L’altra Lega (dei pro-vax) Zaia e Fedriga in rivolta

Aleggere gli ultimi fatti con gli occhi di chi sta fuori, potrebbe sembrare la solita messinscena del poliziotto buono e del poliziotto cattivo tra la Lega di governo (Giancarlo Giorgetti) e quella scesa in piazza con i no green pass – in prima fila c’erano Borghi, Siri e Bagnai – con il placet di Matteo Salvini. E invece no. Qualcosa di più profondo sta succedendo nella Lega. Qualcosa che in passato non era mai accaduto. Per la prima volta c’è un accenno di dissenso nei confronti del leader. Non ancora una rivolta. È una scintilla. Perché se era stato il segretario della Lega a dire “no” ai vaccini per gli under 40, a definire il pass una “ca… pazzesca” e a dare il suo via libera ai leghisti in piazza, nelle ultime ore i governatori Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Luca Zaia (Veneto) lo hanno sconfessato pubblicamente. Prima Fedriga: “Io non sarei sceso in piazza” ha detto a Repubblica. Ieri Zaia sul Corriere: “Non mi identifico nella linea della manifestazione. E mi rifiuto di pensare che sia quella del partito”.

E visto che era stato Salvini a dire che la piazza “non va attaccata ma capita”, si intuisce che le uscite di Zaia e Fredriga non erano tanto rivolte ai tupamaros leghisti ma al segretario. È “l’asse del nord-est”, come viene chiamato con disprezzo ai piani alti di via Bellerio. Un’unione che si è creata quando i due hanno capito che il leader li stava tagliando fuori dalla linea politica. Zaia e Fedriga si sentono, condividono istanze in Conferenza Stato-Regioni e stanno organizzando le truppe parlamentari. C’è chi dice 15, chi 30, tra deputati e senatori che fanno riferimento a loro. Con una prospettiva: nel 2023 sia Zaia che Fedriga potrebbero aspirare a un ruolo nazionale. A i due si aggiunge il ministro Giorgetti a cui non è piaciuto il benestare di Salvini ai leghisti che in piazza: “Matteo, così non va – gli ha detto – dopo un po’ anche Draghi si stancherà…”. E non è un caso che ieri, sul Foglio, sia uscita una frase, non smentita, attribuita a Giorgetti che ha fatto infuriare il leader: “Non mi ricandido più, non mi riconosco più nel progetto”. I salviniani vorrebbero candidarlo nel 2023 per la Regione Lombardia per “mandarlo via da Roma”. Dall’altra parte, Salvini si sente accerchiato nel suo bunker.

Alla vigilia di ogni Cdm convoca un gabinetto di guerra formato dai suoi fedelissimi tra cui Durigon, Fontana, Borghi, Bagnai e Siri. Sul covid chiede tabelle e dati e in base a quelli imposta la sua narrazione anti-restrizioni. Tant’è che Borghi spiega che lui e Zaia-Fedriga stanno su due fronti opposti: “Sono dall’altra parte della piazza perché governano”. Intanto ieri a Milano Marittima, al Papeete, è iniziata la festa della Lega: servirà al leader per contare le truppe. E tenere a distanza gli avversari interni: Zaia e Giorgetti parleranno lunedì, penultimo giorno dopo gli eventi clou del week-end Quasi a tenerli nascondere.

Il virus ha ricominciato a frenare. Ma il Sud rischia di tornare giallo

L’indice Rt e incidenza ogni 100 mila abitanti in deciso aumento (ben oltre le soglie critiche), pressione sugli ospedali in crescita contenuta, prevalenza ormai pressoché totale della variante Delta. Un quadro, quello dell’ultimo monitoraggio settimanale sull’andamento dell’epidemia Covid-19, con non poche ombre e qualche luce, che il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, così sintetizza: “Il colore dell’Italia si scurisce”. Il riferimento è al peggioramento di alcuni parametri che – qualora non ci fosse a breve un’inversione di tendenza – potrebbero riportare in gialle tre o quattro regioni entro la fine di agosto.

L’indicatore principale, il tasso di occupazione dei posti letto nei reparti di area medica (soglia al 15%) e di terapia intensiva (al 10%) è ancora lontano a livello nazionale (rispettivamente 2,2% e 2,9%), ma in alcune regioni il tasso di crescita è preoccupante. Per quanto riguarda l’occupazione dei posti letto nei reparti ordinari, le situazioni più critiche sono quella della Sicilia (8%) e della Calabria (6,6%); sul versante delle rianimazioni, invece, a registrare il tasso di occupazione più alto (4,7%) è ancora la Sicilia, seguita da Sardegna (4,2%), Lazio (3,7%) e Calabria (3,3%).

