La Cenerentola ora è la scherma senza maestri

La faccia delusa delle Olimpiadi di Tokyo è quella della scherma. Mentre gli altri festeggiano la disciplina che più nella storia ci aveva portato onore non ha vinto nulla. Per carità, parliamo pur sempre di 5 medaglie. A Rio 2016 erano state 4, sembra già un miglioramento ma in realtà sono aumentate le gare, visto che non c’è più l’alternanza delle discipline che fino a quattro anni fa vedeva disputarsi le prove a squadre a rotazione. C’è stato anche un pizzico di sfortuna, perché con una stoccata in più o in meno della Della Isola o della Volpi oggi racconteremmo un’altra storia, la solita storia vincente della scherma italiana. Però lo sport è anche questo e oggi i numeri ci condannano: addio Dream Team, nessun oro come non accadeva da 40 anni, a Mosca 1980. Ma in fondo i campanelli d’allarme erano già squillati a Rio, o ai Mondiali di Budapest 2019 (zero vittorie anche lì) ed evidentemente sono rimasti inascolatati.

Parlare di crisi sarebbe forse eccessivo ma è il caso di cominciare a interrogarsi. Le ragioni sono molteplici. La prima è un fattore esterno. La competitività è aumentata in modo esponenziale: un tempo era disciplina praticata seriamente in una decina di Paesi e a giocarsi la vittoria erano sempre i soliti: Francia, Ungheria, Russia, ovviamente Italia, e pochi altri. Oggi è un affare globale: Cina, Corea e Stati Uniti sono ormai realtà consolidate, c’è chi può permettersi di investire risorse quasi sconfinate, come Qatar, Hong Kong, e si vedono successi pure di Ucraina, Giappone, Brasile, Venezuela. Proprio in questi nuovi Paesi, che si affacciano con più o meno prepotenza sullo scenario internazionale, le tecniche di allenamento sono all’avanguardia: test, analisi dei dati, non conta solo l’occhio del maestro, la scherma ormai è una scienza. E si è visto a Tokyo, dove gli asiatici ci hanno sovrastati fisicamente e tatticamente. Gli altri vincono senza la nostra tradizione. Ma lo fanno magari proprio con le nostre competenze: sono sempre di più i maestri italiani che scelgono di andare all’estero. Si parla sempre dell’ex ct del fioretto Cerioni, ma ci sono anche Tomassini (Francia), Zennaro (Usa), Bortolaso (Germania), Omeri (Qatar).

Partono perché ricevono spesso offerte economiche migliori, ma non solo. Anche per nuovi stimoli. Mentre la scherma italiana è sempre la stessa: tanto legata alle storiche scuole di scherma (Jesi, Frascati), che sono le migliori al mondo ma appartengono a un’altra epoca. Soprattutto, non è mai cambiata l’organizzazione del movimento: i gruppi militari rappresentano un sostegno preziosissimo per tecnici e atleti, ma anche una discriminante per gli allenatori “civili”. Dove i grandi atleti una volta “arruolati” diventano quasi sempre anche tecnici o dirigenti apicali, anche se questo automatismo non è scontato. E dove l’ambiente, per certi versi asfittico, quasi autoreferenziale, alla lunga ha finito per alimentare personalismi e a volte proprio familismi: le polemiche sul ct del fioretto Cipressa che convoca sua figlia lasciando a casa atlete meglio posizionate; Arianna Errigo in causa con la Federazione per gareggiare in più discipline (si fossero almeno concentrati su una…); Elisa Di Francisca, ancora n. 2 del ranking mondiale, che si ritira e da casa attacca tutti. La nazionale azzurra è stata spesso un covo di serpi, anche ai tempi di Valentina Vezzali, oggi sottosegretaria, mai troppo amata dalle sue compagne. Finché si vince va tutto bene, quando si perde i nodi vengono al pettine.

La Federazione, a lungo guidata dal presidente Giorgio Scarso, per anni si è limitata a raccogliere le medaglie che piovevano, ma erano il frutto delle gestioni precedenti. La scherma è cambiata, non è più l’arte di cui solo noi siamo maestri. Non è che ci siamo dimenticati come si tira, non lo faremo mai. Ma per il presente non è più abbastanza. Per il futuro è il caso di rilucidare le nostre armi.

Dietro gli ori, il carrozzone: 10 mln l’anno e alcune ombre

Il presidente del Coni Giovanni Malagò salta lesto sul carro dell’atletica, lasciandosi alle spalle i fallimenti di ciclismo e scherma, capitalizzando così l’impresa di Marcell Jacobs nei 100 metri e di Gianmarco Tamberi nel salto in alto. Un carro prima scricchiolante, ma rimesso in piedi dalla gestione del presidente federale, l’ex mezzofondista Stefano Mei che nel gennaio scorso ha sconfitto alle elezioni per la presidenza della Fidal il vecchio corso rappresentato da quel generale generale Vincenzo Parrinello di certo non sgradito allo stesso Malagò. Ma l’atletica è stata per anni il brutto anatroccolo dello sport italiano. La disciplina regina, la nobile decaduta che ci regalava solo delusioni o, peggio, figuracce. Zero medaglie ai mondiali di Pechino 2015. E così alle ultime Olimpiadi: zero spaccato pure a Rio de Janeiro 2016. Lontani i tempi di Pietro Mennea e Sara Simeoni, ma pure dei vari Mori, May, Baldini, Gibilisco. La nazionale azzurra era scomparsa, mentre i finanziamenti continuavano a scorrere: oltre 10 milioni di euro l’anno di contributi pubblici, davvero troppo per così poco in termini di risultati fino a domenica.

Infatti la Fidal è stata duramente criticata, nemmeno il Coni dello stesso Malagò era stato tanto tenero. Sotto accusa un carrozzone federale sovradimensionato, oltre 170 mila i tesserati, la vecchia direzione tecnica, qualche scandaletto locale di falsi atleti e società sportive fasulle per incassare contributi; soprattutto un meccanismo di formazione e arruolamento degli atleti nei gruppi militari, l’ossatura di tutto il movimento olimpico italiano e in particolare dell’atletica, con storture profonde: i migliori giovani sembravano accontentarsi del “posto fisso” (letteralmente, visto che di fatto gli atleti sono dipendenti pubblici) e da grandi non facevano il salto di qualità. La Nazionale era diventata un punto d’arrivo e non di partenza.

A differenza di altre discipline dove alla fine la vittoria se la giocano un numero circoscritto di Paesi (a tal proposito è sempre stato fatto, più o meno giustamente, il paragone proprio con la scherma), nel panorama globalizzato dell’atletica dove dalle Bahamas al Kenya ogni nazione ha il suo campione, la vecchia Italia non riusciva più ad essere competitiva. Tutti questi problemi non sono spariti domenica in dieci minuti tra l’ultimo salto buono di Tamberi e lo sprint di Jacobs.

