La destra ora ci riprova su Severino e salva-B.

Enrico Costa, avvocato e deputato di Azione, sostiene che è solo una questione di tempi: “Adesso non si poteva anche modificare l’abuso d’ufficio perché la riforma Cartabia sarebbe stata rinviata a dopo l’estate, ma a settembre ci arriveremo”. Dopo l’approvazione della riforma della Giustizia, il sentimento nel centrodestra è quello di chi ha capito che, con questo governo, il terreno può essere fertile per altre leggi iper-garantiste. La riforma Cartabia è stata solo il primo tempo. Di tentativi ne saranno fatti ancora. Il primo appuntamento sarà a settembre quando la commissione Giustizia inizierà a discutere della proposta di legge del deputato forzista Roberto Pella, sindaco di Valdengo (Biella), che vuole svuotare l’abuso d’ufficio per gli amministratori locali modificando il Testo Unico degli Enti Locali, punendo il primo cittadino solo in caso di dolo. Una proposta che piace anche al Pd, tanto che il 23 luglio il deputato Piero De Luca ha presentato una proposta simile. Ma in FI si parla di “ridefinire meglio i confini del reato” per tutti. Un terreno scivoloso che potrebbe portare all’immunità per gli amministratori. L’altro obiettivo del centrodestra è abolire la legge Severino che nel 2013 fece decadere Berlusconi dal Senato: la norma fa decadere un amministratore dopo una condanna in primo grado e un parlamentare dopo una definitiva. Se la Lega vorrebbe abolirla con i referendum, il governo ha accolto un ordine del giorno di Costa per chiedere una “revisione” della legge. Nel Pnrr si annuncia una revisione della Severino e del decreto legislativo proprio sulle incompatibilità. L’attuazione arriverà con un ddl collegato alla Finanziaria e il dossier è in mano al ministro di FI, Renato Brunetta. Infine c’è la norma sulla ridefinizione del “pubblico ufficiale” che salverebbe Berlusconi dai processi Ruby-ter, sventata in commissione. FI ci riproverà con un emendamento già a settembre.

I trucchi dei politici per “imbrigliare” i pm e frenare le indagini

Non c’è solo la norma sul Parlamento che detterà ogni anno la linea ai procuratori sulle priorità di indagine, con buona pace della Costituzione, a preoccupare i pubblici ministeri. Ci sono soprattutto un altro paio di norme, rimaste sotto traccia, che sono ritenute un’altra via della politica per imbrigliare le inchieste, per svuotarle e così, in molti casi, anche decisamente gravi, non farle arrivare a una sentenza definitiva, un accertamento delle responsabilità.

Stiamo parlando della discovery anticipata degli atti all’indagato, cioè prima dell’avviso di conclusioni indagini (se ci sono certe condizioni) e della valutazione del giudice sulla data delle iscrizioni nel registro degli indagati da parte dei pm.

Il clima politico lo rende bene una battuta che girava alla Camera l’altro giorno, quando è stato approvato l’emendamento del capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin, su “i criteri più stringenti” per riaprire un’indagine: “Non è che le indagini possono essere riaperte da un procuratore qualunque”. Anche se questo emendamento non preoccupa i pm quanto le altre norme in ballo – che andiamo ora a spiegare – e che secondo il Csm hanno “rilevanti criticità”.

In fase di indagini preliminari, il pm, se il Parlamento non apporterà modifiche rilevanti, sarà obbligato a scoprire le carte all’indagato prima della richiesta di archiviazione o di avviso conclusioni indagini (l’anticamera della richiesta di rinvio a giudizio) se non avrà preso la sua decisione in un tempo prefissato. Scrive il Csm, nel parere approvato quasi all’unanimità giovedì: la norma “così come è strutturata sembra non velocizzare la conclusione della fase in questione, né garantire maggiormente l’indagato e la persona offesa e rischia inoltre di incidere in maniera assai consistente sulle scelte del pm, sino a vanificare l’esito di sforzi investigativi impegnativi”. Perfino una richiesta di custodia cautelare che l’indagato può scoprire in anticipo, consentendogli magari di scappare.

“Non di rado – si legge ancora – il pm, sulla scorta del materiale probatorio raccolto nel corso delle indagini, si determina a richiedere misure cautelari”. Scrivere la richiesta di queste misure, che riguardano procedimenti complessi, magari con intercettazioni o dichiarazioni di collaboratori, “può richiedere tempi non brevi” e quindi questa discovery anticipata “preclude la percorribilità di una tale strada, svelando agli indagati il contenuto delle indagini effettuate”.

