L’estate è finita, i Verdi recuperano con la scuola

Le vacanze sono finite. Lunedì riaprono le scuole in due Länder e questo fine settimana è ripartita anche la campagna elettorale. Ieri mattina Annalena Baerbock, candidata alla cancelleria per i Verdi, ha presentato un’integrazione al suo programma.

Tema principale, la scuola: digitalizzazione, lotta alle discriminazioni, ma soprattutto investimenti. Se i banchi con le rotelle sono stati, e sono, uno dei tormentoni italiani, in Germania ci sono i filtri dell’aria. Ogni aula dovrebbe essere dotata di un sistema di ventilazione che permetta di bloccare il virus.

L’investimento richiesto è di oltre un miliardo di euro, i fondi stanziati dal governo federale appena 200 milioni. Alcuni Länder hanno iniziato ad acquistare in autonomia, ma la polemica è servita. Intanto gli studenti torneranno in classe con la mascherina. Il quotidiano Zeit ha interpellato tutti e 16 i ministri dell’educazione dei Länder tedeschi. La preoccupazione è alta. I minori di 12 anni sono la fascia della popolazione più esposta al contagio, per loro non c’è ancora un programma di vaccinazione, se non in Sassonia.

I sondaggi fotografano i conservatori dalla Cdu avanti di quattro/cinque punti rispetto ai Verdi, ma la distanza si riduce. Prima le alluvioni al confine con il Belgio e poi la grande esplosione nello stabilimento chimico di Leverkusen sembrano aver dato un nuovo slancio alla Baerbock. Quando tutto l’ovest del Paese era sconvolto dalle precipitazioni Angela Merkel era negli Stati Uniti. Tutti i candidati erano in vacanza. Il primo ad arrivare nelle zone alluvionate è stato il delfino della cancelliera, Armin Laschet. Non è però riuscito a sfruttare il palcoscenico, anzi. Le immagini che i tedeschi ricorderanno lo ritraggono mentre ride subito dopo aver visitato le zone devastate. La strategia di Laschet è presentarsi come il moderato che non entra in contrasto con nessuno. Senza richieste troppo dure, sempre pronto a mediare. L’idea di continuità con Merkel è palese, ma forse non sufficiente per vincere.

Ieri il settimanale Die Spiegel lo etichettava come il candidato della “vaghezza radicale”. La forza di Laschet è messa in discussione anche dal Makus Söder, governatore della Baviera e leader della Unione Cristiano sociale (Csu). Il bavarese ha partecipato, perdendo, alle primarie dei conservatori. È considerato un uomo di carisma, ma la Csu è la sorella minore della Cdu. Quindi al partito hanno ritenuto automatica la candidatura alla cancelleria per Laschet.

Söder aveva incassato il colpo e si era messo a disposizione, aspettandosi un ministero di peso con il nuovo governo. Negli ultimi giorni qualcosa sembra essere cambiato. Terreno di scontro la gestione della pandemia. La Germania ha raggiunto la soglia del 50% di cittadini immunizzati, mentre 51 milioni di persone (circa 61% della popolazione) hanno ricevuto almeno una dose. Nelle ultime settimane la velocità delle somministrazioni è però calata bruscamente.

Un cittadino su tre non ha intenzione di vaccinarsi prima dell’inverno. Armin Laschet ha detto al quotidiano Bild che i “testati, immunizzati e vaccinati” devono essere liberi di viaggiare e avere una vita sociale senza restrizioni. I governatori dei Länder non sono dello stesso avviso. I cittadini che rimandano il vaccino utilizzano i test quotidiani gratuiti per continuare a posporre la prima dose. Söder ha proposto che i non vaccinati paghino per i loro test: “Se non vuoi vaccinarti non puoi sottrarti alle conseguenze”.

Fino a ieri per entrare nel Paese in auto non ci voleva un test negativo, obbligo che il governo voleva imporre solo dal primo settembre. “È uno scherzo – aveva commentato il governatore bavarese – la vacanze sarebbero già finite”. Il governo ha rivisto le proprie decisioni e oggi per chi arriva in auto ci sono controlli alla frontiera.

“Mia sorella Daphne fu vittima dello Stato. Azzerare tutti i poteri”

Quando raggiungo al telefono Corinne Vella, la sorella di Daphne Caruana Galizia che, con il resto della famiglia, nei 4 anni da quell’autobomba esplosa il 16 ottobre 2017, mai ha smesso di cercare la verità sull’omicidio della giornalista, è ancora recentissima la lettura delle 437 pagine del rapporto dell’inchiesta pubblica su quell’assassinio. “È una conferma del ruolo degli apparati statali nella sua morte. E anche la crudele convalida postuma del lavoro di Daphne. Lo sapevamo, lo abbiamo detto per quattro anni. Ma vederlo nero su bianco… fa gelare il sangue”, ammette al telefono. Alla famiglia ci sono voluti due anni di campagna, il sostegno internazionale, le diffide legali e la competenza di 7 avvocati londinesi solo per ottenere che il governo di Malta nel 2019 cedesse, dopo un primo ostinato rifiuto, a concedere l’inchiesta. Poi altri due anni di lavoro, testimonianze, ammissioni, scavo nel cuore dello Stato maltese.

