Rifugio polacco per la velocista che si ribella ai Lukashenko

“Adesso sono sotto sorveglianza e per la mia incolumità non posso rilasciare interviste”. Sono le uniche parole che Kristina Timanovskaya scrive in un messaggio quando il suo telefono torna finalmente raggiungibile. Non può parlare né potrà farlo finché non arriverà domani in Polonia, il Paese in cui ormai si trovano quasi tutti gli oppositori di Lukashenko e che ha garantito un visto umanitario alla velocista. Lo riferisce chi è in contatto con lei, Eugene Medvedev, responsabile della Fondazione di solidarietà dello sport bielorusso, che conferma che l’atleta si trova nell’ambasciata di Varsavia in Giappone. Kristina non era nemmeno tra gli sportivi che hanno firmato la lettera aperta che chiedeva elezioni libere durante i mesi delle proteste scoppiate a Minsk, esattamente un anno fa. I suoi profili social, pieni di foto di allenamenti e consigli per diete salutari, non assomigliano a quelli dei suoi colleghi che hanno manifestato contro il regime del presidente, al potere dal 1994. Kristina forse non voleva nemmeno issare la bandiera del dissenso durante i Giochi, ma “si è permessa di criticare l’incompetenza dei membri del Comitato sportivo bielorusso, al cui vertice c’è il figlio di Lukashenko, Viktor. Come sia arrivato a ricoprire quella posizione, che il padre ha occupato per 23 anni di seguito, non l’ha mai spiegato a nessuno, nonostante le richieste del Cio, Comitato olimpico internazionale” dice Medvedev. Poiché non erano pronti i risultati dei test di un’altra atleta, i responsabili bielorussi hanno deciso che Kristina avrebbe corso al suo posto alla staffetta, e non avrebbe gareggiato per i 200 metri, la sua specialità. Quando si è ribellata alla decisione, è stata dichiarata dal suo stesso team “troppo instabile emotivamente” per correre. Hanno provato a rimpatriarla in maniera forzata con un volo della Turkish airlines e per lei era meglio non opporre resistenza, oppure “si sarebbe suicidata”: è quello che si sente nell’audio che Kristina ha registrato in segreto. “Teme per la sua vita se torna nel suo Paese?”: alla domanda di rito della polizia di Tokyo, intervenuta quando la donna ha chiesto aiuto al Cio con un video su Instagram, lei ha risposto “sì”. Anche il marito della velocista, Arseny Zdanevich, fuggito oltre confine, conferma da Kiev che presto incontrerà sua moglie in Polonia. Sollevato dalla protezione garantita dallo Stato europeo all’atleta bielorussa, Medvedev si dice ancora preoccupato: “La situazione è imprevedibile e non è detto che gli altri atleti bielorussi che ora sono a Tokyo siano al sicuro”.

Indagine sui parlamentari. Lobby, chi comanda a Londra

Il Parlamento britannico torna a indagare su se stesso. O meglio, su alcuni parlamentari sospettati di essere a libro paga di lobby o potenze straniere tramite il labirinto degli All-Party Parliamentary Groups, (Appg), i gruppi parlamentari interpartitici. Cosa sono? In sintesi, dei gruppi creati e gestiti da membri della Camera dei Comuni o dei Lord per portare avanti interessi politici: sono moltissimi, oltre 500 nell’ultimo rapporto del registro ufficiale che li divide per nazione o tema di interesse.

Per capirci: il gruppo sull’Italia si propone di rafforzare le relazioni fra il Parlamento britannico e quello italiano con il fine ultimo di migliorare i rapporti fra Italia e Regno Unito. Lo presiede il parlamentare conservatore di origine italiana Alberto Costa, ha 14 membri e nel 2021 ha ricevuto due finanziamenti da 6 mila sterline l’uno tramite la società londinese di Pubbliche relazioni Sec Newgate.

Ce n’è uno per quasi ogni nazione del mondo, e quanto ai temi, anche i parlamentari britannici contengono moltitudini: allergie, birra, gatti, cricket, riforma elettorale, affari legali e costituzionali, matrimoni, salute dei minori, zoo e acquari. Fin qui niente di male. Ma attenzione alla definizione ufficiale: sono “gruppi informali privi di status ufficiale in Parlamento” e “non devono presentarsi in modo tale da creare confusione con le commissioni parlamentari”. Il sospetto è che alcuni vengano “usati come strumento di accesso improprio ai parlamentari con lo scopo di esercitare influenza indebita da parte di lobbisti o potenze straniere”.

