L’ultima beffa: solo “criteri stringenti” per riaprire indagini

All’inizio era la priorità dei reati da perseguire. È il Parlamento, la politica, a dover decidere quali sono. E sono i magistrati a dover obbedire: a loro verranno indicati quali fascicoli trattare prima di altri. Questo in base a dei parametri indicati dalla politica. Lo prevede la riforma della ministra della giustizia Marta Cartabia. Un emendamento che a quanto emerge non è stato cambiato neanche dopo le lunghe trattative con i partiti di questi giorni. È così dunque che potrebbe arrivare domenica in aula, nonostante più voci, autorevoli, ne abbiano sottolineato il rischio di incostituzionalità. Ma forse domani in aula potrebbe arrivare un’altra sorpresa che sembra poter intaccare l’autonomia del potere giudiziario. Ieri in commissione Giustizia è stato approvato (con parere favorevole anche di altre parti politiche) un emendamento presentato da Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia. L’emendamento prevede di inserire una lettera – la l-quinquies – all’articolo 3 comma 1 della riforma, quella che riguarda le indagini preliminari e l’udienza preliminare. Si chiede di “prevedere criteri più stringenti ai fini del provvedimento di riapertura delle indagini di cui all’articolo 414 del codice di procedura penale”. Il codice infatti prevede che dopo un decreto di archiviazione “il giudice autorizza con decreto motivato la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero” che deve motivare dunque il perché della necessità di proseguire le proprie investigazioni.

E sono tanti i procedimenti che in Italia nel tempo, per i più disparati motivi, sono stati riaperti. Anche più volte. Come quello che riguarda Silvio Berlusconi, indagato a Firenze, con Marcello Dell’Utri, nell’ambito dell’inchiesta sulle stragi del 1993. L’ipotesi al centro di questa indagine (più volte sollevata e più volte scartata) è che ci siano stati rapporti tra Berlusconi e Dell’Utri con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi del 1992 e 1993. Berlusconi e Dell’Utri sono stati già indagati e archiviati negli anni novanta e duemila per carenza di riscontri. Da più di 4 anni sono di nuovo iscritti (e dunque ancora innocenti fino a prova contraria), con alcune interruzioni durante le quali la Procura di Firenze ha archiviato le loro posizioni e poi riaperto il fascicolo.

Ma come funziona il meccanismo di riapertura delle indagini sul quale ora la politica ora vuole intervenire? Quando scadono i termini massimi di durata delle indagini, il pubblico ministero può fare una richiesta di archiviazione e se vi sono esigenze di nuove investigazioni può richiedere la riapertura delle indagini che deve essere autorizzata dal giudice, proprio come previsto dall’articolo 414 del codice di procedura penale. Già oggi ci sono dei parametri da rispettare affinché i fascicoli vengano riaperti.

Ma stando all’emendamento Zanettin vi è bisogno di criteri ancora più stringenti. Quali si deciderà in futuro (se la proposta dovesse essere votata così com’è e quindi entrare nella riforma)

Ma come nasce questa esigenza? Lo abbiamo chiesto direttamente a chi questo emendamento lo ha presentato. “Dobbiamo cercare di evitare la proliferazione di procedimenti non necessari – spiega il deputato Zanettin –Noi riteniamo, e mi pare anche che l’intero governo abbia condiviso, compreso la compagine governativa del M5s, il senso di dire che le riaperture delle indagini devono essere giustificate da un interesse specifico, da un fatto nuovo. Non possono essere ad delibitum del Procuratore della Repubblica che dice ‘riarpiamo’. Questi sono criteri di legge delega, poi il governo dovrà fare dei decreti attuativi che saranno portati all’esame del Parlamento”. È una norma che nasce dall’esperienza dell’inchiesta fiorentina che è stata riaperta? “Sono norme generali e astratte che riguardano tutti i cittadini. Ci sono tanti di quei casi di riaperture di indagini non necessarie, la casistica è infinita. Noi le cose le facciamo con principio di norma generale e astratta. Inoltre questo emendamento è passato all’esame del consiglio dei ministri, presenti anche i ministri 5stelle e hanno ritenuto che andasse bene. E poi oggi in commissione, anche i relatori di Pd e 5stelle hanno dato parere favorevole”.

Le mosche cocchiere: Pd, Lega, Iv, ministra, Di Maio

Hanno vinto tutti, stando alle dichiarazioni del giorno dopo e alle rassegne stampa: “Scudo di Di Maio e Giorgetti dietro la resa M5S” (Sole 24 Ore), “Di Maio convince Conte” (Repubblica), “Il sorriso di Draghi, la sponda di Giorgetti” (Corriere della Sera), “Draghi convince il M5S” (La Stampa). Eppure qualcosa non torna, perché fino a due giorni fa sembrava essere solo il M5S a voler cambiare la riforma della giustizia.