Uno Stato che, hanno scritto i relatori, i giudici Joseph Said Pullicino, Abigail Lofaro e Michael Mallia, “deve assumersi la responsabilità dell’assassinio, perché ha creato un’atmosfera di impunità generata ai più alti livelli dell’amministrazione, che dall’ufficio del primo ministro ha diramato i suoi tentacoli ad altre entità, come la polizia e gli enti regolatori, portando al collasso del principio stesso di legalità”. Sono parole durissime, senza sconti. È questa la giustizia che la famiglia ha perseguito con tanto dolore e tanta determinazione? “No, non hanno a che fare con la ricerca di giustizia, che spetta ai tribunali. Ma stabiliscono la verità in modo incontrovertibile, e rappresentano un inizio” chiarisce la Vella. L’inizio di cosa? “Di un cambiamento profondo a Malta, che deve essere sistemico. Che quello di Daphne sia il primo e l’ultimo omicidio di un giornalista a Malta. Penso al riferimento alla campagna di de-umanizzazione sponsorizzata dal governo di Joseph Muscat contro Daphne. Una propaganda di discredito violentissima mirata a isolarla, togliendole ogni possibile supporto pubblico, e a mandare un segnale a chiunque altro osasse criticare il governo”. Abusi verbali, diffamazione, intimidazioni legali, pressione finanziaria, isolamento, e il fallimento delle autorità nel proteggerla: tutto in un contesto, come lei denunciava e i relatori hanno confermato, di rapporti clientelari fra vertici politici, amministrazione pubblica e interessi privati mai indagato da polizia e magistratura. Un contesto in cui, per ammissione dello stesso Muscat, Daphne era rimasta l’unica opposizione nel Paese. “L’inchiesta descrive nei dettagli uno Stato infiltrato da un’organizzazione di stampo mafioso, che Daphne denunciava. C’è voluto il suo omicidio per fermarlo”.

Il rapporto accusa direttamente Muscat di aver creato quel clima e non è ambiguo nell’attribuire a tutti i membri del suo esecutivo la responsabilità collettiva di non essere intervenuti. Ma metà di quei politici oggi siedono nel nuovo governo. Può evitare di dimettersi, ricandidarsi a nuove elezioni. Manca qualcosa a quell’indagine? “Lo scopo dell’inchiesta non è mai stato individuare responsabilità criminali o individuare la mente dell’omicidio. Ma ci sono pagine pagine che riconducono alla responsabilità del primo ministro di allora. Noi vogliamo che tutti quelli nominati, e anche i non nominati esplicitamente, riconoscano le proprie responsabilità, e di certo dovrebbero esserci molte dimissioni, ma non saranno le dimissioni a sanare un intero sistema”.

Il rapporto si conclude con delle raccomandazioni, che la famiglia chiede siano implementate. Vanno nella direzione di una profonda riconciliazione bipartisan, come per la richiesta di creare un comitato indipendente che, con la partecipazione attiva di giornalisti, lavori a riforme da sottoporre poi al parlamento. “La responsabilità è dello Stato, e ora lo Stato deve sanare se stesso, individualmente e collettivamente. Devono tornare responsabilità, senso etico, decenza. Malta ha l’occasione per ripartire”. E se non avvenisse? Se l’impegno del presidente George Vella, che ha parlato di “inizio della guarigione”, se le scuse del premier Robert Abuela, accettate dalla famiglia, si rivelassero parole vuote? “Contiamo che ci sia una volontà comune di seguire quelle raccomandazioni. Che da qui inizi un percorso preciso di cambiamento, a cui aderiscano trasversalmente individui, partiti politici, istituzioni, opinione pubblica. O lo Stato riforma profondamente se stesso e i suoi meccanismi interni o falliamo tutti”. È un appello a una presa di coscienza collettiva e individuale. Come ogni progetto ambizioso, può arenarsi.

“Se cosi fosse, c’è la via del ricorso alla Corte europea dei diritti umani, ma non vorremmo dover arrivare a tanto. Non dovrebbe essere ancora responsabilità di una famiglia, della nostra famiglia, combattere perché lo Stato funzioni. E non solo a Malta. In tutta Europa i giornalisti continuano a morire. Lo scopo di questa inchiesta, in fondo, è di creare un modello a cui possano guardare altri Paesi, in cui nessun giornalista debba pagare la ricerca della verità con la vita”.

Bioterroristi, controlli zero

Il mondo è pieno di paradossi. Dopo l’attentato alle Torri gemelle, è cresciuto l’interesse globale per il fenomeno del terrorismo del quale il bioterrorismo è parte integrante. Termine per i più sconosciuto, ha affollato i media soprattutto dopo il caso “antrace” negli Usa, scoppiato il 18 settembre 2001, una settimana esatta dopo gli attentati. I sospetti ricaddero negli anni su diversi e possibili gruppi che avrebbero potuto avere i più disparati moventi per accreditarsi gli attacchi. Nel 2008, il Dr. Ivins, un microbiologo che era stato incriminato come responsabile, si suicidò (sic!), lasciando aperto il caso. Il “caso antrace” fu l’evento scatenante la corsa di tutte le nazioni a costruire laboratori di massima sicurezza, allo scopo di essere in grado di identificare qualsiasi minaccia biologica. Si è assistito a una vera esplosione del numero di laboratori detti BSL3 e BSL4 (biosicurezza livello 3 e livello 4), a seconda del livello di pericolosità dei microrganismi da poter ricercare, nella massima tutela degli operatori e della popolazione. Ambienti molto sofisticati con ogni possibile strumento per prevenire la fuoriuscita di ogni materiale all’esterno, se non adeguatamente incenerito o chimicamente distrutto. Il loro utilizzo deve essere affidato a professionisti addestrati ad hoc e controllati anche dall’Intelligence, poiché potrebbero loro stessi agire da terroristi o divenire mercanti di materiale biologico, utilizzabile come una vera arma. Poiché non esiste un ente sovranazionale con potere di autorizzazione e controllo, queste cattedrali dei microbi sono, di fatto, potenzialmente delle bombe biologiche. Cosa fa l’Organizzazione mondiale della sanità? “Invita” ad attenersi a procedure messe a punto da gruppi di esperti internazionali, “invita” a scambiare progetti di ricerca e risultati. È questo anche uno dei principali obiettivi della Convenzione Internazionale per il Disarmo Biologico entrata in vigore nel marzo 1975, primo trattato multilaterale che vieta la produzione e l’utilizzo dell’intera categoria di armi biologiche. A oggi è stata ratificata da 183 Stati, firmata da 4. Non c’è nessun controllo. La bomba resta innescata.