Sospetto serissimo, visto che sul rischio già indaga il Comitato per gli standard parlamentari, una sorta di organo di vigilanza interna che, per esempio, negli ultimi 5 mesi ha ripreso 4 volte il primo ministro Boris Johnson per la sua “disattenzione” verso le regole di trasparenza nel dichiarare i propri interessi. A ottobre 2020 il Comitato ha aperto una inchiesta sui rischi di infiltrazione degli Appg: di recente, come riporta il Guardian, ha raddoppiato con una nuova indagine su alcuni legislatori, che servono nella galassia degli Appg e contemporaneamente hanno un “secondo lavoro” in organizzazioni vicine ai settori di cui si occupa il loro gruppo.

C’è l’ex ministro gallese Alun Cairns, conservatore, oggi vicepresidente del Appg sui taxi, che fa pressione perché il governo fornisca urgentemente supporto finanziario ai tassisti mentre ricopre il ruolo di consulente di una azienda di taxi e autonoleggio a Newport, vicino al suo distretto elettorale. O Mark Garnier, rappresentante conservatore di Wyre Forest, nel Worcestershire, vice-presidente dell’Appg sullo Spazio e presidente del Comitato di consulente dello Shetland Space Centre. Ruolo pagato 2.500 sterline al mese, a integrazione dello stipendio da parlamentare, 81.932 sterline al netto di ogni spesa.

Mark Pawsey, presidente del gruppo Appg sull’Industria di Imballaggi per Alimenti (Packaging Manufacturing) che a Westminster, come deputato conservatore del distretto elettorale di Rugby, si oppone alla regolamentazione del settore mentre prende 2.500 sterline al mese come presidente della Foodservice Packaging Association.

Lui si è difeso spiegando di essersi unito a quel gruppo sperando di portarvi la competenza sviluppata in 30 anni di lavoro nel settore, e di essere pronto ad “agire in modo appropriato” se il comitato rileverà un conflitto di interessi.

Ma quello degli Appg resta un sistema poroso, difficile da controllare e facile da infiltrare benché sia nel cuore della democrazia parlamentare britannica. Nel 2017 era stata la rappresentante del registro dei lobbisti Alison White ad aprire una inchiesta su lobbisti che si facevano assumere come segretari di Appg solo per avere accesso ai legislatori. Lo stesso registro Appg è stato creato solo nel 2015 dall’ex primo ministro David Cameron dopo una serie di scandali chiamati cash for access, in cui figure di primo piano del suo governo erano state accusate di organizzare irregolarmente incontri ad alto livello o spingere interessi privati in cambio di pagamenti. Poi lo ha fatto, in grande, lo stesso Cameron, che dopo le dimissioni da premier è stato implicato nello scandalo Grensill: utilizzando canali privati aveva perorato la causa della società finanziaria Grensill Capital, di cui era consulente per un milione di sterline l’anno.

 

Ragazzo bruciato, “venne istigato a togliersi la vita”

La Procura di Pisa ipotizza il reato di istigazione al suicidio nel fascicolo aperto sulla morte di Francesco Pantaleo, lo studente universitario di 23 anni, di Marsala, trovato carbonizzato nelle campagne di Pisa il 25 luglio. Tra gli accertamenti tecnici, oltre all’autopsia, in programma domani, vengono incaricate anche indagini specialistiche sul web e sui dispositivi elettronici in possesso del ragazzo. Oggi la Procura affiderà a un consulente tecnico anche l’incarico di eseguire la copia forense dei dati contenuti nel pc portatile (dal quale Francesco ha cancellato tutti i file) e nello smartphone. Sono dispositivi mobili che il giovane aveva lasciato nella stanza che occupava nell’appartamento nel quale viveva in affitto a Pisa insieme a due coinquilini. Dalla casa è uscito la mattina del 24 luglio, poi è scomparso per oltre un giorno prima di essere ritrovato carbonizzato il 25 luglio in un campo a circa 5 chilometri di distanza, nella campagna di San Giuliano Terme (Pisa), da una ragazzina a passeggio col cane.

