Il video di Amara? Eni sapeva tutto

Deve essere riscritta la strana storia del video che la sentenza Eni-Nigeria presenta come una prova a favore degli imputati nascosta dai pm d’accusa (Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro). Il ricorso in appello presentato dalla Procura e i documenti depositati nel procedimento sul “complotto Eni” provano che quel video non era affatto nascosto, ma conosciuto da Eni; e che le affermazioni di Vincenzo Armanna in quella videoregistrazione non sono la prova di progetti calunniosi contro i vertici Eni, bensì l’annuncio, con espressioni forti, di voler collaborare con la Procura di Milano rivelando “la verità” degli affari nigeriani della compagnia. Il video documenta un incontro del 28 luglio 2014 a Roma, nella sede dell’azienda dell’imprenditore Ezio Bigotti. Vi partecipano Piero Amara, allora potente e ben pagato avvocato esterno dell’Eni; Vincenzo Armanna, ex dirigente dell’Eni in Nigeria; Andrea Peruzy, segretario generale della Fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema; e Paolo Quinto, componente dell’assemblea del Pd e capo della segreteria di Anna Finocchiaro. È registrato, all’insaputa dei partecipanti, da Amara, che a quei tempi controllava Armanna per “incastrarlo” nel caso agisse contro l’Eni. Argomento centrale: la cessione di una concessione petrolifera minore di Eni a un imprenditore chiamato “Kappa Kappa” (il nigeriano Karim Kola). Una piccola parte della riunione è occupata dagli annunci di Armanna: su “la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento”. Fu licenziato. Qualche giorno prima è stato perquisito dalla Procura di Milano. Due giorni dopo si presenterà al pm De Pasquale cominciando ad accusare i manager Eni di corruzione, nell’acquisto in Nigeria di Opl 245, che già dal 2013 era oggetto d’indagine della Procura di Milano. “Sono coinvolti nella 245 e non escluderei un avviso di garanzia”, dice Armanna senza fare nomi. “Mi adopero perché gli arrivi (ride)”.

Per queste parole, il video è stato considerato dal Tribunale, che ha assolto tutti gli imputati, la prova che Armanna stava per rovesciare calunnie sui dirigenti Eni. Tutto da provare. Quinto, interrogato dai magistrati Laura Pedio e Paolo Storari, spiega: “Armanna diceva che lui era stato tirato in mezzo nella vicenda Olp 245… Disse che avrebbe attivato i giornali e che avrebbe raccontato la verità anche ai magistrati”. Anche Eni deve aver avuto dubbi sul senso delle affermazioni di Armanna e sull’opportunità di rendere pubblico il video. Intanto perché, scrive il pm nel ricorso d’appello, “conteneva diversi elementi che, descrivendo dinamiche opache e poco commendevoli di cui erano protagonisti dirigenti Eni di primo piano, non erano certo utili alla prospettazione difensiva”. E poi perché Eni le conosce fin dal marzo 2018: depositate (seppur non integrali) da Pedio e Storari al Tribunale del riesame; e oggetto di un audit chiesto nell’estate 2018 da Eni alla Kpmg. Nascosto, dunque, quel video proprio non era.

Storari valutò l’arresto della segretaria di Davigo

Davanti al Csm, due giorni fa, il pm Paolo Storari ha eccepito l’incongruenza di uno dei tre capi d’incolpazione che gli vengono contestati: non essersi astenuto, nell’ottobre 2020, dall’indagine sulla fuga di notizie che riguardava i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. Una copia non firmata dei verbali in questione, in formato Word e all’interno di una pen drive, era stata affidata da Storari all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, secondo le ricostruzioni dei due magistrati, nella prima settimana di aprile 2020. Il motivo: Storari – questa è la sua versione – riteneva che i suoi capi ritardassero le iscrizioni nel registro degli indagati e quindi, da contitolare del fascicolo insieme alla procuratrice aggiunta Laura Pedio, intendeva tutelarsi attraverso il Consiglio. L’inerzia sulle iscrizioni per la Loggia Ungheria, ribadita da Storari alla Procura di Brescia – dove è indagato con Davigo per rivelazione del segreto d’ufficio – ha determinato l’iscrizione nel registro degli indagati del procuratore di Milano, Francesco Greco, per omissione in atti d’ufficio. Fin qui il primo segmento di questa vicenda.