Ma c’è anche un altro punto controverso che, secondo il Csm, bisognerebbe modificare, dato che c’è il tempo, essendo anche questo nella legge delega: riguarda la novità del controllo del giudice, su richiesta delle parti, sulla “tempestività” dell’iscrizione di una persona nel registro degli indagati e quindi su una “tardiva” iscrizione, che, se riscontrata, determina non solo una sanzione disciplinare per il pm, già prevista dalla legge attuale, ma l’inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine, secondo una valutazione discrezionale di un giudice. Può accadere, pertanto, che la questione si trascini fino in Cassazione e magari che in quella sede venga annullato un processo. “In assenza di criteri definiti”, scrive il Csm, il giudice decide “astraendosi dalle valutazioni effettuate dal pm” con un “palese margine di imprevedibilità e opinabilità”.

Il Consiglio fa pure degli esempi: “Si pensi al caso in cui il pm raccolga le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che riferisce di reati non conosciuti o accusi persone di cui non fornisce le precise generalità; ovvero, più semplicemente, acquisisca la denuncia relativa a un decesso avvenuto in un contesto ospedaliero, nel corso di un iter terapeutico al quale hanno preso parte più sanitari e paramedici. In queste ipotesi – prosegue la spiegazione del Csm – per individuare le persone da iscrivere, il pm dovrà preliminarmente valutare un materiale investigativo… in modo da evitare iscrizioni precoci e indiscriminate”. Proprio casi del genere, conclude il Csm, saranno “prevedibilmente quelli in cui più frequentemente si porrebbe un problema di tardiva iscrizione”. E ciò a scapito pure dei diritti di difesa perché il pm, per paura di vedersi dichiarati inutilizzabili gli atti, “prudenzialmente” potrebbe indagare su una persona anche solo per “un sospetto”.

Niente regime speciale per i colletti bianchi: la “manina” di FI e Lega

Raccontano che le “manine” siano due. Che si sono mosse all’unisono, coordinate insieme ai capidelegazione in Consiglio dei ministri e in collegamento diretto – via telefono – con quel Roberto Garofoli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che ormai è l’uomo intitolato a raccogliere gli umori e a trasformarli in leggi durante le trattative più difficili. Se Mario Draghi e Marta Cartabia lo sapessero è tutt’altra storia. Fatto sta che quelle due “manine” – del sottosegretario alla Giustizia berlusconiano Francesco Paolo Sisto e della responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno – alla fine hanno ottenuto il risultato sperato: far sparire il “regime speciale” di improcedibilità per i reati contro la Pubblica amministrazione. Il testo entrato giovedì mattina in Consiglio dei ministri infatti prevedeva che il “regime speciale” per cui il giudice poteva allungare il periodo di improcedibilità da 2 a 3 anni in Appello e da uno a a uno e 6 mesi in Cassazione, valesse sia per i delitti di mafia sia per quelli contro la Pubblica amministrazione. Cioè quelli dei colletti bianchi: corruzione, concussione, abuso d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e così via.

Un emendamento proposto dalla ministra Marta Cartabia nella versione originale grazie alla pressione del Movimento 5 Stelle. Solo che alle 18 di giovedì, quando il testo è stato approvato all’unanimità in Consiglio dei ministri, quella norma era sparita. Cancellata con un tratto di penna. La trattativa, su cui si è sfiorata la crisi di governo, si è concentrata sui reati di mafia e sulle aggravanti mafiose su cui il M5S ha ottenuto quello che voleva: per i reati di mafia, terrorismo, voto di scambio, violenza sessuale e droga le proroghe possono essere infinite. Per le aggravanti mafiose (416-bis1) invece è previsto il “regime speciale”: si può arrivare fino a 6 anni in Appello e 3 anni in Cassazione (sono possibili tre proroghe fino al 2024). Da questo pacchetto però i reati dei colletti bianchi sono rimasti fuori. Nessun binario speciale. A questi si applicheranno le norme che valgono per qualsiasi altro reato, anche se con tempi più lunghi rispetto alla versione iniziale: fino al 2024, come prevede il “lodo Serracchiani”, si dovrà celebrare il processo in 3 anni in Appello e 1 e 6 mesi in Cassazione (con possibilità di proroga fino a 4 e 2 anni). Dal 2025 però anche per i delitti contro la Pubblica amministrazione entreranno in vigore le regole originarie: 2 anni in Appello e 1 in Cassazione prorogabili al massimo di un anno e 6 mesi.

Di fatto quindi i tempi di improcedibilità per i reati dei colletti bianchi non cambiano rispetto alla versione originale. Epperò quella che era stata una vittoria del M5S nel primo testo approvato nel Cdm dell’8 luglio è stata spazzata via: i reati contro la Pubblica amministrazione sono stati esclusi dal “regime speciale” che avrebbe permesso ai processi di corruzione, concussione e abuso d’ufficio di avere tempi più lunghi come quelli di mafia. Paradosso: la corruzione, la concussione e la corruzione in atti giudiziari saranno equiparati allo spaccio o a un furto. O ancora di più: l’associazione criminale finalizzata al traffico di droga potrà godere di tempi molto più lunghi rispetto a chi intasca o paga le mazzette a un politico.