Lega e fi. “La riforma non si tocca neanche di una virgola”. Così parlava Matteo Salvini il 19 luglio. La Lega non ha mai aperto a modifiche, se non per una cortesia nei confronti di FI che voleva smontare l’abuso d’ufficio e la corruzione di pubblico ufficiale. Poi la Lega si è arresa alle modifiche, “ma solo sulla mafia” e infine si è intestata le novità su reati sessuali e di droga. Ieri però Salvini festeggiava: “Sono soddisfatto. Conte fa gli show, Giulia Bongiorno ha lavorato giorno e notte per migliorare il testo”. Non a caso Giorgetti, con meno boria, lo smonta e parla di “un pareggio”.

5 Stelle. L’8 luglio, i quattro ministri 5S avevano fatto infuriare gli eletti dando il via libera alla riforma in Cdm. Poi, con la definizione del ruolo di Conte e la pace con Grillo, è iniziata la mediazione. Il 17 luglio, l’ex premier giurava: “Non accetteremo soglie di impunità”. Da lì un incontro con Draghi e la minaccia, da parte di Fabiana Dadone, di “valutare le dimissioni”. Chi si è mosso come un equilibrista è stato invece Di Maio, piuttosto contorto nelle sue rivendicazioni pubbliche. Giovedì però Di Maio è stato tra i primi a esultare, celebrando una riforma senza “rischi di impunità per mafia e terrorismo”. Gli stessi che aveva avallato l’8 luglio e su cui il vero veto è arrivato da Conte.

Cartabia e Draghi. Mario Draghi, dieci giorni fa, annunciava la richiesta di fiducia sulla riforma, rendendosi disponibile solo a “emendamenti tecnici”. Pure Marta Cartabia rassicurava sulle “tutele per le donne” e garantiva che “i processi per mafia e terrorismo non andranno in fumo”. Non solo: “Il termine per i processi è assolutamente ragionevole”. L’ok alle modifiche riguardo proprio reati sessuali, mafia, terrorismo e durata dei processi smentisce però la ministra e la presunta infallibilità del suo primo testo.

Pd e iv. Basta rileggere le dichiarazioni di Enrico Letta per capire che i dem hanno sempre sostenuto la riforma Cartabia: “Convintamente sosteniamo la riforma” (10 luglio); “La riforma si faccia rapidamente e con pochi ritocchi”. I “pochi ritocchi” consistevano nel lodo Serracchiani, norma transitoria da qui al 2024. Se Conte e i suoi non si fossero intestati la trattativa, difficilmente il Pd avrebbe smosso qualcosa. Anche perché ai filo-renziani del partito stava bene così, con Matteo Renzi che ironizzava sulle pretese dei 5S: “Macché Vietnam, sono morti”. Nel dubbio, oggi Letta rivendica le novità come una vittoria dem: “L’equilibrio trovato rende la riforma migliore. Lo avevamo chiesto e ci siamo spesi fino in fondo”. Nel carosello generale, meglio non far mancare la bandierina del Pd.

Le figuracce su mafia e processi: Santa Marta si è giocata il Colle

Il giorno dopo l’intesa che ha evitato il burrone, tutti (ri)dicono di aver vinto o almeno pareggiato. Ma nel venerdì in cui la Commissione Giustizia della Camera approva il nuovo testo della riforma Cartabia, si pensa già ad altro. Perché l’accordo sulla riforma della giustizia, quel corpus di norme che negli annunci doveva nobilitare il governo Draghi e che nei fatti per poco non lo ha fatto sbandare, cambierà il percorso di alcuni protagonisti della partita e inciderà su certe dinamiche nella maggioranza. Per esempio potrebbe pesare sulla madre della riforma, quella Marta Cartabia che aveva il curriculum e un ottimo mentore (Sergio Mattarella) per ambire al Quirinale. E invece “ora quel Palazzo se lo può scordare” ringhiano fonti sparse del M5S, ed è la stessa lettura che – con altri toni – rimbalza da altri esponenti politici. Anche per effetto di un episodio quantomeno sgrammaticato. Nel dettaglio, giovedì notte in Senato la presidente Casellati ha stralciato dal decreto Reclutamento un emendamento del 5Stelle Gianluca Castaldi, votato all’unanimità dai partiti, per prorogare quattro tribunali abruzzesi.