Il 30 ottobre si apre però una nuova fase. Il Fatto, avendo ricevuto 24 ore prima in un plico anonimo una copia dei verbali di Amara non firmati, e temendo si trattasse di una polpetta avvelenata o di un sabotaggio delle indagini, denuncia l’episodio e li deposita nelle mani di Storari e Pedio. Dal 30 ottobre, quindi, dovrebbe partire l’inchiesta sulla fuga di notizie per quei verbali. Greco e Pedio, in una serie di relazioni anch’esse inviate alla Procura di Brescia, contestano a Storari di non essersi astenuto dall’inchiesta sulla fuga di notizie e di aver nascosto di aver consegnato, mesi prima, una copia di quei verbali a Davigo. È anche una delle tre contestazioni disciplinari per le quali la Procura generale della Cassazione chiede per Storari il trasferimento di sede e funzione. E veniamo all’incongruenza eccepita da Storari dinanzi al Csm: non c’era possibilità di astensione — dice — perché il fascicolo sulla fuga notizie non è esistito fino all’aprile 2021, data in cui, dopo aver dichiarato ai suoi capi d’aver consegnato i verbali a Davigo, ha lasciato l’indagine. A questo punto gli interrogativi — o le incongruenze — si moltiplicano. Primo: perché lo stesso Storari, che pure ad aprile si era lamentato con Davigo (al punto di chiedere la sua tutela al Csm) del ritardo di quattro mesi per le mancate iscrizioni sulla Loggia Ungheria, non procede egli stesso, per quasi sei mesi – dal novembre 2020 all’aprile 2021 – ad aprire un fascicolo contro ignoti sulla fuga di notizie? Già sapeva che la lettera anonima consegnata dal Fatto a Storari e Pedio, che accompagnava il secondo plico di verbali inviati a novembre, conteneva indicazioni proprio sul Csm, lo stesso al quale Storari, attraverso Davigo, si era rivolto. Ne citiamo una: “Salvi (procuratore generale della Cassazione, ndr) è al corrente ma non vuole fare niente…”.

Ma c’è di più. Ora risulta che Storari, dato il coordinamento investigativo con la Procura di Perugia, a fine marzo si ritrova a essere informato, con la collega Pedio, di un dettaglio ulteriore: una copia dei verbali è arrivata anche al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che li ha ricevuti in un plico anonimo il 28 febbraio e alla fine di marzo ha denunciato a Perugia. Ma ancora non parla della sua consegna a Davigo. Negli stessi giorni, poiché una copia dei verbali è giunta anche alla cronista di Repubblica Liana Milella — anche lei deposita e denuncia — la Procura di Perugia e il Gico della Guardia di finanza individuano l’utenza telefonica che le annunciava l’invio dei verbali: un numero del Csm. Storari ne viene messo al corrente con la collega Pedio: ma continua a tacere. Al Fatto risulta che Storari riceve anche l’informativa della Guardia di finanza che indaga sull’invio del plico. E viene informato sull’autrice dell’invio: Marcella Contrafatto, la ex segretaria di Davigo al Csm (che viene pensionato a ottobre e per quanto ci risulta non sapeva di queste spedizioni). Ma ancora non si astiene, benché Pedio gli comunichi in via informale che vorrebbe indagarla (e persino arrestarla, ipotesi poi tramontata) per ricettazione: perché, fino a quel momento, l’ipotesi investigativa principale è che i verbali siano stati trafugati dai computer di Storari e Pedio. Storari, a proposito dell’ipotesi di iscrivere e magari arrestare Contrafatto, replica solo che avrebbe voluto pensarci.

Figliuolo s’affida alla Madonna del Grappa

Avolte la polemologia (la scienza della guerra) e la strategia non bastano, ci sono momenti in cui bisogna affidarsi alla Madonna e ai Santi. Il generale Francesco Paolo Figliuolo, da commissario straordinario per l’emergenza Covid, è al comando della più grande forza di intervento sanitario mai messa in campo, munita delle armi di prevenzione e distruzione di massa (del virus) che si chiamano tamponi e vaccini.

Ma ha capito che alla programmazione ferrea della campagna medica bisogna aggiungere la persuasione. All’inizio di luglio è andato al monastero agostiniano di Cascia, ha pregato e si è affidato a Santa Rita per uscire dalla pandemia. Un mese dopo si ripete e sceglie un luogo ancor più simbolico, la cima del Monte Grappa, che è sintesi di storia bellica e religiosa.

Fu uno dei baluardi durante la Prima guerra mondiale che impedì agli austroungarici di invadere la pianura veneta. Dal 1901 è una vetta, ai confini delle province di Treviso, Vicenza e Belluno, consacrata alla Madonnina. Infatti, il Patriarca di Venezia, il cardinale Giuseppe Sarto che sarebbe diventato papa Pio X, vi salì a dorso di una mula, per collocare una statua di due metri. Durante la guerra la statua fu danneggiata e portata nel duomo di Crespano.

Era lì che tutti i soldati si recavano a pregare, per volere del generale Gaetano Giardino, comandante dell’Armata del Grappa, prima di raggiungere le trincee. “Ognuno riceveva una medaglietta con la Madonnina. Venivano da tutta l’Italia e molti se la sono portata a casa, assieme alla vita che avevano salvato. Per questo la devozione è diffusa ovunque, anche in Argentina”, spiega Annalisa Rampin, sindaco di Pieve del Grappa. Ogni prima domenica di agosto di ripete il pellegrinaggio “delle genti venete”. Il generale Figliuolo salirà a bordo di un comodo mezzo da montagna. Eppure il significato è analogo. “Stiamo combattendo un’altra guerra mondiale, contro un nemico insidioso e non meno pericoloso – aggiunge la sindachessa – per questo sarà inaugurata una targa, in ricordo dei 120 anni della Madonnina, nonché dei 100 anni del Sacrario e del Milite Ignoto”. Il generale terrà il discorso ufficiale, e si può pensare che richiamerà all’impegno di tutti.