Il dato nazionale dell’indice di moltiplicazione del virus, passa dall’1,26 della scorsa settimana all’1,57, dato al di sopra della soglia dell’1,5, considerato dal ministero della Salute il limite oltre il quale, quando “significativamente maggiore”, scatta lo scenario “4”, il livello più alto di allerta per questo indicatore. Oltre la soglia dell’Rt 1,5 troviamo Sardegna (2,44), PA Trento (2,27), Liguria (2,12), Lazio (2,01), Veneto (1,97), Toscana (1,85), Piemonte (1,81), Emilia Romagna (1,72), Umbria (1,66), Lombardia (1,61) e Sicilia (1,55).

Preoccupa anche il balzo in avanti dell’incidenza ogni 100 mila abitanti che, a livello nazionale, passa da 41 a 58 e supera così la sogli critica di 50. Ma ci sono Regioni dove il dato è sensibilmente più alto: Sardegna (136,2), Toscana (94,5), Lazio (87,5,) Umbria (81,6), Veneto (81), Sicilia (80,9), Emilia Romagna (71,5). Alla luce di questi dati si può concludere che Sicilia, Sardegna, Lazio, Calabria e in misura minore Toscana, se le cose non cambiano in fretta, rischiano di andare in giallo entro un paio di settimane. Eventualità che potrebbe influire non poco sul turismo, non tanto su già fosse in quelle regioni in vacanza (è sempre possibile rientrare alla propria residenza) quanto per chi ci si voglia recare (è verosimile che sarà richiesto il green pass per l’ingresso nel territorio).

La buona notizia è che la crescita della curva sembra essere in frenata: “I casi aumentano _ dichiara Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero della Salute, ma meno velocemente delle scorse settimane”. Una situazione comunque ben diversa dall’estate 2020, che fu quasi completamente Covid free, per di più paradossale, visto che l’estate 2021 è in buona percentuale “vaccinata”. Ma è un paradosso apparente, poiché senza vaccini la Delta, la contagiosissima variante responsabile di questa ondata, i danni sarebbero ben peggiori, come dimostra l’aumento contenuto della pressione sugli ospedali. I ricoverati in area medica, 1.194 il 20 luglio, erano ieri 1.812; le terapie intensive 165 e 201: “Sappiamo che la vaccinazione con ciclo completo – ha detto il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro – riduce dell’88% il rischio di infezione e di oltre il 95% l’ospedalizzazione. Ma se i vaccinati contraggono infezioni hanno sintomi lievi, ma il virus si moltiplica e possono trasmetterlo come può un positivo non vaccinato, come ha detto Fauci. Questo lo sappiamo, bisogna mantenere la prudenza. Il primo è più importante antidoto è completare la vaccinazione”.

Il virus, secondo il report Iss, circola soprattutto nella fascia 10-29 anni.

L’età media di chi contrae l’infezione è 27 anni, 49 quella dei ricoverati in ospedale, 63 quella dei ricoverati in terapia intensiva: “Oggi è difficile fare previsoni – ancora Brusaferro – ma con gli ulteriori dati sull’Rt della prossima settimana potremmo avere un quadro più definito”.

Big oil: il trattato ingabbia-Stati, L’Italia può perdere 275 milioni

I primi milioni potrebbero essere sborsati fra poche ore, quando il lodo sull’arbitrato tra lo Stato italiano e Rockhopper verrà depositato. Se gli arbitri dell’Isds (Investor-state dispute settlement) dovessero dare ragione alla compagnia inglese, l’Italia si ritroverebbe con in cassa fino a 275 milioni di dollari in meno. A tanto ammonta infatti la richiesta avanzata dalla multinazionale di Salisbury, che chiede i danni allo Stato per aver cambiato le regole sulle trivellazioni.

Rockhopper aveva ottenuto nel 2014 il permesso di estrarre gas e petrolio in Abruzzo, nella concessione Ombrina Mare, di fronte alla Costa dei Trabocchi, investendovi 29 milioni di dollari. Meno di due anni dopo, con la legge di Stabilità del 2016, il Parlamento ha deciso di vietare qualsiasi nuova trivellazione entro 12 miglia dalle coste, e Ombrina rientra proprio in questo limite. Da qui nasce la diatriba tra la multinazionale e Roma: la punta di un iceberg, quello degli arbitrati fra compagnie petrolifere e Stati di mezzo mondo. Una tendenza che rischia di aumentare a dismisura: “Alla luce del nuovo pacchetto climatico della Ue e, in generale, delle possibili nuove limitazioni alle emissioni e ai progetti di estrazione, potrebbero esserci dei notevoli incrementi di ricorso agli arbitrati Isds”, dice al Fatto Antonello Martinez, presidente dell’Associazione Italiana Avvocati d’Impresa.