Che cosa è cambiato allora? Innanzitutto la politica. Oggi la Fidal è guidata da Stefano Mei, un ex atleta, che si è presentato col piglio grillino della prima ora di chi vuole fare la rivoluzione, e proprio per questo ha vinto le elezioni, battendo il favorito generale Parrinello, che si presentava in continuità col vecchio grande capo Alfio Giomi. Ma certo non si può pensare che il trionfo di Tokyo 2020 sia il merito di una gestione iniziata da appena sei mesi. Il nuovo presidente non ha ancora potuto mettere mano alle riforme di cui l’atletica ha bisogno. Non in così poco tempo, figuriamoci senza una piena maggioranza in consiglio. La Fidal fino a poche settimane fa era paralizzata dalle continue beghe con l’opposizione. Di fatto la gestione tecnica è ancora quella precedente, né sarebbe stato saggio cambiarla alla vigilia dei Giochi. Anzi, uno degli eroi del trionfo odierno, il ct Antonio La Torre, era dato per dimissionario un paio di mesi fa, per la volontà del presidente di azzerare tutto il settore tecnico. Poi la crisi è rientrata e oggi festeggiano tutti.

Le sconfitte di ieri erano il frutto di antichi disastri, le vittorie di oggi vengono da lontano. I due ori sono arrivati adesso, forse non per caso, perché tutta la spedizione era più preparata e più competitiva. Poi, certo, le medaglie olimpiche le vincono solo i campioni, ci vuole grande talento e forse anche un pizzico di fortuna. Come per Tamberi e Jacobs, che rappresentano un miracolo sportivo.

Improvvisamente la “defunta” atletica italiana vive il momento più glorioso della sua storia. In fondo già alle Olimpiadi di Rio del 2016 le medaglie avrebbero potuto essere due. Il suo oro Gimbo Tamberi avrebbe dovuto vincerlo infatti cinque anni fa se quel maledetto infortunio alla vigilia dei Giochi non gli avesse tolto una medaglia sicura e tre anni buoni di carriera. E poi c’era Alex Schwazer, fino a ieri l’ultimo oro olimpico italiano (la 50km a Pechino 2008): non esiste e forse non esisterà mai una verità certa sulla sua squalifica, doping o mostruoso complotto, ma anche quello a Rio sarebbe stato un podio sicuro. Pensare che proprio Tamberi nel 2016 scrisse di Schwazer sui social: “Vergogna d’Italia, squalificatelo a vita, la nostra forza è essere puliti, noi non lo vogliamo in nazionale”. Ieri Schwazer ha commentato: “Non ho mai dato peso alle sue parole, voi giornalisti volevate metterci contro, ha meritato il titolo”.

Ma il Washington Post, non proprio la gazzetta della parrocchia, ha gettato ombre su tutta l’atletica, partendo però dalla vittoria dell’azzurro Marcell Jacobs, primo italiano oro nei 100 metri, sceso sotto i 10’’ proprio a Tokyo: “Non è colpa di Jacobs se la storia dell’atletica leggera fa sospettare un miglioramento improvviso e marcato. Gli annali di questo sport sono disseminati di campioni che in seguito si sono rivelati essere imbroglioni dopati. Sarebbe ingiusto accusare Jacobs. Jacobs merita il beneficio del dubbio, ma il suo sport no. Jacobs ha attribuito il suo successo a piccoli cambiamenti tangibili e un grande cambiamento intangibile. Ha ottimizzato la tecnica, migliorato la sua dieta. La cosa più importante, dice, è che ha cambiato approccio mentale nei momenti più importanti”.

Da Londra anche il Times pone dubbi inquietanti: “Da Ben Johnson a Gatlin a Coleman, l’arrivo di una nuova stella mette in allerta: delle 50 migliori prestazioni mondiali dei 100 metri, a parte le 14 realizzate da Bolt, 32 su 36 sono di velocisti poi risultati positivi al controllo antidoping”. Ma, fino a prova contraria, non è il caso di Jacobs. E, rispetto a numeri di squalifiche e squalifiche a vita Usa e Uk stanno messi molto peggio dell’Italia. Detto questo “le Olimpiadi di Tokyo sono i giochi del doping”, ha avvertito anche Hajo Seppelt, giornalista della tv tedesca Ard, esperto di queste tematiche, secondo cui la pandemia ha fatto allargare le maglie dell’antidoping rispetto al passato.

Stesso legale per Profumo e Greco

La vicenda Mps è al centro dell’ultimo esposto di Giuseppe Bivona. Dopo aver tirato stoccate a tutto campo, il manager romano cofondatore e partner della londinese Bluebell Partners, torna a prendere di mira il procuratore di Milano, Francesco Greco, con una lettera inviata il primo agosto a Francesco Prete, procuratore di Brescia, a tutto il Csm, al ministro della Giustizia Cartabia e al presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. Dopo le accuse del pm Storari sul caso Amara, Greco è iscritto nel registro degli indagati a Brescia con l’ipotesi di “indagini ritardate”. La segnalazione di Bivona (che sul caso Mps ha fatto indagare a Brescia i pm milanesi Baggio, Civardi e Clerici) riguarda le inchieste per la falsa contabilizzazione di derivati e crediti deteriorati nelle quali “a dispetto del granitico compendio probatorio – scrive – la Procura di Milano ha svolto inspiegabilmente il ruolo di ‘pubblica difesa’ con una serie di richieste di archiviazione, non luogo a procedere e assoluzione puntualmente respinte”. In entrambi i casi, segnala Bivona, l’ex presidente Profumo e l’ex ad Viola, condannati a ottobre 2020 in primo grado a 6 anni per i derivati Alexandria e Santorini, sono stati rappresentati e difesi da Francesco Mucciarelli.

Il manager lamenta di “aver informato personalmente Greco in un incontro del 3 aprile 2014 sulla grave manipolazione dei bilanci di Mps” e di aver “inoltrato quarantasette comunicazioni alla Procura di Milano prima che solo nel gennaio 2016 la Procura di Milano si decidesse (bontà sua) a iscrivere i signori Profumo e Viola nel registro degli indagati, salvo ricercarne caparbiamente l’archiviazione, il non luogo a procedere e da ultimo l’assoluzione”. Ora, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, a Brescia Greco sarebbe “difeso dal professor Francesco Mucciarelli”, “lo stesso difensore di fiducia di Profumo e Viola nei due procedimenti Mps”, scrive Bivona. Tra l’altro Profumo e Viola, assistiti sempre da Mucciarelli, sono indagati nel procedimento sui crediti deteriorati di Mps, nel quale la Procura di Milano aveva chiesto l’archiviazione e su cui ora sempre la Procura coordinata proprio da Greco deve pronunciarsi dopo la conclusione dell’incidente probatorio istruito dal Gip Salvini.

