Gaza, il tempo sembra sospeso: fino al nuovo conflitto

Ovunque ci sono macerie e case rase al suolo. Sulle strade sventrate è stata sparsa della sabbia per far circolare le auto. A due mesi dal cessate il fuoco, che ha messo fine a undici giorni di conflitto, il tempo sembra sospeso a Gaza. La ricostruzione non è ancora iniziata. Mancano soldi, materiale. Gli abitanti fanno fatica a tornare ad una vita normale. A Sheikh Zayed, nel nord della Striscia, Yazeed Abu Safieh ci accoglie in una piccola tenda, ai piedi di quello che resta di un edificio di sette piani. Il caldo è soffocante. È difficile immaginare com’era questo posto prima dei bombardamenti. “È stato distrutto tutto la sera dell’Eid al Fitr, il giorno in cui celebriamo la fine del Ramadan – racconta Yazeed –. Eravamo da mio padre quando un aereo israeliano ha colpito il palazzo… e per fortuna. Se fossimo rimasti a casa, ora saremmo tutti martiri”. Tra le macerie ci sono dei cartelli su cui sono stati scritti dei nomi. “Servono a indicare che ci abitava qualcuno”.

Una dozzina di edifici sono stati ridotti in briciole nei dintorni. Un’intera famiglia – i Tanani, padre, madre incinta e quattro figli – è morta sotto le macerie. “Si preparavano a abbandonare la loro casa durante i bombardamenti. Ma il nostro palazzo è stato colpito ed è crollato sopra di loro”, continua Yazeed, gli occhi lucidi. I soccorritori sono arrivati solo dopo dodici ore. “Mio padre ha cominciato a costruire questo palazzo quando aveva 15 anni – racconta ancora -. Ci ha messo dentro tutti i suoi soldi, tutta la sua vita. E in un attimo è svanito tutto, senza un motivo”. Yazeed e la sua famiglia ora affittano un appartamento anche grazie all’aiuto in denaro ricevuto dalle organizzazioni internazionali (“cash first aid”). “È una soluzione temporanea. L’appartamento non è abbastanza grande per tutti”, spiega. Aspetta la ricostruzione, ma senza sperarci troppo: “Ci vorranno degli anni. E alla prossima guerra, si ricomincerà da capo”. Jawad Mahdi è il proprietario del grattacielo Al-Jala di Gaza, distrutto dall’aviazione israeliana il 15 maggio: “Tutti i nostri sogni sono andati in fumo”, dice. Dei tredici piani non rimane più nulla. Ci vivevano quaranta famiglie. Il grattacielo ospitava anche le sedi di corrispondenza dell’agenzia di stampa statunitense Associated Press e della televisione del Qatar Al-Jazeera, diversi studi legali e una clinica. L’uomo di 68 anni, in camicia nera e scarpe di pelle lucida, un’eleganza che contrasta con la situazione, osserva, stanco, i tre bulldozer egiziani al lavoro. Facendosi strada tra gli operai, schivando la polvere, ci porta a vedere quel che resta del suo negozio di abbigliamento da uomo. “Data la presenza dei media internazionali, non abbiamo mai immaginato che il palazzo potesse diventare un bersaglio”. Secondo Israele il grattacielo era usato da Hamas, ma Jawad non ci crede. “Noi non abbiamo niente a che vedere con Hamas né con la politica in generale – dice –. È stato un crimine di guerra e lo dimostrerò. I miei avvocati sporgeranno denuncia presso la Corte penale Internazionale”. Gli israeliani, spiega Jawad, hanno lasciato alle persone solo quindici minuti per lasciare il palazzo, dopo aver comunicato che stavano per bombardare. Di solito l’allerta è data almeno un’ora prima. I residenti sono potuti fuggire, ma non sono riusciti a portare via nulla. Gli undici giorni di guerra non hanno fatto solo danni visibili. Nel porto di Gaza, si sono radunati decine e decine di bambini. Con i colori, scrivono su dei pezzi di carta i messaggi che vogliono far arrivare alla comunità internazionale e poi li gettano in mare dentro delle bottiglie o li fanno volare via attaccati a dei palloncini. Nadine Abdel Latif prende la parola davanti alle telecamere di una dozzina di giornalisti.

