridotta a un ruolo “ancillare”, ma in pochi tra gli scribi lo notano. Renzi resta il più odiato nel mondo reale e al contempo il più idolatrato dai giornaloni. (E poi qualcuno si stupisce del fatto che la categoria giornalistica italiana sia tra le più sputtanate nel mondo..).

Il video dello sproloquio di Renzi ha fatto il giro del web, scatenando critiche, insulti e terribili prese per i fondelli: quel che ormai accade ogni volta che Renzi apre bocca. Per l’occasione ha spopolato pure l’hashtag #Renzifaischifo, che sarebbe un bel titolo per una futura pubblicazione della nostra amata Diversamente Lince di Rignano.

Sebbene la visione risulti assai indigesta, anche solo per motivazioni prettamente estetiche, si consiglia di guardare quel video. È infatti emblematica la prossemica del Nostro: stravaccato sulla poltrona, con una canotta bianca drammaticamente attillata che ne esalta la pancia, Renzi si mostra chissà perché gigione e comicamente sicuro di sé. Deve avere degli specchi foderati in ghisa e deve conoscere unicamente sondaggisti ubriachi, altrimenti non si spiega. Con una dizione particolarmente sconfortante e un’inflessione dialettale che avrebbe indotto Dante a fingersi tutto fuorché fiorentino, l’uomo che doveva smettere con la politica il 4 dicembre 2016 (e a modo suo lo ha fatto, anche se non se n’è ancora accorto) ha avuto il coraggio di dire: “Il referendum sul Reddito di cittadinanza è una grande operazione educativa e culturale (..) Voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire… rischiare, provare, correre, giocarsela. Bisogna sudare ragazzi, i nostri nonni hanno fatto l’Italia spaccandosi la schiena, non prendendo i sussidi dallo Stato”.

Al netto di una costruzione semantica agonizzante, l’esortazione a non affidarsi unicamente ai sussidi (per quanto esposta male) è in sé condivisibile. Solo che Renzi è l’ultima persona che può parlare di lavoro e sudore. Ma proprio l’ultima. Per certi versi non ha praticamente lavorato mai. Ha sudato in vita sua giusto una volta, quando ha perso 6-0, 6-1 contro il Poro Asciugamano nel Circolo Tennis “John Fava” di Rignano sull’Arno. Ed è uno che “invidia” il costo del lavoro al noto filantropo Bin Salman. Con quale coraggio uno così (ancora) parla?

È sconcertante come, ogni volta che ci sia la possibilità di sbagliare tutto, Renzi non si faccia mai sfuggire l’occasione. O ama farsi scrivere i testi da Maria Teresa Meli. O è masochista come nessuno. Oppure ha perso qualsivoglia contatto con la realtà. Sia come sia: non si vedeva un’agonia politica così straziante dai tempi della caduta dell’impero achemenide di Dario III nella battaglia di Gaugamela. Spiace.

 

Un Parlamento delegittimato non può eleggere il Presidente

All’apertura del semestre bianco lo scompigliato quadro politico sconsiglia vaticini sull’elezione del futuro inquilino del Quirinale. Resta il pericolo di un accordino al ribasso su un candidato da eleggere, dopo il terzo scrutinio, con una risicata maggioranza. Ciò induce brevi riflessioni che partono dall’esito del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari e dalla conseguente nuova disciplina costituzionale, operativa dal 6 gennaio 2021, ma bloccata dalla pandemia.

Senza Covid, era giocoforza che un Parlamento, delegittimato da se stesso e dal responso popolare, dovesse essere sostituito al più presto da nuove Camere. L’aver richiesto il consenso del popolo sovrano, peraltro, ha reso più nitido il contesto giuridico per la coincidenza della volontà popolare con quella del Parlamento: un doppio sigillo di favore per la riforma che ne preclude qualsivoglia ritrattabilità, imponendone per contro una celere attuazione. L’evidente ragione scaturisce dal rilievo che l’attuale composizione delle Camere non corrisponde più alla volontà del soggetto titolare della sovranità. L’immediata conseguenza è la precaria legittimazione del Parlamento, determinata dallo stato di necessità, cioè da una specie di prorogatio. Può tale organo legittimamente eleggere un nuovo capo dello Stato?

