Dal subcomandante Marcos a El Machete. Terra ai contadini, abitazioni degne, sanità pubblica, cibo, lavoro e istruzione. Era il 1° marzo del 1994 e il mondo intero seppe dove si trovava il Chiapas, Stato dimenticato del Messico, per bocca del guerrigliero Felipe che lesse la “Dichiarazione della Selva Lacandona”. Il primo dei cinque discorsi di un gruppo apparso a sorpresa il primo giorno dell’anno nuovo dopo decenni trascorsi nella foresta.
Lì, in Chiapas, dopo secoli di emarginazione, i suoi abitanti risvegliavano i proclami di Emiliano Zapata e 5 mila guerriglieri, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln) condotto dal subcomandante Marcos, puntavano a prendere il controllo dello Stato, avanzare verso Città del Messico e abbattere il governo di Carlos Salinas de Gortari.
Ventisette anni dopo sono almeno in 3 mila a fuggire dal Chiapas assediato dalla violenza perpetrata contro la comunità Tzotzil di Pantelhò da un altro gruppo di uomini del luogo, soprannominatosi El Machete, perché non sfugga la natura della missione. A seguirli, gli abitanti del villaggio messicano simpatizzanti che hanno incendiato uffici governativi, aziende e case per protestare contro la dilagante violenza nella zona.
El Machete, che ha preso le armi due o tre settimane fa nella vicina Chenalhò, va direttamente allo scontro con le bande di narcos locali. A guardare le immagini di Pantelhò girate dall’agenzia Reuters, il paese è completamente distrutto: resti carbonizzati di edifici, automobili e case, con uomini incappucciati e armati di machete che guardano la scena poco distanti. “Non c’è sicurezza qui, non c’è pace, non c’è tranquillità”, spiega uno dei membri de El Machete, con il volto coperto, in un discorso alla folla martedì pomeriggio nella piazza principale della comunità. “C’è solo paura, pianto e paura, estorsioni e intimidazioni”, conclude.
Ma El Machete non ha rivendicato gli incendi, sui quali ci sarebbe invece la firma dei fan locali, appunto, che avrebbero preso di mira le abitazioni di persone sospettate di avere legami con i trafficanti di droga. Secondo il Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de las Casas, nella zona più di 3 mila persone hanno dovuto lasciare le proprie case nell’ultimo mese a causa delle incursioni di gruppi criminali che stanno mettendo le mani sul territorio. In un Paese, il Messico, in cui dal 2006, cioè dalla “guerra alla droga” intrapresa dallo Stato, a morire ammazzate o a scomparire nel nulla sono state decine di migliaia di persone, sono sempre di più i cittadini che in tutti gli Stati si organizzano in milizie di autodifesa, come El Machete.
Questo a fronte della nascita, dall’insediamento alla guida del Paese di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) di almeno 12 nuovi gruppi criminali e cartelli legati al narcotraffico, secondo un recente studio del Centro di ricerca e studi economici del Paese (Cide). A domanda su El Machete, il presidente Amlo si è limitato a condannare “la giustizia fai da te dei gruppi di autodifesa”. In mezzo, ci sono i cittadini messicani, vittime quotidiane non più solo delle faide tra narcos, ma anche di quelle tra questi e le “nuove milizie”. A 60 chilometri da Pantelhò, nel cuore dell’Ezln, a San Cristobal de Las Casas, luogo storico della prima arringa del subcomandante ai cittadini che chiedevano chi fossero e cosa volessero quei guerriglieri, negli ultimi anni, la violenza delle comunità in lotta con i narcos ha trasformato il Paradiso in Inferno con scorribande dei gruppi criminali locali che scendono dalle montagne e aggrediscono i rivali, o anche solo chi dà fastidio per un pezzo di terra conteso. Così sarebbe andata per Michele Colosio, l’italiano ucciso a bruciapelo mentre rientrava a casa la notte del 13 luglio dopo i festeggiamenti per la vittoria dell’Italia agli Europei. A detta dei suoi amici della cospicua comunità italiana di San Cristobal che chiedono giustizia per Michele, il radiologo, trasferitosi in Messico 10 anni fa, più che essere malvisto per le sue opere di volontariato, sarebbe finito vittima di una disputa su un terreno.
Secondo la ricostruzione dei suoi amici, Miguel, come lo chiamavano in Chiapas, aveva acquistato un appezzamento di terra sulla montagna, ma chi gliel’aveva venduto non voleva cedergli le carte catastali. Finché il mese scorso l’uomo pare fosse riuscito a ottenere la promessa di entrarne in possesso. Promessa decaduta alla sua morte. Sulla sua fine, tra l’altro, c’è l’ombra di un’indagine poco approfondita, a detta degli italiani che lo conoscevano. Il 42enne bresciano, morto, sembra, per due colpi di pistola sparatogli contro da una banda armata, secondo i media locali sarebbe invece spirato per un infarto provocatogli dallo spavento per l’assalto degli uomini che, secondo le autorità, volevano “solo” rapinarlo.
La verità però non è ancora stata accertata. Il suo corpo giace ancora in una cella frigorifera dell’aeroporto di Tuxtla Gutiérrez in attesa di autopsia e di rientrare in Italia.