Da lassù potrà spaziare lo sguardo sulla terra veneta dove non mancano i disfattisti, che in una guerra sono i nemici peggiori, perché minano la resistenza dall’interno. Gli basterebbe aprire i giornali locali, per leggere che a Treviso ieri si è tenuta una manifestazione no-vax. Oppure che a Vittorio Veneto è ricoverato un bimbo di 11 mesi malato di Covid, oppure che due focolai sono stati scoperti a Castelfranco Veneto e nel capoluogo a causa di scriteriate feste di gruppo. Con sguardo più politico, potrebbe leggere le dichiarazioni bifronti in una terra che ha tributato il 75 per cento dei consensi al leghista Luca Zaia. Il governatore veneto (ma anche quello friulano Massimiliano Fedriga) invita tutti a vaccinarsi, anche se non censura il dissenso: “Non abbiamo bisogno di un conflitto tra guelfi e ghibellini”.

Altri leghisti scelgono, invece, la trincea di un supposto diritto alla libertà. Basta leggere ciò che dicono i parlamentari Dimitri Coin o Alex Bazzaro, schierati con i no-pass. O quello che dichiara quasi ogni giorno Matteo Salvini. Anche per questo il generale Figliuolo ha pensato bene di affidarsi alla Madonnina del Grappa.

Anziani senza 1ª dose: 2 mln sono irriducibili “no-vax”

Generale Figliuolo, abbiamo un problema. Lo zoccolo duro di chi non vuole – o non può – vaccinarsi, sembra ormai consolidarsi. Nell’ultima settimana in Italia sono state iniettate in media 503.259 dosi di vaccino, di cui 5.223 monodose. Alle 17 di ieri il totale delle somministrazioni era oltre quota 68 milioni, le persone completamente vaccinate, invece, 32.267.999, circa il 60% della popolazione. Continuando al ritmo di mezzo milione di dosi in media al giorno, dovrebbe servire un mese circa per coprire l’80% della popolazione vaccinabile. L’obiettivo potrebbe essere dunque raggiunto entro la fine di agosto 2021, in anticipo rispetto alla previsione del governo per fine settembre.

Questo, però, a una condizione. Che tutti i “vaccinabili” (o quasi) si vaccinino. Ma da diverse settimane le percentuali di chi manca totalmente all’appello, soprattutto nella popolazione anziana, sono poco mobili. Com’è noto, a causa soprattutto dell’incertezza sulle fasce di età a cui riservare AstraZeneca, a partire dal 10 luglio (quando si toccò il picco di 462.275) gli appuntamenti per le prime dosi sono crollati fino alle 95.052 del 10 di luglio. Nelle ultime settimane il numero di prime dosi è timidamente in risalita (172.269 il 30 luglio, grazie anche all’“effetto Draghi”, l’annuncio dell’obbligatorietà del Green pass), ma l’inversione di tendenza riguarda solo le fasce di età 12-19, 20-29 e 30-39. Al di sopra dei quarant’anni le curve sono tutte in ribasso.

Questo può verosimilmente significare che una buona parte dei 16.314 ultranovantenni, dei 217.748 ultraottantenni, dei 627.475 ultrasettantenni e del milione 150 mila e 125 ultrasessantenni che non hanno preso nemmeno l’appuntamento per la prima dose, molto probabilmente non lo farà più. Si tratta di 2.011.662 “anziani” completamente privi di vaccino. A queste vanno aggiunte 2.170.991 (quasi uno su quattro) persone tra i 50 e i 59 anni nella stessa condizione, quota che tra i 40-49enni sfiora i tre milioni.

Una situazione problematica, soprattutto alla luce dell’aggressività della variante Delta e della capacità (come rivelato dal Centers for Disease and Control degli Stati Uniti) della Delta di “bucare” il vaccino più di tutte le altre precedenti, mantenendo nel vaccinato infettato una carica virale (come spiegato dal consigliere della Casa Bianca, l’infettivologo Anthony Fauci) paragonabile (dunque ugualmente contagioso) a quella di un non vaccinato infetto. Tutti fattori che mettono ulteriormente in pericolo soprattutto i non vaccinati. E l’Istituto Superiore di Sanità, ieri, ha diffuso gli ultimi dati sull’efficacia vaccinale relativi al periodo 4 aprile-25 luglio 2021. Rispetto alla popolazione non vaccinata, la doppia dose riduce dell’88,15% il rischio di infezione, del 94,88% quello dell’ospedalizzazione, del 97,36% quello del ricovero in terapia intensiva e del 96,4% quello di morte. Percentuali che, con una sole dose, si riducono rispettivamente al 70,17, 81,49, 88,58 e 83%. Sempre in base ai dati Iss, risulta che nelle ultime due settimane il 30,2% dei nuovi casi totali Covid ha un’età inferiore ai 18 anni, il 60,8% tra 20 e 59 anni e solo il 9,1% ha un’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda la fascia 10-39 anni, l’Iss rivela come l’incidenza dei contagi da fine giugno sia superiore tra i maschi rispetto a quella osservata nelle femmine. L’ipotesi concreta è che sia l’effetto delle partite e dei festeggiamenti per la vittoria dell’Europeo.