In seguito al referendum del settembre 2020, è venuto meno, per volontà popolare, proprio quel rapporto politico e fiduciario e si è per l’effetto consumata la legittimazione primaria a esprimere scelte di autentica provenienza dal soggetto titolare della sovranità. Un’elezione che non tenga presente la nuova situazione si risolverebbe in un vulnus costituzionale: si renderebbe perplessa, nell’eletto, la prerogativa tipica del presidente della Repubblica di rappresentare l’unità nazionale, che accede all’indubbia qualità di quell’ufficio di provenire, seppure in via mediata, dal popolo e quindi dalla Nazione.

È tuttavia imprescindibile procedere, nel febbraio 2022, a quella elezione per scadenza non prorogabile dell’attuale mandato. In tale frangente unica soluzione plausibile e appropriata si prospetta la rielezione, per il tempo necessario, dell’attuale presidente, il quale vanta comunque un titolo proveniente da un Parlamento a suo tempo sicuramente abilitato a tradurre nell’elezione la volontà popolare. Un’ulteriore permanenza temporalmente limitata a maggio o settembre 2023 assumerebbe il significato di rispettosa attenzione alle prerogative che eserciteranno pienamente le nuove Camere e agevolerebbe il rapporto di effettiva esponenza dell’unità nazionale nel presidente da eleggere dopo il rinnovo parlamentare. Il modello, caratterizzato dalla funzionale temporaneità della carica, presenta forti analogie con quello usato nel 1946 quando l’Assemblea Costituente elesse Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato per i tempi tecnici necessari per concludere i lavori e inaugurare l’ordinamento costituzionale della neonata Repubblica.

Tutte le altre manovre e misere trame che i nostrani Talleyrand in sessantaquattresimo stanno studiando si rivelano, di conseguenza, frutto d’inesatta percezione dei principi costituzionali e, quasi certamente, di cinismo e mancanza di rispetto per il popolo sovrano.

 

Il Salvini “draghista” fa flop in tv

Ricordate quando Matteo Salvini era la star incontrastata dei talk show? Con i conduttori che se lo disputavano, mani giunte e in ginocchio, neanche fosse Cristiano Ronaldo o Angelina Jolie? A tal punto riconoscenti, se finalmente appariva, e abbacinati come i pastorelli al cospetto della Madonna di Fatima, da apparecchiargli intere trasmissioni, quanto è buono lei, perché si esibisse nei pallosissimi comizietti, impossibili da interrompere come un’emozione in luna di miele? Be’, se vi siete dimenticati del Salvini superstar, poco male, visti gli ultimi, implacabili ascolti culminati, si fa per dire, con il Salvini superfiasco di sabato sera. Quando, intervistato a In Onda da Concita De Gregorio, ha raccolto un ascolto, o meglio un pianto, del 3,83 % (597mila spettatori). Quasi doppiato su Rete 4, alla stessa ora, da Stasera Italia, la trasmissione concorrente condotta da Veronica Gentili: 5,72-5,97% (916- 996mila spettatori). Sono sfaceli che possono avere tra le varie concause il contesto televisivo, con il pubblico a cui si rivolgeva, quello di La7, più orientato a sinistra e quindi meno propenso a dare retta al leader leghista. Può esserci poi l’incombente concorrenza, anche televisiva, di Giorgia Meloni, percepita dal pubblico come più autentica e ruspante rispetto all’ex Capitano, criticato per le troppe parti in commedia, poco di lotta e troppo di governo. Uno che nel non troppo fertile immaginario sovranista, viene accostato ai cacciatori di poltrone (argomento che la leader di FdI, per carità di destra, evita di sollevare). Del resto, i fanatici del Salvini con la bava alla bocca dedito alla caccia all’immigrato, stentano a riconoscerlo: la mattina entusiasta di Mario Draghi, il pomeriggio che si vaccina e alla sera zitto e mosca sui parlamentari del Carroccio in piazza con i No-Vax e i No-Pass. Può essere infine che, dài e dài, anche il nostro sia rimasto vittima della sindrome di Matteo Renzi, la cui sola visione comporta un’immediata pressione sul telecomando, e non certo per alzare il volume. Anche in questo i due Matteo sono gemelli.