 

La nuova cura, chi è oggi il medico

Scienza e tecnica sono inarrestabili, ed è inutile cercare in loro moralità e fini. Scienza e tecnica non hanno scopi, richiedono solo di essere ben applicate, ben eseguite: una cosa che si può fare si fa.

Nonostante ciò, l’uomo pone alla scienza e all’abilità tecnica domande alle quali esse non sanno rispondere. Come osservava Umberto Galimberti, spiegare una cosa non vuole dire conoscerla, a meno di non considerare compreso un fenomeno per il solo fatto che la scienza gli ha assegnato un nome. Succede così in campo medico quando associamo dei sintomi a una patologia. Diversamente, l’uomo, per dare senso alla propria esistenza, si deve dare degli scopi. Ebbene, la tecnologia non va rifiutata, ma solo piegata ai nostri fini, e nel nostro caso a quelli della cura: il paziente non può mai essere considerato un mezzo ma, come insegnava Kant, sempre e soltanto un fine, essendo egli irriducibile.

Nella conciliazione fra visione umanistica e scienza contemporanea sta la possibilità, che ci è data, di rileggere gli scopi della medicina in un sistema dinamico e complesso com’è quello della post-modernità, caratterizzato dal cambiamento e dalla continua necessità di adattamento. La malattia non può essere solamente considerata uno stato patologico misurabile e classificabile, nosologicamente oggettivo, ma una condizione ben più complessa e irriducibile, cioè non scomponibile in fenomeni o problemi più elementari. È tale irriducibilità che non permette più di soffermarsi solamente sul disordine biochimico, o sull’anatomia patologica; essa spinge necessariamente a valutare le origini altre, spesso profonde e lontane dalla causa immediata, di cui la malattia non è che il riflesso. Il riflesso della rottura del sano equilibrio armonico fra corpo, mente e anima.

Il ricorso a medicine complementari o non convenzionali non è tanto segno della sfiducia nella medicina e nella classe medica, ma della convinzione oramai generalizzata della multidimensionalità della salute e della cura, che sfugge alla medicina tradizionale. (…) Le scoperte della scienza medica portano a eziologie, specie nelle malattie complesse, così multifattoriali da essere scoraggianti ai fini diagnostici, finendo per sottolineare l’insufficienza del tradizionale approccio biometrico. Dietro questa criticità, o meglio alle sue radici sul piano delle aspettative sociali e motivazionali, c’è una definizione di salute che appare sempre più vecchia e fuorviante. È quella che nel 1948 diede l’Oms, talmente utopistica da alimentare involontariamente aspettative o pretese edonistiche che oggi si fa fatica a contenere.

A ben riflettere, non esiste lo stato di completo e simultaneo benessere fisico, mentale e sociale. Nessun essere umano, secondo tale definizione, può dirsi sano. Dunque siamo tutti e sempre malati? O in procinto di ammalarci, o inevitabilmente predisposti a esserlo? L’avere escluso la morte dal ciclo vitale ci ha ridotti a un circuito vizioso, in cui la nostra mente finisce intrappolata, in cui la sola parola malattia diventa angosciante, in cui la morte, evento naturale della vita, che così come inizia in modo altrettanto naturale finisce, viene irrazionalmente respinta. Non siamo più abituati, prima come figli poi come genitori e poi fino alla vecchiaia, a vedere nella cura per la nostra salute un dovere e una necessità insieme, per noi e per chi ci sta vicino e ci è caro. Il medico, l’ospedale sono un sostegno prezioso, certamente utile, a volte risolutivo e a volte no, ma non dobbiamo aspettarci miracolistici interventi in grado di rigenerarci e farci nuovi.

Salute e malattia sono due presenze, due poli dai confini incerti e che ci accompagnano sempre. Prenderne atto vorrebbe dire, come saggiamente scriveva Rita Levi Montalcini, dare vita ai giorni e non giorni alla vita. Ecco perché l’educazione alla salute diventa essenziale nel nuovo set della cura che stiamo cercando di delineare.

Siamo consapevoli che la promozione della salute è un processo lungo e difficile che ha il passo della storia. (…) Mancano ancora le condizioni essenziali per la salute in molte parti del mondo e in interi continenti, spesso in concomitanza con la negazione dei diritti fondamentali della persona. Nei sempre più vasti agglomerati urbani, che al loro interno riproducono divisioni di classe che ricordano l’Ottocento, la qualità della vita è scadente e gli indicatori di salute pressoché tutti negativi. Nelle società più fortunate ed “evolute”, sono sparite le malattie legate alle infezioni, alla denutrizione, alle condizioni di sfruttamento, ma ne sono insorte altre complesse e croniche, quelle legate alla vecchiaia e a stili di vita e abitudini sbagliate, e che non si è stati capaci di fermare con una precoce, capillare e adeguata azione per la promozione ed educazione alla salute.

