“Chi deve morire qua? Dimmi un po’, chi deve morire? Deve morire qualcuno? Devono morire i nostri genitori! Deve morire qualcuno?! Perché è stato toccato qualche tasto magari troppo, troppo esplosivo, come la pentola che è esplosa!”. Le urla di Viviana Parisi, la deejay morta l’estate scorsa a Caronia (Messina) con il figlio Gioele, sono registrate dal marito, che si trova nella stanza accanto. Il file audio è agli atti dell’inchiesta della Procura di Patti, che nei giorni scorsi ha chiesto l’archiviazione. Una storia che aveva lasciato tutti con il fiato sospeso, la storia di una madre che con il figlioletto scompare in circostanze misteriose, lasciando l’auto parcheggiata in autostrada. I corpi dopo giorni di ricerche vennero ritrovati in aperta campagna. Secondo i magistrati, la donna avrebbe prima ucciso il figlio e poi si sarebbe gettata dal traliccio. “Le indagini hanno permesso di accertare in modo incontrovertibile le precarie condizioni di salute mentale di Viviana Parisi”, si legge nella nota dei pm.
Consigliere eletto con Salvini spara al socio, poi si costituisce. “Non poteva tenere l’arma”
Lo scatto fulmineo dietro la macchina, la pistola impugnata con entrambe le mani, gli spari che frantumano il finestrino, e poi la fuga. Il tutto in pochi secondi, ripresi da una telecamera di sorveglianza. Poteva essere un’altra Voghera. Tragedia sfiorata mercoledì a Licata, nell’agrigentino, dove il consigliere comunale 48enne Gaetano Aronica, eletto nel 2018 con la lista Lega Noi con Salvini e poi passato al gruppo misto, ha esploso con una rivoltella calibro 22 quattro colpi di pistola. La vittima, che ha riportato una ferita a un braccio, è l’ex socio 71enne di Aronica, con il quale gestiva un’agenzia di onoranze funebri. Dopo l’agguato, il consigliere si è costituito ai carabinieri, accompagnato dal suo legale, consentendo agli inquirenti di ritrovare l’arma del delitto. Adesso è indagato per tentato omicidio e porto abusivo d’arma da fuoco. Da oltre un anno e mezzo, Aronica e il vecchio socio erano ai ferri corti. Avevano gestito insieme un’agenzia di onoranze funebri, ma adesso si stavano separando. Tra i due erano fioccati continui dispetti e denunce. La settimana scorsa erano stati esplosi tre colpi di pistola contro il negozio di Aronica, che avevano danneggiato la vetrina e l’insegna. Il giorno successivo, il consigliere aveva appeso una scritta: “Io non chiudo”. Anche su quell’episodio, gli inquirenti continuano ad indagare, vogliono capire se si tratta di un gesto intimidatorio o di ritorsione. Sull’appartenenza leghista di Aronica, visti i recenti fatti di Voghera, il Carroccio siciliano ha preso le distanze, spiegando che il consigliere “non è tesserato, né ricopre o ha ricoperto altri ruoli all’interno” del partito, che dopo le elezione “non si è mai dichiarato della Lega all’interno del consiglio comunale, ma che da anni è un consigliere civico del gruppo misto”. In effetti, Aronica è eletto nel 2018 con 373 voti nella lista “Lega Noi con Salvini”, ma a marzo 2019 diventata capo del gruppo consiliare “Liberi e Indipendenti per Licata”, in opposizione alla maggioranza. Ironia della sorte, anche un altro componente del neo gruppo consiliare formato da Aronica ha avuto problemi con la giustizia. È il consigliere Giuseppe Scozzari, arrestato a giugno 2019 nell’operazione antimafia “Assedio” della Dda di Palermo, e condannato in abbreviato a 5 anni per scambio politico-mafioso.