Riforma delle pensioni, i sindacati bocciano i bonus di Calderoli. Che inguaia Casellati

Raccontano che Sua Presidenza, Maria Elisabetta Alberti Casellati, abbia un diavolo per capello: ce l’ha con il suo vice Roberto Calderoli, che ha rischiato di farle fare la fine di Maria Antonietta: c’è di mezzo la riforma delle pensioni dei dipendenti di Palazzo e il leghista, che ha la delega al personale, ha fatto il crapulone mettendo sul piatto una serie di bonus e prebende. Ma nonostante tanta prodigalità, ha rimediato dalle loro rappresentanze un’accusa di comportamento antisindacale per aver rivelato ai quattro venti la trattativa, una modalità ritenuta irrituale per non dire sputtanante per gli interessati, che di passare per ingordi non ne hanno proprio voglia. E Queen Elizabeth? Ha fatto sapere che Calderoli ha agito a sua insaputa e forse con l’intento di metterla in difficoltà. Perché il vicepresidente leghista si è pure rivolto direttamente a tutti i dipendenti con una lettera allarmante: “Dal 1° luglio, anche per i numerosi pensionamenti anticipati, il personale di ruolo si è ridotto a 580 unità rispetto al minimo della pianta organica che è pari a 969”. E dal 1° gennaio prossimo matureranno pure i requisiti per il pensionamento per altri 116. Ergo: “È evidente che un ulteriore depauperamento del personale non potrà consentire lo svolgimento delle funzioni basilari dell’Istituzione”. Una messa in mora per la Presidente, che invocando la propria autonomia dal suo omologo Roberto Fico si era sfilata dal sistema unico per reclutare nuove leve da porre al servizio dei due rami del Parlamento. Risultato? A Montecitorio sono un pezzo avanti. Al Senato le procedure concorsuali sono ancora in alto mare. E ora la riforma delle pensioni dei dipendenti rischia di far saltare per aria il palazzo. Per questo Calderoli aveva promesso ogni bendidio: da un’indennità del 2% delle competenze a titolo di incremento della produttività per carenza degli organici per tutti i dipendenti all’incentivo fino al 5% per chi scegliesse di rimanere in servizio, passando per l’estensione del congedo parentale e molti altri benefit. Facendo infuriare i sindacati neppure fosse la Fornero: in una nota comune, hanno chiarito che non accetteranno contentini o contentoni e, anzi, lo hanno rimproverato (è il caso per esempio della Cgil) di averli scavalcati rivolgendosi direttamente ai dipendenti con un’iniziativa “al di fuori e contro le legittime procedure”. Inviperita Casellati, che al tavolo con i sindacati previsto per oggi ha imposto che si riparta da zero. E con la massima discrezione.

Logista, licenziati altri 90 lavoratori via WhatsApp

“Da lunedì 2 agosto lei sarà dispensato dall’attività lavorativa. Cordiali saluti”. Poche parole inviate tramite Whatsapp per comunicare a 90 dipendenti della Logista, multinazionale monopolista nella distribuzione del tabacco, nella serata di sabato 31 e con sole 36 ore di preavviso, il licenziamento. A denunciare l’accaduto, dopo il caso di Gkn, è il sindacato Si Cobas: “Nessuno negli ultimi due anni si era mai fermato a riposare, perché i tabacchi sono considerati attività essenziale. Nemmeno lo scoppio di un focolaio aveva convinto la società a chiudere. E ora, mentre molti di loro sono in ferie a godersi il meritato riposo, ne approfitta e licenzia tutti”.

La multinazionale sarebbe intenzionata, secondo quanto riferito dal sindacato, a spostare i magazzini ad Anagni (Fr) e Tortona (Al), “dove il costo del lavoro è più basso, si lavora 12 ore al giorno, i livelli di inquadramento sono i più bassi previsti dal Ccnl e non ci sono buoni pasto. In pratica dove non ci sono diritti”.