Quando si leggono le statistiche sulla incidenza nettamente preponderante delle malattie cosiddette sociali – il cui primo elenco risale al 1961 –, definite dall’Oms una “epidemia invisibile”, ci si rende conto che, escluse le malattie dovute all’età, moltissimo resta ancora da fare. Anziché il massimo potenziale di salute, le persone oggi sviluppano il massimo potenziale per ammalarsi e poco o nulla il sistema sanitario è in grado di fare per contrastare l’insorgere di tali patologie. In parole povere: il paziente, prima ancora di essere tale, è un cittadino, ma di esso poco ci si preoccupa prima che si ammali. L’azione di educazione e prevenzione alla salute è di fatto esclusa dall’ambito medico. Alla medicina non resta che occuparsi al meglio della sua funzione riparatrice. Non sembra oramai maturo il tempo per uscire dal sistema centrato sulla ospedalizzazione come sola soluzione possibile? (…)

Infine, è mancata la capacità di porsi criticamente rispetto all’evoluzione mercantile dei sistemi sanitari: da una parte, si è accettata una medicina di censo, attratta dai sistemi assicurativi privati, che nega l’accesso ai più incapienti e nei fatti il diritto alla salute; dall’altra, i sistemi di sanità pubblica hanno assicurato l’assistenza di base e le cure a milioni di cittadini, ma hanno rinunciato a concorrere alla creazione di ambienti favorevoli alla salute, all’azione promozionale per lo sviluppo del massimo potenziale individuale di salute, ma soprattutto alla necessaria azione politica di mediazione fra i diversi interessi esistenti nella società nel campo della salute, per indirizzarli verso obiettivi in linea con l’evoluzione della società, la diversa concezione della malattia, le diverse aspettative di salute. La conclusione cui si giunge è pertanto la seguente: la medicina ha fatto tanti passi in avanti nella sua funzione riparatoria; pochi (assai pochi, in alcuni casi) nella costruzione di una politica pubblica per la salute.

 

Il voto elettronico: una pacata analisi

È passata un po’ sotto silenzio la notizia che finalmente anche l’Italia – grazie alla solerte iniziativa del governo Draghi, seguita a un emendamento grillino al Bilancio 2020 del governo Conte – s’avvia al voto elettronico, previa apposita sperimentazione. La parola d’ordine, come diceva quel tizio, è una sola, categorica e impegnativa per tutti: digitalizzare e digitalizzeremo! Cosa può andare storto? “In caso di interruzione accidentale del funzionamento del sistema, l’elettore è informato immediatamente in modo chiaro e, non appena possibile, è posto nelle condizioni di riprendere il procedimento di voto elettronico possibilmente dal punto in cui lo stesso è stato interrotto”, ci spiega il decreto Colao-Lamorgese. Possibilmente, certo, sennò pazienza. Per il resto hanno pensato a tutto: “Il voto espresso non deve essere riconducibile all’elettore. A tal fine, il sistema garantisce che le informazioni sui votanti vengano separate da quelle sui voti espressi”. Ah, lo garantisce il sistema, allora siamo a posto, tanto più che “l’infrastruttura centrale per il voto elettronico è gestita esclusivamente da personale autorizzato dal ministero dell’Interno”, cioè non da personale del ministero, ma “autorizzato”, dunque anche esperti di società private. Di cosa ci si preoccupa? È vero, in Australia hanno corretto tre volte il sistema e tre volte hanno trovato un baco, il Senate Intelligence Committee americano ritiene di avere provato che nel 2016 gli hacker (russi) fossero nella posizione di alterare i dati delle elezioni in Illinois, ma non bisogna indulgere al pessimismo: la tecnologia curerà se stessa. Certo, c’è il problema che il voto dovrebbe essere “personale ed eguale, libero e segreto” (così la Costituzione), fattispecie difficili da garantire se uno vota da casa sua o dal bar: “In nessun caso – per la stessa natura dei sistemi informatici – potrà essere assicurata una tutela assoluta alla segretezza esterna o l’esclusione di fenomeni di coercizione o di voto di scambio o, ancora, garantita in toto la verificabilità”, ha scritto la Rivista dell’Associazione dei costituzionalisti italiani. La domanda che ci assilla dunque è questa: ma a parte rendere le elezioni meno sicure, a che cazzo serve ‘sto voto elettronico?

Quel “filo verde” che lega i radicali e i Cinquestelle

 

“Abbiamo bisogno di regole che mettano al centro gli esseri umani, le famiglie e le comunità. Dobbiamo smetterla di confondere i mezzi con i fini, come abbiamo fatto per tanti anni. Abbiamo bisogno di un ‘nuovo umanesimo’”

(dall’intervento di Giuseppe Conte al World Economic Forum – Davos, 23 gennaio 2019)

 

C’è un “filo verde” che, a distanza di tempo e in condizioni diverse, può collegare l’esperienza dei radicali e quella dei Cinquestelle. Ed è fatto di diritti civili, ambientalismo, etica della politica, critica alla partitocrazia, lotta alla fame nel mondo. Lo ricostruisce l’ex leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, in un saggio pubblicato a cinque anni dalla scomparsa di Marco Pannella, intitolato La lezione di Marco (Paesi Edizioni) e presentato a Roma, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, con l’intervento conclusivo della sindaca Virginia Raggi.

