Il coraggio della ribellione per rivoluzionare gli atenei

“Ex ore parvulorum veritas”: è dalla bocca dei piccoli che viene la verità. Dato il paternalismo gerontocratico dell’università italiana, l’adagio calza al discorso che gli allievi e le allieve della classe di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa (punta di diamante delle università pubbliche italiane) hanno scritto, e che tre di loro – tre giovani donne – hanno letto durante la cerimonia della consegna dei diplomi. Il discorso – visibile su youtube, leggibile sul sito della rivista Il Mulino – è una profonda critica allo stato dell’università italiana, al ruolo della stessa Normale, allo statuto del sapere umanistico. Per l’irritualità, per la grazia con cui è stato proclamato, per la risposta nervosa della Scuola, il discorso ha suscitato moltissime reazioni: dalle strumentali adesioni di potenti professori dimentichi delle loro responsabilità (“si sa che la gente dà buoni consigli … se non può più dare cattivo esempio”), alle trombonaggini di chi ritiene che dalle bocche più giovani escano solo superficiali corbellerie, alle accuse di sputare nel piatto dell’eccellenza.

Da parte mia, credo che si tratti di un discorso luminoso. Quando ero allievo dello stesso corso in Normale (1990-1994) non avrei mai avuto consapevolezza, maturità e coraggio sufficienti per pensare e dire qualcosa del genere: anche per questo sono grato a questi giovani colleghi. E credo che i professori della Normale dovrebbero rallegrarsi (e poi magari farsi qualche domanda): quel discorso dimostra che, malgrado tutto e forse anche malgrado se stessa, la Scuola funziona ancora, perché riesce a suscitare quel pensiero critico che è sopito in quasi tutta l’università italiana. Ma cosa dicono le normaliste e i normalisti? Dicono – ma queste sono parole mie – che l’università è stata profondamente uniformata all’ideologia dominante del nostro tempo: gli atenei sono stati trasformati in aziende governate monocraticamente, messi in concorrenza tra loro, misurati sul numero dei “prodotti della ricerca”; gli studenti sono considerati clienti; i professori, in misura crescente precari senza alcuna libertà, non devono rovinare il brand e l’immagine dell’azienda. E sono sempre più maschi via via che la gerarchia sale. Si è rotto il nesso con la scuola, si è negato il carattere di servizio pubblico, si è abbattuto il diritto allo studio. Una risibile retorica dell’eccellenza ha coperto l’erosione drammatica del finanziamento pubblico di un’università che laurea quasi solo i figli dei laureati. In questa “università-azienda – e queste sono invece parole del discorso – l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto; la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi; lo sfruttamento della forza-lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e la deregolamentazione crescente delle condizioni contrattuali delle lavoratrici e dei lavoratori esternalizzati; le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali”.

Ebbene, sono tutte cose vere: perfino ovvie. È tutto quel che c’è da dire dell’università? No, naturalmente. Si potrebbe obiettare, per esempio, che anche la valutazione dei docenti da parte degli studenti è una bestialità aziendalistica; o aggiungere che la deformazione neoliberista non ha affatto cancellato la vecchia università feudale e indolente; o che l’autonomia di tipo aziendale è contraddetta dal centralismo di fondi vincolati. Tutto vero: infatti la situazione è ancora più grave di come appare dal discorso pisano.

Come se ne esce? Un primo passo è che i professori e gli studenti non stiano al loro posto: ma siano insubordinati, capaci di contestare dall’interno lo stato delle cose. Le normaliste e i normalisti lo hanno capito, e hanno denunciato che “schierarsi apertamente a favore o contro precise scelte politiche è ormai da tempo considerato non un valore aggiunto, bensì una macchia di cui l’accademico di oggi non deve in alcun modo sporcarsi”. Si potrebbe dire che è perfino peggio: negli stessi giorni del discorso, la Normale chiamava tra i suoi docenti colui che resse la segreteria tecnica della ministra Gelmini nel momento in cui fu perpetrato il massimo massacro morale e materiale dell’università italiana. La lezione è chiara: si può uscire dalla biblioteca solo per fare i consiglieri del principe, non per contestarlo.

Quando ero studente in Normale, lessi un saggio di Erwin Panofsky sull’immagine della torre d’avorio: dove si rammenta che la torre accademica dell’isolamento, la torre della “beatitudine egoistica”, è anche una torre di guardia. Ogni qualvolta l’occupante avverta un pericolo, ha il dovere di gridare, nella flebile speranza di essere ascoltato, a quelli che stanno a terra. La condizione per meritare di vivere nella torre è la disponibilità a dare l’allarme. Qualcuno, in Normale, lo ricorda ancora.

“Oddio, s’è ristretto il Nord, la locomotiva sul binario morto”

“Oddio, si è ristretto il Nord!”.

Lei, professor Viesti, è il narratore quotidiano di un Sud disagiato e depresso, vittima di una sperequazione economica che lo tiene distanziato dal resto d’Italia. Invece i guai aumentano anche altrove.

Il Sud è quello che è. La brutta novità è che il Nord, la locomotiva, perde pezzi e alcuni suoi vagoni, fiore all’occhiello di una economia dinamica, progressiva, aperta e circolare, sono fermi su un binario morto.

Quanto è sfiorito il corpo del nord?

La Liguria è in una costante, perenne regressione. Così pure il Piemonte, ad eccezione del grande polo alimentare del cuneese e di altri limitati distretti. Ma ci sono regioni, penso all’Umbria e alle Marche, che erano il volto vincente del made in Italy e ora sono in grave ambasce.

Cosa dicono i numeri?

Sono numeri sbalorditivi, dei quali purtroppo non si fa cenno. Fatto cento il reddito medio europeo (e si badi che la media considera i redditi anche degli ingressi dei paesi dell’Est) un cittadino umbro agli inizi del duemila valeva 118, dunque era più ricco del 18%, nel 2018 il suo reddito si è ridotto così tanto da essere il 16% in meno della media, stimato a 84.

È un segno di un tonfo enorme.

Il vento è così cambiato che un’altra regione gemella per qualità della vita, come le Marche, adesso è infilata in un tunnel interminabile. Crisi industriali su crisi industriali.