Csm, il Pg: “Storari doveva denunciare”. Oggi la decisione sul trasferimento del pm

Oggi è il giorno del giudizio cautelare per Paolo Storari, il pm milanese accusato di una serie di violazioni disciplinari dalla Procura generale della Cassazione, concatenate alla consegna a Piercamillo Davigo, ex togato Csm, di verbali segreti resi da Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Il pg Giovanni Salvi ha chiesto il trasferimento provvisorio da Milano e anche il cambio di funzioni, in attesa del processo disciplinare, mentre i pm bresciani accusano Storari e Davigo di rivelazione di segreto. Prima che i giudici entrino in camera di consiglio, parlerà la difesa, che ha avuto tre giorni per preparare ancora meglio quanto già messo in una articolata memoria. All’udienza, a porte chiuse di venerdì scorso, ha parlato solo il sostituto pg Marco Dall’Olio. Ha detto che le “gravi scorrettezze” di Storari restano tali anche se, come sostiene lui, ha consegnato quei verbali, non firmati, a Davigo per “autotutela”, perché, asserisce, il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio rallentavano le indagini post-dichiarazioni di Amara. “Non sappiamo se ciò sia vero”, ha detto l’accusa, ricordando che c’è un’inchiesta a Brescia che deve accertarlo, ma se in teoria lo fosse, Storari “doveva andare dal procuratore generale di Milano” o scegliere un’altra strada ma “formale”; “ufficiale”. Invece, formalizza il suo dissenso solo dopo aver dato di nascosto i verbali a Davigo, innescando una “campagna denigratoria” verso i colleghi. Nella memoria della difesa, che oggi sarà protagonista, è stata valorizzata la lettera di quasi tutti i pm milanesi scesi in campo a favore di Storari, dopo la richiesta del cautelare. Su questo, in udienza ci risulta che la Procura generale è stata lapidaria: ognuno può scrivere ciò che vuole ma “i processi si fanno in aula” con la conoscenza dei fatti. E cioè non solo la “irrituale” consegna di verbali, ma anche la mancata astensione nell’inchiesta sulla fuga di quei verbali, finiti in forma anonima al Fatto e a Repubblica, con tanto di denuncia dei giornalisti. La decisione del collegio Csm, presieduto da Emanuele Basile, laico della Lega, relatore Filippo Donati, laico M5S, si saprà solo con le motivazioni e non oggi. Si sono astenuti il presidente della sezione Ermini, il vice Gigliotti; i giudici Cascini, Marra e Cavanna perché testimoni a Brescia, dato che Davigo li aveva informati.

I ricatti via Internet puntano la sanità: 250 casi nel 2020

L’epidemia degli attacchi hacker con il ransomware, il software che blocca i sistemi informatici con virus o malware che possono essere rimossi solo dopo il pagamento di un riscatto (ransom) è in piena crescita in tutto il mondo. Con il 20% delle intrusioni a livello globale nel 2020 (250 circa su oltre 1.250) la sanità è la vittima preferita dopo l’istruzione. Ad attirare le organizzazioni criminali, che nel 26% dei casi attaccano a scopo di riscatto, sono la criticità del settore e la diffusa obsolescenza delle sue strutture informatiche. Il riscatto medio chiesto ad aziende e istituzioni del comparto l’anno scorso è stato di 3,85 milioni, quello pagato di oltre 760mila euro, nel 99% dei casi versato in criptovalute. Lo spiega l’ultima edizione del rapporto annuale sugli incidenti di sicurezza informatica dello studio legale internazionale BakerHostetler.

La strategia degli hacker è cambiata nel tempo. Inizialmente le organizzazioni criminali si “limitavano” a criptare o inibire l’accesso ai dati per chiedere il riscatto. Da fine 2019 invece hanno iniziato a rubare i dati sanitari prima di crittografarli. Questa tattica consente ai gruppi criminali un doppio strumento di pressione e ha indotto le aziende a pagare i riscatti, anche quando riescono a ripristinare i propri sistemi usando i backup, per impedire la divulgazione delle informazioni personali sensibili rubate che spesso si traducono in vertenze legali. Così, come nella storia dell’Anonima sequestri, i gruppi sono stati incoraggiati dalle loro vittorie iniziali ad aumentare le loro richieste. Tanto che nel 2020 il riscatto più elevato richiesto ha superato i 54 milioni di euro rispetto ai meno di 10 del 2019, e il maggior riscatto pagato è stato di 12,6 milioni rispetto ai 4,2 dell’anno prima.