Il bollettino di ieri, segnala 6.513 nuovi casi, 16 morti e un tasso di positività del 2,4% sul totale dei tamponi. Ancora un +35 per quel che riguarda i ricoveri in area medica (1.851 in totale) e un + 13 (saldo tra entrate e uscite) in terapia intensiva (214 ricoverati con 20 nuovi ingressi. Numeri sostanzialmente in linea con quelli degli ultimi giorni.

La settimana prossima, infine, è atteso un nuovo decreto per affrontare il nodo Green pass e trasporti. Probabile che si vada verso l’obbligo per aerei, navi e treni a lunga percorrenza, accesso libero invece per tram, autobus e metropolitane.

E ora 9 milioni di Tv al macero: ecco tutto quel che c’è da sapere

Tutte le agonie sono strazianti, si sa, anche quella che capita quando torni a casa ogni giorno senza la certezza che la televisione si accenda e funzioni regolarmente. È un po’ quello che da un anno capita agli italiani. Anche i più distratti hanno intuito che sta per accadere qualcosa all’elettrodomestico più amato. Cosa, quando e perché questo avverrà è decisamente meno chiaro, così come il funzionamento del bonus da 100 euro previsto.

In sostanza, senza un apparecchio acquistato dopo il 2018 o in mancanza di un decoder ad hoc, la tv si potrà tranquillamente buttare, perché non si riusciranno più a ricevere le nuove codifiche: da Mpeg-2 alla più evoluta Mpeg-4. Ma, come nella migliore delle tradizioni nostrane, la migrazione verso il nuovo digitale terrestre (il Dvb-T2) – che metterà fuori uso oltre 9 milioni di apparecchi – continua a essere rinviata scatenando ancor più incertezze.

L’abbandono da parte delle emittenti televisive della vecchia codifica a favore di una evoluta, imposto dall’Europa e previsto con la manovra del 2017, dopo svariati rinvii era stato previsto per il 1 settembre 2021. Ma giovedì scorso il ministero dello Sviluppo ha annunciato un nuovo stop. Peccato, però, che la nuova data comunicata – il 15 ottobre – non sia stata confermata. Il solito caos che avvolge un cambiamento epocale, almeno per numero di soggetti coinvolti e risorse messe in campo. Mettiamo in fila ciò che è noto.

Switch-off. Il passaggio è legato alla necessità di liberare le frequenze attualmente occupate dalle emittenti televisive nella banda 700 megahertz per concedere spazio al 5G con le grandi emittenti che hanno fatto festa grossa a discapito di tv e radio locali. L’ultimo rinvio è colpa della pandemia Covid-19: avrebbe rallentato l’acquisto delle nuove tv, anche se l’online ha registrato picchi di vendite senza precedenti. Il processo, insomma, definito veloce, si è rivelato una montagna russa per chi è stato costretto a salirci sopra. E ancor più vertiginoso lo è per il ministero dello Sviluppo economico che solo a metà luglio, due settimane prima di aver comunicato il rinvio, ha pubblicato i decreti attuativi.

Date. Secondo l’ipotesi formulata dal Mise, la nuova road-map per la transizione al digitale di seconda generazione partirà il 15 ottobre 2021 – con i canali meno importanti – e si concluderà a metà 2022. Poi a partire dal primo gennaio 2023 si passerà al nuovo standard di trasmissione Dvb-T2. Forse. La Rai, ad esempio, trasmetterà subito in Mpeg-4 alcuni suoi canali specialistici, come Rai Storia e Rai Sport, mentre i canali principali verranno trasmessi con entrambe le codifiche. La prima Regione a fare da apripista sarà la Sardegna, dove le emittenti dovranno liberare le frequenze il 15 novembre. Poi tra il 3 gennaio e il 15 marzo 2022 toccherà a Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, provincia di Trento, provincia di Bolzano, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna; tra il 1 marzo e il 15 maggio a Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata, Abruzzo, Molise e Marche; tra il 1 maggio e il 30 giugno 2022 a Liguria, Toscana, Umbria, Lazio e Campania.