Ma perché?

Perché il mondo è cambiato col nuovo secolo e l’Italia non è riuscita ad adattarsi. Siamo rimasti con la testa al Novecento e non ci siamo accorti che siamo molto meno competitivi, da quando l’Asia è entrata nel mercato globale, paghiamo la concorrenza dell’est europeo, siamo molto meno competitivi e non sufficientemente innovativi come invece lo è la Germania, e infine siamo fuori dai grandi poli della digitalizzazione. Sono altrove, e noi spettatori silenti.

Eravamo abituati a dire che il sud è povero e il nord è ricco.

Narrazione pigra, che dice una verità incompleta. Secondo lei perché il rosso con cui era politicamente colorata l’Italia centrale è andato sbiadendo? I cittadini delle Marche e dell’Umbria lo sanno, e infatti hanno cambiato segno al governo regionale. E così la Toscana meridionale. La crisi di Torino è emblematica. Nel Novecento era la capitale del Sud perché era l’approdo dei meridionali. Ora lo è per una quasi omogeneità della crisi economica con quella delle grandi città del Mezzogiorno.

Il nord si è così ristretto che la sua gloria vive sul triangolo Milano-Bologna-Treviso?

Troppo poco. Un Paese intero non lo tira una locomotiva così rimpicciolita.

E perché non se ne parla?

Perché la crisi è vissuta da territori poco influenti politicamente. Questa grande crisi del cuore verde d’Italia non arriva in tv, è lasciata sola in un disagio che è vasto ma silenzioso.

L’Italia sta correndo, secondo gli ultimi dati Istat, dopo la voragine prodotta dalla pandemia.

L’Italia ricca è sempre più piccola, quella povera oppure di recente impoverimento, è sempre più ampia.

L’Umbria però non è la nuova Calabria.

Naturalmente no. Ma è stata superata l’anno scorso, nella crescita del Pil, dall’Abruzzo e dalla Campania. E non è stata una sconfitta virtuosa. C’è chi fa meno peggio, non c’è chi fa meglio o molto meglio. Non ce la caviamo più se aggiungiamo alle vecchie povertà alcune nuove.

L’Umbria lumaca, le Marche ammaccate, la Toscana depressa, la Liguria incartapecorita, Torino come Napoli.

È la realtà che il nuovo secolo va disegnando. Prima ce ne accorgiamo, prima corriamo ai ripari e meglio sarà per tutti.

100 metri e salto in alto: arrivano due storici ori

Per una volta non è questione di retorica: la giornata di ieri entra nella storia dello sport italiano. Le Olimpiadi di Tokyo ci regalano le perle di Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs: il primo è medaglia d’oro nel salto in alto, il secondo è l’erede di Usain Bolt nell’Olimpo dei 100 metri. Tutto succede nel giro di una ventina
di minuti, tra le 14 e 30 e le 14 e 50 Prima Tamberi salta 2 metri e 37, garantendosi la medaglia più preziosa a pari merito con l’atleta del Qatar Mutaz Essa Barshim, che accetta di condividere l’oro con l’italiano. E poi c’è Jacobs, già sotto al record europeo dei 100 metri in semifinale, quando aveva corso in 9 secondi e 84, e poi straordinario in finale, quando con il tempo di 9 e 80 (lo stesso di Bolt a Rio) batte l’americano Fred Kerley e conquista l’oro. La prima nei 100 metri per l’Italia, che in 125 anni non aveva neanche mai mandato un atleta in finale.

 

Jacobs Dal padre ritrovato alla rinascita: il campione parla con i segni del corpo

“È veramente bello battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione. Perdere con classe e vincere osando, perché il mondo appartiene a chi osa! La vita è troppo bella per essere insignificante”: il celebre aforisma di Charlie Chaplin domina il pettorale sinistro di Marcell Jacobs, e non a caso. Chaplin ebbe un’infanzia triste e difficile perché il padre lo aveva affidato ad un orfanotrofio, ma seppe uscir fuori da quella condizione di miseria umana e materiale. Il padre di Marcell, marine texano stanziato alla base di Ederle, conobbe la gardesana Viviana Masini, che lo seguì a El Paso dove il 26 settembre del 1994 dette alla luce Marcell. Poi papà Lamont venne dislocato in Corea del sud, Viviana non lo seguì e le loro vite si separarono per sempre: “A diciotto mesi ero in Italia, i miei tre figli sono nati qui, mi sento italiano in ogni cellula del mio corpo, tanto che con l’inglese faccio fatica”, dice sempre Marcell quando gli rinfacciano che è nato negli Stati Uniti. Per questo va così veloce: “Non vedo l’ora di sentire l’inno italiano sul gradino più alto del podio”. Oggi, alle 12 in Italia, le sette di sera in Giappone.

Non è più un mistero che la carenza affettiva abbia influito in passato sulle prestazioni di Jacobs: nel 2019 valeva 10’’03, non un tempo da finale olimpica. Ma l’inizio del 2021 è stato travolgente: titolo europeo indoor con 6”47 nei 60 metri, miglior prestazione mondiale. Poi, il 13 maggio, a Savona lima il primato di Filippo Tortu con 9”95. Per scatenarsi a Tokyo con un trittico stratosferico: 9”94, 9”84, 9”80. Miracolo dei muscoli? Non solo. Anche della testa. Un nuovo team di lavoro, tecniche all’avanguardia e un percorso psicologico che lo porta a riallacciare i difficili rapporti col padre fantasma. Ti sbloccherai se risolvi questo tuo conflitto interiore, gli ha suggerito la mental coach Nicoletta Romanazzi. Il campione irrisolto ha preso coraggio. Ha scritto al padre. Certo, “non tutto è ancora risolto”, precisa Jacobs, “però almeno ci parliamo, con l’aiuto del traduttore di Google…”. Marcell non si nasconde, anzi. Impasta, tritura, ironizza. Un tatuaggio rivela l’evoluzione dello stato d’animo. Guardate la spalla: una croce piantata su un terreno ricoperto di teschi. Campeggia la scritta “BELIEVE” e una corona da re. Credere. Sempre. In sé stessi, anche quando tutto sembra perduto. A sinistra, un altro tatuaggio proclama: “Famiglia. Dove nasce la vita e l’amore non ha mai fine”.