La norma è stata cancellata grazie alla pressione dei due dioscuri di Forza Italia (Sisto) e Lega (Bongiorno) sul tema giustizia. E alla fine sono stati accontentati, visto che il M5S ha ottenuto tempi più lunghi sui reati di mafia. Una versione confermata da Pierantonio Zanettin, capogruppo di FI in commissione Giustizia e braccio armato dei due avvocati di Berlusconi, Sisto e Niccolò Ghedini: “In Cdm era entrata la versione con i reati contro la Pubblica amministrazione, noi l’abbiamo fatta togliere”. Tant’è che ieri il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, sul Corriere della Sera ha spiegato la ratio della richiesta: “I reati non possono essere tutti imprescrittibili – ha detto – E aggiungendone uno si poteva dire: e perché l’altro no?”. E la destra esulta: “Finalmente abbiamo eliminato l’incostituzionale doppio binario per i reati contro la Pubblica amministrazione”dicono i forzisti. Il deputato M5S in commissione Giustizia Eugenio Saitta invece allarga le braccia: “Questo è il massimo che potevamo ottenere”.

La ministra del Nulla

Dodici anni fa a Repubblica bastava un giornalista (D’Avanzo) per fare 10 domande a B.. Ieri a Repubblica si son messi in undici, direttore compreso, per non farne neanche una alla Cartabia. E riempire due pagine con le sue risposte sottovuoto spinto. Fior da fiore.

1. “La riforma attua il principio costituzionale di ragionevole durata del processo”. La poverina pensa che, per abbreviare i processi, basti scrivere che devono durare meno e stecchirli alla scadenza. Come dire che, perché i treni arrivino in orario, basta bloccarli dopo un tot anche in aperta campagna, facendo scendere e proseguire a piedi i passeggeri.

2. “La politica si occupava delle proprie bandierine ignorando i contenuti della legge”. L’unica a ignorare la sua legge è lei, che non l’ha scritta e forse neppure letta. Dice alla Camera che la mafia non c’entra perché l’improcedibilità è esclusa per i reati da ergastolo (omicidi e stragi). Poi le spiegano che i processi di mafia non sono quasi mai di omicidio e strage, ma replica che la riforma non cambia perché l’han votata tutti. Infine Conte deve minacciare l’astensione dei ministri M5S per costringerla a escludere associazione mafiosa e voto di scambio, a triplicare da 2 a 6 la scadenza degli appelli per i reati aggravati dalla mafia e a raddoppiarla da 2 a 4 per gli altri. A proposito di “bandierine”.

3. “I processi di mafia sono trattati con priorità anche per la presenza di imputati detenuti… Il pericolo di mandare in fumo i processi di mafia non c’è mai stato”. E allora come mai il procuratore nazionale antimafia, il Csm e l’Anm han detto l’opposto? Basta leggere la relazione Lattanzi cui dice di essersi ispirata: l’arretrato medio delle Corti d’appello è di 2 anni; quindi i nuovi processi, secondo il suo progetto-base, sarebbero nati in media tutti improcedibili. Raramente i processi di mafia hanno imputati detenuti (vedi Cuffaro e Dell’Utri, mai arrestati prima del giudizio): il che conferma che la ministra della Giustizia non sa di cosa parla.

4. “Abbiamo sempre ascoltato i magistrati… tant’è che il presidente dell’Anm dice che parte delle loro preoccupazioni si sono un po’ allentate… I termini che abbiamo messo sono raggiungibilissimi”. Se ha ascoltato i magistrati, vuol dire che non ha capito cosa dicevano. E se sono un po’ meno allarmati dai nuovi termini “raggiungibilissimi”, è perché Conte l’ha obbligata ad annullarli per i reati di mafia e a triplicarli o raddoppiarli per gli altri. Risparmiandole un surplus di figuraccia.

5. “Si è giunti qui per via del contesto politico che conosciamo”. Sì, un contesto politico chiamato “elezioni” che lei non conosce, non avendo mai preso un voto in vita sua, e che tributò il 33% al M5S perché facesse l’opposto di quel che vuole lei. O chi per lei.