“1.608 sms, mail e intercettazioni: le prove della mazzetta Eni-Nigeria”
Sulla super-tangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari pagata (secondo l’accusa) da Eni e Shell per ottenere il campo d’esplorazione petrolifero Opl 245 in Nigeria, la Procura di Milano “ha offerto una prova solo indiziaria”? Così sostengono i giudici che in primo grado hanno assolto tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”. No, risponde ora il pm Fabio De Pasquale, chiedendo il processo d’appello (come lo Stato della Nigeria, per mano dell’avvocato Lucio Lucia).
L’accusa ha presentato “un’imponente mole di prove” di quella che continua a considerare una colossale corruzione internazionale: tra queste, email interne a Eni e Shell nel 2007-2011; un’intercettazione telefonica tra l’attuale amministratore delegato di Shell e il suo direttore finanziario in cui si parla espressamente di tangenti; ben 1.608 sms scambiati tra gli intermediari dell’affare e gli imputati Eni Claudio Descalzi (attuale amministratore delegato) e Roberto Casula; documenti bancari sui movimenti di denaro, pagato nel 2011 da Eni a Londra, con successivo tentativo di girarlo in Svizzera, fallito perché persino la banca Bsi si rifiuta di eseguire l’operazione. Il miliardo viene infine trasferito in Nigeria, dove ben 500 milioni vengono convertiti in contanti e finisce a pubblici ufficiali nigeriani, a ministri ed ex ministri, a politici e faccendieri. Non un cent resta nelle casse dello Stato della Nigeria. Eppure “il fatto non sussiste”, per i giudici di primo grado la corruzione non esiste. Ma per il pm d’accusa è invece provato che il ministro della Giustizia nigeriano, Adoke Bello, ha intascato una parte della super-tangente in “utilità patrimoniali” (e lo riconosce anche la sentenza d’assoluzione). E che mezzo miliardo di dollari sia finito in contanti: “indizio certamente grave della destinazione illecita del denaro” (ammettono gli stessi giudici che poi assolvono). Sono i “due pilastri” dell’accusa, secondo la Procura, che il Tribunale non ha valorizzato, sminuzzando tutti gli elementi di prova senza vedere le loro connessioni. Ha così realizzato la “frammentazione e parcellizzazione degli elementi processuali”, catene di “cortocircuiti logici”, “ragionamenti integralmente congetturali”. “In tutta la sentenza… il Tribunale non si è mai misurato col complesso delle prove documentali”. I giudici hanno ripetutamente compiuto una “grave svalutazione della prova documentale”. Per esempio non hanno valorizzato le comunicazioni tra i manager Shell: “Comunicazioni schiette ed esplicite nel descrivere il lato criminale delle trattative” per Opl 245. “La svalutazione della prova documentale effettuata dal Tribunale ha nella sostanza spazzato via evidenze documentali di grande importanza ai fini dell’affermazione della responsabilità degli imputati”. Le email tra i manager Shell e tra questi e i dirigenti Eni raccontano, per il pm, la storia dell’accordo corruttivo.
Una storia iniziata non da segnalazioni di esperti internazionali di petrolio, ma dall’intervento di Luigi Bisignani (P2, P4, più volte indagato e condannato) che per primo propone l’affare in Nigeria al suo amico Paolo Scaroni, allora Ad di Eni. Ben “sette pagine” di messaggi Shell-Eni “consentono una lettura sintetica e piana della vicenda”: “Si parla di tangenti all’inizio e se ne parla alla fine. Il governo è sempre dietro alla trattativa, anche nella fase in cui era una semplice compravendita tra Eni e Dan Etete”.
Il ricorso d’appello arriva in un momento difficile per la Procura di Milano, divisa dopo la diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno Eni Piero Amara e le indagini in corso sui due pm del processo Eni-Nigeria, De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati dal collega Paolo Storari di non aver consegnato prove favorevoli a Eni. Falso, ribatte De Pasquale: il video che il Tribunale gli imputa di aver nascosto era addirittura già conosciuto dalle difese Eni.