Per tutte queste ragioni Bivona invita gli indirizzatari dell’esposto “a valutare i fatti riportati per quanto di propria competenza onde accertare eventuali profili di interesse, al di là di una mera ragione di opportunità sul conferimento/accettazione dell’incarico”: pure se sottolinea l’assenza formale di una situazione di incompatibilità di Mucciarelli tra i ruoli nelle difese di Profumo e Viola e di Greco, e assumendo che non si tratti di un banale caso di omonimia, il manager chiede al Csm se “tutto questo vi sembra possibile o semplicemente normale?”.

“Bankitalia è al vostro fianco”. Perché Draghi ha a cuore Mps

Nei disastri bancari è difficile trovare chi è senza peccato, si sa, ma almeno qualcuno dovrà spiegare cos’è successo. Palazzo Chigi fa filtrare che i partiti non devono ostacolare l’imminente spezzatino del Montepaschi e annessa cessione della polpa a Unicredit a carico dello Stato. Sui giornali retroscena identici narrano di un Draghi deciso a “tirare dritto” e a “mettere in sicurezza il sistema del credito”. Il premier, pare, considera Mps il tema più sensibile tra quelli che ha sul tavolo. Ecco perché.

Il disastro Mps ha un’origine. Nel 2007 il presidente Giuseppe Mussari – dalemiano, poi tremontiano, ma soprattutto caro alla massoneria senese, padrona della banca – decide di strapagare Antonveneta. Il 17 marzo 2008 il governatore di Bankitalia Mario Draghi autorizza l’operazione: “Non risulta in contrasto col principio della sana e prudente gestione”, scrive. Mussari paga 9 miliardi e se ne accolla 7,5 di debiti: 17 miliardi per un istituto che il venditore, il Santander di Emilio Botin, aveva pagato tre volte meno pochi mesi prima rilevandolo da Abn Amro. Botin, legatissimo all’Opus Dei, gliela vende a scatola chiusa. Pochi mesi prima la finanza cattolica italiana gli aveva sbarrato la strada della scalata al San Paolo Imi: i torinesi preferirono consegnarsi alla Banca Intesa di Giovanni Bazoli. Il sistema italiano ricompensa Botin girandosi dall’altra parte quando Mussari decide l’azzardo. Per quegli strani giri dei disastri italiani, a consigliarlo, per conto della banca d’affari Merryll Lynch, è Andrea Orcel, che oggi guida Unicredit destinata a prendersi Mps. Quel che avviene prima e dopo è un trionfo di irresponsabilità e silenzi.

La vigilanza sapeva che Mussari stava suicidando la banca. Pochi mesi prima, una lunga ispezione aveva trovato una situazione critica in Antonveneta. L’ispezione si chiude a dicembre 2006 con un esito “in prevalenza sfavorevole” e la richiesta di multare vertici e collegio sindacale: 64 pagine che prefigurano la futura esplosione delle sofferenze (i crediti inesigibili), pari a 4 miliardi, più un altro miliardo di incagli e la previsione di nuove perdite per 2,8 miliardi; altri 1,8 miliardi sono “a rischio di decadimento qualitativo”. La gestione dell’istituto viene fatta a pezzi con 5 voti negativi su 6: perde clienti; è ingessata; i controlli gestionali “non prevedono analisi di redditività” e la contabilità “è connotata da prassi poco efficaci e da aree di manualità”.

Perché allora Bankitalia dà l’ok? Ai magistrati senesi che indagarono sul disastro, Mussari (nel 2006 acclamato alla guida dell’Abi) spiegò di “non ricordare come si svolsero le trattative”. Non ci fu due diligence, cioè una profonda analisi dei conti di Antonveneta. Il 26 novembre 2007 i vertici di Mps vengono ricevuti da Draghi e dai vertici della Banca d’Italia. Mussari e il dg Antonio Vigni illustrano l’acquisto. Ai pm attoniti, l’allora capo della vigilanza Annamaria Tarantola racconta che governatore e soci si “raccomandarono coi vertici di Mps di ‘fare per bene’ l’acquisizione”. Vigni appunta sulla sua agenda: “Bankit sarà al vs fianco”. Chi lo ha detto? Tarantola si limita a dire che “sicuramente abbiamo detto che Banca d’Italia li avrebbe seguiti e indirizzati”. Sarà la capacità di indirizzo il motivo per cui nel 2011 Monti la vuole presidente della Rai e Draghi l’ha appena chiamata a Palazzo Chigi come consigliere economico.

Quel che succede dopo è ancor più indicativo. L’operazione si conclude nel 2008 quando la crisi mondiale è già in atto. La storia è nota. Per tamponare l’emorragia e abbellire i bilanci Mps metterà in piedi le operazioni in derivati (i famosi “Alexandria” e “Santorini”). Nell’aprile 2016, alle Camere, il governatore Ignazio Visco rivendicò di essere stato lui, appena arrivato, a chiedere a Mussari e Vigni di andarsene. Non altri. Visco li convoca a novembre 2011 e gli dice di andarsene: “Non avevo potere di farlo, ho corso un rischio personale”. In quei giorni Draghi si insedia alla Bce.

La vulgata vuole che siano stati i nuovi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, a scoprire il trucco dei derivati trovando nella cassaforte di Vigni il contratto con Nomura su Alexandria (lo rivelò il Fatto a gennaio 2013). Eppure i processi hanno mostrato anche altro. Mussari&C. sono stati assolti dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza. Già nel 2010 le strane operazioni in liquidità avevano spinto Bankitalia a mandare gli ispettori. La situazione è così critica che ci ritornano a settembre 2011. Il team guidato da Giampaolo Scardone viene avvisato da Consob (attivata da un esposto anonimo) di indagare su Alexandria: si scopre che una serie di operazioni apparentemente scollegate prefigurano “nella sostanza, piuttosto che nella forma, un Cds”, cioè un derivato: “Era parsa l’unica soluzione plausibile”. Ma, dice Scardone al Tribunale di Siena, senza il mandate agreement è una cosa “che non ci siamo sentiti di contestare perché oggettivamente era fondata su valutazioni di tipo esperienziale”.

L’ispezione si svolge nelle settimane cruciali della caduta del governo Berlusconi, l’arrivo di Monti e, come detto, l’insediamento di Draghi alla Bce. Forse la storia sarebbe cambiata se la bomba Mps fosse esplosa prima. Fatto sta che oggi Palazzo Chigi “tira dritto”.