Jacobs ama esibirsi. Si veste “da tamarro”. Predilige le sneakers Dunk e Jordan 1. È cotto di Nicole, la compagna. Ha trovato finalmente equilibrio mentale, sicurezza, tranquillità. Comunica coi segni sul corpo. Il nome e la data di nascita del primogenito Jeremy, nato quando Marcell aveva 19 anni, impresso sul pettorale sinistro. Quelli di Anthony, avuto da Nicole, sulla pancia. Megan, l’ultima nata, sul bicipite destro. Quando Jacobs solleva le braccia all’altezza della testa per esultare, gonfia i muscoli, come fa Russell Crowe nel film il Gladiatore. È un messaggio in codice alla famiglia. La vistosa scritta sotto il collo, “CrazyLong Jumer”, che è pure il suo account Instagram, sta a ricordare che prima di fare lo sprinter è stato un eccellente giovane lunghista. La tigre tatuata sulla schiena è sinonimo di potere, forza, sensualità, passione, ferocia, bellezza. La grande rosa dei venti sul petto è la sua bussola esistenziale. Resta da immaginare dove tatuerà l’oro di Tokyo: “Vincere l’Olimpiade è il sogno di ogni atleta, non possiamo nasconderlo, è nella nostra testa”. Solo mamma Viviana, albergatrice a Desenzano sul Garda, sapeva che avrebbe fatto qualcosa di indimenticabile. Qualcosa “in cui mio nonno, che non c’è più, aveva sempre creduto”. Il nonno italiano, ci tiene a sottolineare.

 

Tamberi Inferno e ritorno Il gesso divenuto amuleto della sua ‘Road to Tokyo’

Gimbo è funambolico. Mattacchione. Estroverso come un clown. Provocatorio. Ma anche personaggio tragico: la sua è una storia con una trama classica, dalle stelle alle stalle e poi la rivalsa, il lieto fine, ideale trama per gli sceneggiatori di Hollywood. Perché Gimbo è capace di tutto. Di grandi imprese. Come del contrario, poiché pretende sempre di più di quel che il corpo ogni tanto non riesce a concedergli. La mente vuole. E ce lo mostra. Anima pazza, in cui anarchia, sacrifici ed arte confluiscono nei gesti che preparano la rincorsa al salto in alto, specialità che libera per pochi istanti il corpo dalle catene della gravità. Se c’è una raffigurazione fisica dei limiti umani, il salto in alto lo rappresenta in modo perfetto. E filosofico.
All’anagrafe Gimbo è Gianmarco Tamberi, nato a Civinatova Marche il primo giugno del 1992. Figlio d’arte. Marco Tamberi è stato infatti saltatore in alto come il figlio che allena. Lo sport come bottega: secondo tradizione dei mestieri di un tempo… Gianmarco si rivela subito una grande promessa. Ha talento e senso dello spettacolo, un mix che esalta gli spettatori e lo trasformano in un idolo dei giovani.
Diventa campione mondiale indoor a Portland, nel 2016, lo stesso anno in cui si laurea campione europeo ad Amsterdam. Anno purtroppo infausto. A febbraio stabilisce la miglior prestazione mondiale indoor, a Hustopece nella Repubblica Ceca, un balzo oltre 2 metri e 38 centimetri. Cinque mesi dopo, il 15 luglio, realizza il nuovo record italiano con 2 e 39. Potrebbe e dovrebbe evitare sforzi inutili, incombono le Olimpiadi di Rio de Janeiro. Macché, Gimbo in preda ad esaltazione agonistica tenta il 2 e 41. Vuole andare in Brasile da primo della classe volante. Sbaglia il primo tentativo. Nel secondo, cade male. La caviglia sinistra s’incartoccia. Disperazione: “Ricordo ogni istante di quella serata. Il gesso in pedana. L’ospedale. Ho passato una settimana a piangere nel letto, dopo l’infortunio. Pensavo che tutto era finito, che tutti i sogni per cui avevo lottato, che tutto il lavoro che avevo fatto erano stati inutili. Poi, un giorno che dovevo riprovarci. Non lo dimenticherò mai: ero ancora in ospedale, mi sono fatto scrivere da Chiara sul gesso ‘road to Tokyo 2020’. Da quel giorno ho detto: proviamoci, se succederà sarà qualcosa di incredibile”.
Il “se” è durato cinque anni. Il gesso, ingiallito dal tempo, si è trasformato in un amuleto. Gimbo, come un poeta, crede a certe liturgie della sorte. Ieri, all’ultimo tentativo, ha estratto dalla sacca quel gesso e l’ha deposto sulla pista che cingeva la pedana dei saltatori. Sulla vecchia scritta campeggiava la croce rossa che cancellava il 2020 sostituito dal 2021. Il salto è nullo, ma l’oro è a pari merito con il rivale-amico qatarita Mutaz Essa Barshim: “Incredibile”, commenterà ancora incredulo Gimbo, “lui è il saltatore più forte di tutti i tempi. Ha dimostrato in tutti questi anni di essere il numero uno in assoluto”. Barshim, si schermisce con un mugugno. Gimbo è in quella fase liberatoria che lo trasforma osservatore imparziale, autenticamente olimpica: “Per me non è eguale. Per me vincere un’Olimpiade dopo quello che ho passato è una cosa stratosferica. Lui se lo meritava. Io credo di aver realizzato un sogno, un pezzo di storia che rimarrà per sempre con me. Non vedo l’ora di raccontarlo ai miei figli, quando li avrò e se li avrò, ma anche ai suoi figli”, dice, indicando Barshim, “abbiamo fatto qualcosa di magico. Non dormirò mai più, credo”. La gioia è incontenibile. Contagiosa. Jakobs lo raggiunge. I due si abbracciano. L’entusiasmo li travolge. L’erede di Bolt e il saltatore più imprevedibile che ci sia sono il volto di Giano della nostra atletica. Coi il loro essere stati i migliori nelle specialità più emblematiche dei Giochi.
L.C.