Bonus. Ad allungare la già sterminata lista di incentivi messi in campo negli ultimi anni dai vari governi è un bonus che, nonostante non abbia il vincolo del reddito, a differenza del cashback non è stato finora etichettato come “regressivo”. Il governo ha previsto uno sconto del 20% sul prezzo della nuova tv, fino a un massimo di 100 euro, che può essere richiesto da chi ha un vecchio televisore da rottamare ed è in regola con il pagamento del canone Rai. Un bonus che addirittura si può cumulare con un’altra agevolazione stanziata nell’ottobre 2019 che prevede l’erogazione di 50 euro solo per i possessori di Isee più bassi (fino a 20 mila euro) ma che non ha mai fatto registrare grandi numeri.

Il plafond dei 100 euro è però limitato (250 milioni) e potrebbe portare all’ennesimo click day: la cifra stanziata dovrebbe coprire circa un quarto delle potenziali richieste. Basta pensare al bonus bici.

Ma quali pacchi, Amazon fa il 54% degli utili col cloud

La pubblicazione dei conti trimestrali di Amazon è come una plastica rappresentazione di cosa è davvero la gig economy nella fase del dominio pieno e incontrollato delle grandi OTT (over the top) sul mercato: qualunque cosa facciano quelle aziende, qualunque servizio offrano, il loro vero business sono i dati. Amazon è la rappresentazione più cogente di questo assunto perché è un bizzarro ircocervo tra un’azienda del capitalismo tradizionale e una delle Big Tech.

Andiamo con ordine. Cosa dicono i conti di Amazon tra aprile e giugno? I ricavi sono sempre enormi: 113 miliardi di dollari e spiccioli. Il margine operativo, diciamo gli utili, ammontano invece a 7,7 miliardi. Una marginalità buona (6,8%), ma – come ha notato ieri Italia Oggi – assai lontana da quelle fuori scala di altre aziende che vivono online: “Tanto per citare solo qualche caso, Netflix ha marginalità pari al 25% (1,84 miliardi di risultato operativo nel trimestre aprile-giugno), Alphabet del 31,2% (19,36 miliardi di dollari di risultato operativo), Facebook addirittura del 42,6% (risultato operativo di 12,36 miliardi)”.

E qui la cosa che sorprenderà davvero i non addetti ai lavori: non è dal commercio online, che pure fa la gran parte del fatturato, che il colosso di Jeff Bezos ricava la maggior parte dei suoi guadagni. Sui 113 miliardi di ricavi del terzo trimestre le vendite online valgono 53,1 miliardi, quelle nei negozi fisici 4,1 miliardi, quelle di terze parti 25 miliardi, i servizi in abbonamento 7,9 miliardi e Amazon web services (AWS) 14,8 miliardi. È proprio quest’ultimo settore (cloud computing, banche dati, intelligenza artificiale, etc) che pesa solo per il 13% del fatturato (peraltro in crescita del 37%) a essere responsabile del 54% del risultato operativo – 4,19 miliardi su 7,7 totali – con una marginalità stavolta in linea con quelle dei concorrenti tech (28,3%).

Che quello sia il vero mercato strategico per Amazon, e il resto utile soprattutto per la leva finanziaria e l’accumulo di potere di mercato e ovviamente dati, lo dimostra che il fondatore Jeff Bezos abbia negli scorsi mesi nominato a succedergli Andy Jassy, vale a dire l’uomo che aveva guidato in questi anni Amazon web services. In questo settore così delicato – che è la custodia e la gestione dei dati di pubbliche amministrazioni, aziende e singoli clienti – AWS rappresenta il primo operatore con una quota di un terzo del mercato.

Due anni per moltiplicare le poltrone, assaltare le coste e “spegnere” i vigili

Un Piano Casa mirato a distruggere il territorio, più che a preservarlo. Una legge, il “poltronificio”, che ha creato dal nulla 60 nuove poltrone in Regione Sardegna, per una spesa di circa 6 milioni di euro l’anno; una politica antincendio che si è rivelata del tutto inefficace e che oggi paga 20 mila ettari di territorio andati in fumo; una gestione della pandemia che ha visto per lunghi tratti la Sardegna agli ultimi posti per vaccinazioni e assistenza ai positivi, cui ha fatto da contraltare la scelta nell’estate 2020 di aprire l’Isola al turismo in maniera indiscriminata, con la (naturale e preventivabile) esplosione dei contagi. Sono alcuni dei “lasciti” – ma la lista è per difetto – della giunta di Christian Solinas. Due anni e mezzo caratterizzati da polemiche, indagini della magistratura, litigi.

Iniziando dalla fine, l’attuale maggioranza ha brillato per impreparazione nella gestione del rogo che ha devastato l’Oristanese. Tra nomine ritenute illegittime (come quella dell’ing. Belloi a capo della Protezione Civile), defenestrazioni (Antonio Casula, dg del Corpo forestale, silurato dieci giorni fa) e cariche direttive dei vigili del fuoco rimaste vacanti (come denunciato il 7 luglio dai sindacati dei pompieri), la macchina regionale nel momento del disastro si è inceppata .