Né di destra né di sinistra, focalizzati di volta in volta su singoli temi e battaglie, visionari e pragmatici nelle alleanze, i due gruppi politici hanno in comune soprattutto la passione civile che tende ad anteporre l’interesse della collettività a quello di parte o di partito. Una radicalità, appunto, coniugata con il senso della democrazia diretta e della partecipazione popolare, anche al di là dei rispettivi confini elettorali. E dunque, una storia parallela che – seppure tra luci e ombre – va da Pannella a Beppe Grillo e arriva oggi a Giuseppe Conte, nuovo leader del nuovo M5S.

Se perfino il reggente di “Stampubblica”, con una fulminante intuizione, è arrivato a dire in un intervento su La7 che “la sfida di Conte è completare la trasformazione da forza populista a forza moderata”, significa che il rinnovamento alla guida dei Cinquestelle appare praticabile e credibile. Colpito dalla folgorazione sulla via di Damasco, anche il direttore editoriale del gruppo Gedi s’è convinto che senza un’alleanza fra il Movimento e il Pd non esiste uno schieramento progressista alternativo al centrodestra. A patto, però, che la svolta “moderata” non venga intesa come omologazione al vecchio sistema dei partiti, con tutti i loro vizi e difetti: cioè come degenerazione in quella partitocrazia che ha provocato l’occupazione degli enti e delle aziende pubbliche, dalle Università alle Asl fino alla Rai. E che già Enrico Berlinguer, ai suoi tempi, chiamava “questione morale”.

Tanto più opportuna e necessaria sarà la trasformazione del M5S, sotto la guida dell’ex premier Conte, per aggregare e consolidare uno schieramento in grado di contrapporsi all’avanzata delle destre. Quando un consumato notista di palazzo si spinge a vagheggiare sul giornale della Fiat che, in caso di una crisi del governo Draghi, “al presidente della Repubblica non resterebbe che mettere su un governo elettorale, forse perfino militare (sic!), com’è accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni”, vuol dire che siamo arrivati a un punto limite. Non solo perché si confonde un’emergenza sanitaria con una politica di governo, ma soprattutto perché si evocano incautamente suggestioni autoritarie e sferragli di carri armati. Una prospettiva che non può non allarmare l’Europa, rischiando di compromettere proprio quel Recovery Fund che è stato invocato a pretesto di una controversa riforma della giustizia penale.

Radicalità e democrazia, dunque, sono gli antidoti che il Movimento di Conte può adottare per neutralizzare il virus latente dell’autoritarismo. Questa è la piattaforma – dai diritti civili all’ambientalismo, interpretato come nuovo modello di sviluppo economico e sociale – su cui costruire un’alleanza strategica con il Pd e le altre forze di sinistra. Prima, magari, che il generale Figliuolo o chi per lui entri a Palazzo Chigi a suon di fanfare.

 

Gratteri: “la Cartabia non sa nulla”. E Concita quasi sviene

In effetti era difficile sapere prima – ci mettiamo nei panni dei conduttori del talk In Onda – cosa pensasse della riforma Cartabia il Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, uno che nel video di presentazione dice in maniera molto sfumata: “Uno dei punti della riforma è l’improcedibilità dell’azione penale; la conseguenza sarà una diminuzione del livello di sicurezza della nazione, perché conviene delinquere”. Dall’ambiguità di queste parole è sortita la mattanza di giovedì su La7. Ne trascriviamo i punti salienti perché pare di leggere Gogol’. Gratteri: “I 5Stelle sono riusciti a ottenere che per i reati di mafia non ci sia la ghigliottina” (Concita De Gregorio aveva appena finito di dire che il grande perdente era il M5S). “Ci siamo dimenticati tutti i reati che riguardano la Pubblica amministrazione: peculato, corruzione, concussione, bancarotta”, che per i politici sono specialità olimpiche (Woody Allen: “Perché sta elencando i miei pregi?”). Qui si consuma il primo atto del dramma: in studio aleggia il convincimento che la riforma era già perfetta prima, tuttavia la magnanimità di Draghi e Cartabia ha fatto sì che venissero accolte le modifiche volute da quei rompipalle di Conte e 5Stelle. Gratteri: “Avete pensato alle parti offese? Il treno di Livorno, la funivia, il ponte di Genova: non si farà in tempo a celebrarli”, e fa l’esempio dell’oncologo che visita 60 pazienti su 80 prenotati, e gli altri 20 muoiano pure. Cominciano a brillare i nasi sotto le luci dello studio. A saperlo, che le cose si mettevano in modo così serio! De Gregorio: “Nell’obbligo di fare più presto, perché questo chiede l’Europa, si può decidere di accorciare il tempo… o fai a meno del tempo o fai a meno della giustizia”. Gratteri, esterrefatto: “Come si accorcia il tempo? Forse nessuno vi ha detto che da un anno e mezzo non si fanno concorsi in magistratura”. De Gregorio, semplicemente sconvolta: “Ma lei pensa che questo la ministra Cartabia non lo sappia?”. Poteva finire qui, come in un film dei Coen. Invece Gratteri, candido: “Non lo so. Fino alla settimana scorsa ha fatto il professore universitario”. Se non ci si mette a strillare è perché si è tra gente studiata. Parenzo è sulla strada giusta: “Quindi questa non è una buona riforma?”. Gratteri usa una perifrasi, un’attenuazione: “È la peggiore riforma che abbia mai letto. Sono in magistratura dall’86. Una cosa peggiore di questa non l’ho mai letta”. De Gregorio, nei cieli dell’incredulità: “Peggio della Bonafede?!”. Cioè, la riforma peggiore che viene in mente a una editorialista di Repubblica non sono quelle di Berlusconi – la Castelli, il processo breve, i legittimi impedimenti, le leggi ad personam: è la Bonafede; la quale, essendo la riforma che questa oblitera, Gratteri deve per logica disprezzare meno. Parenzo ci è arrivato: “Aspetta: peggio dei governi Berlusconi?”. De Gregorio: “No vabbè, aspetta un attimo. Procediamo con ordine”, e cerca nei brogliacci una fondamentale dichiarazione di Calenda: “Una grande notizia per la giustizia italiana!”. L’imbarazzo è totale. Annichilente. Gratteri, non convinto con la carta dell’autorevole Calenda, elenca soluzioni per accelerare i processi, ma i conduttori lo dileggiano (“Ah ah, sta scrivendo la nuova riforma della Giustizia!”). Gratteri: “Non vi interessano le alternative a questo sfascio”. Il terzo atto vira in tragedia. Parenzo: “Sfascio! Noi abbiamo un governo tecnico con l’uomo che vorrebbe tutta Europa!”. Gratteri sposa la mozione Travaglio: “Draghi è esperto di finanza, non di sicurezza né di giustizia. Infatti alla Giustizia ha messo la Cartabia”. Strike, praticamente. Indi il phon cartabico di Travaglio, molto stigmatizzato in quanto sessista, viene avvalorato da Gratteri se non altro come termine in absentia: “Non è mai stata in un’aula di tribunale”. Sarà imperseguibile anche il phon contumace? Il brivido che ti dà una riforma che i processi li sega invece di celebrarli, per di più fatta dal Governo dei Giusti, non te la dà niente e nessuno. Nemmeno una riforma di Berlusconi.