Classe dirigente. La “meritocrazia” spiegata con il caso Padoan e i suoi 80 miliardi di errori

Il caso di Pier Carlo Padoan – l’uomo che da ministro dell’Economia nazionalizzò il Monte dei Paschi di Siena, da azionista di controllo ha finito di scassarlo bruciando i miliardi spesi per salvarlo, da deputato si è fatto eleggere a Siena e adesso dalla presidenza di Unicredit tratta per farsi regalare il Monte a carico dello Stato – non illumina solo la miseria di un ceto politico che considera i partiti come centri per l’impiego al servizio del padrone di turno. È soprattutto la prova che per questa classe dirigente la meritocrazia è un concetto astratto, utile solo per riempirsene la bocca nei talk show. Nella pratica, si applica solo ai nemici e per gli altri si procede per cooptazione. Ai vertici delle istituzioni pubbliche e finanziarie arrivano e permangono sempre più spesso figure che hanno all’attivo enormi distruzioni di valore, e senza mai un’autocritica.

Invece di fingere di preoccuparsi delle sorti di Mps e dei 6mila esuberi in arrivo, il segretario del Pd Enrico Letta, candidatosi a Siena nel seggio lasciato vuoto da Padoan, dovrebbe trovare il tempo per spiegare agli elettori dem una parabola così devastante.

Padoan è il ministro che ha all’attivo più disastri bancari, tutti arrivati alla fine di estenuanti e infruttuosi kamasutra diplomatici con le autorità europee, di cui ha sostanzialmente avallato qualsiasi decisione, forse nella speranza – come dicono i maligni – di un incarico europeo che non si è mai concretizzato. Con lui al ministero a novembre 2015 arrivò la dilettantesca liquidazione delle quattro banche locali (Etruria, Chieti, Marche e Ferrara), con annessa tosatura dei risparmiatori, mossa che ha terremotato il settore bancario italiano. Poi nell’estate 2017 è toccato prima alle due Popolari venete – liquidate e regalate con dote pubblica di 5 miliardi (altrettanti in garanzia) a Intesa Sanpaolo – e poi al Montepaschi. Padoan è rimasto in silenzio mentre per un anno Mps restava a bagnomaria per non disturbare la campagna referendaria di Renzi. Ha trovato la voce solo per dare il benservito, con una telefonata, all’ad Fabrizio Viola per non scontentare lo statista di Rignano che si era speso in promesse con il capo di Jp Morgan Jamie Dimon. Sommando tutto, anche il crollo di Borsa del settore seguito al disastro di Etruria, sono andati in fumo circa 70 miliardi di valore.

Con questo pedigree, Padoan è stato premiato da Renzi con un seggio a Siena e dopo due anni ha salutato i suoi 50 mila elettori per farsi “cooptare” in Unicredit, la banca che ora tiene per la gola i vertici del Tesoro a cui imporrà di farsi dare la polpa della scassata Mps con pulizia a carico dello Stato. La cifra finale per le casse pubbliche, considerati anche gli esuberi, si avvicina ai 10 miliardi e così il “conto Padoan” può salire ancora. Lui, però, ha fatto sapere di essersi “astenuto” nel consiglio di amministrazione di Unicredit che nei giorni scorsi ha dato il via libera alle trattative. Tutto qui. Nell’autunno scorso spiegò di essere “felice” e “onorato” di essere stato selezionato ai vertici del gruppo.

Oggi, mentre l’ex segretario Renzi spiega ai giovani italiani, magari poveri, che devono abituarsi a soffrire, forse qualcuno del Pd potrebbe pronunciarsi in modo aperto su questa storia, invece di affidare mugugni anonimi ai giornali. Un sussulto di dignità.

 

Altro che “Green Deal”, il Pnrr è un vero attacco all’ambiente

Gli eventi disastrosi degli ultimi giorni, incendi e alluvioni, confermano i contenuti del nuovo Rapporto Ipcc/Unep sui cambiamenti climatici. Fenomeni i cui effetti si prevedeva si dispiegassero nei prossimi 50 anni invece si manifesteranno sempre più spesso e intensamente nel prossimo quindicennio. Per tali trend, l’Unione europea aveva predisposto già due anni fa il Green Deal: una forte riconversione degli assetti socioeconomici verso la riqualificazione ecologica. La pandemia ha poi favorito la sua proiezione su uno strumento specifico: il Next Generation Eu, per unire ripresa economica e riconversione ecologica.

Il nostro Paese è stato individuato quale primo beneficiario delle risorse, 196 miliardi tra prestiti e sovvenzioni (il 45%). Il programma delle azioni è contenuto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Inneggiando da più parti alla presunta “cascata di miliardi” che starebbe per investire il Bel Paese, si copre lo stravolgimento di logica e senso del programma. Il piano ha smarrito una delle priorità, forse la principale caratteristica per cui era nato: la svolta ecologica. Già nella sua struttura interna , oltre le sigle, l’invocata svolta verde è quasi sparita. Se poi si considera che il nostro Piano –unico nell’Ue – integra l’ennesimo provvedimento “Sblocca Grandi Opere”, inserito nel decreto sulle Semplificazioni, il Pnrr diventa un autentico attacco all’ambiente.

La logica di costruzione del programma ha infatti tralasciato completamente “il ripristino e il rispetto della regola ambientale”, dettati dal Green Deal. Si è trasformato nella semplice riproposizione di progetti già previsti o in attesa, gestiti con la medesima logica e dagli stessi attori, spesso le grandi imprese, che hanno portato ai dissesti e disastri ambientali e sociali per cui soffriamo tutti i giorni. L’incredibile rilancio delle grandi opere di berlusconiana memoria, nel quadro attuale, completa la svolta anti-ambientale del programma.