Sinistra, Draghi e banche: quello che non ci dicono

Spiace dover dare ragione a Giorgia Meloni che sul Corriere della Sera ha buon gioco nel fustigare il conflitto d’interessi e le guerre di potere in area Pd, tra le cause che hanno contribuito a mettere nei guai il Monte dei Paschi di Siena. Fummo facili profeti l’autunno scorso quando invano chiedemmo all’allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti, di prendere pubblicamente le distanze dalla scelta di Pier Carlo Padoan che si dimetteva da parlamentare per assumere la presidenza di Unicredit. Era l’ennesimo messaggio inequivocabile di una propensione tutta interna all’establishment, di un intreccio malsano fra politica e finanza, esito ultimo dell’abdicazione dei gruppi dirigenti della sinistra alla propria funzione storica di tutela degli interessi del mondo del lavoro. Né può valere come scusante che Padoan fosse un tecnico prestato alla politica, visto che gli era stato assegnato l’incarico di ministro dell’Economia, seguito poi dalla candidatura alla Camera. Se quella di Padoan è stata una scelta personale, il partito doveva avere il coraggio di criticarla pubblicamente. Il Pd non lo ha fatto, o forse non lo ha potuto fare, perché di quel genere di commistioni si nutre da troppi anni, fino a introiettarle nel suo codice genetico.

Un tempo la politica economica della sinistra, comunista, socialista e cattolica, era affidata a personalità come Giorgio Amendola, Luciano Barca, Antonio Giolitti, Carlo Donat Cattin, Romano Prodi, la cui indipendenza dai poteri forti risultava inscritta nelle loro stesse biografie. Mi rendo conto che Zingaretti e Letta si sono trovati a fronteggiare una situazione già compromessa. Il Monte dei Paschi di Siena, in particolare, è stato un vero e proprio campo di battaglia in cui si sono fronteggiate ambizioni egemoniche di leader nazionali con interessi i più vari di potentati locali, massonici e, in misura minore, sindacali. È stata ricordata l’incauta investitura dalemiana su Vincenzo De Bustis, promosso da Banca 121 a Mps dopo frettolosa annessione. Andrebbe citato ancora il tentativo dell’ex sindaco Pier Luigi Piccini di assumere la presidenza della Fondazione Mps conservando le quote di maggioranza della banca, in nome di un’anacronistica “sienità”, appoggiato da Franco Bassanini e stoppato dal ministro Visco. Lotte di potere che hanno preceduto l’opaca designazione di Giuseppe Mussari a capo azienda (proposto da Bassanini, approvato da Amato) e la rovinosa acquisizione di Antonveneta, autorizzata dalla vigilanza di Bankitalia quando governatore era Mario Draghi. Il seguito è noto: i governi a trazione renziana hanno dovuto nazionalizzare temporaneamente Mps, con inevitabile dispendio di risorse pubbliche, sotto la supervisione del ministro Padoan che si sarebbe successivamente candidato a Siena, quasi a rivendicarne il merito.

Questa storia però non è solo senese, ed è fitta di antefatti eloquenti nel rivelare i maldestri tentativi di quasi tutti i leader della sinistra di cimentarsi nell’occupazione di postazioni di potere; sempre corredati dallo sforzo di mostrarsi rassicuranti agli occhi dei vecchi lupi di mare dell’economia italiana. Impossibile dimenticare la stagione in cui il Pds benediceva personaggi spregiudicati del mondo cooperativo intenzionati a scalare Bnl. Nel mentre che la galassia delle Coop, creatura dalle gloriose radici mutualistiche affondate nella storia del movimento operaio, a sua volta si lacerava fra le tentazioni della grande finanza e l’involuzione dei rapporti di lavoro sfruttato. Tant’è che oggi questo settore una volta “di sinistra”, dopo una felice espansione oltre i confini delle regioni rosse, è entrato in crisi. Tutti questi nodi stanno venendo al pettine, ora che lo Stato è costretto a spendere altri miliardi di soldi pubblici per evitare il fallimento di Mps. La stampa padronale segue con divertito interesse i prossimi esiti della candidatura di Letta nel collegio elettorale di Siena. Sarebbe augurabile che il segretario del Pd prenda il toro per le corna e ne faccia l’occasione per un definitivo chiarimento dei rapporti fra politica di sinistra e mondo degli affari.

Non si tratta di rinunciare all’apporto dei tecnici, né tanto meno di demonizzare la relazione con i top manager “d’area”. Quella che è venuta meno da troppo tempo è la necessaria distinzione di ruoli, come insegna il caso Padoan. Sappiamo bene che ci sono aziende pubbliche chiamate a fare scelte strategiche con immediate ripercussioni di politica interna e internazionale. Il sistema industriale e la gracile struttura del nostro credito necessitano di questo interscambio. Nessuno può fingersi anima candida (tanto meno la Meloni). Ma toccherebbe a una sinistra capace di fare i conti con i propri errori ripristinare l’autonomia della politica che, in una democrazia che si rispetti, dovrebbe sedere a capotavola.