 

La giustizia per Draghi? una catena di montaggio

Ammesso che sia consentito – almeno ogni tanto – scherzare non solo coi fanti ma anche coi santi, provo a dire che Mario Draghi e Mara Cartabia rischiano di sembrare una specie di… appropriazione indebita del mito di Creso. Nel senso che a forza di essere incensati e santificati talora anche “a prescindere”, molti possono essere indotti a pensare che ogni loro intervento sia oro, cioè risolutivo, sempre “a prescindere”. Anche quando i risultati siano soltanto ipotetici.

È quel che per certi profili sta succedendo con la riforma della Giustizia. La riforma Draghi-Cartabia è ancora un cantiere aperto e la strada per tradurla in cifra operativa è lunghissima. Al momento, quindi, si possono formulare soltanto valutazioni di massima. Ma per qualche ottimista tutto è già decisamente cambiato e sicuramente in meglio. Tralasciando gli atti di fede, va detto che la Draghi-Cartabia si propone gli stessi obiettivi deflattivi di qualunque altro progetto di riforma: ridurre il carico giudiziario; ridurre il numero dei dibattimenti ampliando l’accesso alle procedure speciali, tipo patteggiamento; ridurre le impugnazioni. Per quanto è dato sapere, a cantiere – ripeto – ancora aperto, il percorso deflattivo non è incisivo come ci si aspetterebbe, ma talora piuttosto cauto e incerto. Al punto che alcune proposte, assai interessanti e innovative, della Commissione di studio istituita ad hoc proprio dalla ministra Cartabia (presidente Giorgio Lattanzi) sono state rifiutate.

In ogni caso, c’è una quantità massiccia di fascicoli che letteralmente soffocano gli uffici giudiziari e che sarebbe utile depenalizzare. Se gli omessi versamenti Iva, ad esempio, fossero trasformati in illeciti amministrativi di competenza dell’Agenzia delle Entrate, lo sgravio del settore penale sarebbe automaticamente importante. Per non parlare di quella sorta di Araba fenice che è ormai diventato – a forza di parlarne senza mai nulla concludere – il divieto di reformatio in peius, per cui se andando in Appello o in Cassazione il condannato non rischia nulla, neppure un euro o un giorno in più, ecco che tutti inesorabilmente ricorrono sempre, sperando che le cose possano “aggiustarsi” col trascorrere del tempo: ma così il sistema si ingolfa allungando i tempi.

I processi alle intenzioni sono di pessimo gusto, ma può affiorare il dubbio che gira e rigira torni di moda la tecnica, a lungo praticata nel nostro Paese, della “inefficienza efficiente”: una giustizia che non funzionando è funzionale alla tutela di certi interessi che il controllo di legalità lo gradiscono come il fumo negli occhi. Comunque sia, c’è la non allegra prospettiva di disperdere le energie disponibili, proprio oggi che il Recovery fund prevede investimenti sui quali prima la riforma Bonafede e ora la riforma Cartabia possono fare affidamento.