Una norma cui Cartabia, in qualità di Guardasigilli, aveva dato parere negativo. E che Casellati ha cancellato tra grandi proteste: secondo diversi senatori, dopo averne già chiesto il ritiro nella capigruppo spiegando che anche il Quirinale aveva “dubbi” sul testo. Così dentro Palazzo Madama si è diffusa, trasversale, la sensazione di una filiera che non funziona granché ai piani molto alti del governo. Mentre i magistrati continuano a picchiare senza sosta sulla controriforma, con l’Anm del Piemonte che parla di “possibile ecatombe di procedimenti” e quella di Palermo che evoca “la falcidia dei processi per reati ambientali”. Potrebbero essere nodi perfino per Draghi, irritato – sussurrano – con la ministra.

Certo, il premier ha vinto ancora, perché domani la riforma andrà in Aula alla Camera, solo due giorni in ritardo rispetto alla sua tabella di marcia. Ma per la Cartabia è un’altra storia. “A oggi per il Colle ci sono solo due possibili nomi, Sergio Mattarella e Mario Draghi” ragiona un big del M5S. Convinto che “la partita sia complicatissima, e per questo una terza opzione dovrà per forza venire fuori”. “Anche perché – aggiunge – se Mattarella viene rieletto non potrà essere un presidente temporaneo, considerato anche che le prossime Politiche potrebbe vincerle il centrodestra. Mentre se eleggono Draghi, si andrà per forza a elezioni anticipate. E chi potrebbe volerle?”. Forse, ma è da dimostrare, solo quel Giuseppe Conte che ora deve far deglutire l’intesa sulla riforma ai suoi. Compito più semplice alla Camera, mentre in Senato c’è ancora nervosismo, anche se il nocciolo duro dei contiani è proprio a Palazzo Madama. “Di sicuro nella trattativa Giuseppe ha dimostrato di essere un capo” ammettono vari grillini. Tanto da reggere il braccio di ferro soprattutto con Cartabia e di sopportare molteplici pressioni esterne (raccontano di un confronto piuttosto duro con il ministro dem Andrea Orlando, giovedì). Però fuori a pungere c’è la Lega, il partito di Giancarlo Giorgetti. Se si è chiuso l’accordo – e lo ammettono anche i 5Stelle – lo si deve anche alla sua mediazione. Ma il numero due del Carroccio ha già presentato il prezzo al M5S: “Questa volta abbiamo inghiottito le vostre modifiche, ma in seguito sarete voi a dover ascoltare le nostre richieste”.

Non è un dettaglio, nel giorno in cui il leghista Massimo Garavaglia sul Messaggero invoca “modifiche al Reddito di cittadinanza che frena l’economia, già nella prossima legge di Bilancio”. Parole per innervosire il M5S e sminuire il frutto della mediazione di Conte, certo. Ma il reddito tornerà sul tavolo e l’ex premier e i big grillini lo sanno. “Dovremo giocare d’anticipo, presentando proposte per migliorare la legge” è l’idea di Conte e dei maggiorenti. Anche perché la legge di Bilancio sarà un campo di battaglia. “Di scostamenti di bilancio non ce ne saranno più e bisognerà tagliare”. Quanto, si vedrà. E sai quante mediazioni.

La mafia è maggioranza

Siccome l’“informazione” ha visto un altro film, riepiloghiamo quello vero. Il Governo dei Migliori partorisce una “riforma della giustizia” che ammazza tutti i processi d’appello (stragi e omicidi esclusi) che non arrivino a sentenza entro 2 anni da quella di primo grado: “improcedibili”. Tutti i partiti tranne uno e tutti i giornali tranne uno dicono che è una meraviglia, proprio quel che ci chiede l’Europa, e chi obietta qualcosa è un giustizialista incompetente che vuole sabotare i Migliori. Tutti i magistrati che la commentano dicono che è una salva-ladri&mafiosi. La Cartabia alla Camera nega: “Nessun processo di mafia improcedibile”. I ministri M5S ottengono qualche ritocchino e la votano con gli altri, perché Draghi minaccia di dimettersi (e loro ci credono). Poi Conte diventa capo del M5S. La “riforma”, bocciata pure da Anm e Csm, approda alla Camera e Draghi mette la fiducia. Conte dice che così è invotabile. La Cartabia replica che il testo non cambia perché l’han già votato tutti. Lega, FI e Iv confermano. Il Pd pigola qualcosa. I media dicono che Conte finge: ingoierà tutto, anche perché “Draghi ha perso la pazienza” (povera stella).