Io cammino da sola: Angela in marcia per tutte le donne

Doveva essere una pausa, o meglio un break , come direbbe lei, la nostra protagonista, Angela Maxwell. Non c’era nulla che non andasse bene nella sua vita quando prese la decisione di partire. Non un amore finito, né tantomeno un’insoddisfazione lavorativa: la vita da life coach aziendale nell’Oregon, negli Stati Uniti, proseguiva a gonfie vele. Eppure un impulso interiore ad evadere le cresceva dentro, fino alla decisione – nel 2013 – di passeggiare in modo disteso, sereno, per dare momentaneamente un taglio ai ritmi frenetici della trentenne in carriera. Poco a poco il programma andò delineandosi, quello che non aveva previsto era che quel viaggio sarebbe durato quasi sette anni. Prese la decisione di sviluppare su carta punto per punto quello che sarebbe stato il suo viaggio. Impiegò nove mesi per farlo e si disfò di tutte le cose che non riteneva necessarie vendendole di modo da partire con un gruzzoletto da cui foraggiarsi. Via via che la tabella di marcia prendeva forma, nutrì i suoi pensieri della forza e del coraggio di altre donne che sentiva sempre più sue alleate: Jane Goodall, ad esempio, l’etologa e antropologa inglese studiosa di scimpanzé; Amelia Earhart, l’aviatrice statunitense; e Sacajawea, la nativa americana che partì per perlustrare la parte settentrionale del continente. Si lasciò travolgere dai romanzi della scrittrice australiana Robyn Davidson e dall’esempio della camminatrice di lunga distanza Ffyona Campbell e della maratoneta Rosie Swale-Pope. La sua avventura da globe trotter stava per cominciare: si servì di un carretto dalla capienza massima di 50 kg, su cui sistemò una tenda da campeggio, cibo liofilizzato, un filtro portatile per l’acqua e i vestiti per le quattro stagioni. La passeggiata ebbe inizio il 2 maggio del 2014, dalla sua città natale Bend nell’Oregon. In sei anni e mezzo, ha macinato 20mila chilometri: 14 nazioni, tre continenti, spendendo 5 dollari al giorno e raccogliendone oltre 30mila da donare alle ong per l’empowerment femminile. Scoprendo la forza di cui era capace, ha anche compreso che l’unico modo sensato per vivere è offrire riducendo la velocità e godendo di ogni piccola orma lasciata sul cammino. È tornata a casa il 16 dicembre 2020 e non esclude di riprendere a viaggiare nuovamente. Ora è consapevole di quanto potere risieda nella sua vita.

Lo scorfano ecologista, la balena e il branzino muto come un pesce

L’altro giorno al mercato sono andato al banco del pesce, dove un amico pescatore mi consiglia quale sia il prodotto più sano e genuino da comprare per il pranzo dei miei due nipoti di uno e quattro anni. Mentre mi avvicinavo alle ceste di pesce esposte sul bancone, il mio amico, sbuzzando una cassetta di acciughe nostrali, cioè di Monterosso, mi decantava la freschezza del suo banco. Era stata una notte fortunata di pesca molto abbondante così sulla sua bancarella brillavano orate, branzini, pescato per frittura, lumache di mare, triglie e una bellissima ricciola. Mentre il nostro eroe marinaro tirava fuori le interiora dai pesci, strizzando l’occhiolino a qualche piacente signora di passaggio, ho visto muoversi, in mezzo a un gruppo di cicale di mare ancora vive, anche un rosso scorfano. Mi sono avvicinato per vederlo meglio e, quando la punta del mio naso era vicina alla sua, ho detto sottovoce: “Come sei brutto…” e una voce molto nasale mi ha risposto: “Sarai bello te!”. Capirete il mio stupore nel comprendere che l’animale mi aveva risposto. Anche con un tono un po’ scocciato, direi. Ora, non voglio soffermarmi sul tipo di dialettica usata per determinare il contenuto concettuale della verità, cioè se sono più brutto io o lo scorfano, ma è interessante capire quanto il fosforo influisse sulla capacità intellettiva dei pesci rispetto a noi mammiferi. Lo scorfano si schiarì la voce, sputando una pallina d’alga, e dopo aver roteato i suoi grandi occhi a palla per verificare che non ci fossero orecchie indiscrete mi disse: “Tutti uguali siete, voi umani, cercate di non sentirvi in colpa per quello che state facendo al mondo andando a comprare il nasello per i figlioli o un filetto d’ombrina, nascondendo tutte le schifezze che siete capaci di fare e gettando con questo gesto paternalistico un velo di ipocrisia sulla vostra coscienza”.

“Non cominciamo a offendere”, dissi, “signor pesce. Capisco che la condizione in cui si trova le dia il diritto di fare alcune rimostranze rispetto a noi umani. Trovarsi su un letto di ghiaccio in mezzo a cadaveri marini, aspettando che giunga la propria ora, è senza dubbio una situazione drammatica, ma questo non le dà il diritto di cominciare a insultare la razza superiore. Pesce grande mangia pesce piccolo. Mi posso scusare per le sofferenze che vi rechiamo, ma non tollero offese gratuite durante una civile seppur incredibile discussione”.