A soli 10 anni, è già alla sua quarta guerra: “È stato spaventoso – racconta –. Piangevo dentro il mio letto. Con mia mamma e mio fratello ci abbracciavamo forte. Sapevo che non ero al sicuro da nessuna parte, né nella mia stanza né in casa. Ma dove potevo andare? Mia mamma dice sempre che è meglio morire tutti insieme”. Dalla scorso maggio, Nadine sussulta al minimo rumore improvviso, pensando che si tratti di un’esplosione. Continua a sentire dentro la sua testa il rumore delle bombe. “In questo momento è tutto complicato. Non posso fare a meno di pensare alle persone care che abbiamo perso, ai compagni di classe morti nei bombardamenti. Siamo solo bambini, meritiamo di vivere. Lontano da qui i bambini possono guardare i film di orrore in tv. Noi li abbiamo vissuti per davvero – continua -. E ora, dal cessate il fuoco, io e i miei amici abbiamo paura di giocare all’aperto. Ma ci fa paura anche restare chiusi dentro casa”. A Gaza, dopo l’ultima guerra, circa nove bambini su dieci soffrono di disturbi post-traumatici. Sul porto, alcuni di loro disegnano gli aerei dell’aviazione israeliana, altri disegnano delle tombe. C’è chi non parla più, chi si chiude timidamente in se stesso, chi è diventato aggressivo o violento, altri sono iperattivi. “Ma il problema principale di tutti questi bambini è che non hanno una vita normale – spiega Nabila Kilani, fondatrice del centro Amani di Gaza, la cui sede è stata a sua volta colpita dalle bombe -. Sono solo bambini, ma hanno già la memoria carica di brutti ricordi e un livello di stress molto alto. E anche se ora non siamo sotto le bombe, i droni continuano a ronzare sopra le nostre teste, viviamo sotto minaccia costante. Questa è guerra psicologica”. Il centro Amani aiuta i bambini ad affrontare le difficoltà, trattando i sintomi legati alla guerra, dando loro consigli su come proteggersi e come gestire le emozioni anche in prospettiva dei prossimi attacchi. “Perché ce ne saranno altri”, osserva Nabila. A Beit Lahia, nel nord della Striscia, il paesaggio cambia completamente: distese di mais e campi di fragole, qualche serra, fattorie. In questa regione, poco lontano dal muro di separazione con Israele, si concentra la maggior parte delle terre fertili della Striscia di Gaza. A due mesi dalla guerra, gli agricoltori stanno ancora misurando l’entità dei danni. Alcuni hanno perso tutto. Come Hamada Hamdi Khdeir, 35 anni, che aveva ripreso l’azienda di famiglia. Raccoglie una patata nella terra: “Guarda, è bruciata. Lo sono tutte le nostre patate. È colpa della mancanza d’acqua, del caldo e dell’esplosione”. Ci mostra un enorme cratere scavato nella terra da una bomba. Delle serre sono state danneggiate.

I pannelli solari, che gli permettono di avere l’elettricità quando non ce n’è, cioè quasi sempre, sono coperti di impatti di missili e sono ormai inutilizzabili. “Anche quando i conflitti si svolgono alla frontiera, noi agricoltori siamo i primi a subirne le conseguenze – osserva –. È stato così a ogni guerra, nel 2000, 2008, 2009, 2012, 2014 e 2021. Quando si sente dire che i bombardamenti hanno colpito dei territori deserti, in realtà si tratta dei nostri terreni agricoli. Ma non interessa a nessuno”. Il raccolto della stagione è perso. Non sa come pagherà i debiti e ha una famiglia da mantenere. Anche gli agricoltori le cui fattorie non sono state colpite dalle bombe sono in difficoltà. Alcuni si sono rinchiusi in casa per undici giorni e hanno perso il raccolto perché non hanno irrigato i campi. Chi non ha perso il raccolto subisce le restrizioni alle esportazioni imposte dal 2007. “Da quattordici anni le cose vanno sempre peggio – spiega Ahmed Hachem Khdeir, sulla cinquantina, che produce cetrioli e fragole a qualche centinaio di metri dalla fattoria di Hamada – . Da due, tre anni esportiamo solo fragole e pomodori, solo in piccolissime quantità e solo verso la Cisgiordania occupata. L’accesso alle terre delle zone cuscinetto è vietato, il mercato locale è in contrazione, i prezzi calano. Si aggiunge poi che il materiale agricolo viene distrutto sotto le bombe. Gran parte del settore agricolo della regione è devastato”. Secondo Ahmed, “se non si fa nulla, entro cinque o sei anni, bisognerà dire addio all’agricoltura di Gaza”.

(Traduzione di Luana De Micco)

Radiocondominio. Voci senza volto, indovina chi parla: “State zitti!”, “Che palle…”, “Sì ancora!”

Io abito in un condominio di Roma nord, abbastanza bello, senza essere di lusso, è una casa modesta, ma è la casa dove sono nata, alla quale sono molto affezionata. I miei condomini sono simpatici, almeno credo, perché in realtà io non li conosco!

Non li ho mai visti, conosco solo le loro voci: “Ale, vieni su che è pronto. Lavati le mani che ce le hai zozze!” – “Sì mamma che palle”, risponde la bambina che ormai secondo i miei calcoli avrà circa 18 anni e io non l’ho mai vista. “Qui l’ascensore non arriva, chiudete le porte!” – “Questo cane abbaia in continuazione, non dormiamo da giorni” – “Sì ancora, ancora, facciamolo ancora. Dio come ti amo”. E via un’altra mezz’ora di gemiti e mugolii vari.

“All’alba vincerò vinceròoo”, canta qualcuno con voce incerta ribadendo la sua passione irrefrenabile per la musica di Puccini. “Si certo vincerai, vincerai, basta che ce fai dormi’” – “Sei brutta, vecchia, grassa, mi fai schifo! Sarai bello te co’ ’sta panza!”. Io ho provato ad assegnare queste voci a delle persone fisiche, e quindi a delle facce, ma non credo di esserci riuscita.