Giovedì il Cdm deve votare il testo definitivo per la fiducia. Conte dice ai suoi ministri di astenersi senza il minimo sindacale della decenza: niente improcedibilità per i reati di mafia (416 bis e ter), tempi tripli per i reati ad aggravante mafiosa (416 bis.1) e doppi per tutti gli altri, decorrenza da 90 giorni dopo la prima sentenza e termini sospesi se si rinnova il dibattimento. Per 9 ore la Cartabia e i suoi parolieri Ghedini&Bongiorno sfornano finte controfferte, con dietro tutti gli altri partiti che lottano come leoni per mandare al macero i processi di mafia. Conte riceve chiamate da tutti i palazzi e dai poltronisti grillini perché cali le brache. Ma tiene duro finché ottiene ciò che chiede. La “riforma” Cartabia non esiste più, mentre resuscita la Bonafede: la prescrizione resta bloccata dal primo grado e l’improcedibilità scatterà solo nei processi-lumaca che dureranno più di 4 anni per i reati ordinari e più di 6 in quelli con aggravante mafiosa. I 2 anni della Cartabia raddoppiano per i primi e triplicano per i secondi fino al 2025 (quando si sarà votato e chi avrà vinto potrà cancellare o peggiorare la schiforma). I due Matteo e FI, che non hanno toccato palla, fingono di esultare. I giornali scrivono che hanno vinto Draghi, Cartabia, Di Maio, Giorgetti, financo la Serracchiani. La Cartabia, anziché andare a nascondersi, esulta: “Abbiamo salvato i processi di mafia” (minacciati da sé medesima, che peraltro negava alla Camera fossero a rischio). Poi chiarisce tutto il fuorionda di Draghi: “Se uno ascolta troppo gli esperti, non fa niente”. Ah ecco.

La profezia di Prince: “Orwell è qui e mi spia. Google dice che è di moda”

Dinner With Dolores è stata l’ultima hit internazionale di Prince, tratta dall’album Chaos And Disorder. Da allora il compositore di Minneapolis ha scelto di non strizzare più l’occhio alle classifiche e di sperimentare, esplorare nuovi generi e scenari, con l’obiettivo dichiarato di evolversi.

L’artista, deceduto nel 2016, è stato sempre un faro per il gotha dei musicisti e, insieme a David Bowie, è sostenuto da una fondazione composta da familiari e amici. Proprio la Prince Estate ha seguito i dettagli del nuovo album Welcome 2 America – ascoltato in anteprima – composto interamente da inediti e arricchito da un dvd con un concerto registrato nel 2011 a Los Angeles, con due cover attesissime: Make You Feel My Love di Bob Dylan e una maiuscola More Than This dei Roxy Music. Il disco, registrato nel 2010, si rivela profetico: “Il mondo è pieno di disinformazione. La visione del futuro di Orwell è già qui. Dobbiamo rimanere saldi nella fede nei tempi difficili che ci attendono”. I testi anticipano l’imbastardimento della comunicazione via social, le divisioni politiche e le lotte per la giustizia razziale. Ma è ancora la musica che soprattutto stupisce: Prince si diletta a portare Kind Of Blue di Miles Davis nel territorio degli Steely Dan, anticipando di tre anni la svolta di Random Access Memories dei Daft Punk. Merito anche dei musicisti selezionati tra i quali spiccano la bassista Tal Wilkenfeld, il batterista Chris Coleman e il tastierista Morris Hayes. “Benvenuto in America dove puoi fallire. Fatti licenziare e riassumere. Ho una App per ogni situazione, qualcuno mi sta guardando, Google dice che è alla moda. Tutti cercano qualcosa quando non c’è nessun posto dove andare, è la casa dello schiavo” è l’incipit della title track, il capolavoro dell’album. Running Game (Son Of A Slave Master) si nutre di un’iperbolica chitarrina funky ed è la trasposizione agli anni duemila del soul plastificato di Young Americans. Born 2 Die ci regala nuovamente il Prince di Scandalous!, mentre Hot Summer è un divertissement dedicato probabilmente a Rock Lobster dei B52’s. Degne di nota Stand Up And B Strong firmata da Dave Pirner dei Soul Asylum e When She Comes, un gospel da suonare in un locale immaginario a fine serata mentre qualcuno fa le pulizie: il musicista in genere dedica l’ultimo brano a se stesso.

La rissa con Polanski: poi lo presi per il collo, ma aveva un alito….

Vuoi il caso, vuoi la fortuna, vuoi la soffiata. Non ricordo. Però ricordo perfettamente quella sera d’estate del 1971, in via della Croce a Roma. L’una di notte. Dal ristorante esce Roman Polanski insieme a una fanciulla; di lui non si avevano più notizie da due anni, dalla tragedia nella quale era stata uccisa sua moglie, Sharon Tate, a due settimane dal parto. Quindi quell’incontro con il regista assurgeva al ruolo di scoop internazionale.