All’interno del Pnrr ci sarebbero 70 miliardi “destinati alla transizione ecologica”: ma guardando ai veri progetti emerge come nei 20 miliardi per la transizione energetica prevalga il preponderante uso del fossile: gas e perfino carbone. E che anche l’idrogeno –potenziale fonte pulita del futuro – sia derivato soprattutto dallo stesso gas. Inoltre gli stessi progetti riguardanti le rinnovabili, eolico o fotovoltaico, sono viziati dagli stessi approcci che hanno gravato sui grandi apparati da combustibili fossili: allo sfondamento decisionale deve seguire la massimizzazione d’uso di quella tecnologia in quel contesto. Per il trasporto locale ci sono appena 2,5 miliardi. Ma sono destinati per lo più a progetti tecnologicamente obsoleti, come i tram alimentati dalle grandi reti da impianti fossili con ricadute urbanistiche spesso troppo impattanti e costose, laddove si potrebbero usare, sugli stessi percorsi, nuovi mezzi a batteria e ricarica veloce, con notevoli risparmi finanziari e ambientali.

Per la tutela del territorio, difesa sismica e idrogeologica, c’è appena una decina di miliardi. A fronte di questo, però, il Piano prevede circa 30 miliardi per Alta Velocità ferroviaria e Grandi Opere (spacciate per mobilità sostenibile). La cifra diventa abnorme (oltre 110 miliardi) se si considera l’allegato “Sblocca Cantieri” integrato nel decreto Semplificazioni: per questo si sono “recuperati” 81 miliardi per 57 Grandi Opere, alcune già previste fin dal 2001, con la famigerata e “criminogena” Legge Obiettivo di Berlusconi. Progetti non pianificati, con enormi impatti ambientali, spesso inutili, che hanno disseminato l’Italia di centinaia di cantieri fermi o mai avviati e non per la presenza dei comitati degli ambientalisti o della mitologica burocrazia, ma perché erano progetti spesso viziati dall’aggiramento o dalla mancata risoluzione di problemi tecnici e ambientali, funzionali a rapide approvazioni per drenare risorse nelle fasi preliminari. Ottimi meccanismi per gonfiare i trasferimenti finanziari a fronte di lavori anche inesistenti.

Per evitare che la “cascata di miliardi” si traduca in nuovi sfasci ambientali e sociali, oltre a una reale verifica ecologica, bisognerebbe almeno cancellare le Grandi Opere interne o allegate al piano, in linea, tra l’altro, con quanto il ministro competente Enrico Giovannini sostiene tutti i giorni. Andrebbero realizzati solo progetti sostenibili, il cui impatto ambientale risulti rigorosamente verificato secondo i criteri del Green Deal (non dalla Valutazione a maglie larghe prevista ancora dai decreti Semplificazioni): quindi, di nuovo, non certo mega-opere.

Bollette luce-gas Mercato libero: 9 offerte su 10 più care del tutelato

SSempre più clienti escono dal mercato tutelato della luce e del gas per entrare nel libero mercato dove, attualmente, ci sono rispettivamente il 57,3% e il 60,2% degli utenti domestici. Numeri in costante crescita quelli di chi abbandona la maggior tutela, trainati soprattutto dai giovani (l’81% dei contratti sottoscritti da under 29), come emerge dal primo “Rapporto sul monitoraggio dei mercati di vendita al dettaglio dell’energia elettrica e del gas”, pubblicato dall’Arera che è l’Authority del settore. E fin qui sembrerebbe tutto normale. L’introduzione della concorrenza dovrebbe migliorare la situazione competitiva di un Paese. Peccato che quando si tratta del mercato italiano dell’energia la situazione non ha nulla di chiaro e trasparente: il 90,18% delle offerte del gas del mercato libero sono più care del tutelato, mentre nella luce sono addirittura il 95,28%. Chi passa al mercato libero, nella maggior parte dei casi, resta con lo stesso fornitore che garantiva il servizio regolato e finisce per pagare molto più di prima senza rendersene conto, perché non conosce i dettagli della propria bolletta, le tariffe applicate e i servizi erogati. Il motivo? La maggior parte dei clienti arriva nel mercato libero su input del telemarketing e delle visite porta a porta che si continuano a rilevare poco trasparenti e ingannevoli. E ora, a poco più di un anno dalla data prevista per lo stop al mercato tutelato il primo gennaio 2023, dono svariate proroghe, l’Autorità torna a esprimere dubbi sul passaggio. Il report dell’Arera, trasmesso, anche al ministero della Transizione ecologica e alle Commissioni parlamentari competenti, mostra come, tra gennaio 2020 e giugno 2021, per la luce erano disponibili in media solo 64 offerte più convenienti della maggior tutela, mentre per il gas arrivavano a 65 offerte. “Dati illuminanti che dimostrano come siamo ben lungi dall’avere un mercato concorrenziale e che il mercato tutelato deve restare ancora ben oltre il 1° gennaio 2023. Non si può fare il mercato libero sulle spalle e le tasche delle famiglie”, afferma Marco Vignola, responsabile del settore energia dell’Unione nazionale consumatori. Cosa succederà ora che nel ddl Concorrenza, slittato a settembre, dovrebbe essere inserito l’anticipo di un anno del passaggio della fine della maggior tutela nonostante sia certificato che nel mercato libero i prezzi in media sono più alti?

 

Sostenibilità, la Ue non sa rendicontare i suoi investimenti

Nessun Paese europeo è sulla buona strada per raggiungere tutti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Oss) previsti dall’Agenda 2030, sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri e approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. A dichiararlo è l’Istituto internazionale per lo sviluppo sostenibile. A sei anni dalla firma, le istituzioni della Ue si stanno chiedendo se le difficoltà di tenere fede agli impegni presi non siano solo nazionali ma anche comunitarie.

Ma la risposta contenuta in un recente rapporto pubblicato dall’Eprs, il think tank del Parlamento Europeo, è sconfortante: non esiste ancora un quadro unitario di strumenti che consentano di avere una comprensione definitiva di come il bilancio della Ue e i singoli programmi di spesa contribuiscano all’attuazione degli Oss. La questione non è affatto secondaria: la realizzazione degli obiettivi di sostenibilità “vale” almeno 600 miliardi di euro, il 30% degli investimenti complessivi stanziati dal bilancio a lungo termine dell’Unione per il settennato 2021-27 e da NextGeneration Ue, lo strumento di ripresa post pandemico, che hanno messo in campo una capacità di spesa complessiva pari alla cifra monstre di 1.800 miliardi di euro.