I verbali di Amara, la lettera anonima e le mosse di Storari
È durissima la replica del procuratore di Milano, Francesco Greco, ai colleghi che nei giorni scorsi hanno preso posizione su Paolo Storari sostenendo che, al di là del “merito” delle sue vicende disciplinari e penali, non riscontrano la sua incompatibilità con l’ufficio milanese.
“Cari colleghi – scrive Greco – la nostra Procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie. Il collega (Storari, ndr) ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare (…)”. Greco spiega di non voler rinunciare al “rispetto della presunzione di innocenza e delle strategie di difesa” ma precisa: “altro è difendersi, altro è lanciare gravi e infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio”.
Storari, secondo Greco, è venuto meno quando, indagando sulla fuga di notizie – i verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria, non firmati e in formato word, recapitati anonimamente al Fatto nell’ottobre 2020 – non soltanto ha omesso di comunicargli d’averne consegnato una copia all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, mesi prima, ma ha deciso di non astenersi da un’inchiesta in cui era “personalmente coinvolto”. Il Fatto può rivelare un dettaglio in più che impone qualche interrogativo. Riepiloghiamo.
Il 9 novembre 2020 – chi vi scrive – consegna alla Procura di Milano il contenuto d’un plico anonimo giunto in redazione poche ore prima. Non è il primo. Già il 29 ottobre 2020 ne era giunto un altro, contenente i verbali dell’ex legale esterno Eni Amara, e sempre sulla loggia Ungheria. E già in quell’occasione il Fatto denuncia e li deposita in Procura. Il motivo? I verbali non sono firmati e potrebbero essere falsi. Oppure, se fossero veri, qualcuno ha deciso di spingerci a pubblicarli per far saltare l’indagine. La terza ipotesi – che qualcuno voglia salvare un’indagine insabbiata – non viene presa in considerazione per due motivi. Primo: il Fatto sa con certezza che nell’aprile 2020, Pedio e Storari, hanno attestato – proprio sulla base dei verbali in questione, riconoscibili attraverso le date – che Amara sta collaborando. E quindi, deduciamo, la Procura sta indagando. Secondo: quando a ottobre depositiamo i verbali in questione, Pedio e Storari appaiono sconvolti, spiegano che potrebbero essere stati manipolati, quindi non sono pubblicabili, ma soprattutto: lasciano intendere che qualcuno può averli trafugati dai pc.
E così, a novembre, quando giunge il nuovo plico anonimo, chi vi scrive chiede alla portineria della redazione di descrivere chi l’ha consegnato: potrebbe essere l’autore del furto, un complice o qualcuno in grado di indicare la filiera di chi ha trafugato i documenti dai pc dei pm. È singolare scoprire che l’unico atto d’indagine delegato da Storari – a parte chiedere di censire tutte le auto bianche di Roma – sia stato il seguente: controllare la cella telefonica del Fatto che, volendo salvare l’indagine, s’era premurato di consegnargli i verbali in questione. Sarebbe interessante sapere con quali numeri aveva chiesto di incrociare la cella telefonica del Fatto e – soprattutto – a quale scopo. Ma c’è di più. Persuasi, dall’atteggiamento dei pm, che qualcuno avesse trafugato i verbali dai loro pc, descriviamo chi li ha portati: una donna a bordo di un’auto bianca. E forniamo le generalità di chi, in portineria, ha raccolto brevi manu il plico incriminato. Questa persona – l’unica che abbia mai visto la donna – non sarà mai interrogata dalla Procura di Milano. Ma non è finita. Depositiamo anche la lettera anonima che accompagna i verbali: c’è scritto che, del contenuto dei verbali di Amara, sono a conoscenza personaggi con ruoli apicali nel Csm o il loro entourage. Ragioniamo. La tesi di Storari, confermata da Davigo, è di avergli consegnato una copia dei verbali in formato word, in quanto membro del Csm, per tutelarsi dall’inerzia investigativa dei suoi capi. La lettera anonima – menzionando le personalità venute a conoscenza dei verbali – risulta assolutamente coerente proprio con lo scopo con il quale Storari aveva consegnato i verbali di Amara a Davigo. E allora i casi sono due: o Storari – che pure è un fine investigatore – non collega la lettera anonima e i verbali in formato word non firmati consegnati dal Fatto a quelli da lui consegnati a Davigo, oppure sceglie di ometterlo a Pedio che, con lui, indagava per individuare la persona che volantinava i verbali neanche fossero le offerte di un supermercato. Il Fatto ha chiesto a Storari, attraverso il suo avvocato Paolo Della Sala, di spiegarci le sue scelte. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta.