Mi apposto. Scatto. Lui se ne accorge e corre verso di me, urla, sbraita, sento il suo alito pesante addosso, mi aggredisce fisicamente e mi strappa la macchina fotografica.

Tutto, ma la macchina no. Per me è il mio cuore, la mia protetta, la mia croce. Tutto, ma lei proprio no. Così reagisco, lo alzo per il collo, il suo alito pesante si strozza, mi accorgo che sbianca e lo sento sbiascicare qualcosa; nel frattempo molla la macchinetta e cerca rinforzi.

Arrivano i vigili. E che combinano? Mi multano per occupazione abusiva di suolo pubblico: 300 mila lire. Non ci sto. Chiamo l’avvocato, finiamo in tribunale, il giudice mi dà ragione, straccia la multa, ma devo comunque saldare la fattura del legale: 800 mila lire. Vabbè. Però da quel giorno il buon Polanski non mi ha più detto nulla: lo beccavo ovunque, nei locali, nelle feste, nei posti più improbabili. Bicchiere in mano. Mi appostavo, click, lui zitto. E spesso con donne differenti: c’era Nastassja Kinski, altre non conosciute, e soprattutto Marina Ripa di Meana. Mentre Polanski, come sempre, appariva imbronciato, con quell’atteggiamento misto tra sofferenza e supponenza, quel passo svelto per via delle gambe corte, Marina rideva mentre camminava accanto a lui, magari mezzo passo indietro per non farsi beccare. Mi guardava e rideva. Sapeva cosa era accaduto anni prima, e tra me e lui, alla fine, aveva scelto con chi stare.

L’oracolo d’Adelphi: Calasso

Da qualche parte, in uno dei suoi libri, si trova certamente la spiegazione di quella che non può essere una coincidenza. Roberto Calasso se n’è andato ieri, lo stesso giorno in cui arrivavano in libreria i suoi due ultimi titoli, entrambi usciti per la Piccola Biblioteca. Memè Scianca, schegge di ricordi dalla Firenze degli anni Quaranta e Bobi, memoir dedicato a Roberto Bazlen. Non stupisce che l’ultima fatica sia un tributo (e non il primo) a Bazlen, il maestro, colui che fece scoprire Svevo a Montale, “un uomo che semplicemente sapeva”, come ci disse dieci anni fa proprio Calasso durante una chiacchierata milanese. Eravamo nella sede di via San Giovanni sul Muro: interno borghese di porte bianche, antichi armadi e corridoi affollati di libri dove non si trova un solo titolo Adelphi (Roberto Calasso era un uomo davvero sofisticato). Nella stanza dell’editore in cui si è svolta l’intervista senza vista (lui per tutto il tempo con lo sguardo fuori dalla finestra, noi sul taccuino a prendere timorosissimi appunti) c’erano i volumi della biblioteca di Bazlen.

Era venuto al mondo nel 1941, da Francesco, grande giurista del diritto comune, e Melisenda Codignola, figlia di Ernesto: “Sono nato in mezzo ai libri. Mio padre che era storico del diritto lavorava per lo più su testi stampati fra l’inizio del Cinquecento e la metà del Settecento. Molti erano i volumi in-folio. Anche mio nonno Ernesto Codignola, che insegnava Filosofia a Firenze e fondò la casa editrice La Nuova Italia, aveva una biblioteca notevole, oggi incorporata nella biblioteca della Normale di Pisa”. Ancora prima di iscriversi al liceo classico (il Tasso, nel frattempo la famiglia si era spostata a Roma) a 13 anni aveva già letto la Recherche. Poi si era laureato in letteratura inglese con Mario Praz. Tesi sulla teoria ermetica del geroglifico in Sir Thomas Browne, erudito e occultista secentesco.

“Adelphi, il più bel catalogo di libri che conosco” – come ha scritto Elias Canetti nella dedica a Massa e potere – nasce nel 1963 con Bobi Bazlen e Luciano Foà. La prima volta che Calasso ne sente parlare è (nei particolari c’è Dio) il giorno della maggiore età nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano. “Bobi accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici”. Infatti tutto comincia con Robinson Crusoe di Daniel Defoe. In quell’alba c’è anche Giorgio Colli e l’impresa più rilevante della casa editrice è l’edizione critica di Nietzsche, addirittura prima che la facciano i tedeschi. Il titolo più venduto è ancora oggi Siddartha di Herman Hesse, segue L’insostenibile leggerezza di Milan Kundera. Il terzo è Le nozze di Cadmo e Armonia grazie al quale Calasso è conosciuto come scrittore dal grande pubblico. Al premio Strega del 1989 è protagonista di uno scontro all’ultimo sangue (coppe di veleno e accoltellamenti alle spalle, altro che oggi) con Mondadori che si presenta con La grande sera di Pontiggia. Calasso perde, nonostante il sostegno di Anna Maria Rimoaldi, ma il libro ha un successo strepitoso, come nessuno degli altri dieci che compongono “l’opera unica” (tranne forse La folie Baudelaire ).