Lo conferma anche l’ultimo rapporto Iocta di Europeol sul 2020 che ha analizzato le minacce della criminalità organizzata sul web: gli attacchi ransomware sono sempre più numerosi, sofisticati e mirati. Anche il 2021 è iniziato nel segno degli attacchi informatici a scopo di estorsione. Tra le vittime più rilevanti, prima dell’attacco alla Regione Lazio, quest’anno c’erano la californiana Scripps Health, un sistema sanitario no profit di San Diego che gestisce cinque ospedali e 19 strutture ambulatoriali e tratta ogni anno mezzo milione di pazienti attraverso 2.600 medici affiliati, la società di software radiografico Elekta, i cui sistemi sono stati colpiti in 170 strutture e ospedali in tutti gli Usa, e la grande assicurazione sanitaria francese Mutuelle Nationale des Hospitaliers (Mnh), attaccata il 5 febbraio. Ma l’attacco ransomware più devastante per un’istituzione sanitaria pubblica è stato quello di Wannacry del 12 maggio 2017, che infettò più di 200mila computer in 150 Paesi. Tra le vittime svettò il Servizio sanitario di Inghilterra e Scozia, che vide colpiti 200 ospedali e 70mila dispositivi.

Al di là del denaro estorto, il ransomware ha già fatto una vittima. Il 10 settembre scorso una tedesca bisognosa di cure mediche urgenti è morta dopo essere stata reindirizzata in un ospedale di Wuppertal, a più di 30 chilometri dalla destinazione iniziale, la clinica universitaria di Düsseldorf. L’ospedale di Düsseldorf non aveva potuto accoglierla perché era nel bel mezzo di un attacco ransomware che aveva infettato una trentina dei suoi server.

L’assalto pianificato 2 mesi fa. “Sicurezza nazionale a rischio”

“Siamo vittime di un attacco terroristico”. La dichiarazione del presidente del Lazio, Nicola Zingaretti, è molto forte, sebbene mutuata da una frase recente del presidente Usa, Joe Biden. “C’è in ballo la sicurezza nazionale”, azzarda il presidente del Copasir, Adolfo Urso, che oltre all’audizione odierna della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha ottenuto per domani la presenza del capo dei servizi segreti, Elisabetta Belloni. D’altronde l’incursione hacker ai danni del sistema informatico della Regione Lazio è violentissima. E, assicurano gli investigatori, “potrebbe essere la prova generale di un attacco più vasto alle istituzioni nazionali, anche se al momento non ci sono evidenze”. L’attacco, confermano “è ancora in corso”. I “pirati”, attraverso un indirizzo Ip russo, hanno criptato milioni di file presenti nel database dell’istituzione, rendendo inaccessibile in primis il sistema sanitario, il che significa aver bloccato il portale di prenotazione dei vaccini, lasciando a secco il 10% della campagna vaccinale italiana.

“L’attacco era pianificato da circa due mesi”, spiegano al Fatto fonti della Polizia postale al lavoro su delega della Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo. I reati ipotizzati, al momento, vanno dall’accesso abusivo a sistema informatico all’interruzione di pubblico servizio e, nel caso dovesse palesarsi una richiesta economica per decriptare i file, si aggiungerebbe anche l’estorsione. Questo è il primo punto che va chiarito. Ieri Zingaretti in conferenza stampa ha detto che “non è stato chiesto alcun riscatto”. Questo perché il virus ransomware (dall’inglese ransom, riscatto, appunto) ha prodotto una schermata con un link su cui nessuno ha cliccato. Insomma, il “riscatto” non è stato chiesto perché nessuno è andato a trattare con i “sequestratori”. Dalle prime verifiche degli inquirenti, invece, pare che i file non siano stati copiati altrove. Dunque, i dati personali delle più alte cariche dello Stato, il presidente Sergio Mattarella su tutti, non dovrebbero essere in mano ai “pirati”. Per scelta di questi ultimi, però. Altre volte non è andata così. In Rete, ad esempio, sono facilmente reperibili quelli dei vertici dell’Università Tor Vergata (ex rettore in testa), vittima a settembre 2020 di un assalto simile. In altri casi – come nell’incursione allo Spallanzani di Roma – i dati sensibili sono stati venduti sul deep web. I precedenti sembrano confermare la tesi inquirente: si parla di “pirati” perché non c’è alcun movente politico o ideologico. Nessuna pista No Vax, nessuna cyberwar in corso. Anche il fatto che l’Ip sia russo non è indicativo della nazionalità degli hacker o della loro sede fisica. A guidarli è solo il denaro. La loro forza, confermano gli investigatori, è che a oggi non esiste alcun modo per decriptare i codici. La Postale è al lavoro per capire, inoltre, quale sia stata la “porta di ingresso”. La tesi principale, al momento, porta a Frosinone, in un ufficio distaccato della società regionale LazioCrea, che gestisce la rete informatica. Ma c’è anche un’altra pista, quella di una “società esterna”, fra le molte di cui si serve proprio LazioCrea: se i “pirati” fossero entrati davvero da lì, altre istituzioni sarebbero a rischio.