Per esempio: la coppia che copula di continuo, in realtà potrebbe essere il colonnello del 4° piano con la sua domestica. Quello che canta vincerò vincerò, in realtà potrebbe essere il geometra del 2° piano che va in giro col basco, il borsello ed è alto come il suo motorino. E poi ci sono le vecchie della palazzina B, avranno circa 90 anni, si chiamano Linuccia e Pinuccia, non escono mai e squittiscono di continuo fino a notte alta. Almeno credo che siano loro, perché potrebbe essere l’architetto Panunzi, anche lui ha la voce da topo.

Insomma, il mio condominio non so da chi sia abitato, io sento, ma non vedo, è un condominio radiofonico! L’unico che conosco è il portiere, simpatico e gentile. Ha una dizione perfetta pure essendo marchigiano, forse è doppiato!

Hobbit e Mussolini. Il “buon” fascista ama le guerre di Tolkien. Ma dov’è la differenza con il Ventennio?

Non è vero che non c’è il mito del combattere, nel “fascismo buono” (Dalla parte di Jekyll. Manifesto per una buona destra, di Filippo Rossi, Marsilio Editore).

C’è difesa, in luogo di aggressione. C’è soccorso invece che violazione di frontiere, non si spara follemente in mare su barchette pericolanti già cariche di morti. Per tutti coloro che accettano il fascismo come presenza nello spazio e nel tempo con cui convivere alla vecchia maniera, non esiste che la fedeltà detta una volta “nostalgia” (che implica anche l’idea di qualcosa di passato che c’era e non c’è). Ma ecco un fatto nuovo: l’ex fascismo adesso è fronteggiato e persino sfidato dalla favola grandiosa, quella degli Hobbit, che ha rapidamente occupato buona parte di ciò che era stato lo spazio e la credenza fascista. I personaggi robusti e di cattivo umore che trovate (sempre, ma in minoranza) alle manifestazioni di Fratelli d’Italia, non sanno nulla degli Hobbit e non hanno miti e profeti chiamati Tolkien. I nomi dei loro miti sono quasi perduti nella memoria. Naturalmente non è chiaro (almeno non per i non esperti di che cosa sia la destra) come si divida e lungo quali file e spazi e fedi il “mondo di mezzo” di Tolkien sia diverso dal fare la guardia al fascismo. Mi rivolgo agli esperti.

Ricordo paragrafi per me misteriosi nel libro biografico di Giorgia Meloni. Due volte, a proposito di personaggi a lei cari e diversi fra i suoi compagni di lavoro, Meloni dice: è così di destra, così intensamente di destra, che non avrei potuto immaginare un legame più intenso (cito a memoria). Sarà Tolkien o Farinacci?

Ma l’intenzione è parlarvi di un altro libro, Dalla parte di Jekyll. Manifesto per una buona destra, Marsilio Editore. È un libro che ha dalla sua la scrittura, l’ampiezza del materiale usato o citato, e nell’aver colto in pieno il problema: tra Tolkien e Farinacci, cioè i due fascismi che si contendono la destra, chi vince? Rossi è molto attento nel tenere separati i due mondi, Tolkien e orbace, e a non confondere cose che avvengono con fatti che sono comunque il passato. Rossi ha immaginazione e non pensa che la conclusione di avventure di guerra sia sempre combattere (benché non lo escluda, vedi il continuo ricordo dei 300 eroi di Sparta). Tolkien, il profeta di Rossi, ha posizionato i suoi eroi leali e umanitari, però guerrieri, in un contesto resistenziale. Il contesto è combattere, in un senso fraterno della parola (se esistesse) ma combattere. Tutte le condizioni della vita come guerra sono intatte fra gli Hobbit, ma manca del tutto “il pugnale nella mano e la fede in fondo al cuore” delle canzoni fasciste fatte ripetere ai bambini tre volte ogni giorno.

Ecco dunque l’interesse per questo libro: Hobbit, un mondo tutto di destra ma senza richiesta di sangue, si contrappone al pellegrinaggio a Predappio e alla scorta mai assente per Fratelli d’Italia, di vari tipi di fascisti militanti. Ci sono ragioni? Ci sono conseguenze?

Dalla parte di Jekyll. Manifesto per una buona destra, Filippo Rossi, Pagine: 162, Prezzo: 00, Editore: Marsilio

Il veterinario Zaia, la campagna vaginale e l’autoimitazione

Colpi di di Sol levante. Il ministero degli Esteri cinese, attraverso l’ambasciata in Sri Lanka, si è lamentato per il trattamento riservato dalla Reuters ai suoi atleti impegnati in Giappone. Secondo Pechino, le fotografie dei cinesi sono intenzionalmente brutte. In particolare la pietra dello scandalo è la foto della campionessa cinese di sollevamento pesi Hou Zhihui, ritratta in un’immagine mentre era a metà del sollevamento, dunque nel mezzo del gesto atletico e di un considerevole sforzo. Il “Global Times” ha affermato che l’uso della foto, che metteva in evidenza i muscoli di Hou, era “ampiamente irrispettoso”, anche se le uniche fonti citate sono appunto il tweet dell’ambasciata cinese e imprecisati utenti della rete. È bello scoprire che anche in Cina il dibattito pubblico è in mano ai cretini. Ci sentiamo meno soli.