Ieri 6.171 contagi e 19 morti. In 7 giorni ricoveri triplicati. Decessi di nuovo in crescita
Continua a crescere gradualmente il numero dei contagi giornalieri da coronavirus in Italia. Secondo l’ultimo bollettino diffuso dal ministero della Salute, sono 6.171 le persone risultate positive ai test nelle ultime 24 ore, in aumento rispetto ai 5.696 di mercoledì.
Dati a fronte di un numero inferiore di test svolti: 224.790 i tamponi molecolari e antigenici, giovedì erano stati 248.472. Il tasso di positività sale di 0,4 punti, passando dal 2,3% al 2,7%. In leggero aumento anche il numero dei morti, 19 contro i 15 delle 24 ore precedenti. All’incremento dei contagi e delle persone attualmente positive segue anche un aumento dei posti letto occupati nei reparti Covid di tutto il Paese. Ieri sono state ricoverate 20 persone in terapia intensiva, con un saldo tra entrate e uscite che fa segnare un +11 e porta i pazienti attualmente in rianimazione a quota 194. Crescono di 45 unità anche i ricoverati negli altri reparti Covid, con il totale che tocca i 1.730.
L’aumento dei contagi risulta più evidente se si mettono a confronto i dati dei primi quattro giorni di questa settimana con lo stesso periodo della scorsa. Si è passati da un totale di 14.946 contagi di una settimana fa ai 19.506 degli ultimi quattro giorni. Un aumento che interessa anche i decessi legati al Covid, con 80 vittime contro le 53 di una settimana fa, e l’incidenza sui tamponi molecolari, passata dal 3,8% al 4,9%. E se netto è anche l’aumento dei ricoveri negli altri reparti, passati da un +98 a un +338, ancora abbastanza stabili sono quelli in intensiva, con 56 ingressi negli ultimi quattro giorni rispetto ai 48 dello stesso periodo di una settimana fa.
Il “nuovo” piano scuola è uguale a quello vecchio
Niente di nuovo sotto il sole. Il nuovo piano scuola, targato Patrizio Bianchi, è la copia edulcorata di quello dell’anno scorso firmato da Lucia Azzolina. Sono quindici pagine che puntano alle lezioni in presenza e all’adesione alla campagna vaccinale, ma che non affrontano e non danno una risposta ai numerosi nodi che da giugno a oggi si sono presentati: la questione trasporti, il tema delle quarantene in caso di contagio in classe alla luce delle vaccinazioni, il caso dei docenti no vax, il coordinamento dei tavoli. Un piano che si sarebbe dovuto presentare ieri in Conferenza unificata e che, invece, è slittato alla prossima settimana.