Il pesce sospirò. “Non è l’esito della tenzone che mi irrita, sono migliaia di anni che sappiamo come va a finire. Quel che disturba e mi fa perdere l’educazione nel linguaggio, di cui mi scuso, è il disastro che state combinando al pianeta senza neanche accorgervene. L’alzarsi del livello delle acque, scusi l’opportunismo, creerà più problemi ai bipedi e ai quadrupedi che a noi. Ma spiegate agli svedesi e ai giapponesi che, quando mangiano la carne delle nostre preziosissime balene, mangiano anche un potentissimo alleato contro l’inquinamento. Deve sapere, egregio signore, che le balene sono come enormi ospedali marini che, solo respirando, possono curare i cambiamenti climatici assorbendo il 40% della Co2 prodotta nel mondo. Praticamente hanno la stessa funzione di quattro foreste amazzoniche. Pensate che la nostra balena trascina dei minerali, proprio come un nastro trasportatore, che sono cruciali per lo sviluppo del fitoplancton, l’elemento più efficiente nel risucchiare anidride carbonica…”.

Questo sinceramente lo ignoravo: la balena era solo una lontana narrazione di un ricordo di mio padre che le vedeva passare con il loro potente sbuffo dalla casa dove abitava dall’alto della scogliera in Liguria, oppure era relegata alle illustrazioni durante le mie letture di Melville o Collodi. “Mi scusi, signor pesce, ma io non ho mai mangiato carne di balena in tutta la mia vita e non ho mai provato empatia per il capitano Achab”, risposi. “Le posso garantire che, per la pulizia della mia casa usiamo solo prodotti altamente biodegradabili e per i miei nipotini compro solo alimenti sani e bio…”.

“Fermo, si taccia!” disse il pesce, alzando la voce e demolendo così quel poco che rimaneva del popolare detto “muto come un pesce”. “Perdoni ancora, signore, non scivoli anche lei in questo ambiguo comportamento che non riesce a nascondere un sofismo, un’argomentazione capziosa in cui basta capire dove si butta l’umido per sentirsi i pionieri di una nuova vita, i paladini della lotta all’inquinamento. Questo è un comportamento superficialmente corretto ma fallace, che può illudere e indurre all’errore più grande che l’uomo possa commettere: sentirsi una brava persona”.

Dopo questa tirata mi sentii arrossire, ma non sapevo se a prevalere fosse la rabbia che cominciavo a nutrire verso quel pesce o un poco di vergogna che mi stava facendo salire. “Senta buon pesce, io cerco di fare il meglio che posso”, dissi sentendo che il mio tono era diventato sbrigativo… “Fosse solo quello…” sussurrò adesso il cappone, con la voce più bassa e con un ansimare che lo faceva somigliare a un lugubre rantolo. “Purtroppo lei vede soltanto la punta dell’iceberg, solo che questo non è di ghiaccio ma, come ben saprà, di plastica. Il problema vero sono le microplastiche… 51 miliardi di particelle di microplastiche nei mari… Praticamente, siamo diventati noi l’esca con cui vi state avvelenando”… Il povero pesce tossì sputacchiando un altro pezzetto di alga e poi ebbe un fremito e morì con la bocca aperta…

“Allora, caro signore, cosa le diamo oggi per i suoi bei nipotini? Abbiamo tutto fresco, ma le consiglio questo bel cappone. Guardi, è così fresco con quella boccaccia aperta, sembra che parli!” disse il pescivendolo… “Vuole che glielo metto in un sacchetto di plastica così non cola?”. “No grazie, di plastica ne mangerò già abbastanza stasera… se i miei nipoti me ne lasciano un po’”.

Pavese, scrittore “manierista e datato: è rimasto un paesano”

Ma chi è Talino, il contadino delle Langhe, compagno di cella del meccanico torinese Berto: un furbastro topo di campagna, un finto tonto che abbindola Berto per portarlo in cascina a riparare la trebbiatrice o una bestia assassina? È Berto, il topo di città, a raccontare in Paesi tuoi, scritto nell’estate del 1939 da Cesare Pavese, l’uscita dalle Nuove di Torino e il viaggio nella cascina di Monticello in treno e a piedi. Tra le quattro sorelle di Talino ce n’è una che gli va a sangue. Gisella gli sembra un frutto maturo. Scopre però che è stata “violentata” dal fratello: Gisella gli fece vedere in un incontro clandestino la cicatrice all’inguine “che non era uno spacco come fanno i bambini, erano unghiate alle radici”… Gisella morirà dissanguata, ma il padre Vinverra ordina che si continui a lavorare, come se quell’assassinio fosse messo in conto come un sacrificio.

Nella nuova edizione di Paesi tuoi (Einaudi) figura un ritratto firmato da Asor Rosa e l’introduzione di una giovane scrittrice: Nadia Terranova. Il primo sostiene che Pavese è uno scrittore irrimediabilmente “datato” e ne salva solo il ritmo che è poi quello delle poesie di Lavorare stanca. Salva infine “la ruvida scorza di un intellettuale rimasto paesano”. La Terranova invece scrive che Gisella avrebbe dovuto narrare la storia, non Berto, preso dalle amicizie maschili. “Quella violenza non viene trasformata in rivendicazione militante, ma nella descrizione di un rito tribale e antico”. Nessuno dei due critici però si sofferma sul linguaggio grezzo da traduzione, con rari dialettalismi, sull’anticipo di quel “grado zero della scrittura” di Roland Barthes.