Il fratello di Crozza. Il presidente del Veneto, Luca Zaia, durante l’inaugurazione del nuovo punto nascita dell’ospedale di Asiago, è scivolato, forse non del tutto involontariamente, sulla campagna “vaginale”. Zaia non è apparso né imbarazzato né stupito e anzi ridendo, ha subito detto ai presenti: “Quest’ospedale diventerà famoso per questa mia gaffe, qua finiamo su tutte le tv”. Ma attenzione perché il peggio deve ancora venire ed è la “spiegazione”: “Sapete qual è il problema? È che avendo fatto il veterinario ogni tanto mi scappa qualcosa dal fondo”. Siamo tutti animali.

George on my mind. George Clooney, in villeggiatura nella sua villa di Laglio, dopo il nubifragio dei giorni scorsi è sceso in paese per informarsi dei danni e mettersi a disposizione per dare una mano. Ha parlato con i cittadini, con il sindaco e con i volontari della protezione civile. Sempre in prima linea.

Non classificati

Robe da matti. “Devo fare ciò che è meglio per me e pensare alla mia salute mentale, perché voglio stare bene e perché c’è una vita oltre la ginnastica”. Le parole della campionessa Simone Biles dopo il ritiro alle Olimpiadi di Tokyo hanno fatto il giro del mondo, insieme a quelle di altri colleghi che hanno parlato dello stress e della tensione insopportabile a cui sono sottoposti (e a cui non si fatica a credere). L’atleta americana ha incassato molti attestati di solidarietà. Ma non solo. L’ex conduttore televisivo britannico Piers Morgan ha twittato: “I problemi di salute mentale ora sono la scusa per qualsiasi prestazione scadente nello sport d’élite? Che scherzo. Ammetti di aver gareggiato male, di aver commesso degli errori e che ti impegnerai per fare meglio la prossima volta. I bambini hanno bisogno di modelli forti, non di queste sciocchezze”. Il sito Open riporta che anche i conduttori radiofonici Clay Travis e Buck Sexton nel loro show hanno criticato la campionessa definendola una sociopatica egoista e una “vergogna per il suo Paese”. “Perché è coraggiosa? Cosa c’è di coraggioso nel non essere coraggiosi?”, si sono chiesti. “Stiamo crescendo una generazione di persone deboli come Simone Biles”. Be’ certo, vuoi mettere con le auto-sbroccate di Fognini (“frocio”)…

Da leccarsi i baffi.Leggiamo in una paginata del Messaggero di una nuova moda lanciata su Instagram da un’estetista inglese, Joanna Kenny, che ha deciso di mettere il mascara sui suoi baffetti invece che toglierli con la pinzetta: “Non dovresti domandarti perché lei si sta mettendo il rimmel sui peletti delle labbra, ma come mai deve mettersi il rimmel sulle labbra perché la gente pensi che sia normale”. Donna baffuta, è una vecchia storia, questa del mascara invece è una nuova idiozia…

 

Serie A, addio Sky. La signora Rossi “scalza”. Donna Ilaria: largo ai giovani, inizia l’era Dazn

Fra 20 giorni comincia il campionato e la notizia è che dopo 20 anni non vedremo più le partite sui canali di Sky Italia (nata il 31 luglio 2003 da mamma Tele+ e papà Stream) ma su Dazn: che già nell’ultimo triennio, aggiudicandosi i diritti di 3 partite su 10, aveva iniziato ad affiancarsi alla tv che fu di Murdoch.

La svolta è epocale anche perché Dazn offrirà ai suoi abbonati tutte e 10 le partite, 7 in esclusiva e 3 in co-esclusiva con Sky (che delle 7 targate Dazn non avrà nemmeno gli highlights). Cambia tutto insomma. Abituati alle voci in telecronaca di Caressa e Bergomi, di Trevisani e Adani, di Compagnoni e Marchegiani, ai dibattiti condotti prima da Ilaria D’Amico e poi da Alessandro Bonan, agli approfondimenti notturni della “congrega dei sapienti” (leggi: Club di Caressa), dovremo giocoforza fare reset e rimettere la palla (pardon, la poltrona) al centro. Un po’ come sta avvenendo a Dazn; che, per fare un esempio, non sapeva nemmeno cosa volesse dire la parola “studio”, e cioè i classici talk pre e post partita che hanno contraddistinto da sempre il racconto del calcio. Fino a ieri, Dazn apriva le telecronache schierando sul prato del campo di gioco le sue Diletta Leotta e Giulia Mizzoni, i suoi Federico Balzaretti e Dario Marcolin; e con quattro chiacchiere a fine partita, sempre a piedi sull’erba, col calciatore trattenuto in campo ancora sudato, se la sbrigava. Non che la cosa fosse in sé criticabile: semplicemente, era diversa.