Il documento rende tutte le norme dello scorso anno più soft. Se fino a giugno prima di entrare in classe bisognava misurarsi la febbre ora non c’è più alcun obbligo. Si parla di aerazione delle classi, ma le scuole che nel frattempo hanno realizzato impianti ad hoc sono pochissime. Si cita il distanziamento ma non si dice se ci dev’essere in mensa. L’istituzione del referente Covid diventa una “raccomandazione”. Ma il piano scuola che arriverà nelle mani dei presidi ad agosto inoltrato è destinato a non risolvere i problemi dei dirigenti. Continua a non essere chiaro l’uso inevitabile della didattica a distanza che non viene menzionata come se si tornasse in presenza senza alcun problema di spazi e di classi pollaio. La richiesta di mascherine Ffp2 è sparita. Il documento del ministero riporta di nuovo le parole del Comitato tecnico scientifico (Cts) sul distanziamento: bastano quelle chirurgiche o di comunità che restano obbligatorie nel caso non ci fosse il distanziamento nelle aule. È evidente che la palla passa nelle mani dei dirigenti che dovranno decidere se fare a meno del distanziamento o continuare con questa norma che fa a pugni con il tema degli spazi, ancora mancanti soprattutto alle scuole superiori. La scuola online tornerà a fare capolino obbligatoriamente, come ha più volte sottolineato il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli. Sul fronte del personale non è presente un organico Covid, escludendo gli Ata. Così per i docenti non ci sarà possibilità di sdoppiare le classi e aumenteranno quelle pollaio.
Altra patata bollente per i capi d’istituto. Si dice di “predisporre, entro il 31 agosto 2021, un piano degli spostamenti casa-scuola-casa del personale scolastico e degli alunni”, incentrato su “iniziative di mobilità sostenibile, incluse iniziative di piedibus, di car-pooling, di car-sharing, di bike-pooling e di bike-sharing”. Un lavoro che dovrà fare il mobility manager, l’unica novità del piano. Peccato che nelle scuole – come hanno più volte ripetuto i presidi – non ci siano competenze e risorse per questa nomina e che non si potrà certo elaborare un piano degli spostamenti in meno di un mese con tanto di ferie di mezzo. Per le palestre arriva la distinzione tra aree: in zona bianca sono possibili le attività di gruppo, ma preferibili quelle individuali. Nelle zone gialle o arancioni, concesse solo le attività individuali. Intanto resta in piedi l’ipotesi di richiedere il green pass per gli insegnanti.
Un piano che ora sembra già smentito dal nuovo monitoraggio settimanale della Fondazione Gimbe, secondo cui “se la riapertura delle scuole in presenza al 100% deve essere l’obiettivo prioritario del Paese, puntare esclusivamente sulle coperture vaccinali è rischioso”. Per Gimbe “vanno affrontate subito tutte le criticità emerse durante lo scorso anno che hanno ostacolato, e spesso reso impossibile, le lezioni in presenza”. Intanto per il ministero è pronta “un’iniziativa per raggiungere l’obiettivo” della presenza in sicurezza. La prossima settimana potrebbe essere quella giusta.
“Il vaccino da solo non basta, imitiamo il modello Londra ”
Da due settimane i contagi giornalieri scendono in Gran Bretagna, il primo Paese investito da quella che ormai tutti chiamano la “quarta ondata”, molto meno grave delle precedenti perché le vaccinazioni hanno ridotto massicciamente i ricoveri e i decessi. E tuttavia preoccupante. Anche da noi la curva dell’aumento dei casi ha cominciato a flettere: negli ultimi sette giorni la crescita è stata del 64 per cento secondo il monitoraggio indipendente diffuso ieri dalla Fondazione Gimbe; la settimana precedente (14-20 luglio) era stata del 115 per cento, più che un raddoppio. Intanto però, per la prima volta dopo 15 settimane, aumentano i decessi: 111 nella settimana fino al 27 luglio, certamente pochi rispetto alle stragi del recente passato, ma con una crescita del 46 per cento rispetto alla settimana precedente. Aumentano anche i ricoveri, ma i reparti di area medica sono occupati da pazienti Covid per il 3 per cento e le terapie intensive per il 2. “Impatto minimo sugli ospedali”, scrive Gimbe. Siamo infatti lontani dalle soglie del 15 e del 10 per cento che determinerebbero il passaggio delle Regioni in zona gialla ora che l’incidenza settimanale supera quasi ovunque i 50 casi ogni 100 mila abitanti.