L’Isds è uno strumento ideato alla fine degli anni 50 dal banchiere tedesco Hermann Abs e da Hartley Shawcross, politico inglese e consulente di Shell. L’obiettivo dell’epoca era di proteggere le compagnie private da eventuali nazionalizzazioni imposte dai tanti nuovi Stati indipendenti che stavano nascendo. Oggi, invece, gli arbitrati sono sempre più attraenti per le compagnie che vogliono proteggere i loro asset da quegli Stati che stanno cambiando le regole sull’uso dei combustibili fossili. “Il meccanismo Isds prevede che solo le società straniere, e non quelle locali, possano citare in giudizio gli Stati e soprattutto, a parte i tempi estremamente contenuti rispetto ai giudizi ordinari, per tali azioni non è prevista la possibilità di appello, si ha quindi un esito derivante interamente dal giudizio degli arbitri, scelti anche dal ricorrente”, spiega l’avvocato Martinez.

L’Isds si applica ai Paesi che hanno firmato l’Energy Charter Treaty, trattato che dal 1998 disciplina lo sfruttamento delle risorse energetiche. I 53 Stati aderenti possono essere chiamati in causa dalle compagnie, se queste ultime credono di essere state danneggiate da divieti imposti per legge. Rientra in questa categoria l’arbitrato intrapreso da Rwe. La multinazionale tedesca chiede infatti un risarcimento da 1,4 miliardi di euro al governo dei Paesi Bassi. Motivo? Aver deciso di chiudere gradualmente tutti gli impianti a carbone del Paese. Su questo principio si basa anche il caso della Rockhopper contro l’Italia che, sebbene dal 2016 non aderisca più all’Energy Charter Treaty, potrebbe essere costretta a pagare sulla base di una clausola che impone agli ex firmatari di essere soggetti al trattato fino a 20 anni dopo il ritiro. “Abbiamo buone prospettive di ottenere un risarcimento molto significativo a seguito delle violazioni dell’Energy Charter Treaty da parte della Repubblica Italiana”, dice al Fatto un portavoce di Rockhopper, senza voler entrare nel merito delle cifre.

Il 14 luglio la Commissione europea ha annunciato una serie di proposte che dovrebbero portare entro il 2030 a una riduzione delle emissioni nette di gas serra di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990. Il cosiddetto Green Deal europeo prevede, ad esempio, che a partire dal 2035 tutte le auto immatricolate debbano essere a emissioni zero. Un cambio di rotta fastidioso per i produttori di vetture, che dovranno spendere soldi per rivedere le proprie linee di produzione. Discorso simile per chi ha una licenza per estrarre idrocarburi e nei prossimi anni potrebbe vedersela ritirare. Ci sarà un aumento degli arbitrati internazionali? “Un aumento è possibile, ma è una previsione che deve comunque tenere conto dei costi elevati che ogni arbitrato comporta e, quindi, non tutte le compagnie potranno permetterselo”, dice chiedendo di rimanere anonimo un avvocato dello Stato impegnato in alcuni dei più importanti arbitrati internazionali in cui è coinvolto il governo di Roma.

Secondo una ricerca del gruppo di giornalisti Investigate Europe, l’Isds copre beni che a livello europeo valgono 344,6 miliardi di euro. Gli asset italiani valgono 20,6 miliardi. La cifra comprende gasdotti e oleodotti (5,4 miliardi), centrali a metano (8,9 miliardi), impianti per la liquefazione del gas e centrali a carbone (0,7 miliardi), ma anche le infrastrutture che servono per estrarre petrolio e gas. Le cosiddette trivelle valgono infatti 5,6 miliardi di euro. Sono loro quelle che rischiano maggiormente di restare inutilizzate nei prossimi anni, se davvero il governo Draghi dovesse realizzare la transizione energetica.

“Gli esperti protestano? Fa nulla”

Èil 29 luglio, poco dopo le 20, il momento in cui si scopre che il premier tecnico per eccellenza, il banchiere prestato alla politica, non ha una grande opinione degli esperti: tutto sommato Mario Draghi li considera superflui, se non dannosi.

Per capire, va descritta la scena, che si svolge in quel frammento di arena del Colosseo agibile da un decennio, giovedì sera allestita come una sala di riunioni diplomatica, dove si è appena conclusa la cerimonia inaugurale del G20 Cultura. L’evento, tenutosi in un luogo di certo non deputato di norma a riunioni internazionali, è stato anche l’occasione per il ministro Dario Franceschini di dar lustro e legittimità al suo progetto più ambizioso, la ricostruzione completa dell’arena del Colosseo, voluto nel 2014, dal costo di almeno 18,5 milioni, che servirà a trasformare il monumento e museo anche in spazio per spettacoli.