Ma da sabato 21 agosto, con Inter-Genoa e Verona-Sassuolo a far scattare la serie A 2021-’22 alle 18:30, si cambia. Avremo infatti i primi studi di Dazn: che scandagliando il mercato conduttori ha preferito puntare sui giovani rubando alla concorrenza Marco Cattaneo, volto Sky forse sottovalutato (anche se ad oggi è famoso soprattutto per il calcio in faccia dato a Costacurta in un indimenticabile tentativo di improvvisare una “moviola umana” in studio) e Giorgia Rossi, che su Mediaset ha condotto Pressing e Domenica Premium, una gavetta tutta giornalistica che Diletta Leotta, star incontrastata di Dazn, certamente non ha. Sobri, essenziali e simpatici quel che basta, Rossi e Cattaneo hanno la competenza che in passato, sinistramente, veniva spesso meno a Ilaria D’Amico, quella che pronosticava il Chelsea vittorioso in Champions League quando il Chelsea (era quello di Sarri) giocava in Europa League. Dei tre telecronisti di punta in organico, e cioè Stefano Borghi, Massimo Callegari e Pierluigi Pardo, Dazn ha perso purtroppo Callegari, tornato a Mediaset. Borghi è però un fuoriclasse e una garanzia; quanto a Pardo, ha doti di prim’ordine, anche se l’ossequio e la deferenza che spesso mostra verso la Juve (spalleggiato da don Abbondio Guidolin) supera i livelli di guardia toccati a Sky – che elesse Del Piero miglior n. 10 della storia davanti a Maradona e Pelé – nell’ultimo decennio. Buscaglia, Mastroianni, Testoni, Mancini sono ottime voci; come ottimi, malgrado il pedigree calcistico non prioprio rilucente, sono stati in questi anni i commenti tecnici delle spalle Tiribocchi e Gobbi, due vere sorprese.

Ora anche questa squadra si rafforza: arrivano Ambrosini (da Sky, grande intesa con Cattaneo), Barzagli (che per fare l’opinionista ha rifiutato il ruolo di collaboratore di Allegri alla Juve), Matri, Pazzini, Budel, Montolivo. Se Dazn starà alla larga dal servilismo, potrebbe addirittura fare contenti tutti.

 

Incontrarsi ancora. Lo stupore e l’ossigeno vitale di dirsi tutto (ma fuori dallo schermo)

Ossigeno e mascherine. Potrei intitolare così il mio ritorno all’università itinerante, ossia a quei viaggi estivi con 25-35 studenti o laureati della Statale di Milano per fare insieme una ricerca sul campo in materia di criminalità organizzata. Mascherine si capisce. Chi bianca chi azzurra, chi di slancio chi alla disperata, tutti se la devono portare nei posti chiusi. Ma la sorpresa è l’ossigeno, che non ha alcuna relazione fisica con l’uso delle prime. È ossigeno mentale, sociale. Perché io non ho mai fatto il catastrofista sull’insegnamento a distanza. Anzi, in queste Storie italiane l’ho spesso esaltato. Nuovi modi di raccontare, nuovi modi di fare slides o di interagire a lezione.

Il fatto è che appena esci davvero di casa, non furtivo o circospetto, ma pronto a mescolarti con juicio con la vite altrui, riscopri la bellezza infinita del mondo, dei corpi, dei gesti e del dialogo che nasce dal vivere in comune. Sicché le storie che hai faticato un anno e passa a raccogliere con la tua finestra telematica ti fioriscono intorno alla velocità della luce. Pronte a farsi scoprire, profonde, sorprendenti, anche quando appaiono semplici e scontate.

Eccoli qui, a Genova, gli studenti a cui hai fatto gli esami per iscritto o in video, o che si sono addirittura laureati con te senza che tu li abbia mai visti di persona. Oddio, come è ancora più minuscola Erica, graziosa miniatura, con la sua ricerca di senso per un futuro immaginato di scrittura e di comunicazione. O che consapevole saggezza in Simone, che quando ti dice “vengo da Seregno” subito allude con lo sguardo a quel pezzo di Brianza che non ha saputo ribellarsi alla ’ndrangheta nemmeno quando ha sciolto il comune per evitare l’onta della decisione prefettizia. E che ascetismo errante quel Giacomo D’Alessandro musicista genovese che viene a regalare ai trenta milanesi una serata con il repertorio di De André, ogni canzone un proèmio, una confessione, uno spaccato sociale, e poi la chitarra che ridà suono alle poesie del Faber. Conquista il suo sentirsi viaggiatore di mestiere, camminatore anzi, e il suo peregrinare in ogni luogo in subbuglio, che sia Liguria o Scampia o Sicilia.

E che irripetibile sorriso la Cecilia di Gorgonzola, che svela come per incantesimo la sua natura contadina, il padre allevatore di mucche, i maiali e gli investimenti in lumache e le ciliegie bianche, e che tra una relazione e un seminario ti spiega soave l’esistenza della categoria socio-zoologica delle “caprette di compagnia”. Appassionata di mafia e di antimafia ma anche capace di condurre il trattore per la sua campagna alle porte di Milano.