Loro e noi. Nel Regno Unito il quadruplo dei tamponi
Ma perché i contagi sono diminuiti in Gran Bretagna? “Perché, pur aprendo tutto, hanno messo in quarantena fino a 500 mila persone al giorno, fino a due milioni e mezzo a settimana. Non ci sono vie di mezzo, se non si vogliono restrizioni è necessario impegnarsi nella sorveglianza: tamponi e tracciamento. Ed è proprio quello che manca da noi, sembra incredibile ma ci troviamo ancora a fare gli stessi discorsi di un anno e mezzo fa”.
Così la vede Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia all’Università di Padova, che tuttora va spesso a Londra dove per anni ha insegnato all’Imperial College. Oggi in Italia si fanno circa 200 mila tamponi al giorno, in Gran Bretagna la media è 800 mila e attualmente individuano circa 30 mila nuovi casi al giorno dopo aver superato i 60 mila il 16 luglio scorso. Ciascuno di loro ha dei contatti, che vengono isolati per cinque giorni: erano così tanti, nelle ultime settimane, da creare problemi al funzionamento della metropolitana londinese e dei supermercati. “E questo – dice Crisanti – frena la circolazione del virus”, cioè della variante Delta che nel Regno Unito si è diffusa prima che da noi. Anche Nino Cartabellotta, il presidente di Gimbe, sottolinea che i contagi italiani sono “sottostimati dall’insufficiente attività di testing e dalla mancata ripresa del tracciamento dei contatti, reso sempre più difficile dall’aumento dei positivi”. L’incidenza media nazionale è a 58,2 casi settimanali ogni 100 mila abitanti; sopra i 50 ministero della Salute e Istituto superiore di sanità dichiarano ufficialmente che il tracciamento non funziona e infatti da tre settimane rilevano l’aumento dei contagi “non riconducibili a catene di trasmissione note”. “Servirebbero anche di più dei 400 mila tamponi al giorno che indicavo nel mio piano di un anno fa, dovremmo avere la capacità di farne fino a un milione – aggiunge Crisanti –. E poi abbiamo bisogno di strumenti informatici efficaci, di una app con la geolocalizzazione, come nel Regno Unito”. Il fallimento di Immuni è uno dei buchi neri della nostra gestione della pandemia.
L’indiceRt da 0,6 a 1,5. Effetto europei?
Nessuno sa dire se l’impennata delle ultime settimane sia transitoria, magari legata anche agli stadi pieni (a Londra) e ai maxischermi e alle feste per gli Europei di calcio (in Italia), oppure destinata a proseguire . La variante Delta, secondo diversi esperti, non spiega da sola l’aumento dell’indice di trasmissione del virus Rt: in Italia è passato dallo 0,6 del 20 giugno a circa 1,5, cioè ogni infetto contagia una persona e mezzo; senza vaccini avremmo gli ospedali al collasso e le zone rosse in mezza Italia. I casi erano aumentati e sono scesi anche in Portogallo. “Ma lì – osserva Crisanti – hanno ripristinato alcune restrizioni. Dobbiamo studiare quello che succede in Gran Bretagna, dove comunque non credo che arriveranno a zero casi, si stabilirà un equilibrio tra la capacità del virus di trasmettersi e la nostra capacità di contrastarlo”.