Un progetto che, dati i costi, il luogo e la radicale innovatività (da capire se deteriore o migliorativa) rispetto alla storia recente e non solo del monumento ha ricevuto diverse critiche, per i motivi più vari. C’è chi lo ha contestato per motivi filologici, dato che mai l’arena ha avuto l’aspetto che avrebbe al completamento del progetto: quando, prima degli scavi ottocenteschi e novecenteschi, i sotterranei erano completamente interrati, nell’arena si trovavano una serie di edicole facenti parti della via crucis e il monumento non era luogo di spettacoli. Mai l’arena è stata un luogo da riempire col pubblico, che solo in età antica trovava spazio negli spalti.

Altre critiche, come quelle dell’ex direttrice Rossella Rea, hanno riguardato l’inopportunità di investire una somma tanto ingente in un progetto nuovo mentre mancano soldi per la manutenzione ordinaria, lì e altrove. Altri, come Sergio Rinaldi Tufi, hanno criticato il fatto che si andrebbero a coprire i sotterranei, unici nel mondo romano, privando il pubblico di una occasione di conoscenza: oggi, con circa un sesto dell’arena ricostruita, il pubblico può apprezzare entrambe le situazioni. Tomaso Montanari, poi, su queste pagine, ha sottolineato il fatto che l’intera operazione serve soltanto a creare l’ennesimo spazio per spettacoli e sbigliettamento: c’è da chiedersi a favore di chi, in un monumento dove i servizi di biglietteria sono gestiti in deroga dalla stessa azienda da vent’anni, data l’incapacità dello Stato di scrivere un nuovo bando.

All’inaugurazione non c’è spazio per nessuna di queste critiche. Anche il materiale distribuito dal ministero della Cultura esalta il progetto ignorando ogni dubbio espresso. Eppure Franceschini deve aver ben piantate in testa tali contestazioni, perché appunto alle 20, dopo la foto di gruppo, prende in disparte Mario Draghi per un dialogo con audio appena udibile nel video ministeriale, eppure dal contenuto sorprendente.

Il ministro sta spiegando al premier la situazione dell’arena: “E quindi abbiamo iniziato, deciso…” dice “dovremmo finire forse prima delle elezioni del 2023 – da notare quindi che il ministro esclude categoricamente elezioni anticipate – tutto il completamento dell’arena” e poi continua “ci sono state contestazioni degli archeologi, e invece… è una cosa bellissima, tu cosa ne dici?”. In realtà non sono stati solo archeologi a contestare, ma diversi tecnici per i motivi più disparati, come detto.

A nessuno di questi il ministro ha risposto nel merito. È la replica di Mario Draghi, però, a lanciare interdetti. Il premier non chiede di approfondire ed è categorico nello smontare le contestazioni: “Guarda, io ho imparato – dice ridendo – che se uno ascolta troppo gli esperti, non fa niente”. Internet non perdona. Nonostante si tratti di un frammento di dialogo di pochi secondi in un video di più di due ore, viene segnalato alla community di professionisti del settore Mi Riconosci, che ieri lo ha rilanciato sui social.

Da lì il video continua a rimbalzare, raccogliendo commenti stupefatti: possibile che il premier che più di ogni altro è stato nominato tale in quanto “esperto”, possa usare parole tanto sprezzanti nei confronti delle “contestazioni degli esperti”, a prescindere da come e perché vengano espresse? Vale forse solo per gli “esperti” del settore culturale, utili solo come scenografia silenziosa, o vale per tutti gli “esperti” che non siano funzionali a sostenere la linea governativa, dalle arene antiche forzosamente ricostruite fino alle riforme economiche e sociali? Che poi se gli esperti non servono o sono persino un impedimento, perché il governo ne ha nominati a decine?

Palazzo di Giustizia, una poltrona per 4

Il bando del Csm per dirigere la Procura di Milano, che fu guidata da Francesco Saverio Borrelli, si è chiuso ieri e i candidati si conosceranno oggi. Ma al Fatto risulta che sicuramente concorreranno almeno quattro toghe di punta: Giovanni Melillo, procuratore di Napoli, che già ci aveva provato una volta, quando poi gli è stato preferito Francesco Greco, in pensione a novembre; Nicola Gratteri, procuratore antimafia di Catanzaro; Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, rientrato nella corsa anche per Roma; Maurizio Romanelli, storico pm di Milano, oggi procuratore aggiunto, a capo del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione; forse anche il procuratore di Bologna Giuseppe Amato. Dunque il Csm, a settembre, avrà una ripresa dei lavori in salita, dovendo affrontare la nomina del capo della Procura di Milano lacerata da uno scontro senza precedenti, finito con indagini penali e disciplinari in corso (leggi articolo sopra).