Il mondo ti si apre con le sue pieghe multicolori: ampie, caleidoscopiche, altro che internet. E prende il volto di Luca, il giovane laureando in giurisprudenza che venne con te in università itinerante a Cinisi nel 2014: ora lo chiamano “toga d’oro” per essere risultato il numero 1 in un concorso di 10mila aspiranti magistrati e si accinge a fare il sostituto procuratore a Savona, la città che battezzò al Nord il 416 bis contro un politico che straripava di potere. O prende anche il volto di Bianca, studentessa non universitaria, ma liceale di Piacenza che sulla mafia sa quasi tutto e perciò è stata aggregata al viaggio dei più “grandi”. Portata dalla mamma ai dibattiti già a 4-5 anni, invece di uscirne squilibrata appare un ritratto di saggezza e simpatia.

Altre storie intanto ti arrivano da lontano. Se ne è andata quasi in vista dei cent’anni Lydia Franceschi, che per dare giustizia al figlio Roberto ucciso dalla polizia davanti alla Bocconi combatté decenni. Ed è tornato a casa, perché malatissimo, il mandante dell’assassinio di don Peppe Diana, ancora una volta un via libera con referto medico da Sassari (oh yes).

Fra tante storie sconosciute, una storia letta cento volte. Qualcuno magari se la rilegga bene.

 

Mistero No-vax. Ignoranza o se ne fregano? E il “green pass” affonda nella burocrazia

 

“Il ristoratore senza mascherina E se salgono i contagi lui si lagna”

Cara Selvaggia, lavoro nel settore eventi tra Verona e Venezia ed in queste settimane sono nella Serenissima. Una sera andiamo a cena in un’osteria nel sestiere di Santa Croce vicino la stazione, un po’ fuori dalle rotte turistiche, comodo per chi deve rientrare in treno. Nessuno – cameriere, proprietari, cuochi – indossava la mascherina. Non so se il proprietario ambisce alla fama del ristoratore di Padenghe, ma quando gli ho chiesto in modo gentile di indossarla (perché non è che le avevano ma calate, nessuno le aveva proprio) mi ha riso in faccia dicendo che loro non le hanno mai usate. Ho atteso per vedere se le avrebbero indossate, invece sono andati a parlottare tra di loro dicendo che “quella rompocoglioni” (io) aveva richiesto la mascherina! Che stravagante richiesta, vero?Allora mi sono alzata e ho detto che avrei pagato l’acqua e il prosecco del mio collega, uniche cose arrivate nel frattempo al tavolo (ma non consumate), e che me ne sarei andata. Poiché hanno anche continuato a prendermi in giro, me ne sono andata senza pagare nulla. Oltre a noi c’era un tavolo di italiani e non hanno fatto una piega. Bello fare finta che il Covid non esista, evidentemente. Aggiungo che il target di questo ristorante non sono i ragazzini ma gli over 50, e ciò rende l’episodio doppiamente grave.

Abbiamo la fortuna di lavorare a Venezia, piegata dalla marea straordinaria del novembre 2019 e annientata dalla pandemia. E questi sputano in faccia alla possibilità di lavorare? Condannandoci magari a un altro lockdown. Perché? Per non usare una cavolo di mascherina? Per guadagnare tutto e subito? Questa gente mi fa schifo. Ho 40 anni ma quest’anno mi sento invecchiata di 10 e mi sembra che non ci sia più un futuro degno di questo nome.

Francesca Venuti

Cara Francesca, devo dire che posso non dico giustificare ma comprendere la leggerezza di alcune categorie di no-mask, ma i no-mask che hanno attività il cui fulcro è il contatto con il cliente mi sembrano oltre che folli anche tafazzianamente scemi. Dovrebbero essere i primi a temere contagi e conseguenti chiusure, e invece sembrano quasi fregarsene o, peggio, goderne. E sì che a Venezia gli abitanti dovrebbero ben sapere che quando l’acqua supera il livello di guardia, è troppo tardi per fare qualunque cosa…

 

“Io, medico vaccinato, in cerca di un lasciapassare che non c’è”

Cara Selvaggia, noi operatori sanitari siamo stati i primi ad essere vaccinati. Io mi chiamo Michele, ho 28 anni e lo scorso gennaio ho accettato la fiala di Pfizer senza sapere che fosse il migliore sulla carta dei vini (insomma “quello buono”). L’ho fatto solo perché questa strada l’ho scelta io, e dovevo.

A distanza di mesi pensavo: e che ci vorrà mai a scaricare ’sto “green pass”, sarà già da qualche parte ad aspettarmi. Invece no. Il mio certificato non esiste. Perché? La risposta al numero di telefono 1-5-0-0 (che dovrebbe offrire assistenza) è stata “non lo sappiamo”. Dicono che forse, sottolineo “forse”, l’Asl non ha trasmesso i dati della vaccinazione: impossibile, perché con i miei occhi ho visto il medico che lo faceva (e lui me ne ha dato prova). Allora richiamo per dirgli che mi hanno mentito (56 minuti di attesa) e rispondono che “forse” il “sistema tessera sanitaria” non ha la mail e il numero di telefono. Ma tra gli addetti ai lavori si sa, al “sistema tessera sanitaria” questi dati non servono; la confermata me l’ha data proprio il servizio assistenza tessera sanitaria.

Oggi il mio “green pass” non esiste e nessuno sa il perché. Intanto il sistema mi chiede di aspettare “il 28 Giugno” che è passato da quasi un mese.