“Fatti progressi. Ma la Cartabia taglia i processi, non li abbrevia”

Procuratore Gratteri, ha letto il nuovo testo della “riforma” Cartabia dopo le modifiche ottenute da Conte e dai 5Stelle? Quali sono i passi in avanti e i punti ancora preoccupanti?

Il passo in avanti è che, soprattutto nel regime transitorio fino al 2025, i termini massimi di 2 anni per l’appello e di un anno per la Cassazione inizialmente previsti sono raddoppiati per i reati “ordinari” e triplicati per i reati con l’aggravante mafiosa. E certamente un tempo maggiore per celebrare i processi di secondo e di terzo grado darà un po’ di respiro e consentirà di definirne di più, prima che scatti l’improcedibilità.

Ma?

Ma è proprio la struttura dell’improcedibilità il peccato originale di questa cosiddetta “riforma”. E prevedere un elenco di reati, peraltro neanche particolarmente corposo, per i quali è previsto un termine maggiore non fa venir meno “patologia” della legge Cartabia: quella di fissare un “termine-tagliola” senza tener conto del momento della commissione del reato, della data della sentenza di primo grado e della complessità delle indagini.

La ministra Cartabia dice che così si velocizzano i processi.

Non è vero: l’improcedibilità non li velocizza, anzi li moltiplica incoraggiando le impugnazioni strumentali ad allungare i tempi; si limita a “tagliare” il numero dei processi che potranno concludersi con un accertamento definitivo, vanificando le risorse umane ed economiche investite fino a quel momento, oltre a negare i legittimi desideri di giustizia di tanti cittadini. Se davvero qualcuno avesse voluto processi più rapidi, avrebbe dovuto almeno fissare un “contraltare” per bilanciare i danni ed evitare, almeno a lungo termine, lo sfacelo a cui andremo incontro.

Può farci qualche esempio?

Non so quante volte l’ho detto, inutilmente. Gl’interventi devono essere a monte, non a valle. Non bisogna fare arrivare questa valanga di processi in secondo grado. Serve un’imponente depenalizzazione di una serie di reati contravvenzionali, per cui è ben più adeguata una sanzione amministrativa, piuttosto che penale. Vanno potenziati e incoraggiati i riti alternativi, che invece saranno del tutto disincentivati da queste norme. Occorre un’incisiva riforma delle ipotesi di appello e di ricorso per Cassazione per evitare impugnazioni strumentali e pretestuose; un ampliamento delle ipotesi di estinzione con l’oblazione per i reati minori (come quelli edilizi di scarso impatto). Serve poi investire nel personale, almeno colmando le attuali carenze, ma anche una coraggiosa revisione della geografia giudiziaria. Ancora: è illogico non prevedere espressamente una cosa che a me pare ovvia, e cioè che l’improcedibilità non operi quando i ricorsi in appello e in Cassazione vengono dichiarati inammissibili e che quindi la sentenza di condanna passi in giudicato. Assurdo. Tutte queste soluzioni eviterebbero “intasamenti”. Ma mi pare inutile continuare a ripetere l’ovvio.

Molti l’han criticata per aver detto, sulla Cartabia modello base, che faceva rivoltare nella tomba Falcone e Borsellino.

Non ricordo di averlo detto. Tra l’altro negli ultimi anni Falcone e Borsellino di motivi per rivoltarsi nella tomba ne hanno avuti talmente tanti che questo sarebbe solo uno in più. Comunque mai come in questo caso la quasi totalità dei magistrati è assolutamente contraria a questa riforma. Per una volta sono riusciti a metterci quasi tutti d’accordo, questo merito glielo dobbiamo riconoscere.

La “riforma” è anche la cartina al tornasole per giudicare l’atteggiamento dei politici. Renzi ne è fra i più strenui tifosi, dopo aver proposto lei come ministro della Giustizia e averle affidato una commissione per la riforma del processo. Pensa che oggi lo rifarebbe?

Lui, non ne ho idea. Lo deve chiedere a Renzi. Io invece la commissione, chiunque me la proponesse, la rifarei subito, perché grazie alle persone che con me la componevano ha fatto un lavoro eccellente. Che però, salvo un’unica norma, non è stato preso in considerazione. Né da Renzi né da altri.

Anche Salvini la elogiava e la incontrava spesso: ora s’è opposto a qualunque modifica della Cartabia e propugna addirittura i referendum sulla giustizia. Come se lo spiega?

Mah, bisognerebbe chiederlo a Salvini.

Che idea si è fatto della competenza della ministra Cartabia?

Nessuna idea. Io so solo che non ha mai svolto la professione di avvocato, né quella di magistrato, ed essere giudice della Corte Costituzionale non ha nulla a che vedere con la celebrazione dei processi che facciamo tutti i giorni. Ma questo non conta: molti dei Guardasigilli degli ultimi anni non erano né avvocati, né magistrati. Tuttavia non posso che basarmi su quel che leggo e, da quel che leggo, la riforma Cartabia non porterà agli obiettivi dichiarati sulla carta. Quindi: o non si ha reale contezza della situazione, o l’obiettivo che si vuole raggiungere non è quello dichiarato.

La ministra, a Repubblica, ha dichiarato che la riforma attua il principio costituzionale di ragionevole durata del processo.

Un principio sacrosanto, un diritto inviolabile. Ma come si può pensare di attuarlo “tagliando” i processi? Ma lei crede che io non sarei ben più contento, da cittadino prima che da procuratore, che i processi arrivassero ad accertamento definitivo, di assoluzione o di condanna, in tempi rapidi? Ma quale operatore del diritto o cittadino non vorrebbe questo?

La ministra dice che l’impunità la creano i processi infiniti.

Su questo sono assolutamente d’accordo. Ma non sul fatto che l’improcedibilità ci darà sentenze definitive in tempi rapidi e giusti. L’unico effetto sarà di travolgere un enorme numero di sentenze di condanna, con tutto ciò che questo comporta anche sul piano general-preventivo.

Dice anche che i processi di mafia non rischiavano nemmeno col suo progetto originario, perché quelli con gli imputati detenuti hanno la precedenza.

I magistrati devono, perché lo impone il codice, rispettare dei termini nei processi con detenuti, che ora hanno pure una corsia prioritaria. Ma nel progetto originario, salvo quelli per stragi e omicidi, avevano la “tagliola” dopo 2 anni anche quelli. E poi gran parte dei processi di mafia sono a carico di imputati a piede libero. E così quasi tutti quelli “ordinari” ai “colletti bianchi”, agli imprenditori evasori, o per le morti sul lavoro: quelli, in base alla nuova normativa, non saranno prioritari e andranno in coda, quindi rischieranno di essere dichiarati improcedibili e le vittime di non avere giustizia.