Nel Regno Unito oltre il 70 per cento della popolazione adulta è vaccinata con due dosi, da noi il 58 per cento di chi ha più di 12 anni. L’immunità di gregge è lontana? “Non si raggiungerà – risponde Crisanti –. I vaccini hanno avuto un impatto gigantesco, è evidente. Ma in un certo senso hanno aumentato la quota di asintomatici, mentre rimane il pericolo per le persone fragili e i non vaccinati”. Il green pass servirà? “Non è una misura di sanità pubblica, non serve di per sé a ridurre i contagi. È una misura per convincere a vaccinarsi”. E la maggiore resistenza della variante Delta ai vaccini? “I dati di Israele ci dicono che i vaccini proteggono meno dalla Delta”, secondo alcuni studi la protezione scende al 64 per cento contro l’85-90 per cento rispetto alla variante Alfa, quindi l’inefficacia vaccinale potrebbe passare dal 10-15 per cento fin quasi al 40. “Vuol dire che, se vaccini tutti, hai solo il 60 per cento per cento di protezione, quando sappiamo che serve l’80 per cento”, ricorda Crisanti. Gli under 12 non vaccinabili sono circa 6 milioni, il 10 per cento della popolazione italiana; i 12-17enni non vaccinati sono il 68,5 per cento. Ci sono, evidenzia Gimbe nel report di ieri, oltre tre milioni di studenti non immunizzati e più di due milioni di over 60 senza copertura. E nessuno crede davvero che, anche rendendo il green pass indispensabile per fare una vita normale se non addirittura per lavorare e andare a scuola, si vaccineranno tutti gli under 40. “Bisogna sfatare il mito che i vaccini bastano – taglia corto Crisanti – e dire le cose come stanno. Più giochiamo sull’equivoco che i vaccini bastano e più ritardiamo le misure efficaci, in particolare la sorveglianza. Con il rischio che, lasciando troppa libertà al virus, emerga una variante ancora più resistente ai vaccini”.
Il nuovo Mite: nucleare e meno ambiente
Il rapporto del ministro per la Transizione ecologica con i capisaldi dell’ambientalismo, è noto, non è dei migliori. Ma il nuovo regolamento del ministero – ottenuto ieri a cinque mesi dalla nascita del governo Draghi – è riuscito nell’impresa di far infuriare i Verdi resuscitando addirittura il nucleare (per non dire dei progetti di stoccaggio della CO2 cari all’Eni). Di suo, peraltro, il testo conferma la svolta a misura di impresa che Roberto Cingolani – scienziato assai attento allo sviluppo economico – vuole imprimere a quello che fu il ministero dell’Ambiente.
Il regolamento – disegnato dai consulenti di Ernst & Young – ridisegna il ministero che ora ha incorporato il comparto energia dallo Sviluppo economico. Come già notato dal Fatto, in sostanza la tutela dell’ambiente, inteso come tutela della biodiversità, smette di avere una sua autonomia distinta nella tecnostruttura ministeriale e perde di centralità. Solo una sulle 13 direzioni generali si occuperà direttamente di biodiversità, mare, natura e parchi, temi che prima erano in capo a tre direzioni generali e un dipartimento. L’attenzione si sposta soprattutto sulle imprese, visto che la transizione ecologica pensata da Cingolani somiglia molto a una ristrutturazione dell’industria con annesso calo delle emissioni inquinanti. Il tutto condito da un discreto aumento dei costi degli uffici a diretto riporto del ministro: vengono ripristinate tre figure – segretario particolare (90 mila euro annui), portavoce (100 mila) e consigliere diplomatico aggiunto (60 mila) – abolite dal predecessore Sergio Costa.
Più che la direzione, per così dire, “sviluppista” impressa al ministero a far storcere il naso agli ambientalisti è però l’affidamento al Dipartimento Energia delle competenze in materia di “impieghi pacifici dell’energia nucleare”. Un passaggio che va ben oltre la gestione e lo smaltimento delle scorie e sembra voler riaprire un capitolo chiuso in Italia da ben due referendum. “Il Mite procede come un carrarmato incurante del fatto che i cittadini si sono già espressi due volte nell’arco di un quarto di secolo”, spiega Angelo Bonelli. “Il nucleare è una tecnologica in arretramento in tutto il mondo e il Mite finge di ignorare che non è stato nemmeno ancora inserito nella tassonomia green dell’Unione europea. Quando parla di reattori di quarta generazione, Cingolani non sa di cosa parla”, spiega Massimo Scalia, presidente della Commissione scientifica sul decommissioning nucleare. Il ministro ha più volte mostrato attenzione al “mini nucleare”, cioè la generazione “avanzata” di reattori, un vero pallino della Francia da oltre un decennio, nonostante la messa in servizio della terza generazione sia in forte ritardo e i costi moltiplicati. Parigi preme per inserirlo nella nuova classificazione degli investimenti sostenibili che possono beneficiare dei fondi europei, scelta contro cui si oppone la Germania.