Pavese saccheggia gli autori americani da lui tradotti o amati, da Cain a Faulkner, di cui ricorda certamente lo stupro con la pannocchia, diventando un letterato manierista. Il mito di Pavese, dovuto anche al suo suicidio, è durato fino al 1975, l’anno del massacro di Pier Paolo Pasolini. È il mito di quest’ultimo ad aver cancellato quello di Pavese.

Negli anni Sessanta ero uno studente universitario sceso a Roma dalla mia Marsica che ritrovavo nelle langhe pavesiane. Presentai all’esame con Giacomo Debenedetti una tesina ispirata dall’allora critica statistica. Incuriosito il grande critico sfogliò i fogli con i grafici sulla presenza dell’imperfetto-mito nei romanzi di Pavese. Mi disse che non c’era bisogno di quella fatica per scoprire che l’imperfetto era il tempo pavesiano. E mi domandò secco: “Ma per lei l’arte che cos’è?”. Risposi: “Memoria”. Mi prese il libretto e mi diede la lode. Non sono più riuscito a leggere Pavese quando capii che si trattava di un raffinato manierista dove, almeno in Paesi tuoi ritrovo quadretti verghiani mescolati a paesaggi americani…

Famolo strano: piano in vetta, punk in chiesa, jazz sugli scogli

L’Italia è un palco. Le vette, le valli, il mare, i chiostri. In questa stagione cruciale per reinnamorarsi della musica dal vivo, non mancano gli scenari in cui celebrare il connubio fra turismo slow e proposta artistica. Basta aprire una mappa o compulsare l’agenda di mezza estate, e incamminarsi inseguendo il Suono.

Un primo approdo? Oggi alle 18 a Colli Bassi di Pescasseroli, dove dopo il “preludio” di una marcia di avvicinamento di mezz’ora nel Parco d’Abruzzo, il pubblico potrà apprezzare l’interpretazione, da parte del violoncellista Pasquale Filastò e del suo Logos Trio, delle Cuatro Estaciones Portenas di Astor Piazzolla nel centenario della nascita del maestro del tango. Quello di Filastò (autore di colonne sonore d’eccezione con Nicola Piovani, tra queste La vita è bella e Caro diario), non è un omaggio-calco alla grandezza del compositore di Mar del Plata, bensì l’innesto sulla visione vivaldiana di Piazzolla di suggestioni sottratte alla tirannia del tempo, ma non all’incanto dei luoghi e alla potenza dell’affabulazione. Così, nel concerto-narrante Le metamorfosi, la voce dell’attrice Daniela Piazza evocherà Ovidio, Darwin, Beethoven e le vibrazioni spirituali del Silenzio. Una magia en plein air, con la performance di Filastò e dei suoi che si lega all’inaugurazione di Arteparco, sempre oggi, lì sul Gran Sasso, per itinerari trasformati in mostre a cielo aperto.

L’Italia teatro naturale ed elettivo, che torna a “far rumore” dopo l’angoscia. L’estate 2021 è quella della saldatura strategica di manifestazioni dall’analoga vocazione ambientale. È di fresca costituzione la Rete dei Festival Italiani della Montagna, otto eventi da Nord a Sud, accomunati dall’idea di far concerti in alta quota o in località raggiungibili solo a piedi: così, tra i prati e le malghe del Trentino ecco i Suoni delle Dolomiti, meglio se all’alba o al tramonto (occhio alla vertigine balcanica di Gidon Kremer il 23 agosto, all’incontro fra Gaetano Curreri e il trombettista Paolo Fresu del 1° settembre, o a Daniele Silvestri una settimana più tardi); proseguendo il viaggio si va dalla Musica sulle Apuane (Toscana) a MusicaStelle Outdoor (Valle d’Aosta), a Paesaggi Sonori ancora in Abruzzo, a RisorgiMarche passando per Suoni Controvento in Umbria (fino al 12 settembre), o in Puglia percorrendo tratturi verso masserie, dimore e cattedrali per Suoni dalla Murgia, o infine in Gallura, dove a Berchidda c’è Time in Jazz: un sortilegio a trecento metri d’altezza nell’happening organizzato dal solito Fresu.

Per chi transitasse dalla Val d’Ossola è in corso, fino al 5 settembre, anche Tones on the Stones, rassegna decisiva per gli appassionati della musica d’avanguardia: suoni a parte, gli spettatori resteranno rapiti dalla location, una cava dismessa di roccia metamorfica gneiss, come in un “time lapse” dello scenario alpino tra sedimentazione geologica e vocazione industriale. Per chi invece ama immergere gli occhi nel mare sopra il golfo di Salerno spicca, nel giardino botanico realizzato da Francis Neville Reid, il palco di Villa Rufolo, tradizionale base del Ravello Festival. Qui, la programmazione prosegue sino a fine agosto, tra omaggi orchestrali a Enrico Caruso e Richard Wagner, il songbook di Mina rivisitato da Danilo Rea e quello di Ennio Morricone reinventato da Stefano di Battista. Da non perdere, a Ravello, il pianismo virtuoso di Maurizio Pollini, domenica 8. Mentre gli irriducibili della musica più trasgressiva si daranno appuntamento nel Palermitano, a Castelbuono, dove tra piazza Castello e il Chiostro di San Francesco torna dal 5 all’8 agosto Ypsigrock: nel menu il punk bielorusso dei Molchat Doma, la rivelazione cantautorale di Iosonouncane, la genialità pop di Dardust.