 

La propaganda cinese, il ballo della lambada e i complotti su Elvis

“Un gruppo di wedding planner dietro centinaia di eventi no vax in tutto il mondo” (Fq, 27 luglio)

Da anni circolano voci sulla morte del re del rock, Elvis Presley, e i grandi giornali hanno trovato prove a sostegno della notizia; ma per il prossimo ferragosto vengono annunciati, in tutto il mondo, almeno 129 eventi simultanei non autorizzati, dagli accesi toni complottisti, contro la fake news della morte di Elvis. Regista dell’operazione è un piccolo gruppo di negazionisti tedeschi, coordinato da un organizzatore di matrimoni, Heinz Felfe. Sua l’idea, tanto semplice quanto inquietante per la sua facilità di esecuzione, di creare decine di chat Telegram su base nazionale con l’etichetta World Wide Graceland, da cui far partire, verso comunità complottiste già formate (QAnon, estremisti di destra, guru della finta controinformazione), messaggi web sugli eventi della consorteria. “Se Elvis non si fa vedere in pubblico da anni non significa che sia morto”, urla al megafono Heinz Felfe, nonostante mi stia parlando al telefono. “È possibile che la sua assenza sia legata a una grave malattia. Elvis Presley, che ha 87 o 88 anni (non ci sono notizie certe sulla sua età), non appare in pubblico dall’11 aprile di due anni fa, data di un memorabile concerto a Las Vegas a cui ho assistito. Sue assenze dalla vita pubblica, anche prolungate, non sono rare, e portano spesso a speculazioni sul suo decesso. Il suo medico sostiene che Elvis sia morto nel 1977, soffocato perché vomitò dopo essere stato colpito da infarto mentre era seduto sul water; ma è lo stesso medicastro che gli prescriveva psicofarmaci, amfetamine, barbiturici e stimolanti, tutta robaccia di Big Pharma. Fra un po’ ci diranno che Elvis è morto di Covid! Giovedì scorso, il presidente Biden ha detto che le notizie sulla morte di Elvis sono ‘fondate’. Ma è lo stesso Biden che vuole vaccinarci tutti! La verità è un’altra: dal 1977, Elvis è stato avvistato nelle più svariate località del mondo. Sabato, per esempio, è stata diffusa una foto satellitare che mostra la sua Cadillac rosa parcheggiata davanti a un motel sulla Route 66. Se Elvis è davvero morto, come ha fatto a recarsi in auto fino a un motel sulla Route 66? Tmz, il sito giornalistico più famoso al mondo, ha smentito la notizia della presunta morte di Elvis, sottolineando di non poterla confermare; e ieri il colonnello Tom Parker, che secondo i media sionisti è morto nel 1997, ha dichiarato in una conferenza stampa via Skype che il Re del Rock si farà vedere in pubblico molto presto. Stando a Facebook, inoltre, giovedì scorso la Cina ha mandato dei medici in Tennessee per un consulto sulla salute di Elvis: secondo il National Enquirer, infatti, Elvis sarebbe in coma dopo essere stato rapito dagli Ufo. Perché il New York Times non ne parla? La mia ipotesi è questa: Elvis in passato si è spesso divertito a depistare la stampa con finte apparizioni che nascondevano quello che stava realmente combinando al momento. Hai presente la foto con Nixon? Era un suo sosia. In quello stesso istante, il vero Elvis era a Istanbul: stava uccidendo a mani nude Elyesa Bazna, l’ex-spia nazista nota come Cicero”. Ieri, con un video su TikTok, Elvis ha negato di essere morto. Gli hacktivisti di Anonymous hanno dato l’allarme: “Cancellate TikTok: non è nient’altro che un malware nelle mani del governo cinese, intento in una colossale operazione di sorveglianza di massa”. Fatto. I video dove insegno a ballare la lambada li ho spostati nel Blog di Grillo, accanto al suo post che nega la persecuzione cinese degli uiguri (due milioni di detenuti, lavori forzati, e abusi fisici fino alla sterilizzazione). Beppe linka pure un dossier di squisita propaganda cinese. Strano che non ci sia la firma di Heinz Felfe.