Dott. Michele Sassano, Asl Taranto

 

Caro Michele, di questo passo quando ti manderanno il green pass, il tempo per il tuo green pass sarà scaduto e dovrai attendere la terza dose. Solidarietà.

 

“Rischio il cancro, niente visite E se l’ospedale s’intasa ancora?”

Cara Selvaggia, mi sono vaccinata con la 2ª dose. Per familiarità tumorale sono sotto osservazione da quando ho 16 anni, eppure sono 2 anni che evito controlli: nessuna ecografia al seno né pap test. Non volevo entrare in ospedale e poi avrei tolto il posto ai pazienti più urgenti. Però ci sono 2 milioni e mezzo di over 60 non vaccinati, che probabilmente (speriamo di no) intaseranno di nuovo gli ospedali. Che il vaccino non rende immuni è noto, che protegge invece dal sorgere di un’infezione grave lo è ancor di più. Migliaia di persone hanno saltato controlli per via degli ospedali pieni e ciò la dice lunga sul disastro che si prospetta.

Non volete vaccinarvi? Non fatelo, ma non rompere le scatole a chi si affida alla scienza e cerca di collaborare per uscire dall’incubo: rispettare le restrizioni, indossare la mascherina, evitare assembramenti (io lo farò anche dopo il vaccino perché siamo in una pandemia). Il ristorante non è un diritto costituzionale, potete evitarlo senza troppe storie.

Zoe

 

Cara Zoe, quando capiranno che vaccinarsi serve anche a lasciare liberi i malati di altre malattie (o le persone a rischio come te) di frequentare gli ospedali senza trovare reparti chiusi, senza l’ansia di contagiarsi, senza attese più lunghe del dovuto, sará sempre troppo tardi. O forse l’hanno anche capito, ma semplicemente se ne fregano.

La regola e l’eccezione: i sindaci sotto assedio e il leghista vaccinato

Di lotta e di buon senso. Sì vax, no vax, “ni” vax, no pass, apartheid, dittatura sanitaria: nella grande mistificazione comunicativa di questi giorni, parecchi politici si sono nascosti nell’ambiguità di posizioni che non scontentassero nessuno e che non facessero perdere loro voti potenziali. La Lega ha visto scendere in piazza, contro l’obbligo del “green pass” introdotto dal governo di cui fa parte, diversi suoi esponenti, orfani del vecchio stile di lotta del Carroccio. In questo quadro assume dunque doppio valore la scelta di campo di Roberto Calderoli, leghista della prima ora, dalla nota vis polemica, che avrebbe potuto verosimilmente appartenere ai nostalgici dell’antico “modus operandi”. “Credo che sbaglino nella maniera più totale. Lo dico da medico e da cittadino. Io appena ho potuto mi sono vaccinato. E ringrazio Dio di aver già fatto la prima e la seconda dose. Chi non si vaccina commette un grosso errore”, ha dichiarato Calderoli. E per non lasciare dubbi ha aggiunto: “Per me il certificato è una soluzione giusta in un momento sbagliato. Voglio dire che per imporre il certificato bisogna essere in condizioni di garantire il vaccino a tutti. Solo così si toglie anche l’eventuale alibi a chi lo rifiuta. E invece, ci sono già Regioni che non riescono a garantire le iniezioni e così la mancanza di ‘green pass’ non si può addebitare al cittadino che non ne ha colpa”. Un approccio distante anni luce insomma da quello di chi ammicca alla protesta a prescindere.

8

È un duro mestiere. “Non mi aspettavo una cosa del genere. Sapevo che c’erano manifestazioni in tutta Italia, compresa Pesaro, ma non credevo che avrebbero avuto la sfacciataggine e la vigliaccheria di venire sotto casa mia di notte. Sono dei vigliacchi e degli squadristi”: ne aveva già viste parecchie il sindaco di Pesaro Matteo Ricci nel corso della pandemia. Lui e gli altri Primi cittadini, durante questi mesi difficili, di provvedimenti, restrizioni, paure e risentimenti, hanno fatto da cuscinetto tra le strette giustamente decise dal governo e le difficoltà pratiche della gente, esponendosi spesso in prima persona perché le cose non degenerassero. D’altronde è noto che se c’è qualcuno che si trova ad affrontare “vis a vis” il malcontento popolare, senza gradi di separazione, è chi sta in prima linea; e in prima linea, logisticamente parlando, ci sono gli amministratori locali. È per questo che alcuni politici, prima di cavalcare la rabbia e il malcontento delle folle, dovrebbero rivedersi nella mente le immagini del corteo No vax che va ad intimidire Matteo Ricci e la sua famiglia, sostando quaranta minuti sotto le finestre di casa sua, tra slogan e ossessive scampanellate al citofono. “Governo e Parlamento si sono impegnati a tutelare i sindaci anzitutto dal punto di vista normativo. Draghi ha preso degli impegni con l’Anci. Abbiamo bisogno di serenità per noi e per le nostre famiglie”, ha aggiunto Ricci. Se a questo si sommasse qualche scrupolo in più da parte di chi soffia sul fuoco, trovare un candidato sindaco per le prossime elezioni non sarebbe stato come cercare un ago nel pagliaio. Solidarietà.