Non convincono, poi, le scelte operate in tema di prescrizione con la riforma Cartabia. Bonafede aveva avuto il coraggio e il merito di allineare il nostro Paese agli altri, stabilendo per la prescrizione uno stop definitivo (non più semplici sospensioni) con la sentenza di primo grado. Un robusto argine ai tentativi di allungare il processo all’infinito finché la prescrizione non lo annulli. Questa scelta di buon senso ha scatenato reazioni furibonde incentrate sull’accusa di aver creato un monstrum orrendo relegando i processi in una sorta di limbo senza fine. Ipotesi basata sul presupposto (assurdo) che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessassero del tutto di funzionare! Sia come sia, la riforma Cartabia ha ideato un vero “ibrido”: da un lato conferma il blocco della prescrizione voluto da Bonafede, ma nello stesso tempo lo riapre, stabilendo che se entro un certo termine non arriva la sentenza d’appello e poi di cassazione tutto va in fumo come con la prescrizione, che però – oplà – diventa improcedibilità. Dal (supposto) limbo perpetuo, si passa alla mannaia che tutto cancella, lasciando i colpevoli impuniti e gli innocenti senza riconoscimento di tale status, mentre alle vittime sarà comunicato che è stato… uno scherzo. E ciò per un gran numero di processi: per fortuna non quelli per fatti di mafia e simili, grazie a un aggiustamento in extremis che ha accolto l’allarme (prima ignorato se non irriso) di magistrati come il procuratore nazionale Cafiero de Raho.

In sostanza, un “ibrido” che nasce dalla singolare concezione che i tempi del processo si possano stabilire con regio decreto, come se la giustizia fosse una catena di montaggio per produrre bulloni… Perpetuando per di più la deleteria spinta che da sempre affligge il nostro sistema: tirarla per le lunghe più che si può.

 

Miliardi, mazze da Hockey, pernici e capimafia: una “Love story” anni 70

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rete 4, 16.40: Love Story, film drammatico. Fu uno dei film di maggior successo degli anni 70, ma di Taxi Driver parleremo un’altra volta. Oggi tocca a Love Story, un drammone strappalacrime che riciclò due trame a prova di bomba: Cenerentola (la povera che sposa il principe) e Giulietta e Romeo (l’amore contrastato, di cui si servì pure Sandro Bolchi per I promessi sposi. A quando il musical, Sandro?). Protagonisti: l’atletico rampollo di una famiglia facoltosa, Oliver Barrett IV, studente a Harvard, e una deliziosa studentessa di musica, l’italoamericana Jenny Cavallari, spiritosa, tosta e intelligente. Si incontrano in biblioteca. OLIVER: “Ciao, mi piacciono i tuoi occhiali da secchiona. Sono Oliver Barrett IV, un figlio di papà. Come vedi, sono bello come Ryan O’Neal. Inoltre sono uno dei più rinomati scopatori di Harvard, prepuzio più, prepuzio meno. Posso invitarti a cena?”. JENNY: “Smamma”. OLIVER: “Smamma tu. Questa biblioteca appartiene alla mia famiglia. Inoltre possediamo buona parte dello Stato”. JENNY: “I soldi e il potere della tua famiglia non mi impressionano”. OLIVER: “Perché non ti ho ancora parlato di mio zio: in famiglia, quello ricco e potente è lui. Hai presente Jackie Kennedy? È la sua guardarobiera”. Lei esce, lui la tampina. OLIVER: “E comunque non sono da buttare. Insomma, perché mi respingi?”. JENNY: “Sono impacciata”. OLIVER: “Oh, questo lo so: ho visto i tuoi film precedenti”. JENNY: “Mi mancherai di rispetto?” OLIVER: “Promesso”. In una sequenza di montaggio, li vediamo innamorati: corrono sui prati in primavera, si spulciano a vicenda in estate, si tirano le palle di neve in inverno. La invita a una partita di hockey, e lei lo bacia. OLIVER: “Mi stai baciando!”. JENNY: “Sì. Ho capito che ti amo, nonostante i tuoi miliardi”. Finalmente fanno sesso. JENNY: “Uuh, ce l’hai lungo e duro!”. OLIVER: “No, quella è la mia mazza da hockey. Mi dispiace”. JENNY: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”. OLIVER: “Aspetta di conoscere mio padre”. JENNY: “Il miliardario? Che tipo è?”. OLIVER: “Un nazista”. JENNY: “Be’, nessuno è perfetto”. La porta a casa dai suoi. JENNY: “Che villa gigantesca! È il garage? Ah ah ah!”. OLIVER: “Sì”. L’incontro non finisce bene. PAPÀ: “Questa sciacquetta è di ceto modesto: suo padre non è neanche un capomafia. Se la sposi, ti diseredo. E adesso andiamo a tavola. Le piace la pernice, signorina? La nostra cuoca era la cuoca di Hitler”. I due ragazzi, però, sono talmente innamorati che decidono di sposarsi lo stesso con una cerimonia al risparmio (ostie scadute). JENNY: “Rinuncerò al sogno di andare a studiare arte in Francia con la mia borsa di studio”. OLIVER: “E io troncherò ogni rapporto con la mia famiglia, ma quando mi serviranno i soldi per le tue cure, come un ipocrita li chiederò a quello stronzo di mio padre”. JENNY: “Quali cure?”. OLIVER: “Non so di cosa stai parlando”. I primi tempi fanno la fame. Oliver però si laurea col massimo dei voti e viene assunto da uno studio legale di New York. La vita sembra finalmente sorridere, ma lei non riesce a restare incinta. OLIVER: “Che dicono gli esami clinici?”. DOTTORE: “Ho una buona notizia e una cattiva. A sua moglie restano poche ore di vita”. OLIVER: “È terribile! Sono sconvolto!”. DOTTORE: “E questa era la buona notizia. Mi dispiace”. OLIVER: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace. E la cattiva notizia?”. DOTTORE: “Quella che ha in mano non è la mia mazza da hockey”. Oliver conforta la moglie al capezzale nascondendole pietosamente la verità. OLIVER: “Secondo i dottori vivrai a lungo”. JENNY: “Bene! Mi accendi la tv? Danno Ben Hur”. OLIVER: “Non allargarti”.