La Commissione presieduta da Ursula von Der Leyen ha pubblicato nel 2019 le proprie linee guida di bilancio, incentrate sull’integrazione degli Oss in tutte le politiche e strategie comunitarie e nei vari programmi di spesa. Ma la rendicontazione dei progressi sul fronte della sostenibilità latita ancora. Non a caso da Bruxelles si fa sapere che l’esecutivo Ue ha appena avviato “lavori esplorativi per lo sviluppo di un sistema di monitoraggio che consenta il monitoraggio della spesa attraverso la struttura degli Oss”. Sinora però nei rapporti e documenti ufficiali esistono solo panoramiche generali e descrittive del contributo dei programmi di spesa agli obiettivi di sostenibilità.

Attualmente la Commissione tiene traccia solo della spesa per il clima, la biodiversità, l’inquinamento atmosferico e le migrazioni. Ma una revisione di bilancio effettuata dalla Corte dei conti europea nel giugno 2019 sulla rendicontazione di sostenibilità ha rilevato che “a parte il settore delle azioni esterne della Ue, non esiste un’analisi sistematica o un quadro di rendicontazione su come i singoli programmi o parti del bilancio contribuiscono all’attuazione degli Oss”. Manca infatti ancora un’analisi sistematica dei progressi di sostenibilità realizzati in base alle varie misure. Anche la relazione di monitoraggio realizzata da Eurostat è priva di una valutazione significativa su questo fronte, poiché gli obiettivi quantitativi sono scarsi e la maggior parte degli indicatori identifica semplicemente una tendenza positiva o negativa verso un determinato obiettivo. Inoltre questi indicatori non sono in grado di misurare come i programmi di spesa della Ue contribuiscano a realizzare queste tendenze. Oltretutto la relazione annuale sulla gestione e sulla rendicontazione di bilancio dell’Unione fornisce una panoramica non esaustiva dei contributi dei programmi di spesa, tanto che va verificato se gli obiettivi individuati nella sezione “Valutazione delle prestazioni” siano o meno allineati a quelli degli Oss.

Uno dei metodi coi quali la Commissione cerca di raggiungere il suo obiettivo di una Ue climaticamente neutra entro il 2050 è attraverso un approccio noto come “integrazione” (mainstreaming), che mira a inserire determinate politiche, come l’azione per il clima o la parità di genere, nella progettazione e nell’attuazione di ogni piano o programma della Ue invece di avere programmi dedicati.

Questo approccio impegna una certa percentuale del bilancio, ad esempio per affrontare i cambiamenti climatici, e richiede che ogni programma di spesa pertinente contribuisca a questa percentuale. Tuttavia, ciò significa anche che è più difficile tenere traccia della spesa finanziaria utilizzata nella politica integrata poiché il contributo di ciascun programma di spesa dev’essere monitorato per capire se gli obiettivi sono stati effettivamente raggiunti. Probatio diabolica, quest’ultima, perché gli obiettivi tendono a coprire questioni trasversali.

In una revisione del 2020 sul “mainstreaming climatico” del bilancio della Ue, la Corte dei conti europea ha chiesto una riconsiderazione della metodologia di monitoraggio del clima, per poter comprendere il contributo di ciascun programma di spesa alle misure legate al clima. A oggi, dunque, secondo l’analisi redatta per il Parlamento Ue si possono trarre solo conclusioni molto limitate sulla reale performance delle politiche e dei programmi della Ue verso gli obiettivi di sostenibilità. A nove anni dalla scadenza, il problema non è affatto di poco conto.

 

Componentistica, in Italia a rischio 70mila addetti

La mobilità elettrica darà una scossa all’occupazione automotive. A essere colpita sarà la parte più debole della componentistica, le aziende più piccole che producono parti per motori a combustione come candele, sistemi di iniezione e di scarico, cambi, serbatoi. La Germania sarà l’epicentro della trasformazione ma le sue ricadute sulle filiere potrebbero toccare altri Paesi, Italia inclusa. Difficile però pronosticare il bilancio tra posti di lavoro persi e creati. Nelle previsioni si fronteggiano da un lato fondazioni e analisti “fedeli” all’industria del motore a combustione, che tendono a sovrastimare il rischio di pesanti impatti di una transizione troppo rapida verso i veicoli elettrici, dall’altro centri studi ed esperti allineati ai desiderata della filiera dell’elettrico, per i quali il passaggio ai veicoli a batteria non creerà ricadute eccessive. Difficile trovare una posizione indipendente. Secondo la Fondazione Clean Energy Wire (legata al comparto elettrico), le previsioni sugli addetti automotive che andranno persi per la transizione ecologica Ue e sulla nuova occupazione creata nella produzione di batterie sono assai variegate.

Le ultime stime italiane dell’Anfia, l’associazione italiana dei produttori di componenti legati alla tecnologia del motore endotermico, spiegano che una transizione green troppo accelerata metterebbe a rischio tra i 60 e i 70 mila posti di lavoro nelle aziende della componentistica auto che non sono attive nell’elettrico. “Le aziende colpite sono tra il 20 e il 40% delle 2.200 che producono componenti in Italia”, ha detto il direttore dell’Anfia, Gian Marco Giorda. Secondo Acea, la federazione europea dell’industria auto, l’Europa produce il 25% delle auto e il 19% dei veicoli commerciali mondiali. Eurostat afferma che l’automotive vale 3,7 milioni di addetti, l’11,5% dell’occupazione manufatturiera della Ue, dei quali 2,7 milioni impiegati direttamente. Il settore conta circa 882 mila addetti in Germania, 290 mila in Francia, seguite da Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Italia (176.000). In Slovacchia e Romania i lavoratori dell’auto sono il 16% del totale. Nella Repubblica Ceca il settore vale oltre il 9% del Pil, il 26% della manifattura e il 24% dell’export. Secondo l’Associazione europea della componentistica (Clepa), nella Ue la fornitura conta oltre 3mila aziende e 1,7 milioni di addetti che salgono a 5 con l’indotto. Secondo Boston Consulting Group (Bcg) tra la produzione di un’auto elettrica e di una con motore a combustione la differenza occupazionale è ridotta, ma il bilancio tra addetti persi e guadagnati dipende da dove avviene la produzione di batterie.