I fratelli (Adelphi in greco vuol dire fratelli) acquisiscono quasi subito la Frassinelli, non per quattro soldi bensì per quattro libri: Siddharta appunto, Il processo di Kafka, il Dedalus di Joyce e Moby Dick di Melville tradotti da Cesare Pavese. “Per quei quattro libri comprammo Frassinelli, poi abbiamo di nuovo ceduto il marchio”. I sodali erano fatti così. La partenza non è facile, escono pochi libri “spesso sconcertanti”, così ci vogliono alcuni anni perché si cristallizzi l’immagine della casa editrice raffinata che ha per logo il pittogramma cinese della luna nuova. “L’unica cosa sicura è che qui si sono pubblicati solo libri che piacevano molto a chi li faceva”. La svolta arriva negli anni Settanta, quando parte la Piccola Biblioteca. La cripta dei Cappuccini di Joseph Roth esce nel 1974 in 3 mila copie, ma ha subito fortuna. Intanto Calasso è già a Milano, dove tra gli altri frequenta Gaber: gran partite di poker in cui chi vince si porta via libri Adelphi. Poi è il decennio della Mitteleuropa: arrivano in Italia, via Adelphi, Karl Kraus, Kundera, Schnitzler, Hofmannsthal, Robert Walser, Wedekind, Horvath, Altenberg. Una costellazione dove ciascun autore serve anche a illuminare gli altri.

I detrattori gli hanno rinfacciato contemporaneamente lo snobismo e le concessioni pop: la Lettera d’amore di Cathleen Schine, Zia Mame di Patrick Dennis, in qualche misura perfino i gialli di Georges Simenon. La verità è che Roberto Calasso, oltre a essere un intellettuale coltissimo, aveva un intuito editoriale formidabile. Ha ostinatamente voluto Vita e destino di Vasilij Grossman, nonostante fosse già stato tradotto senza successo da Jaca Book, Sándor Márai (di cui Adelphi ha i diritti mondiali) Irène Némirovsky, Israel Singer e molti altri. Non gli saremo mai abbastanza grati.

Rai, la scherma diventa rana e i “live” sono di 2 giorni prima

Da quando sono iniziati i giochi olimpici di Tokyo 2020 non è passato giorno senza che nei programmi Rai non vi siano state gaffe e incidenti di percorso. Il problema principale, oltre alle 7 ore di fuso orario, è il sovrapporsi di gare nello stesso momento, con dirette interrotte sul più bello per passare a un’altra disciplina. Cosa che si sarebbe potuta evitare acquistando i diritti per lo streaming, così da mandare in onda le Olimpiadi anche su RaiPlay. Invece Viale Mazzini ha acquisito solo i diritti televisivi canonici, comprendenti 200 ore di gare, in onda esclusivamente su Rai2.

“Qui si vede doppio” quelle altre strane repliche

L’ultima è sul tennis, ieri notte. Mentre la Rai trasmette le immagini della partita di doppio tra i croati Mektic e Pavic contro gli statunitensi Sandgren e Krajicek, l’audio è invece quello del singolare maschile tra Djokovic e Nishikori. Dj Ringo se ne accorge e twitta: “Da mezz’ora vedo le immagini di una partita con la telecronaca di un’altra. Vedo doppio!”. Non solo RaiPlay, pure i due canali di Rai Sport sono completamente inutilizzati. Durante le gare di ieri su Rai Sport 1 andava in onda la replica della finale del campionato europeo di calcio e su Rai Sport 2 si parlava di Tour de France.

Dato che il canale è uno solo, Rai2 appunto, bisogna fare delle scelte: così s’è deciso di interrompere la cronaca di Giappone-Italia di softball femminile (due tra le squadre più forti in questo sport) per trasmettere una gara di 100 rana di nuoto dove non c’era nessun italiano.

Il 25 luglio Mirko Zanni ha vinto la medaglia di bronzo nel sollevamento pesi alzando 177 kg. La Rai perde la diretta e trasmette l’evento solo in differita. Altro bronzo, questa volta nel fioretto a squadre, con Alice Volpi e Martina Batini. Invece di mandare la gara in diretta a Viale Mazzini si preferisce una bella edizione del Tg2.