Intanto nel Lazio i tecnici stanno lavorando per recuperare i dati. Perfino il computer dell’assessore alla Sanità, Alessio D’Amato, è fermo. “Ci vorranno settimane”, sostengono. Pare che esistano dei backup, ma i tempi di ripristino sono lunghissimi. Nel frattempo si continuerà a usare carta e penna, si proverà ad appoggiarsi a un portale “muletto” per riprendere le prenotazioni e le certificazioni come green pass e risultati dei tamponi arriveranno con 24-48 ore di ritardo. “Fino al 13 agosto – ha detto D’Amato – oltre 500mila cittadini hanno già prenotato e possono recarsi nei centri di somministrazione nella data già indicata”.

Il tema è nazionale. Il 7 giugno scorso, il ministro della Transizione digitale, Vittorio Colao, affermava che “il 95% dei server della Pa non è sicuro”. “La situazione si è aggravata con lo smart working”, conferma, contattato, il senatore Urso. Proprio domani dovrebbe arrivare al Senato, per il via libera definitivo, il decreto sulla cybersecurity, che introduce un’Agenzia dedicata contro il cybercrime, proprio con lo scopo di affiancare le attività di già in essere di cyberintelligence e difesa. Agenzia che recupera la proposta formulata lo scorso anno dall’ex premier Giuseppe Conte sulla creazione di un Istituto di sicurezza cibernetica.

Green pass a lavoro e scuola. Governo diviso, altro rinvio

La maggioranza litiga e le decisioni slittano. Ancora ieri sera la cabina di regia per decidere sul green pass, per i trasporti e l’obbligo vaccinale per il personale scolastico, non era ancora stata convocata. E con ogni probabilità slitterà da oggi a domani con il decreto che dovrebbe essere approvato giovedì. Ma nel governo, in serata, c’è chi parla addirittura di un rinvio di un’altra settimana. “Non c’è accordo su niente”, dice un ministro fotografando lo stato dell’arte. Anche perché Matteo Salvini fa muro e da Milano Marittima chiede di rimandare tutto a fine agosto: “Parlare ora di green pass rovinerebbe il turismo e la stagione estiva”, attacca. Dall’altra parte, il premier Mario Draghi e il ministro Roberto Speranza vorrebbero intervenire entro la settimana. Anche perché, secondo il monitoraggio Agenas, i posti occupati in terapia intensiva peggiorano, arrivando al 3% dall’1% del 31 luglio, con alcune regioni che si avvicinano pericolosamente alla soglia del 10% che manda direttamente in zona gialla: la Sardegna è al 9%, Lazio e Sicilia al 5%.

Il primonodo da sciogliere, collegato a quello della scuola, è quello dei vaccini e del green pass per i lavoratori. Una questione emersa dopo la proposta di Confindustria di obbligare i dipendenti ad avere il certificato che aveva provocato le critiche dei sindacati. Così ieri sera il premier Mario Draghi ha convocato i segretari dei sindacati generali di Cigl, Cisl e Uil – Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri – a Palazzo Chigi. All’incontro, durato oltre un’ora, le sigle hanno respinto il tentativo del premier di arrivare un accordo tra parti sociali per sancire – di fatto – l’obbligo vaccinale per i lavoratori. “Non abbiamo dubbi sul green pass – ha detto il leader Cgil Maurizio Landini –, ma non può diventare strumento per licenziare, demansionare e discriminare”. Ieri però è arrivata un’altra sentenza a Terni, del Tribunale del lavoro, in cui un giudice ha considerato “legittima” la sospensione perché un’operatrice socio-sanitaria si era rifiutata di vaccinarsi. La Confindustria vorrebbe un provvedimento che vada oltre gli operatori sanitari. I sindacati dicono che deve essere il governo a prendere questa responsabilità: “C’è l’accordo sulla sicurezza – ha ricordato il leader Uil Pierpaolo Bombardieri –, qualsiasi tentativo di modificarlo ha bisogno di una legge”.