La Germania sarà l’epicentro del cambiamento ed è il Paese che più studia gli effetti della transizione all’elettrico: qui il settore auto esteso a quelli ancillari (gomma, energia, componenti) “vale” un sesto del Pil. La Baviera, sede di Bmw e Audi, il Baden-Württemberg (Daimler e Porsche) e la Bassa Sassonia (Volkswagen) potrebbero affrontare crisi pesanti. L’associazione dell’industria auto tedesca Vda rifiuta la svolta “solo elettrica” di Bruxelles, ma è spaccata: i suoi maggiori associati Volkswagen Bmw e Daimler puntano sull’elettrico.

Uno studio del 2020 del think tank tedesco Npm, un organo consultivo del governo di Berlino, sostiene che oltre 400 mila posti di lavoro nell’industria auto della Germania potrebbero scomparire entro il 2030 in caso di rapido passaggio ai veicoli elettrici. Ma Vda respinge lo scenario come “estremo e irreale”. Un’indagine dell’Istituto tedesco di ricerca economica (Ifo), commissionata da Vda, stima in 178 mila i lavoratori tedeschi dei motori a combustione che saranno colpiti dalla transizione entro il 2025, dei quali solo 75 mila andranno in pensione, ma non calcola i nuovi posti creati. Uno studio dell’Istituto Fraunhofer per Volkswagen stima che l’occupazione nell’auto diminuirà del 12% in questo decennio, colpendo di più i fornitori: “Nella produzione di componenti, un motore a combustione richiede il 70% di manodopera in più rispetto a uno elettrico”. Il Centro di ricerca sull’auto (Car) dell’Università di Duisburg ritiene che la svolta green della Ue taglierebbe 28 mila posti di lavoro diretti in Germania, Francia, Italia, Spagna e Slovacchia, meno del 2% dell’occupazione nei cinque Paesi che producono il 70% delle auto Ue, ma le batterie ne creerebbe un numero maggiore. C’è poi un’analisi del think tank Agora secondo la quale l’elettrico potrebbe creare fino a 205 mila nuovi posti di lavoro in Germania, a fronte di 180 mila persi nei motori a combustione. Sballottati tra previsioni apocalittiche e scenari utopici, i lavoratori comunque tremano.

Auto elettriche, scatta la corsa per le gigafactory delle batterie

La volontà europea di azzerare le emissioni di gas serra accelera la corsa a costruire decine di gigafabbriche di batterie agli ioni di litio. Il 14 luglio la Commissione Ue ha proposto di mettere al bando nell’Unione dal 2035 la vendita di auto a motori endotermici (quelli alimentati a benzina, diesel o gas) e ibridi. Da quella data potranno essere venduti solo veicoli elettrici (Ev) a emissioni zero. Ora il piano di Bruxelles dovrà ottenere il via libera del Parlamento europeo e degli Stati Ue, che temono il possibile impatto sul Pil e l’occupazione. Ma quale che sarà l’esito dei negoziati, la decisione costringe sin d’ora le case automobilistiche ad accelerare i propri piani di transizione al motore elettrico, al quale sono indipensabili gli accumulatori.

Nel 2019 nel mondo circolavano circa 7,2 milioni di veicoli elettrici, pari al 2,6% del mercato totale, 2,1 dei quali venduti in quell’anno, con una crescita del 6% rispetto al 2018. Nello stesso anno in Europa le vendite di veicoli elettrici sono aumentate del 50%, raggiungendo il 3,5% del totale. Gli analisti prevedono che l’Europa occidentale sarà l’area del Pianeta con l’aumento più veloce delle vendite di veicoli elettrici, attese al 72% del totale nel 2030 a fronte del 40% degli Usa, 43% della Cina e 20% del Giappone. Nel 2040 in Europa si venderanno solo Ev, negli Usa il 75% del totale, 68% in Cina e 80% in Giappone. Anche se dal 2035 le auto benzina/diesel non saranno più vendute nella Ue, servirà però tempo per la transizione completa della flotta di veicoli: in quell’anno il 56% circa delle auto in uso nella Ue avrà ancora un motore endotermico, per calare al 31% nel 2040.

I fondi necessari a realizzare questa transizione sono giganteschi. A dicembre la Commissione ha stimato che, per soddisfare la sola domanda europea di batterie, nei prossimi due anni sarà necessario investire circa 70 miliardi nella loro produzione. Altri 80-120 miliardi andranno spesi entro il 2040 nella Ue per creare la rete dei punti di ricarica. Secondo la società di ricerca AlixPartners, a livello globale entro il 2025 produttori auto e fornitori investiranno nell’elettrificazione 280 miliardi, 70 in più di quelli previsti prima della decisione di Bruxelles del 14 luglio.

La costruzione di un’ottantina di nuove gigafabbriche di batterie agli ioni di litio era già stata annunciata. Ma ora sarà necessario accelerare la realizzazione di molte altre. Proprio l’Europa, sebbene indietro rispetto all’Asia nella produzione di batterie – oltre il 90% della produzione mondiale odierna di batterie avviene in Cina, Corea e Giappone -, conta il maggior numero di annunci di nuovi impianti. Secondo l’associazione dei produttori europei Eba (European Battery Alliance) ci sono 25 progetti annunciati di fabbriche di batterie agli ioni di litio in Europa, che vanno da impianti pilota a gigafactory e, se realizzati, aggiungeranno un totale di circa 500 GWh di capacità di produzione totale entro il 2030. Si prevede che per quell’anno l’Europa avrà una quota del 16% del mercato globale delle batterie dal 6% circa odierno.

Stellantis, il nuovo gruppo nato dalla fusione di Fca e Psa, l’8 luglio ha annunciato la realizzazione di una gigafabbrica di batterie a Termoli oltre a quelle già presenti in Germania e Francia. Le alleanze strategiche tra produttori automotive e di batterie hanno portato alla costruzione in corso di due gigafactory interamente europee in Svezia e Repubblica Ceca. Inoltre, le principali aziende asiatiche e Usa (Tesla, Lg Chem, Catl) stanno investendo per creare capacità produttiva in Europa. Si tratta di scommesse rischiose: realizzare una gigafactory significa non solo realizzare enormi investimenti di capitale, ma anche puntare su una tecnologia in rapida evoluzione. La redditività di queste operazioni, peraltro, è tutto tranne che certa.