La ministra dice pure che, nell’approntare la “riforma”, ha sempre ascoltato i magistrati.


Sarà vero, figuriamoci. Sicuramente non ha sentito i tanti che non la condividono. Intendiamoci: i magistrati non hanno alcun vantaggio o privilegio da difendere nell’opporsi alla riforma. Per i giudici di appello, e ancor di più per quelli in Cassazione, sarà molto più semplice chiudere i processi con l’“improcedibilità”, piuttosto che scrivere una sentenza di svariate pagine. Se ci opponiamo è solo perché abbiamo troppo rispetto per il nostro lavoro per restare in silenzio.

La Cartabia aggiunge che occorre un “diritto penale minimo” con pene alternative al carcere.

Detto in maniera così generica, non so cosa risponderle. Sicuramente, soprattutto per i tossicodipendenti – quota considerevole della popolazione carceraria – bisognerebbe realizzare più strutture terapeutiche: sono persone che vanno curate e aiutate, non rinchiuse. Vanno realizzate più REMS, più comunità per chi ha problemi psichiatrici, e se si tratta di reati minori certamente vanno favorite le pene alternative. Ma al contempo è necessario costruire nuove case circondariali e assumere altro personale penitenziario. Ma attenzione: non perché la mia aspirazione sia “riempire” le carceri; ma perché da un lato i detenuti devono poter espiare la detenzione, dal primo all’ultimo giorno, in maniera dignitosa; e dall’altro il sovraffollamento carcerario non può essere ogni volta la scusa per fare venire meno la certezza della pena. Il carcere di Bollate, che conta il minor numero di recidivi, non dev’essere l’eccezione, ma la regola. A tutti i detenuti va data la possibilità di lavorare, di imparare un mestiere, se necessario. Questo significa rieducare. Ma se non ci sono le strutture e il personale adeguato, è impossibile. In questo bisognava, e spero che almeno questo si faccia, investire parte dei fondi del Recovery per la giustizia.

Preferiva il dl Bonafede senza le aggiunte della Cartabia?

Preferivo che non venisse introdotta l’improcedibilità. Quindi sì, preferivo la riforma Bonafede. Ma le dirò di più: siccome questa è la peggiore riforma che ho mai visto, era meno peggio persino la vecchia prescrizione.

Quella di Berlusconi?

La ex Cirielli.

Lei su La7 ha dichiarato che la Cartabia è la peggior riforma che le sia capitata. Quali reazioni ha avuto?

Moltissime. La cosa che più mi ha colpito è che molti, soprattutto tra la gente che non appartiene al mio settore, ha bisogno di sapere che c’è qualcuno che si occupa degli ultimi. Ma gli ultimi sono tanti. Anche quelli che non hanno la forza di denunciare, o non conoscono i propri diritti, o pensano che le loro denunce non porteranno a nulla, o si sentono abbandonati e traditi. Per questi “ultimi” si potrebbe fare qualcosa, anche investendo denaro del Recovery.

Per esempio?

Per certe cose basterebbe poco, un po’ più di attenzione per recuperare credibilità. Un esempio concreto per farmi capire da tutti. Una persona che abita in Lombardia va in vacanza in Sicilia e viene rapinata o truffata o derubata. Se sporge denuncia e aiuta gli inquirenti a individuare il malfattore, quando dovrà andare a testimoniare dovrà anticipare le spese del biglietto aereo o ferroviario, poi fare una richiesta di rimborso riempiendo un modulo che dovrà richiedere, e solo dopo verrà rimborsato. Dopo mesi, se non anni. E se, come spesso avviene, non può tornare a casa in giornata, l’albergo se lo deve pagare a sue spese perché nessun rimborso gli è dovuto, nemmeno se è indigente. Ma le sembra accettabile trattare così una persona che fa il suo dovere di cittadino, prima di denunciare e poi di testimoniare al processo? E le pare possibile che un giovane interprete, che magari perde un’intera giornata in tribunale per una direttissima, poi venga pagato 30 euro, magari dopo mesi e mesi? Non crede che su questa, come su tante altre storture, si dovrebbe intervenire? Invece no. Voliamo alto e ci dimentichiamo dei piccoli, tanti problemi che allontanano i cittadini da noi.

Perché ha rinunciato a candidarsi a procuratore di Milano?

Anzitutto perché così posso restare ancora un po’ procuratore capo a Catanzaro, visto che nominare un capo a Milano è talmente urgente che il Csm dovrà necessariamente prendere una decisione in tempi brevi. Ma soprattutto perché, non potendo continuare a fare il procuratore in Calabria, che mai lascerei se potessi, ho deciso di puntare a un altro ufficio giudiziario, che credo rappresenti meglio il coronamento della mia carriera.

La Procura nazionale Antimafia?

Chissà…

Conte va a Bologna e rilancia i giallorosa: “Il Pd nostro alleato”

Nel giorno in cui gli attivisti cominciano a votare il suo Statuto e il quorum è un obiettivo e una preoccupazione, Giuseppe Conte indica la rotta, ancora, all’ormai suo M5S. E porta sempre lì, verso sinistra. Lo ribadisce dalla “rossa” Bologna, partecipando alle commemorazioni per l’anniversario dell’attentato alla stazione e ribadendo non solo il sostegno al dem Matteo Lepore, candidato unitario Pd-M5S alle Amministrative di ottobre, ma la necessità di un percorso a lungo termine: “Bologna è un esperimento importante dell’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Pd. È una prospettiva che io stesso ho avvalorato fin dalla prima ora”.

Le premesse sembrano buone, in attesa che la votazione degli iscritti su SkyVote, la piattaforma che ha sostituito Rousseau, restituisca la scontata approvazione del nuovo Statuto, ma soprattutto il dato sul numero dei votanti. Perché la consultazione sia valida serve infatti il quorum della maggioranza assoluta, pena la ripetizione del voto nel fine settimana. Tradotto: occorrono oltre 50 mila voti, molti più dei 29 mila che a febbraio avallarono le modifiche allo Statuto ma parecchi meno rispetto ai 79 mila che si espressero sul sostegno al governo Draghi.