L’altro fronte caldo su cui la maggioranza si scontrerà nelle prossime ore è quello della scuola, tema che si intreccia con quello del lavoro perché la misura interesserà soprattutto i docenti e il personale scolastico. L’obiettivo è noto: far ripartire le lezioni in presenza al 100% già da settembre. Per far questo, il ministro della Salute Speranza vorrebbe introdurre un obbligo vaccinale duro, mentre Lega e Movimento 5 Stelle fanno muro. Forza Italia, come il Pd, invece è favorevole. Per questo probabilmente ogni decisione dovrà essere rinviata a fine agosto, alla vigilia dell’inizio dell’anno scolastico. Anche perché a oggi è immunizzato l’85% dei docenti e si spera nel frattempo di arrivare al 90%. Se così non sarà potrebbe scattare l’obbligo. Ipotesi che sembra esclusa invece per i ragazzi sopra i 12 anni, anche se si parla di didattica a distanza per gli studenti non immunizzati. Un’eventualità che trova sulle barricate il Carroccio, che ne ha fatto anche una battaglia di principio.

Nel nuovo decreto sarà inserito l’obbligo di green pass per i trasporti a lunga percorrenza – navi, aerei e treni – anche se si potrebbe decidere di rinviare tutto a inizio settembre. La coppia leghista Salvini-Garavaglia, infatti, teme che ogni norma del genere possa dare un colpo forte al settore del turismo. Speranza, invece, chiede di approvare l’obbligo già dai prossimi giorni. Contestualmente all’obbligo di certificato verde, sarà fatto anche un intervento sui prezzi dei tamponi, che dovrebbe aggirarsi intorno ai 6-7 euro.

L’ultima balla sul Fatto: “Tifate contro gli italiani in gara a Tokyo”

Ormai abbiamo fatto l’abitudine a rassegne stampa televisive e radiofoniche che ignorano le prime pagine del Fatto, spesso colpevoli di interrompere il filo del racconto tra un quotidiano e l’altro, esponendo tesi ritenute al limite della sovversione. Quando però, anziché ignorarci, si dicono falsità sul nostro conto, urge perlomeno chiarire.

Ieri Salvatore Merlo del Foglio, nella sua Prima Pagina (Rai Radio 3), ha sbeffeggiato il modo in cui a suo dire il Fatto avrebbe sminuito i successi olimpici di Marcell Jacobs e “Gimbo” Tamberi (che erano nel nostro primo titolo di copertina: “Due ragazzi d’oro”): “Il Fatto mette solo una foto molto piccola dei due ragazzi – ha ironizzato Merlo – Sappiamo che il Fatto e il suo direttore tifavano contro la Nazionale e gli atleti italiani secondo uno strano parallelo per cui risultati eccezionali avrebbero favorito Draghi”.

Nulla di più falso, come spiegato dal vicedirettore del Fatto, Salvatore Cannavò, intervenuto in trasmissione: “Questa storia che il Fatto è contrario agli atleti italiani è un’invenzione che mi piacerebbe smentire. Abbiamo tifato come matti per un evento davvero storico, vi chiederei di smetterla di dire che tifiamo contro solo perché ci permettiamo di criticare Draghi”. A preoccuparci, anzi a farci ridere, è la strumentalizzazione politica delle vittorie, arrivata puntuale già dopo l’Europeo e ripetutasi ieri, non certo i successi dei nostri atleti, peraltro celebrati anche ieri in prima pagina e all’interno del giornale. Chissà se le rassegne stampa ne daranno conto. Nell’attesa, vergogniamoci per Merlo.