Per tacere poi della prima legge sulla quale Solinas aveva “messo la faccia”: il Piano Casa. Un insieme di norme che concedevano aumenti di cubature “sproporzionati”, di fatto “un condono edilizio” regionale surrettizio e una distorsione della concorrenza nell’accesso ai fondi del superbonus, come si legge nel provvedimento con il quale il governo ha impugnato la legge.

E poi c’è il “Poltronificio”, che invece il governo non ha impugnato. Un provvedimento che ha moltiplicato incarichi e spesa pubblica, arma con la quale Solinas ha puntellato la sua traballante maggioranza. Ma la moltiplicazione dei posti aveva toccato anche le provincie e le città metropolitane (la legge regionale le aveva portate a 6 più due città metropolitane, prima dell’impugnazione), le Asl e le agenzie regionali, col provvedimento che ripristina i cda lì dove c’era un presidente. Altro tasto dolente la gestione del anti-Covid. Prima la molto poco lusinghiera estate 2020 del Billionaire, ora la prospettiva ormai certa di una quarta ondata estiva.

Nella settimana 21-27 luglio ha registrato un’impennata dei casi attualmente positivi per 100.000 abitanti (231) e ha evidenziato un aumento dei nuovi casi (+79,1%) rispetto alla settimana precedente, quando l’aumento aveva superato il 200%. E negli ospedali la situazione non è rosea, come denuncia il giornalista Mario Guerrini dal suo Osservatorio: “Dopo 30 giorni dall’assegnazione del concorso, i reparti di anestesia e rianimazione del Santissima Trinità di Cagliari e dell’ospedale di Olbia sono senza primari. Perché? Perché i vincitori, un piemontese e un veneto, con simpatie leghiste, arriveranno a settembre/ottobre. Mentre i colleghi sardi sono tutti al lavoro. Vista l’emergenza. Con i reparti pieni. In ferie, con tutto quello che sta succedendo, anche molti direttori sanitari…”.

Solinas cerca già un lavoro: vuole fare il giudice del Tar

Come ogni buon stratega sa, si deve avere sempre pronto un “piano B” per quando le cose dovessero volgere al peggio. E del presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas, molto si può dire, ma non che non sia un ottimo stratega. Infatti, il governatore, che naviga in acque politicamente molto agitate e con un apprezzamento in caduta libera, al suo Piano B sta lavorando da tempo: vuole diventare magistrato del Tribunale amministrativo regionale. Secondo quanto risulta al Fatto, il presidente ha presentato la domanda di iscrizione al concorso per 60 posti da “referendario di Tribunale amministrativo regionale del ruolo della magistratura amministrativa”, indetto il 19 febbraio 2021. La prima prova è in programma presso l’Ergife Palace hotel di Roma, l’8 novembre prossimo.

Una notizia segretissima, destinata a destabilizzare i già traballanti equilibri politici dell’isola e a rinfocolare le polemiche sul titolo di studio universitario vantato da Solinas (tanto che a inizio mandato si meritò il titolo di “Trota sardo”).

Cursus studiorum a parte, perché mai un presidente in carica, a metà del suo mandato, dovrebbe iscriversi a un concorso di tale livello e difficoltà? La risposta più ragionevole è che non crede che il suo orizzonte politico sia né lungo né roseo. E, in effetti, l’asse tra il Partito sardo d’Azione (presieduto da Solinas) e la Lega Salvini Premier, dopo l’idillio della campagna elettorale del 2019, che portò Solinas a vincere le elezioni regionali, si è via via guastato. A incrinare l’alleanza, l’autonomia decisionale del presidente.

Nei corridoi della Regione non è un mistero che i tre assessori del Carroccio, con deleghe pesanti (Trasporti, Sanità, Affari generali), spesso non riescano neanche a parlare al telefono con il presidente. Stesso malumore che serpeggia nei consiglieri regionali, tagliati fuori dalle posizioni che contano. Stesse tensioni anche con i componenti centristi della maggioranza, sempre più critici nei confronti del governatore.

E non che le cose vadano meglio all’interno del Psd’Az, anzi. Il partito degli autonomisti è lacerato: da una parte i vertici schierati con Solinas (che infatti li ha cooptati nell’amministrazione pubblica), dall’altra la base, che lo vorrebbe defenestrare. A tenere incollata l’alleanza, fino a oggi, è stata la promessa della distribuzione di nuove poltrone grazie alla legge 107, il “poltronificio” (che venerdì il governo ha deciso di non impugnare). Ma pur moltiplicando gli incarichi, non bastano per tutti.

Per ora, l’unico che ha potuto beneficiare della 107 è il giudice Francesco Scano, 69 anni, fino al 21 luglio presidente della Seconda sezione del Tar della Sardegna. Solinas lo ha nominato “Responsabile dell’attuazione degli indirizzi politici” della Regione, ponendolo gerarchicamente sopra a chiunque nell’ente. Un giudice importante, Scano, visto che la sua sezione aveva deciso sui 14 ricorsi presentati dopo le ultime elezioni regionali (tutti vinti da Lega e Solinas) e le comunali di Cagliari (due, vinti da Paolo Truzzu, il candidato di Solinas).