Lo stesso Conte, quando un mese fa presentò il suo progetto al Tempio di Adriano, manifestò l’ambizione di non accontentarsi “di una maggioranza risicata”, segno che ricevere il mandato dagli iscritti alla prima votazione rafforzerebbe la posizione dell’ex premier. La consultazione è iniziata ieri e proseguirà fino a stasera alle 22, a chiusura di una giornata che avrà archiviato – Conte spera senza intoppi – il passaggio alla Camera della riforma della Giustizia. Proprio a Bologna l’ex premier incrocia la Guardasigilli Marta Cartabia, rassicurandola sulla compattezza del Movimento (“Sul voto andrà tutto bene”) dopo le troppe assenze di domenica durante il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità. Ma l’uscita pubblica di ieri a Bologna serve a rilanciare già su altro, a ricordare che Conte si sente già leader del M5S, pronto a girare l’Italia per un tour che partirà da Palermo, ma che poi toccherà innanzitutto Lombardia e Veneto, cioè quel Nord dove il Movimento è in caduta libera nei sondaggi. Nell’attesa, Conte cerca il contatto con la gente, a Bologna. Era partito dalla Puglia in auto domenica notte, e in città trova quel Max Bugani che da tempo a Bologna tesse la tela per il dialogo col centrosinistra. È lui ad accompagnare ovunque l’avvocato, che non parla dal palco, ma si mischia alla folla. Riceve saluti e si concede ai selfie, chiede e risponde. Una donna di 86 anni scandisce: “Non dovete cedere, Renzi è un traditore”. L’ex premier ascolta, sussurra qualcosa. Ma Conte parla e ragiona anche di politica, in vista delle Comunali, Così incontra Lepore, il deputato dem Andrea De Maria e il segretario provinciale del Pd Luigi Tosiani. Scambia sorrisi con Pier Luigi Bersani e l’ex presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani, oggi in Articolo 1. Il colloquio con l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi favorisce l’incrocio, appena fuori la Chiesa di San Benedetto, con la ministra Cartabia.

Alla gente che lo vede unirsi al corteo in onore delle vittime della strage, giura di aver “offerto la massima collaborazione” durante gli anni a Palazzo Chigi per arrivare alla verità sull’attentato: “Ci tenevo a esser qui in mezzo alla gente comune, perché è il giorno di una commemorazione importante non solo per Bologna, ma per l’Italia intera, perché questa è una ferita profonda che rimane purtroppo ancora aperta”. Il riferimento alla “gente comune” di Bologna non è casuale, soprattutto nelle stesse ore in cui su Repubblica un sondaggio Demos dimostra un forte apprezzamento per Conte tra gli elettori del Pd. L’87 per cento degli elettori dem esprime un parere positivo per l’avvocato, percentuale superiore anche al gradimento di Enrico Letta (86 per cento). Può essere un buon segnale, per l’avvocato che pensa, vuole un campo progressista. E che resterà nel governo Draghi, almeno fino all’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Perché ora ha bisogno di tempo, per diventare capo.

La legge dell’ex Guardasigilli, “salvi i 2/3”: ecco cosa cambia

La riforma della Giustizia può riservare ancora sorprese. Quelle previste nel testo, al voto in aula, infatti sono deleghe del governo cui seguiranno decreti legislativi. Ed è su questo che importanti esponenti del M5S già parlano di nuove battaglie in merito agli aspetti della riforma che poco sono piaciuti. Lo ha detto Giuseppe Conte a La Stampa (“Non è esattamente la riforma che avremmo fatto se fossimo stati da soli”), il quale difende il lavoro svolto finora spiegando che “è improprio parlare di riforma Cartabia”, perché “per buoni due terzi resta” l’impostazione di Bonafede. Vediamo dunque cosa è realmente rimasto della precedente riforma.

Risorse e digitalizzazione. Anche se sono stati soppressi gli articoli che le prevedevano (perché riferibili ad anni passati), risorse finanziarie e assunzioni sono due impostazioni rimaste della riforma Bonafede. Nel nuovo testo, infatti, si prevedono risorse finanziarie, il potenziamento degli uffici giudiziari e “l’aggiornamento del personale dell’amministrazione giudiziaria” e “di magistratura”. Allo stesso modo si continua con la digitalizzazione di atti e fascicoli.

Indagini. L’articolo 3 della riforma riguarda le “indagini preliminari e udienza preliminare”. In questo caso alcune disposizioni della Bonafede sono rimaste identiche, ma sono state introdotte modifiche parecchio criticate anche da autorevoli magistrati. Una su tutte la norma che affida agli indirizzi del Parlamento la priorità dei reati da perseguire. Non solo. Nel nuovo testo è prevista anche la possibilità per l’imputato di chiedere al giudice di retrodatare l’iscrizione nel registro degli indagati “nel caso di ingiustificato… ritardo” o anche quella che chiede di prevedere “criteri più stringenti” per la riapertura delle indagini.

Riti speciali e querele. L’articolo 4 della riforma riguarda “i procedimenti speciali”. Alcuni aspetti della Bonafede non sono stati toccati, altri sì. Nel testo ora al voto, ad esempio, si prevede che “quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero” può “estendersi alle pene accessorie e alla loro durata”. Inoltre si introduce la riduzione di un ulteriore sesto della pena per l’imputato che, in abbreviato, rinuncia ad impugnare la sentenza. C’è poi l’articolo 8 della riforma Bonafede (condizioni di procedibilità), la cui impostazione resta tranne che per la querela. Oggi per alcuni reati il processo inizia soltanto se c’è una querela. Per i delitti gravi, invece, il procedimento si avvia anche senza querela. La riforma Cartabia introduce la necessità della querela anche per alcuni reati contro il patrimonio o contro la persona. E ancora. Non è stato toccato l’articolo 10 della riforma Bonafede sulla “disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni”.

Appello. Cambia invece l’articolo 7 della precedente riforma. Il nuovo testo prevede che le sentenze di proscioglimento per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa non potranno essere appellate dal pubblico ministero. Bonafede aveva previsto un elenco di reati per cui l’appello si potesse invece fare, come per le lesioni colpose gravi o la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario. Tutto cancellato.

Improcedibilità. Grande protagonista della battaglia dei 5Stelle che sono riusciti a far cambiare l’impostazione iniziale della Cartabia. Lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado della riforma Bonafede resta in piedi, ma viene introdotta l’improcedibilità. Cosa è cambiato? Il primo testo della Cartabia prevedeva l’improcedibilità dell’azione penale per i processi che duravano oltre due anni in appello e uno in Cassazione. Con la possibilità di proroghe: un anno in Appello e sei mesi in Cassazione. Inizialmente queste disposizioni non dovevano applicarsi “per i delitti puniti con l’ergastolo”. Dopo le trattative del M5S, il nuovo testo prevede che sono esclusi dal regime di improcedibilità i processi di terrorismo, associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso, violenza sessuale e traffico di droga. Inoltre per i reati commessi con lo scopo di favorire un’organizzazione mafiosa, i processi potranno durare fino a sei anni in Appello e tre in Cassazione. Ma fino al 2024: poi si passerà al regime di 5 anni in Appello e massimo due in Cassazione.