10

 

Gesuiti. Uso e abuso politico di “Todo modo”: gli Esercizi di sant’Ignazio nella “lotta della vita”

“Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina”. “Ogni mezzo per cercare e trovare la volontà di Dio”. Todo modo: dal romanzo di Leonardo Sciascia al film di Elio Petri e per finire alle analogie presunte con il “Whatever it takes”, “A ogni costo”, del premier onnisciente e “gesuita” SuperMario Draghi. Una citazione che ciclicamente torna in auge ma che a pronunciarla spesso rischia di diventare fine a se stessa, in senso sia politico sia onomatopeico, giusto per il suono riprodotto in qualche salotto tv.

Giova allora ricollocarla nella sua dimensione originaria, che è quella degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. Del resto sabato scorso, 31 luglio, ricorreva l’anniversario della morte dell’ex soldato spagnolo, nel 1556 a Roma. E quest’anno – non a caso Ignaziano per la Chiesa – sono cinque secoli esatti dalla sua conversione nel maggio del 1521, dopo essere stato ferito gravemente a Pamplona da una palla di cannone dei francesi.

Todo modo, dunque. La frase è nell’annotazione che apre il capolavoro di Sant’Ignazio: “Come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi di preparare e disporre l’anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell’organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell’anima”. Gli Esercizi sono divisi in quattro settimane e sono uno dei libri meno “statici” del cattolicesimo, un divenire continuo e unico per ogni “esercitante”. Come spiega Francesco, primo papa gesuita della Chiesa, nella prefazione alla monumentale Cercare e trovare la volontà di Dio. Guida pratica agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, scritta da padre Miguel Ángel Fiorito (1076 pagine, Ancora, 105 euro). Il pontefice chiosa: “Secondo il modello del Vangelo, il fuoco e la forma interiore degli Esercizi, come dice Fiorito, consistono nell’azione interiore di conoscere – tramite il discernimento – ‘la volontà divina sui temi rilevanti della nostra vita spirituale’”.

Padre Fiorito (1916-2005) fu maestro dello stesso Bergoglio nonché formatore di varie generazioni di gesuiti argentini. Le sue sono originali “schede di lettura” per gli Esercizi, che intendono “aiutare” chi li pratica. Sempre Francesco: “Il suo aiuto arriva fino al punto in cui l’altro, nella sua libertà, desidera sinceramente lasciarsi aiutare”.

Il discernimento avvolge l’intelletto e il cuore nel complesso “processo” ignaziano, in cui l’“esercitante” riflette sulle proprie debolezze. Un esempio, estrapolato dalle schede di padre Fiorito: “La prima cosa che dobbiamo fare è renderci ‘indifferenti’ (ES 23) rispetto ai due termini dell’alternativa tra i quali vogliamo scegliere secondo la volontà di Dio. È evidente che questo non significa giungere a non avvertire né inclinazione né avversione rispetto a ciascun termine dell’alternativa: quell’‘impassibilità’ è un ideale, ma non è indispensabile per scegliere bene”. È il fascino senza tempo degli Esercizi, in cui lo Spirito è consapevole che “lo si voglia o no, la vita dell’uomo è una lotta”.

 

Per onorare i morti di Bologna ora si devono punire i mandanti

Gli anniversari diventano, con il passare degli anni, distratta routine. Ma non può diventare routine il ricordo della strage alla stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto di 41 anni fa. Perché è il più grave e terribile attentato della storia repubblicana, con 85 morti e oltre 200 feriti. E perché è in corso il processo che potrebbe ricostruire i motivi della strage e condannare i mandanti: individuare scopi e registi della bomba di Bologna significa svelare il cuore oscuro del potere che ha tirato i fili della storia italiana almeno fino agli anni Ottanta.

Conosciamo da tempo gli esecutori. Ma il processo in corso, voluto dalla Procura generale di Bologna non senza contrasti con la Procura, punta finalmente ai mandanti e ai loro rapporti con gli apparati dello Stato. L’accusa ha portato in aula la stele di Rosetta dell’attentato, il “Documento Bologna”, custodito nel portafogli di Licio Gelli e sequestrato dopo il suo arresto avvenuto in Svizzera il 13 settembre 1982. Per anni è rimasto indecifrato e invisibile, anche a causa di investigatori e magistrati che non hanno fatto le domande giuste a un Gelli che minacciava di “tirar fuori gli artigli”, come scrisse l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi riferendo quanto detto dall’avvocato del capo della loggia P2: “Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti”, perché tra i documenti sequestrati a Gelli vi erano “appunti con notizie riservate, che spetterà, poi, a Gelli avallare o meno, sulla base di come gli verranno poste le domande stesse”.

Ecco, oggi sono finalmente arrivate le domande giuste, quelle che permetteranno di svelare i rapporti tra P2 e Stato: nel processo che ha come imputato quel Paolo Bellini, neofascista e collaboratore dei carabinieri di Mario Mori, che ha avuto un ruolo anche nell’ultima trattativa di Stato, quella con Cosa nostra nel 1992-93.