Ma i rapporti tra Solinas e giudici del Tar risalgono a ben prima. La capa del suo gabinetto è da maggio 2019 Maria Grazia Vivarelli, oggi magistrato del Consiglio di Stato, allora in forza al Tar. Un capo di gabinetto che ha passato gli ultimi due anni a Roma, pur lavorando per la regione autonoma. Un capo di gabinetto che, oltretutto, condivide con Solinas un fascicolo della procura di Cagliari, la quale ha accusato il governatore di abuso d’ufficio e Vivarelli di induzione indebita a dare e promettere utilità, per una storia di nomine illegittime (secondo i magistrati). Non certo il miglior biglietto da visita per un aspirante giudice amministrativo, ma Solinas non sembra preoccuparsene. Così come i magistrati che sono entrati nel tempo nel suo staff oltre che nel mirino delle associazioni rappresentative della categoria che finora hanno taciuto, nonostante non sia sfuggito il caso del giudice Scano prima giudice di Solinas e poi suo massimo consigliori. “Capiamo che tiene famiglia, ma questo è troppo”, si lascia sfuggire un suo collega pure lui giudice sull’isola.

Ma i mal di pancia montano pure a Roma e rischiano di rinfocolare le polemiche contro le “porte girevoli” tra politica e magistratura. Negli ambienti della giustizia amministrativa è “avvertita l’esigenza di una riforma che elimini sia la nomina governativa dei consiglieri di Stato che la possibilità per gli amministratori locali di accedere, sia pure per concorso ai Tar per evidenti ricadute negative sulla immagine di indipendenza e imparzialità del giudice”.

Che tipo di giudice sarà Solinas nessuno può dirlo. Quel che è certo è che il suo presente e passato politico fa punteggio per il concorso (nella cui commissione siederà un membro del Tar della Sardegna): due punti per ciascun mandato completato.

Ricordati che devi soffrire: Matteo, filosofo del sudore

Controcorrente, certo, come da titolo del suo libro: che poi andare controcorrente con quel popò di yacht su cui ha fatto le vacanze non è manco difficile. Ma anche Controsenso, perché – guardando e riguardando il video in cui ammannisce retorica del sacrificio in posa da Lele Mora

– ci è venuto il sospetto che Matteo Renzi non abbia capito cosa sono e cosa fanno il Reddito di cittadinanza in particolare e i sussidi pubblici in generale. I fatti. Venerdì il nostro s’è collegato a una certa tradizione culturale della destra liberale che riassumeremo con una frase celebre di Tommaso Padoa Schioppa: bisogna “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”. Insomma, la vita è una corsa in cui devono emergere i migliori (ma certo col papà ad delle Generali si parte più in scioltezza).

E qui veniamo a Renzi. Questo è quello che un ottimista chiamerebbe il suo pensiero: “Il referendum sul Reddito di cittadinanza è una grande operazione educativa e culturale. In un mondo che va verso le nanotecnologie, investe su big data, internet of things

eccetera, ai ragazzi va detto studiate, mettevi in gioco, poi se fallite vi diamo una mano. Se il messaggio è non vi preoccupate, tanto lo Stato vi dà un sussidio, state a casa e poi eventualmente fate un lavoretto in nero è diseducativo. Io voglio mandare a casa il Reddito di cittadinanza perché voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela: se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare. I nostri nonni hanno fatto l’Italia spaccandosi la schiena, non prendendo i sussidi dallo Stato”. Ora, a parte tutto, ma se si vuol “dare una mano” alle persone in difficoltà, questo è esattamente quel che fanno i sussidi pubblici, Reddito di cittadinanza compreso, il quale infatti finisce solo in piccola parte ai “ragazzi”.

Questo a non ricordare, anche qui, il problema del pulpito. L’amico di Bin Salman ha di fatto lavorato solo nell’azienda di famiglia, da cui fu assunto come dirigente 11 giorni prima che i rutelliani lo candidassero alla Provincia di Firenze (così fu che gli pagammo i contributi per un decennio). Da allora, Renzi è stato un dirigente politico, che certo è un lavoro in cui ha raccolto frutti: se la sinistra non esiste quasi più in Parlamento e nel Paese lo si deve anche a lui (presumendo che, da liberale di destra, questo fosse il suo obiettivo). Oggi, oltre che senatore e capo-partitino, Renzi è conferenziere, lobbista, artista tv e altre cose che di certo hanno a che fare col merito e non coi contatti sviluppati grazie al suo ruolo politico. Siamo sicuri, per dire, che l’emiro al-Thani lo abbia convocato sulla sua mega-barca in Sardegna, qualche giorno fa, per parlare di big data e internet of things, argomenti che Renzi studia da anni al pari del Rinascimento saudita, categoria concettuale di cui si può dire sia l’inventore (chissà che dolore alla schiena…).