A proposito di nomi da classifica: quest’estate suonano spesso in location da sballo. Pescando nei tour, suggestivo il Ferragosto di Niccolò Fabi al Colonnato dei Domenicani di Linguaglossa; Fabrizio Moro farà tappa al Teatro Antico di Taormina giovedì 5 (il giorno dopo arriverà lì Diodato), e Paolo Conte, noblesse oblige, dispenserà la sua aristocratica smagatezza all’Esedra di Palazzo Tè, a Mantova, il 29 agosto. Allacciatevi le scarpe, andiamo ovunque.

Casa dolce casa: nido o cella?

La casa: croce e delizia dell’ultimo anno e mezzo, rifugio contro il contagio e prigione contro lo slancio vitale, teatro di solitudini e violenze, di sogni e frustrazioni – alzi la mano chi non ha benedetto e maledetto le proprie mura in questi lunghi mesi, chi non ha detestato queste “scatole per organizzare il caos”, chi non ha violato almeno una volta il coprifuoco per raggiungere, nottetempo, almeno una casa diversa dalla tana dell’Io.

Ecco tre quarantenni italiani, grosso modo coetanei tra loro: uno scrittore, un filosofo, un cantautore. Nel corso dei lockdown, tutti e tre, indipendentemente, scelgono di raccontare pezzi della loro vita rievocando, descrivendo, presentificando – da punti di vista diversi ma in fondo convergenti – le case dove hanno vissuto. I libri che ne escono, simultanei tra loro (e con il sospirato, ancorché malfermo, “liberi tutti”), rivelano anzitutto i tratti comuni di una generazione: un sostanziale nomadismo (artistico, accademico, lavorativo), il tipico pattern “storie giovanili/ matrimonio/ paternità/ divorzio”, la tirannia dei mobili di proprietà, l’insoddisfazione per il mondo presente.

Francesco Bianconi, cantante e paroliere dei Baustelle, sceglie la strada più lineare, quella del Bildungsroman di un giovane della profonda provincia toscana (i toponimi sono inventati, ma si riconosce la zona di Montepulciano) che si fa strada nella vita tra Siena, Milano e l’America. Atlante delle case maledette (Rizzoli, con belle illustrazioni di Paolo Bacilieri) è una narrazione a tappe della propria vita in brevi capitoli dedicati ciascuno a una casa diversa. Molto riesce prevedibile: gli impacci adolescenziali nella casa al mare, gli eccessi di gioventù nel castello dello studente, financo le storie serie e i discidia dell’età matura (facilmente salvifico appare, in chiusa, l’appartamento di via Ramazzini a Milano in cui Bianconi incontra la sua attuale compagna); si fatica a ravvisare, pur nel tono disincantato, la corrosiva lucidità di Un romantico a Milano o de Il liberismo ha i giorni contati. Ma il libro vive anche delle parole dei suoi variegati personaggi: dalla giovane Olga, per la quale le case “sono scatole ordinate, modi di organizzare il caos”, al californiano Josh che fa invece l’elogio del non aver radici. Molto netta, nell’ultima pagina, la posizione dell’autore, neofita di una nuova filosofia: “Ogni casa dovrebbe essere progettata per essere invisibile… Non costruiremo più per abitare. Costruiremo per aprire, essere in comunione”.

Un’analoga parenesi profetica anima la Filosofia della casa di Emanuele Coccia (Einaudi), che considera la casa non più come un’entità chiusa a proteggere e rappresentare narcisisticamente il nucleo che la abita, bensì come un “esercizio psichico e materiale di iniziazione reciproca tra le vite”. Forte dei suoi trenta traslochi e dei suoi viaggi planetari, scalfito da un passato doloroso ma vigorosamente ispirato dalla figlia bambina, il pampsichista Coccia è persuaso che in tutti gli esseri (anzi, in tutto il reale) spiri un’unica anima (celebre il suo saggio La vita delle piante), e produce un libretto a metà fra la confessione e la speculazione, denso di formule trascinanti e lapidarie, per quanto viziato da un’inattesa sciatteria espressiva (editor di Einaudi, dove siete?). Trattando del futuro delle città (inabitabili, a differenza delle case), della moda (le case andrebbero cambiate e scambiate come gli abiti), della cucina (intesa come modo di trasformare chimicamente il mondo e noi stessi), dei social media (vere nuove “case digitali” di finzioni a cielo aperto) e financo del Bosco verticale di Boeri, Coccia rileva che se la casa “è un primo e mai definitivo abbozzo di sovrapposizione tra la nostra beatitudine e il mondo”, non ha senso chiudere l’anima entro mura, ma bisogna pensare a un nuovo modo di vita comune, “portare i letti nelle strade”, aprire le abitazioni alle altre specie viventi, e realizzare che ormai la casa è il pianeta intero.