Pene pecuniarie e detentive. Altro campo sul quale in futuro i 5stelle vogliono intervenire. L’articolo 9 della riforma Bonafede è stato modificato. A cominciare dai reati tenui. Con la nuova riforma, rispetto al passato, si allargano i confini: sarà “tenue” il reato con pena minima fino a 2 anni. Dopo gli allarmi dei giorni scorsi (perché sarebbero stati considerati tenui anche reati come come il revenge porn) si è raggiunto un compromesso: sono esclusi i reati “riconducibili alla Convenzione di Istanbul” che riguarda la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Altra modifica alla Bonafede riguarda la “messa alla prova”: oggi il giudice può decidere di sospendere il processo con la “messa alla prova” dell’imputato, che al termine della prova vedrà il suo reato estinto. Oggi lo si può fare per reati con pena massima di 4 anni. La nuova riforma alza questa soglia a 6 anni.

 

I mal di pancia M5S non si placano: oggi Bonafede spiega il sì

La guerra al governo molto diverso dal suo l’aveva messa sul tavolo, come arma e forse tentazione: anche di fronte ai deputati, appena martedì scorso. E d’altronde aveva seriamente pensato allo strappo, soprattutto nei giorni in cui meditava di farsi una sua lista, quelli dello scontro con Beppe Grillo. Ma ora Giuseppe Conte deve diventare e soprattutto mostrarsi capo dei Cinquestelle, così in un lunedì romano di nuvole e sguardi che anelano spiagge, l’avvocato ripassa in rassegna le truppe e sente tutti gli ufficiali.

Deve far trangugiare a tutti i deputati a 5Stelle il calice della fiducia a Mario Draghi e alla riforma Cartabia, cioè a quelle norme che fino a qualche giorno fa erano l’esatto contrario della riforma Bonafede, e che ora, dopo la trattativa contiana, fanno un po’ meno paura e impressione. Ma l’irritazione no, quella c’è ancora in molti eletti, e figurarsi tra la base, che urla di tradimento e sconfitta su ogni social. Però, tanto guida Conte, che di mattina lo giura su La Stampa: “Mai pensato di causare una crisi di governo”. E forse mentre lo diceva aveva le dita incrociate. Di certo pensa a come evitare assenze e voti contrari nel voto previsto a tarda notte, alla Camera.

“Dovremmo tenere” pronosticano e si augurano grillini di vario ordine e grado. Anche perché un no alla fiducia per le regole del M5S varrebbe un’espulsione, disincentivo che l’ex premier è prontissimo ad adoperare, come ha fatto capire nella riunione di domenica con i parlamentari. “Magari qualcuno mancherà…” è la sensazione. Ma le assenze dovrebbero infittirsi oggi, nel voto finale sul testo. Vuoti che farebbero rima con protesta. Più o meno come i 40 assenti che avevano marcato visita domenica, e Conte non aveva affatto gradito. “Però questa riforma è dura da digerire”, buttano lì un paio di parlamentari nella Montecitorio semi-deserta del primo pomeriggio. In cortile, solo con i suoi pensieri, Alessandro Melicchio, deputato calabrese che due giorni fa aveva votato assieme all’opposizione beccandosi la rampogna in assemblea dell’avvocato (“Ci hai mancato di rispetto”).

Poche ore dopo, Melicchio scruta lo smartphone, poi scompare dentro la Camera. Ma ai colleghi ha assicurato che voterà sì. Su una panchina il campano Cosimo Adelizzi, una sigaretta tra le dita e tanto pragmatismo: “Conte ha fatto il massimo e ora dobbiamo sostenerlo tutti, non si può fare diversamente”. Pochi minuti dopo, in jeans e maglietta sotto la giacca, si materializza il presidente della commissione Giustizia, Mario Perantoni, che la battaglia sulla riforma l’ha vissuta emendamento per emendamento. “Io penso che il M5S terrà, abbiamo ottenuto buoni risultati sul testo”. Va bene, ma la base è in rivolta… Perantoni fa una pausa, riconosce: “Dobbiamo spiegare cosa abbiamo fatto, i risultati che abbiamo ottenuto”. In sintesi, l’obiettivo di Alfonso Bonafede, che passa il lunedì a scrivere l’intervento che pronuncerà stamattina nella dichiarazione di voto finale per il M5S. Sarà proprio l’ex Guardasigilli a spiegare perché bisogna deglutire la riforma che cambia, eccome, la sua, quella che doveva fermare la corsa della prescrizione dopo il primo grado.

Sarà lui il primo a pagare dazio all’accordo, a chiedere compattezza e disciplina innanzitutto per Conte. E lo farà con un discorso in cui sosterrà che il Movimento ha inciso, profondamente, sul testo. Teorizzando che la struttura di base resterà sempre quella della sua riforma, della riforma Bonafede. E che bisogna rimanere nel governo Draghi per portare a casa norme e difendere i propri provvedimenti, insomma “per fare la differenza”.

Perché ora per il M5S e Conte così vanno le cose e così devono andare, come cantavano i Csi. Quando i 5Stelle neanche esistevano.

 

Pronti a fuggire

Giuseppe Conte, sulla Stampa, dice due cose giuste e una sbagliata. La prima giusta è che, in una maggioranza del genere, è già un miracolo se i 5Stelle – soli contro tutti – hanno salvato il grosso dei processi dalla morte sicura prevista dalla schiforma Cartabia modello base. La seconda è che non c’è alcuna “riforma Cartabia”: solo emendamenti contro un terzo della vera riforma, quella di Bonafede, che per gli altri due terzi resta, all’insaputa di tutti i partiti che la stanno votando. Sopravvive anche la blocca-prescrizione: la Cartabia ha tentato di aggirarla aggiungendovi la prescrizione non più del reato ma del processo (“improcedibilità”), se la sentenza d’appello non arriva entro 2 anni da quella di tribunale e quella di Cassazione entro 1 anno da quella d’appello. Così i reati avrebbero continuato a non prescriversi, ma si sarebbero prescritti quasi tutti i processi: se non era zuppa era pan bagnato. Invece la cosiddetta ministra della Giustizia ha dovuto cedere alla (tardiva) resistenza del M5S: escludendo i reati di mafia, violenza sessuale e traffico di droga; e triplicando i tempi per i reati con aggravante mafiosa e raddoppiandoli per quelli “ordinari”. Risultato: diverranno improcedibili solo i processi d’appello più lunghi rispettivamente di 6 o di 4 anni, cioè pochi. Per tutti gli altri, la prescrizione del reato resterà bloccata e si arriverà a sentenza definitiva. Così il pericolo principale è stato sventato, anche se i commentatori, ignoranti e/o in malafede, dicono l’opposto.