La domanda di accumulatori è dunque destinata a crescere in modo esponenziale. In un report del 21 luglio, Goldman Sachs ha stimato i possibili impatti della svolta elettrica Ue dal 2035: secondo gli analisti della casa d’affari, la domanda di batterie per veicoli aumenterà da una potenza stoccabile pari a 155 GWh nel 2020 a 2.294 GWh nel 2030 (prima della decisione Ue le previsioni erano di 1.970 GWh, +16%) e di 5.508 nel 2040 (in precedenza 4.870, +13%).

I produttori di batterie nei prossimi anni dovranno sviluppare una serie di nuove tecnologie, tra cui quella ad anodo di nichel e silicio, che consentiranno di superare i limiti degli accumulatori attuali agli ioni di litio. Mentre sinora lo sviluppo di tecnologie alternative era atteso verso il 2040, ora l’evoluzione è prevista iniziare già nel 2025-2030. Perché tutto ciò divenga realtà, serve però che la produzione raggiunga le economie di scala necessarie a far scendere i prezzi delle batterie a livelli compatibili con quelli attesi dai clienti.

Le strategie dei gruppi automotive globali su questo fronte sono assai variegate. Volkswagen, Toyota, General Motors e Bmw stanno creando nuove partnership di fornitura e joint venture per aumentare la produzione di batterie e poi venderle a terzi. Tesla invece vuole integrare verticalmente la propria fornitura, dall’estrazione e lavorazione dei materiali chiave sino alla produzione. Ecco perché, secondo alcuni analisti, le case auto dovranno sviluppare più rapporti di fornitura e partnership con i produttori di batterie. Le batterie per i veicoli elettrici sono però molto lontane dall’essere prodotti standard, con notevoli differenze di qualità, autonomia, prezzo. La filiera chiede anche interventi normativi, come la revisione della direttiva di settore da parte della Commissione Europea e l’introduzione di sistemi di etichettatura univoci, una sorta di “passaporto della batteria”.

Il settore è carico di effetti e ricadute geopolitiche. La filiera è altamente complessa e si basa sull’approvvigionamento e la trasformazione di una serie di minerali, materiali e componenti che da Africa, SudAmerica, Australia e Oceania oggi convergono ai produttori di Cina, Corea e Giappone. Attualmente la Cina produce batterie per 52,5 GWh, il triplo di un anno fa. Contemporary Amperex Technology (Catl), fondata nel 2011, e Byd (1995) sono le due aziende cinesi leader, con il 45% e il 14% del mercato globale.

Poiché le batterie oggi rappresentano il 30% o più del valore di un veicolo, Governi, produttori auto e fornitori vogliono assumere un maggiore controllo sulla catena del valore per evitare non solo che ai rispettivi Paesi sfuggano aziende, posti di lavoro e gettito fiscale, ma che possano perdere il controllo strategico di una industria fondamentale. Il valore della catena completa di approvvigionamento e produzione nella Ue di batterie, dall’estrazione dei minerali a monte sino allo smaltimento e al riciclaggio a valle, è stimato fino a 250 miliardi l’anno e potrebbe creare sino a 4 milioni di posti di lavoro. Ecco perché governi nazionali e Commissione Ue investono fondi pubblici per sviluppare il settore degli accumulatori. Prodotti che sono centrali anche negli accordi di libero scambio, come quelli tra Ue e Regno Unito e tra Usa, Messico e Canada. Non a caso a febbraio il presidente Usa, Joe Biden, ha firmato un ordine esecutivo per la revisione di due catene di approvvigionamento che Washington considera strategiche per la sua sicurezza nazionale: semiconduttori e batterie per veicoli elettrici.

Dinastie arabe. Caro nemico: Mbs e Mbz, sfida tra principi

Immaginiamo cosa sarebbe successo se Donald Trump si fosse assicurato un secondo mandato alla Casa Bianca e Benjamin Netanyahu abbastanza voti alla Knesset per formare un governo in Israele. Ormai l’Iran sarebbe stato bombardato – Bibi ha continuato a premere per un attacco anche quando era chiaro che Trump aveva perso – i sauditi avrebbero normalizzato le relazioni con Israele e la Giordania sarebbe stata governata da un nuovo sovrano, qualcuno chiamato King Hamza.

E l’Europa in questo tragico film mediorientale faceva la parte del fesso di turno. Invece i colloqui con l’Iran sono ancora in corso, l’Arabia Saudita ha fermato le sue trame con Israele e il re Abdullah di Giordania è diventato il primo capo di Stato arabo a visitare la Casa Bianca di Joe Biden. Gli accordi di Abraham erano un affare, un businness – non avrebbero mai potuto ottenere il voto popolare in nessuno dei Paesi che hanno firmato l’intesa – che si basavano sui rapporti personali e finanziari tra quattro uomini, due dei quali adesso hanno lasciato il palco.

In questa estate 2021, due altri protagonisti di questo set – un tempo quasi fratelli -ora sono “carissimi nemici”. Il principe ereditario Mohammed bin Salman dell’Arabia Saudita (MBS) e il principe ereditario Mohammed bin Zayed di Abu Dhabi (MBZ), sono loro i perdenti dopo la caduta di Trump e l’uscita prematura di Netanyahu. MBS si risente sempre più di essere considerato allievo di MBZ, anche se ora non sarebbe il principe ereditario senza la pianificazione e l’attività di lobby degli Emirati a Washington. Il litigio sulle quote petrolifere, che è stato risolto quando i sauditi hanno fatto marcia indietro, è solo un punto di una lista crescente di questioni che separano i due uomini. MBS si è persino raffreddato con Israele, il nuovo partner commerciale di MBZ. L’Arabia Saudita ha infatti escluso dalle tasse preferenziali le merci prodotte nelle zone franche dai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo che utilizzano “input israeliano”.Che estate quella del 2021.