In questo clima si inseriscono la lettera di solidarietà a Paolo Storari di quasi tutti i pm milanesi; la lettera di risposta di Greco ai pm, che rivendica la sua correttezza e parla di “slealtà” del collega, la pre-istruttoria della Prima commissione del Csm, che valuta se ci siano eventuali incompatibilità ambientali non colpose. Un quadro che fa apparire inevitabile “il Papa straniero” a Milano. Ma la Quinta commissione, competente per le proposte delle nomine, attualmente presieduta da Giuseppe Marra, togato di AeI, dovrà sciogliere anche il nodo Roma, la “nomina delle nomine”, quella dello scandalo Palamara. È un tormento senza fine. Anzi un ricorso senza fine. Michele Prestipino ha perso, di nuovo, davanti al Consiglio di Stato, che ha respinto la sua richiesta di sospensiva cautelare della sentenza della stessa “Cassazione” dei giudici amministrativi che l’11 maggio scorso aveva annullato la sua nomina a procuratore della Capitale, dando ragione al Pg di Firenze, Marcello Viola, che aveva vinto pure in primo grado, al Tar del Lazio. Prestipino tiene talmente tanto al posto di procuratore di Roma, che nelle settimane scorse ha presentato al Consiglio di Stato una richiesta, rara, cosiddetta di “revocazione” della sentenza di annullamento della sua nomina, cioè ha chiesto al Cds, di rimangiarsi quanto deciso. Nel frattempo, aveva chiesto, in attesa della pronuncia di merito, la sospensione dell’annullamento della sua nomina. Gli è andata male, i giudici hanno dato ragione ancora una volta a Viola. Prestipino ha pure presentato un ricorso in Cassazione che si discuterà a novembre. “Per effetto della pronuncia del Consiglio di Stato, hanno detto i legali di Viola, Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, il Csm dovrà provvedere a una rapida riattivazione” della pratica su Roma, altrimenti “il dottor Viola potrebbe proporre ricorso per ottemperanza”, cioè fuori Prestipino da piazzale Clodio, dentro Viola.

Ma il Csm vuole muoversi dopo che sarà nota la decisione di un altro ricorso al Consiglio di Stato contro la nomina di Prestipino, quella del procuratore di Palermo Franco Lo Voi, che è in corsa pure per la procura generale di Palermo, una candidatura, che Viola ha ritirato.

“Loggia Ungheria”, indagato pure il capo dei pm milanesi

Brescia

La linea Maginot, per la credibilità della magistratura italiana, passa dalla Procura di Brescia alla Sezione disciplinare del Csm. Fronte caldo, come dimostra la giornata di ieri: mentre il Csm è in udienza, a porte chiuse, per valutare il trasferimento di Paolo Storari, il pm che accusa il suo capo, Francesco Greco, di aver rallentato l’inchiesta sulla presunta “loggia Ungheria” rivelata da Amara, le agenzie scrivono che Greco, a sua volta, è indagato a Brescia, con l’accusa di omissione in atti d’ufficio, proprio sulla base delle denunce di Storari. Un atto dovuto, l’iscrizione di Greco a Brescia, con l’aggiunta di alcune prime indiscrezioni: la sua posizione potrebbe presto essere archiviata. Greco è stato sentito dal procuratore di Brescia, Francesco Prete, così come Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto istruttorio in concorso con Paolo Storari. Il motivo è noto: nell’aprile 2020, Storari sostiene di aver consegnato a Davigo una pen drive, con una copia in formato Word e non firmata, di alcuni verbali d’interrogatorio resi da Amara, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, affinché lo tutelasse al Csm dalla presunta inerzia investigativa in cui si sentiva confinato dai suoi capi. In sostanza, sostiene Storari, lui avrebbe chiesto ripetutamente di procedere con le iscrizioni nel registro degli indagati, ma senza alcun successo, per alcuni mesi, a partire da dicembre 2019.

Così due simboli di Mani Pulite come Davigo e Greco, si trovano oggi indagati e persino su fronti contrapposti: il primo avrebbe cercato di tutelare Storari che voleva indagare, mentre il secondo si trova affibbiata l’etichetta di insabbiatore. A sua volta Storari rischia un trasferimento di sede e di funzione perché la procura generale della Cassazione lo accusa di tre violazioni. La consegna “irrituale” dei verbali a Davigo e la “scorrettezza” verso Greco e la procuratrice aggiunta Laura Pedio sia per averli accusati di inerzia nelle indagini, pur essendo a conoscenza delle attività in corso, sia per aver omesso con i suoi capi il dissenso per la mancata inscrizione di Amara nel registro degli indagati. Infine. la mancata astensione dall’inchiesta sulla fuga di notizie degli stessi verbali (giunti prima alle redazione di Fatto e Repubblica, quindi al consigliere del Csm Nino Di Matteo, ndr). A questo proposito va aggiunto un dettaglio: l’inchiesta sulla fuga di notizie nasce il 29 ottobre 2020 quando il Fatto riceve un plico anonimo con i verbali di Amara non firmati e, temendo una “polpetta avvelenata” denuncia a Milano depositandoli in procura proprio a Storari e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio. Stessa cosa il 9 novembre 2020 con il secondo plico di verbali anonimi. Con essi ai pm viene consegnata anche una lettera anonima nella quale si leggeva che, delle vicende sulla fantomatica “loggia Ungheria”, “Salvi (Giovanni, procuratore generale della Cassazione, ndr) è al corrente ma non vuole fare nulla”. E ancora: “è al corrente anche Erbani (Stefano, consigliere giuridico di Mattarella, ndr)…” aggiungendo che c’erano “molti altri al corrente, soprattutto alcuni di Area”, specificando che i verbali provenivano dalla procura di Milano.