Il Tg olimpico va in onda su Rai2 ogni ora dalle 7 del mattino. Qualche minuto per fare il punto sulle gare principali e sul medagliere. Spesso, però, il Tg interrompe gare in corso per parlare delle gare in corso.

Di notte, mentre vanno in onda le dirette, a volte Rai2 trasmette repliche di gare già avvenute senza però mettere in sovraimpressione che si tratta di una replica. Così capita di seguire una gara pensando sia ‘live’ per poi scoprire che è di due giorni prima.

Sara Simeoni è ospite fissa del programma Il circolo degli anelli, in onda tutte le sere alle 21.20. “Non mi dispiacerebbe partecipare a Ballando con le stelle, ma devo sbrigarmi perché tra un po’ avrò l’età di Matusalemme”, ha detto.

Qualche sera fa interruzione di una gara di canottaggio per trasmettere in diretta la performance della skater italiana Asia Lanzi, per poi tornare al canottaggio. Del risultato finale dello skate non si è saputo più nulla.

Certi attrezzi e quei complimenti a yuri chechi

Giuliano Zazzeri, padre di Lorenzo Zazzeri, nuotatore dei 4 x 100 stile libero che ha vinto l’argento, sempre nel programma Il circolo degli anelli: “E poi vorrei fare i complimenti a… a… come si chiama l’attrezzista…?”. L’attrezzista è Yuri Chechi, altro ospite fisso del programma. Il 26 luglio Daniele Garozzo si è aggiudicato la medaglia d’argento nella scherma. Secondo la didascalia Rai, però, egli è un nuotatore dei 100 rana.

Il 24 luglio Vito Dell’Aquila ha conquistato la medaglia d’oro nel taekwondo. Una gara emozionante e sorprendente. Su Twitter, però, gli appassionati di questa disciplina si lamentano per il poco entusiasmo del cronista di Rai Sport nel raccontare l’impresa. Altre lamentele del pubblico riguardano la radio. La diretta delle gare si può seguire solo su Radio1, sulle frequenze in Fm, ma non sul web. Insomma, vecchia maniera con la radiolina all’orecchio. Se si vuole usare lo smartphone, niente da fare.

Ma a veder bene i guai non solo solo in casa Rai. Il giornalista della Bbc Dan Walker intervista i genitori del nuotatore Adam Peaty, vincitore dell’oro nei 100 metri rana con tanto di record del mondo. I quali, però, ammettono candidamente di aver seguito la finale su Eurosport, con evidente imbarazzo di Walker.

L’energia rinnovabile non è “reale”

Le pressioni della Corona sui legislatori britannici. Ne torna a parlare ancora il Guardian, dopo aver dedicato in precedenza servizi alle clausole costruite su misura per Buckingham Palace rispetto alle assunzioni di personale di altre etnie. Stavolta a trattare in segreto con i legali della Regina Elisabetta sarebbe stato l’esecutivo scozzese, convinto ad ‘aggiustare’ una proposta di legge per tagliare le emissioni di carbonio. Missione compiuta e senza sforzi apparenti: la Regina è, contemporaneamente, la maggior proprietaria terriera scozzese e anche l’unica esentata dall’obbligo di costruire impianti a energie rinnovabili per scaldare le sue proprietà. Lo stratagemma è quello che il Guardian ha già messo in luce in inchieste precedenti: l’applicazione del Queen consent, una procedura parlamentare rimasta in vigore dal 1700 e ampiamente utilizzata da questa monarca, fin dagli anni Sessanta, per condizionare proposte di legge dannose per gli interessi privati dei Windsor. Stavolta la vicenda è recente, dato che l’esenzione dagli obblighi di sostenibilità risalirebbe solo a cinque mesi fa: il britannico Guardian rivela però che sono addirittura 67 i provvedimenti del governo scozzese passati al vaglio dei legali della Corona negli ultimi 20 anni, incluse proposte di riforma di tassazione privata, pianificazione edilizia, rapporti con affittuari, e una legge del 2018 che pare fatta su misura per la famiglia reale, visto che vieta che ispettori forestali mettano piede nelle sue proprietà, incluso l’amato castello di Balmoral, senza il permesso esplicito della monarca. Insomma, i privilegi reali prima dello Stato, né più né meno. A trovare i documenti che rivelano gli accordi è stata Lily Humphreys, ricercatrice assoldata dai Lib Dem scozzesi, storicamente favorevoli a un drastico taglio del finanziamento pubblico alla monarchia. Le ultime rivelazioni mettono molto a disagio il governo scozzese, guidato dagli indipendentisti di Nicola Sturgeon, per due valide ragioni: la prima è che la norma sulla riduzione delle emissioni fa parte di una legge presentata dalla Sturgeon come fondamentale nella lotta al cambiamento climatico e nel lancio di una economia sostenibile in Scozia, dunque un cavallo di battaglia; la seconda è che l’esecutivo ha nascosto le pressioni della Corona anche quando un parlamentare ha chiesto il perché dell’esenzione alla Regina. Con una presa di posizione clamorosa, Edimburgo rifiuta di pubblicare i dettagli di quelle pressioni perché renderli noti indebolirebbe “l’apparenza di neutralità politica” rispettata in pubblico. Affermazioni gravissime, visto che la neutralità è il cuore della funzione ufficiale della monarchia.