Tutto bene, allora? Niente affatto. La riforma, nella parte degli altri emendamenti Cartabia (cioè Ghedini-Bongiorno), resta una sconcezza: ma per fortuna è solo una legge delega e per entrare in vigore necessita di appositi decreti del governo, che si spera non faccia in tempo a vararli. Nella parte (predominante) della Bonafede, invece, contiene i 2,7 miliardi di Recovery stanziati dal Conte-2 per nuovi tribunali e carceri, assunzioni, ufficio del processo, digitalizzazione, notifiche semplificate ecc. Che poi è l’unica cosa che ci chiedeva l’Ue. Si poteva ottenere di più? Difficile: il M5S è solo, ma neppure l’appoggio di Pd e Leu (spariti) avrebbe garantito i numeri per battere le destre (Iv inclusa). Però l’errore di Conte è dire: “Mai pensato a causare la crisi di governo”. Se l’avesse causata, la schiforma sarebbe passata nella prima versione: la peggiore. Ma, senza le migliorie ingoiate da Draghi, buttarlo giù sarebbe stato il minimo sindacale. Se governi coi rappresentanti della criminalità che hanno appena visto condannare per mafia in appello i loro ex uomini di governo D’Alì e Cosentino (dopo B., Previti, Dell’Utri &C. per altri gravissimi reati), meglio tenersi sempre una via di fuga.

Libertine, amorevoli, pazze: il ramo femminile dei van Gogh

“Sorellina cara, ti ringrazio per la lettera. Tu rivedi te stessa quando, in natura, molti fiori vengono calpestati, si gelano o inaridiscono, o quando non tutti i chicchi di grano, una volta maturati, finiscono di nuovo dentro la terra per germogliare e diventare un nuovo stelo. Ora, in ogni persona sana e naturale c’è il potere di germogliare come dentro a un chicco di grano. È così che la vita germoglia. Come il potere di germinare del grano, così è l’amore in noi”. A scrivere queste parole affettuose, in una lettera dell’ottobre 1887, è il pittore Vincent van Gogh alla sorella minore Willemina, che da Parigi gli aveva raccontato le sue fantasticherie sul natio paesaggio del Brabante. Soprattutto, però, gli confessa di voler dipingere. Il pittore risponde: “Non è una cattiva idea per te voler diventare un artista, perché se uno ha il fuoco dentro l’anima, non si può continuare a soffocarlo: il fuoco deve bruciare e non soffocare. Quello che c’è dentro deve uscire.”

Riguardo alla famiglia dei van Gogh, molto si sa dello speciale legame tra Vincent e l’amato fratello Theo – talmente amato che quando Vincent si spara un colpo di pistola per poi morire di agonia sul proprio letto, Theo stringe le loro lettere ultime al petto mentre si consuma in un lutto suicida, che sei mesi più tardi lo condurrà alla morte –, ma quasi niente sappiamo delle sue tre sorelle. Emergono dall’oblio oggi grazie a un libro uscito pochi mesi addietro, The Van Gogh Sisters, dello storico dell’arte olandese Willem-Jan Verlinden (testo apparso in olandese nel 2017, ma dal successo mondiale solo una volta uscito in inglese) che ha potuto mettere le mani su centinaia di lettere inedite conservate al Van Gogh Museum, missive in cui da donne colte raccontano sogni, aspirazioni, discutono di letteratura, arte e riflettono sulla vita. Carte molto interessanti anche per la ridefinizione del nido famigliare del pittore che, seguendo il celebre adagio di Dostoevskij, si dimostra essere “infelice a modo proprio”, o comunque non estraneo a quelle meschinità, antipatie e risentimenti tipici di tutte le famiglie.

La più grande, Anna, sposata e con due figli, lavora come governante in Inghilterra ed è devota ai genitori. Quando Vincent a dieci anni lascia la casa paterna per studiare nel collegio maschile “Jan Provily” di Zevenbergen, Anna ne ha otto ed è la sua compagna di giochi, lei che si diverte a chiamarlo “terreur” (terrore) per via dei suoi comportamenti strani e gli scherzi, come racconta anche Marco Goldin in Van Gogh. L’autobiografia mai scritta. Da grandi, invece, hanno un rapporto freddo. Il 30 dicembre 1875, gli scrive: “A volte ti vorrei qui per chiederti un parere su questo o quello, ma so che non posso e devo aspettare”. La verità è che, pur ammirandolo, Anna gli biasima l’atteggiamento da artista che li umilia. Tuttavia, se c’è chi pensa che nella famiglia del pastore protestante Theodorus e sua moglie Anna Cornelia, a portare lo scandalo fu solo lo strano figlio pittore che si taglia l’orecchio e muore suicida, si sbaglia. La storia di Elizabeth, quartogenita, soddisfa la pruderie dei più esigenti. Nata nel 1859, studia per essere insegnante ma accetta l’incarico di dama di compagnia di una ricca signora malata. Ebbene, Elisabeth si innamora di Jean Philippe (il marito della signora) e rimane incinta mentre la sua assistita è ancora viva. Per evitare pettegolezzi, Elizabeth (“Bugie” in famiglia) partorisce in Francia, chiama la figlia Hubertine van Gogh e la affida a una vedova. Il padre, Jean Philippe, non vorrà mai adottarla, né provvedere a lei. Intanto il tempo passa e negli anni ’60 Hubertine si mette a vendere porta a porta a Parigi cartoline dello zio in cui diceva di essere la nipote del celebre artista.

Infine, Willemina (Wil), la più fragile, la più teneramente amata da Vincent, la più simile a lui. Il loro carteggio è il più fitto. Parlano di arte, letteratura, paesaggio. Nata nel 1862, è insegnante di religione. Emancipata e attiva femminista, riceve pure una decorazione pubblica per il suo impegno nel comitato esecutivo dell’Esposizione nazionale olandese del lavoro femminile del 1898 all’Aia. Poi, nel 1902, il declino: i problemi mentali. La paura della pazzia torna nella famiglia van Gogh. Wil ha quarant’anni e viene ricoverata in manicomio dove finirà i suoi giorni a 79 anni. Per pagare le sue cure, Anna venderà tutti i diciassette dipinti di Vincent, di cui intanto a più di dieci anni dalla morte si iniziava a parlare, che aveva in casa. Nel 1909, ricordando con affetto l’episodio alla cognata Johanna Bonger, vedova di Theo, ammette il suo stupore per i 600 fiorini guadagnati dalla vendita del primo: “Chi se lo sarebbe mai aspettato?”.

Non solo Theo, dunque, ma pure Bugie, Wil, l’ultimo arrivato Cor e perfino Anna ebbero un posto speciale nel cuore di Vincent, che nel 1876 – superati da poco i vent’anni – scrive un augurio che è insieme una promessa d’amore imperituro: “Noi saremo fratelli e sorelle e bambini della canonica, sebbene in modo nuovo e in molteplici forme”.