A spedire i verbali nelle redazioni, secondo l’accusa, è stata l’ex segretaria di Davigo (per quanto ci risulta a sua insaputa), Marcella Contrafatto. Lo stesso Davigo ha dichiarato di aver avvertito Salvi e, attraverso il vicepresidente del Csm David Ermini, anche il Quirinale, nonché altri consiglieri, tra i quali Giuseppe Cascini di Area. Un elenco coincidente con quello stilato dall’anonimo, ed è verosimile che Contrafatto fosse al corrente delle interlocuzioni in questione. Ma il punto è un altro: Storari ha collegato queste parole, che rivelavano una chiara interlocuzione all’interno del Csm, con i verbali da lui consegnati a Davigo e quelli che il Fatto gli aveva riportato in Procura? E se ha realizzato questo collegamento, come mai non s’è astenuto, non ha raccontato ai suoi capi di aver consegnato delle copie di verbali non firmati a Davigo, e ha continuato a indagare sulla fuga di notizie? L’udienza disciplinare per Storari proseguirà il 3 agosto.

“Sventati molti danni, ma le norme restano rabberciate e assurde”

Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, il 15 luglio in un’intervista al Fatto lei fu molto critico verso la riforma Cartabia. Le ultime modifiche le hanno fatto cambiare idea?

Hanno attenuato delle criticità e reso meno indigeribili alcuni aspetti. Ma resta una riforma rabberciata. E continuo a non condividere i punti della prescrizione processuale.

Prescrizione che la riforma Bonafede aveva di fatto abrogato.

Ora è previsto un tempo per le impugnazioni in Appello e in Cassazione (pena improcedibilità, ndr) ristretto e uguale per tutti i reati. Un tempo stabilito in astratto, senza fare una verifica organizzativa degli uffici. Un tempo – 2 anni in Appello, 1 in Cassazione – non sostenibile. Gli emendamenti di giovedì hanno ampliato questi termini base fino al 31 dicembre 2024, assicurando un monitoraggio sul funzionamento della riforma. Mi auguro sia effettivo.

Altrimenti?

Se non verranno risolte le criticità di fondo, il legislatore dovrà rimettere mano alla legge, perché di certo non possiamo mandare in fumo i processi.

Quali sono le criticità?

Il tempo decorre, più o meno, dalla scadenza dei termini per l’impugnazione. I tempi morti dei passaggi da un grado di giudizio all’altro, dovuti alla carenza di personale delle cancellerie, si scaricano sul tempo del processo. Non è ragionevole. Il tempo deve decorrere da quando il giudice ha il fascicolo sulla scrivania.

I tempi per i reati di mafia e terrorismo e altri reati gravi sono stati allungati.

Non lo metto in dubbio, ma altra criticità, quando il legislatore procede per elenchi di reati, c’è sempre il rischio di dimenticarne qualcuno. C’è la violenza sessuale, sì. Ma lo stalking? E le morti sul lavoro non destano allarme? Sarebbe stato meglio lasciare ai giudici valutare caso per caso la necessità delle proroghe a seconda della concreta complessità della vicenda.

Almeno i processi per i reati più gravi si riusciranno a completare o si continua a rischiare l’impunità?

La riforma ha messo in sicurezza una lunga categoria di reati di mafia e terrorismo. Ma il meccanismo delle proroghe, alle quali gli imputati possono fare ricorso, finirà per aumentare le impugnazioni. Una buona riforma avrebbe dovuto ridurle, senza toccare le garanzie delle parti.

Lei segnala numerosi limiti: da cosa dipendono?

Dalla scelta di fondo di agganciarsi alla riforma Bonafede che bloccava la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. È giusto prevedere poi un tempo per i processi. Ma la sanzione così radicale dell’improcedibilità dopo uno o due anni mi pare eccessiva, radicale e astratta perché non tiene conto dei limiti di organico. Il ministero promette assunzioni, ma la riforma entra in vigore subito e gli uffici dovranno fronteggiarla con le attuali forze in campo.

Non era meglio procedere con una riforma ex novo anziché riscrivere la Bonafede?

C’erano cose interessanti nella bozza della commissione Lattanzi. Ad esempio, si proponeva l’introduzione di un filtro per l’ammissibilità delle impugnazioni in Appello. La proposta non è stata recepita e si lasciano in grande sofferenza le Corti d’appello. Non ha senso oggi indagarne le cause, che vanno rimosse, ma bisognava tenerne conto prima di calare questa riforma che al momento non è sostenibile dagli uffici.