Se Coccia vuole allontanare il senso dell’abitare dalla tirannia dell’Io, nel Libro delle case (Feltrinelli) Andrea Bajani compie il tragitto inverso, raccontando la propria vita in terza persona ed erigendo a soggetto protagonista proprio “Io” (e così poi, pirandellianamente, “Moglie”, “Bambina”, “Poeta”, “Prigioniero”…). L’esercizio, apparentemente artificioso perché gravato da descrizioni minuziose e segmentato in brevi capitoletti che spostano la cronologia tramite continui salti spazio-temporali, dipana via via con grande acume la vicenda personale dello scrittore intersecandola con due eventi gravidi di conseguenze per il tempo in cui ha vissuto: la morte di Pasolini e il delitto Moro. In questa ripida alternanza di piani, tra il pubblico e il privato, tra Roma, Torino e l’Idroscalo, tra il carapace di una tartaruga e il tetto di una clinica oncologica, il romanzo trova un potente equilibrio sincopato che attinge con ostinazione e senza sentimentalismo alla memoria fotografica dei luoghi. Ma la vera casa segreta di Bajani è il ritmo di una prosa attenta e generosa di nascoste clausole endecasillabiche, tra cui piace ricordarne alcune: “Tra gli sbuffi degli autobus notturni”, “il romanesco che si fa burino”, “liturgia ordinaria del degrado”, “il ridicolo esercito dei sani”, “proteggerà la terra e il suo tepore”.

Gli Usa salvano i loro interpreti

Dopo essersi rivolti per mesi all’ambasciata americana di Kabul, spaventati dall’inarrestabile avanzata dei talebani in seguito al ritiro delle truppe di Washington e della Nato, gli interpreti e tutti gli afghani che hanno lavorato con i soldati dell’Alleanza Atlantica iniziano a sperare che gli Stati Uniti terranno fede alla promessa di evacuarli dall’Afghanistan. Il primo gruppo atterrato all’aeroporto internazionale di Washington a bordo di un aereo di linea è costituito da 221 afghani, tra cui 57 bambini e 15 neonati.

La Casa Bianca ieri ha confermato che questo è il primo gruppo di una serie che dovrebbe portare circa 2.500 collaboratori con famiglie a essere ricollocati negli Usa. Gli Stati Uniti stanno inoltre collaborando con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite per trasferire le famiglie anche nei paesi arabi come il Kuwait dove si è recato recentemente il segretario di Stato Anthony Blinken senza ottenere un accordo ufficiale. In quella che la Casa Bianca ha soprannominato Operation Allies Refuge, è probabile che la maggior parte degli interpreti e dei lavoratori afghani, così come le loro famiglie, vengano portati prima nelle basi militari statunitensi all’estero prima di essere reinsediati nel paese o altrove. Sono circa 20 mila coloro che finora sono riusciti a fare richiesta formale per essere trasportati negli Usa nell’ambito del programma di visti speciali per immigrati (Siv) del Dipartimento di Stato ma per ora il disegno di legge americano per il finanziamento della ricollocazione include solo altre 8.000 persone.

Alcune stime tuttavia suggeriscono che il numero totale di potenziali collaboratori sfollati potrebbe raggiungere le 100 mila unità.

Giovedì il Congresso Usa aveva approvato un disegno di legge di finanziamento di emergenza di 2,1 miliardi di dollari che comprende anche l’aiuto umanitario per ‘inevitabile alluvione di profughi in fuga innanzitutto nei Paesi vicini’. Le Nazioni Unite hanno stimato che i rifugiati potrebbero arrivare a 1 milione e mezzo entro la fine dell’anno. L’incertezza regna sovrana anche per i collaboratori afghani che hanno lavorato con il contingente italiano a Herat. Sul loro futuro, Roma non ha ancora preso una decisione definitiva. Il paese che si trova più esposto allo tsunami di profughi è, ancora una volta, la Turchia perché relativamente vicina e perché è una porta verso l’Europa. Ma anche i partiti di opposizione turchi hanno iniziato a fibrillare, non solo il presidente Erdogan che ha siglato nel 2016 un trattato con Bruxelles sui respingimenti dei migranti disatteso dalla Ue. Sono già migliaia gli afghani che hanno oltrepassato il confine con l’Iran e si trovano nella città turca di Van pronti per tentare di raggiungere l’Europa.