Breve guida a tutte le bugie sul Reddito di cittadinanza

Dopo pochi giorni di tregua, nelle ultime ore la corazzata politica e imprenditoriale che ha da tempo giurato guerra al Reddito di cittadinanza è tornata a sparare. In maniera quasi coordinata: Matteo Renzi che dice di voler “riaffermare l’idea che la gente deve soffrire e rischiare”; il ministro leghista del Turismo, Massimo Garavaglia, che annuncia una severa revisione già con “la prossima legge di Bilancio”; il ritorno della solita comitiva di associazioni di imprese che lamenta la carenza di manodopera con una nuova raffica di numeri provenienti dai loro formidabili uffici studi, quasi sempre smentiti dalle statistiche ufficiali.

L’abolizione della misura anti-povertà è ormai obiettivo prioritario del solido asse creato sull’argomento da Lega e Italia Viva. Stanno facendo di tutto per spingere il governo Draghi a inserire il punto in agenda al rientro dalle vacanze. Per Garavaglia, il sostegno nato con il primo governo Conte (di cui faceva parte) starebbe addirittura “frenando l’economia” e “per capirlo basta sfogliare qualche libro di storia dell’economia”. In realtà, la letteratura prodotta in questi primi due anni di operatività del Reddito non ha mai paventato il rischio di un argine alla crescita. Al contrario, ha sottolineato i primi buoni risultati in termini sociali e, volendo individuare i difetti, lo ha definito ancora troppo debole, quindi semmai da rinforzare.

Tocca rimettere in fila i numeri per l’ennesima volta. I dati Inps dicono che nel 2020 la carta acquisti “di cittadinanza” è stata percepita da 3,5 milioni di persone, mentre nello stesso anno i poveri assoluti – come conseguenza della crisi scatenata dal Covid – hanno raggiunto quota 5,6 milioni. Quindi una parte consistente delle famiglie in difficoltà è in realtà ancora sprovvista di aiuti economici; per coprirla tutta servirebbero molte più risorse.

Nel 2019, invece, primo anno di applicazione, l’indigenza era diminuita del 9% rispetto al 2018, poi il virus ha portato a un nuovo aumento nel 2020. Ma questo incremento è stato comunque contenuto dal sussidio. L’Istat ha ipotizzato che cosa sarebbe successo nel 2020 senza Reddito di cittadinanza e cassa integrazione Covid: in quel caso, l’indice di Gini – che misura la disuguaglianza nella popolazione – sarebbe stato di 31,8 e il rischio di povertà sarebbe arrivato al 19,1%. L’effetto combinato di Rdc e Cig ha ridotto di 1,2 punti il primo indicatore e di quasi un punto il secondo. Gli altri sostegni introdotti nel primo anno pandemico – quelli che hanno spinto Confindustria a parlare di “Sussidistan” – hanno migliorato ulteriormente la situazione.

Attualmente a prendere il Reddito sono 3 milioni di persone, con un importo mensile medio di 551 euro. Una cifra troppo bassa per essere un disincentivo al lavoro. Eppure proseguono le doglianze delle imprese turistiche e agricole, che si lamentano di non trovare addetti e incolpano il sussidio spesso con dati fantasiosi. Lo scorso anno, per esempio, le associazioni agricole parlavano di 230-350 mila operai mancanti. Il rapporto Inps dice invece che nel 2020 la forza-lavoro nei campi si è contratta di appena 21 mila unità, cioè il 2%. Ora la Coldiretti dice che ne mancano 50 mila…

I più agitati, però, restano gli albergatori e i ristoratori, che tra l’altro tendono a non rivolgersi mai ai centri per l’impiego nelle ricerche. In questo settore la difficoltà di trovare personale stagionale è datata, tant’è che anche nel 2018 – quando il Reddito non esisteva – l’Anpal lo poneva già ai primi posti in questa nefasta classifica. Nel tempo, bassi stipendi, orari improponibili, diffuse irregolarità hanno spinto molte persone ad abbandonare questi mestieri, ben più remunerati e rispettati all’estero. Le chiusure forzate dovute al Covid hanno dato a molti un’ulteriore ragione per cercare altrove.

Altro dato spesso dimenticato. La maggior parte dei 3 milioni di percettori non è “attivabile” sul mercato del lavoro, poiché si tratta di minori, disabili o comunque persone con grossi problemi sociali da risolvere: i beneficiari obbligati alla ricerca lavorativa sono poco più di 1,1 milioni, ovvero meno della metà dei 2,4 milioni di disoccupati conteggiati dall’Istat a cui andrebbero aggiunti anche i cosiddetti “inattivi disponibili”.

Se anche fosse vero che un aiuto mensile da poche centinaia di euro è in grado di portare le persone a non accettare offerte di lavoro, resterebbero comunque milioni di disoccupati in cerca di un posto e sprovvisti di sussidi.