Resta al Parlamento il compito di dettare le priorità dell’azione penale. Che ne pensa?

I procuratori detteranno priorità specifiche mentre il Parlamento, con una legge, fisserà criteri generici. Sarà una legge periodica? Così dovrebbe essere, dovendosi misurare con gli andamenti dei fenomeni criminali. Ma non potrà tenere conto delle specificità: ciò che è di maggiore emergenza al Sud potrebbe essere diverso rispetto al Nord. Mi chiedo quale sia il senso di questo intervento.

Non solo improcedibili: tutti i guai per i processi

È la riforma di tutti e di nessuno. Un groviglio di emendamenti, tanti, che hanno l’obiettivo di modificare quella del predecessore Bonafede. Ieri, dopo la fine della trattativa, più di un partito ha gridato alla vittoria. Ma dopo le infinite riunioni tra leader e ministri, dopo un parere negativo del Csm (interpellato in extremis dalla Guardasigilli) che ha bocciato quella riforma e dopo le critiche arrivate da più parti (compresi illustri magistrati), cosa è rimasto del testo originario della riforma Cartabia? Cosa cambierà nel testo che verrà votato da domani in Aula? Abbiamo studiato la bozza iniziale della riforma e alcuni degli emendamenti approvati ieri in Commissione Giustizia. Ecco, al netto di ultimi possibili cambi, come potrebbe mutare il processo penale.

Improcedibilità. È questo il terreno sul quale più si sono battuti i 5 Stelle e l’ex premier Giuseppe Conte. Nel primo testo della riforma si prevedeva l’improcedibilità dell’azione penale per tutti quei processi che duravano oltre due anni in appello e uno in Cassazione. Erano previste delle proroghe per quei processi particolarmente complessi o con molti imputati: un anno in Appello e sei mesi in Cassazione. Secondo il primo testo della riforma, queste disposizioni non dovevano applicarsi “nei procedimenti per i delitti puniti con l’ergastolo”. Sono disposizioni che, una volta note, sono state fortemente criticate da molti magistrati. Il punto è che tanti processi di mafia riguardano fatti gravissimi che non sono punibili con l’ergastolo. Inoltre, diversi presidenti delle corti d’Appello hanno spiegato come due anni siano un tempo davvero troppo esiguo per il carico di lavoro dei loro distretti. Alla fine due giorni fa, dopo otto ore di trattative, si è arrivati a un accordo. E cosa prevede il nuovo testo? Che per alcuni reati possono “essere disposte ulteriori proroghe”, ossia per i processi di terrorismo e associazioni eversive, associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso, violenza sessuale e traffico di droga. Esclusi al fotofinish i reati contro la Pubblica amministrazione: per i colletti bianchi impunità dietro l’angolo. Ci sono poi i reati con aggravante mafiosa, ossia quelli commessi con lo scopo di favorire un’organizzazione mafiosa. In questo caso, stando all’accordo trovato, i processi potranno durare fino a sei anni in Appello e tre in Cassazione. Ma fino al 2024: poi si passerà al regime di cinque anni in appello e massimo due in Cassazione. Il nuovo testo prevede anche che contro le proroghe l’imputato può fare ricorso in Cassazione. Non è difficile immaginare come si intaseranno di richieste proroghe gli uffici della Suprema Corte.

donne. Oggi il giudice può assolvere un imputato che ritenga abbia commesso un reato tenue, per delitti che prevedono una pena massima fino a 5 anni. Nel testo originale della riforma i confini venivano allargati: sarà “tenue” il reato con pena minima fino a 2 anni. Tra questi, rientrano molti reati contro le donne, come il revenge porn e la costrizione al matrimonio, ma anche la truffa, reati contro la pubblica amministrazione. Nei giorni scorsi alcune associazioni hanno sollevato parecchie perplessità. Alla fine però questo emendamento, secondo quanto risulta, resterà invariato. Come pure quello che prevede la possibilità per gli imputati per reati come prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale e così via di accedere all’istituto giuridico del concordato in Appello (l’accordo tra pm e imputato). Cosa finora esclusa dal codice di procedura penale. Quando il Fatto ne scrisse, la Commissione al Senato contro i femminicidi parlò di violazione della Convenzione di Istanbul. Cosa è successo dopo le trattative di due giorni fa? Nulla. Il concordato in appello e la questione della tenuità dei reati sarebbe rimasta com’è. Ma in commissione giustizia sono stati approvati alcuni emendamenti. Come quello del deputato M5S, Vittorio Ferraresi: prevede l’esclusione della punibilità per particolare tenuità di quei reati che “implicano violenza, fisica o psichica, contro le donne o violenza domestica, oggetto della Convenzione” di Istanbul. E ancora: è stato votato in commissione anche l’emendamento proposto dalla deputata Lucia Annibali (Italia Viva) che rende obbligatorio l’arresto in flagranza “in caso di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”.