 

Mail box

 

 

Sorgi, il semestre bianco e il governo militare

Ieri mattina La Stampa ha affidato a un uomo solitamente pacato, Marcello Sorgi, e alla sua visione ampia delle cose della storia italiana, uno scenario sulla possibilità che ad agosto ci sia una crisi di governo. L’editorialista ipotizza che allo scattare del semestre bianco alcuni partiti, non si dice quali, forti del fatto che Mattarella sarebbe privo del suo potere di sciogliere le Camere, potrebbero fare le bizze mettendo Draghi in difficoltà. Sorgi fa delle ipotesi di cui una impossibile, dice lui: le dimissioni di Draghi il Grande. “Metti che, in un intento suicida, gli stessi responsabili delle dimissioni insistessero per mandare a casa il banchiere, giocandosi la fiducia dell’Europa e i suoi miliardi, al presidente della Repubblica non resterebbe che un governo elettorale, forse perfino militare, come è accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni. A mali estremi, estremi rimedi”. Una speranza ci viene dalla chiosa: “non è detto che ci si arriverà”, bontà sua. Per fortuna tutto pare risolversi in un gioco che, però, a noi non piace. Meglio lasciar stare le divise e non giocare alla guerra. Sarebbe rilassante una battuta del Quirinale e non solo per goderci le imminenti ferie.

Sandra Bonsanti e Stefania Limiti

 

I no-vax paghino le cure in caso di contagio

Gentile direttore, visto che le terapie intensive negli ospedali si stanno riempiendo di pazienti non vaccinati, secondo me, i no vax (senza Green pass), che volontariamente decidono di non farsi vaccinare, dovrebbero essere obbligati per legge a possedere un’assicurazione per coprire i costi che lo Stato italiano dovrà sostenere per le eventuali cure intensive necessarie per salvare la vita di no vax contagiati dal Covid.

Claudio Trevisan

 

Caro Claudio, le cure gratuite sono dovute a tutti. Se proprio dovessi scegliere chi escludere, comincerei dagli evasori fiscali.

M.Trav.

 

Le mascherine, Arcuri e i calcoli sbagliati

Buongiorno a tutti, vorrei farvi notare che i calcoli sul volume di mascherine “ove mai” comprate da Arcuri, sono errati di vari ordini di grandezza. Una scatola da 50 mascherine chirurgiche misura 10x10x20 cm, in un metro cubo ci stanno 500 scatole, quindi 25.000 mascherine. I 427 miliardi di pezzi occupano un volume di 17 milioni di metri cubi, che però impilati diciamo per 4 metri di altezza necessitano di “soli” 4 km quadrati di magazzini. In fondo non è un volume così enorme e, sommando alcuni magazzini militari, potrebbero starci. Mi dispiace che Mieli dica che Travaglio ha sbagliato i conti di 1,6 milioni di milioni di volte. Vi ringrazio anche per il “Libro in Gocce” di un mese fa È grande questo numero? di Andrew Elliott, che mi ha aiutato a gestire questi calcoli.

Enzo Sonci

 

Caro Enzo, il mio calcolo degli spazi era volutamente e scherzosamente simbolico, per fare il verso a quello di Mieli. In ogni caso, un magazzino di 4 km quadrati lo visiterei volentieri.

M. Trav.

 

L’informazione pilotata dai lecchini di “regime”

Gentile redazione, nei giorni scorsi Marco Travaglio ha espresso giudizi pesanti nei confronti del Beato Mario e oggi è stato ignobilmente aggredito dai “leccadraghi” dell’informazione di regime. Si possono condividere o meno i suoi giudizi, ma bisogna dargli atto che è una delle poche voci che rompe questo clima di conformismo e sudditanza insopportabile. Sono certo che gli insulti ricevuti non l’hanno in alcun modo intimidito e che continuerà a esprimere liberamente le sue opinioni e i suoi giudizi nel rispetto della intelligenza dei suoi lettori.

Corrado Mauceri

 

Caro Corrado, ci puoi contare!

M. Trav.

 

L’ex premier tradito dai “Migliori” mediocri

Caro direttore, sono con lei. Questo governo non mi è piaciuto da subito. Da profano di politica penso che davanti a un nemico invisibile e potente che uccide senza l’uso di armi, i politici (invece di allearsi) e la maggioranza dei giornali, ha continuato a sparare alle spalle di Conte. Il governo dei “migliori”, esclusi pochissimi, è formato da mediocri, peggiori dei precedenti. Sono un vostro lettore dal primo numero: le denunce che fate per gli altri non esistono. Continuate così.

Afro Serafini

 

“Schiforma”: purtroppo Davigo resta ignorato

Aspettavo con ansia il parere di Davigo sulla riforma della prescrizione. Il 26 luglio è arrivato, ricco di rifermenti alla giurisprudenza comunitaria, ignorati anche da chi considera negativa la riforma. Sarebbe logico attendersi che le argomentazioni di Davigo, convincano la ministra a ritirare l’emendamento del governo che introduce l’improcedibilità, per evitare ulteriori bocciature dall’Ue. Temo che non abbia alcuna intenzione di ascoltare le sapienti considerazioni di Davigo. Non ci resta ora che affidarci al Parlamento, sperando che le motivazioni di Davigo rappresentino un’ancora di legalità.

Peppino Macchitella