I laici applaudono Saied: stop alla deriva islamista

Il presidente Kais Saied tira dritto sulla politica dei “licenziamenti” inaugurata con la cacciata del premier Mechichi e il congelamento del Parlamento. Ieri Saied ha fatto licenziare anche il direttore della televisione pubblica, Mohamed Lassaad Dahech, con l’accusa di aver tentato di limitare l’accesso alla sede televisiva a un attivista dei diritti umani e a una rappresentante del sindacato dei giornalisti. Se la motivazione addotta dalla presidenza sia vera o meno non è ancora chiaro, resta il fatto che il 46 per cento dei tunisini, sempre secondo i sondaggi, non si è detto preoccupato per il futuro della democrazia. Si tratta di cittadini che non votano per i partiti islamici, a partire dal più storico e pesante, in termini di voti, Ennahda, il cui leader, Rachid Gannouchi, è il presidente del Parlamento nonché il leader della branca tunisina della Fratellanza Musulmana. Nato in Egitto nel 1800, oggi il movimento religioso transnazionale che ha teorizzato e quindi messo in pratica il cosiddetto “islam politico” è guidato da due Paesi: il Qatar e la Turchia. In Egitto la Fratellanza era arrivata al potere con Morsi in seguito alla rivoluzione contro Mubarak.

Non è un caso se in Tunisia dopo la destituzione del laico, ancorché corrotto, Ben Ali siano cresciuti come funghi cantieri edili di imprese qatarine e sia aumentata a dismisura l’interferenza turca negli affari interni con Ghannouchi chiamato periodicamente a rapporto dal presidente turco Erdogan in quel di Ankara o Istanbul. Il colpo di mano di Saied potrebbe anche venire giudicato come un vero e proprio golpe bianco nei libri di scuola delle prossime generazioni ma, di certo, il tentativo del presidente tunisino di sbarazzarsi della Fratellanza Musulmana, almeno nel proprio paese, viene salutato come una liberazione da chi vuole una Tunisia laica. I Fratelli Musulmani hanno dimostrato di saper attendere pazientemente pur di ottenere ciò che vogliono, ovvero una sorta di Califfato globale nascosto all’interno delle istituzioni statali dei singoli paesi per svuotarle dei contenuti laici e democratici con il passare del tempo al potere, vedasi il cambiamento negli anni mostrato dal presidente turco Erdogan. Lo scopo dei Fratelli Musulmani è affermarsi senza rivoluzioni in modo da non essere definiti violenti o usurpatori, ma nell’ultimo decennio con la cosiddetta “primavera araba” hanno dimostrato di saper soffiare sul fuoco del malcontento popolare per trasformarlo in un incendio il più possibile universale in grado di fare terra bruciata nei confronti dei predecessori e svelarsi così per quello che sono: non “fratelli” bensì lobbisti che nel nome del Corano portano avanti progetti politici e socio-economici contemporaneamente alla limitazione delle libertà e dei diritti dei cittadini, soprattutto di sesso femminile. Ancora una volta bisogna guardare alla Turchia per vedere come in un film lo svilupparsi e concretizzarsi di questo processo. Nonostante il fallimento della “primavera” egiziana e yemenita, nella Tripolitania è il “fratello” turco Erdogan a dare le carte e ad aver ottenuto gli appalti più appetitosi per la ricostruzione di una guerra che peraltro non è ancora finita proprio per l’uso dei droni armati turchi.

La Fratellanza ha atteso secoli per imporsi e non si lascerà smontare da un presidente che prima o poi dovrà lasciare il potere. I “fratelli2 c’erano prima di Ben Alì e ci saranno dopo Saied. Un’altra loro abilità è stata quella di aver avuto finora l’accortezza di essere flessibili, anche se solo apparentemente, con l’Occidente per apparire integrati in un contesto democratico. E quando il loro gioco viene scoperto, sono bravissimi a interpretare il ruolo delle vittime. L’attore protagonista da Oscar nel ruolo di vittima è, ancora una volta, interpretato da Recep Tayyip Erdogan.