Il parlamento è sovrano. Il testo originario della riforma Cartabia prevede anche una norma che affidi agli indirizzi del Parlamento la priorità dei reati da perseguire. Nel nuovo testo che arriverà domani in aula questa norma dovrebbe rimanere così com’era. Come pure non sembra esserci stato nessun passo indietro rispetto alla possibilità di far saltare la “priorità assoluta per i processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo”: era la “Norma Viareggio”, pensata dal ministro Bonafede per far celebrare più celermente possibile processi come quelli per la strage di Viareggio, il disastro ferroviario del 2009 in cui morirono 32 persone. E ancora. Rispetto al testo iniziale della riforma non sarebbe cambiato neanche l’emendamento che riguarda la questione delle sentenze di proscioglimento per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa che non potranno essere appellate dal pubblico ministero. Bonafede aveva previsto un elenco di reati per cui l’appello si potesse invece fare: per lesioni colpose gravi e gravissime, lesioni commesse violando le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario e così via. Tutto cancellato. Come pure la “messa in prova”: oggi il giudice può decidere di sospendere il processo con la “messa in prova” dell’imputato per reati con pena massima di 4 anni. La riforma alza questa soglia a 6 anni.

Diritto all’oblio. Qualche altra novità rispetto al testo iniziale della riforma però ci sarebbe. In Commissione Giustizia hanno dato parere favorevole all’emendamento Costa: prevede in sostanza che dopo un’archiviazione, una sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione vi sia “un provvedimento di deindicizzazione” che “garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio”.

Vittime in rivolta: “I nostri processi vanno in fumo, senza giustizia”

La protesta a Montecitorio delle vittime dei disastri colposi e dei reati a rischio incenerimento dalla riforma Cartabia ha il volto di Mario Sanna, presidente della Associazione “Il Sorriso di Filippo”, nata per ricordare il figlio Filippo Sanna, vittima del sisma di Amatrice. Mario Sanna ha ripetuto in piazza le parole pronunciate dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che ha definito in una intervista tivù, la riforma Cartabia “la peggiore di sempre”. Davanti alla Camera dei deputati, sit-in con striscioni come “Viareggio. A 6 mesi dalla sentenza vergogna: motivazioni ancora latitanti”, e “Viareggio 29 giugno 2009. Nulla sarà più come prima”. Esposti da parenti e amici delle vittime “causate da attività economiche finalizzate esclusivamente al profitto”, come spiegato in una nota. “Vogliamo lanciare una campagna di informazione unita per il riconoscimento dei diritti delle vittime e dei sopravvissuti”, si è ribadito durante l’iniziativa. Annunciando una manifestazione pubblica a Roma il prossimo 9 ottobre, in concomitanza con la Giornata nazionale in memoria delle Vittime di disastri ambientali e industriali.

Al sit-in ha partecipato il vicecapogruppo del M5S al Senato, Gianluca Ferrara: “Sostenere i familiari delle vittime dei disastri colposi è un dovere da parte di tutta la politica. La loro sofferenza va ascoltata e vanno date delle risposte”. Secondo Gloria Puccetti, presidente di ‘Noi non dimentichiamo’, “con questa riforma si gettano nei rifiuti migliaia di processi e non verrà assicurata nessuna giustizia ai cittadini, come noi, che ne hanno un sacrosanto diritto”.

Casellati “molla” i piccoli tribunali dell’Abruzzo: chiusi nel 2022

Eper fortuna che lo scorso weekend Maria Elisabetta Alberti Casellati era stata accolta come una regina in Abruzzo dal presidente Marco Marsilio in persona: ieri però l’indice di popolarità della presidente del Senato in regione è precipitato dopo la sua decisione di stralciare per “estraneità della materia” dal decreto su Pa e giustizia, l’emendamento approvato all’unanimità che avrebbe consentito di salvare almeno fino al 2024 i tribunali di Avezzano, Sulmona, Lanciano e Vasto. Marsilio parla di “schiaffo all’Abruzzo e alla democrazia: è chiaro che dietro l’inammissibilità decretata dal presidente del Senato c’è stata una evidente volontà politica del governo. La ministra Cartabia ha messo in campo tutta la sua forza e le sue relazioni per sbarrare la strada a questo emendamento”. Sia come sia adesso i tribunali minori abruzzesi rischiano di chiudere nel 2022, a meno che venga approvata una norma per salvarli, nonostante nell’ottica dell’efficienza siano fumo negli occhi per Draghi&C. Intanto dopo la decisione di Casellati, a Lanciano sono state listate le bandiere a lutto.