L’altro aspetto critico è l’inserimento delle competenze (articolo 13, lettera e) sullo “stoccaggio della C02” nei giacimenti esauriti (il Ccs), tecnologia assai contestata dagli ambientalisti ma propedeutica alla produzione di idrogeno da gas (invece che da fonti rinnovabili) che Bruxelles non vuole sia finanziata con fondi Ue. Nei mesi scorsi, Eni ha presentato il suo progetto per stoccare 500 milioni di tonnellate di C02 al largo di Ravenna. Del Carbon Capture and Storage parla anche il nuovo Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee pubblicato dal Mite.
G20, i grandi sono accolti da addetti pagati 5 l’ora
Questa mattina, dopo le celebrazioni al Colosseo di ieri sera con tanto di intervento del premier Mario Draghi e della direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay, i ministri del G20 Cultura – il primo di questo genere, tenacemente voluto da Dario Franceschini – si riuniscono in uno dei più bei palazzi di Roma, Palazzo Barberini, sontuoso edificio barocco progettato per papa Urbano VIII. Oggi è un museo statale, che per l’occasione è stato chiuso al pubblico. Lì, tra un summit e l’altro, tra un aperitivo e una conferenza stampa, in presenza di un Tiziano appositamente spostato da Napoli, ministri e addetti ai lavori troveranno a popolare le sale, vestiti di tutto punto, preparati e concentrati sul rendere più gradevole la permanenza all’interno dell’istituto anche 15 addetti e addette all’accoglienza diversi dagli altri. Anche se nessuno dei presenti forse lo noterà, anche se saranno dotati dello stesso pass di ogni altro addetto, non sono dipendenti del museo: sono lavoratori esternalizzati. E per il compito che svolgeranno oggi, essenziale per la riuscita dell’evento e per la sicurezza dello stesso, saranno pagati 4,8 euro l’ora.
Sia chiaro, non saranno pagati poco solo per questo evento: sono sottopagati così da quattro anni, da quando l’ennesimo bando al massimo ribasso li ha fatti passare dal già pessimo contratto multiservizi (7 euro l’ora) al contratto dei servizi fiduciari e ausiliari, proprio della vigilanza privata, nonostante tutti loro siano lavoratori specializzati del settore culturale.
La loro storia è la storia di tante e tanti, nel settore. Ci spiegano che lavorano per i musei statali da vent’anni, avendo cambiato una decina di società e cooperative, ma non sono dipendenti statali. E, solo grazie all’inserimento della clausola sociale nel loro contratto (voluta dalla dirigenza del Palazzo, e di cui molti dei loro colleghi sono privi), hanno trovato una certa continuità lavorativa che non ha, comunque, impedito che, a causa di leggi nazionali che prescindono dalla volontà del singolo museo, l’ultimo ennesimo ribasso li abbia costretti a una busta paga di 750 euro al mese.
Abbiamo parlato con uno dei lavoratori esternalizzati, Chiara. Ci ha spiegato che per loro essere coinvolti nell’evento del G20 è stata in realtà una gratificazione, un riconoscimento professionale. “Il problema non è domani, ma 365 giorni l’anno”, ci ha detto. Certo, oggi la loro silenziosa presenza striderà con le celebrazioni e le discussioni che li circonderanno, in cui delegati Unesco, ministri, direttori di musei e fondazioni, tratteranno tantissimi temi: dal traffico illecito dei beni culturali alla formazione degli operatori, dal cambiamento climatico fino alla transizione digitale. Ma non tratteranno di chi gli sta intorno, delle condizioni di lavoro dei lavoratori che consentono il funzionamento della macchina ministeriale, dei musei, delle biblioteche, degli archivi statali, da decenni, senza però essere parte del ministero. Persone che spesso nel corso del 2020 hanno vissuto per mesi, durante le chiusure degli istituti, con casse integrazione minime e in ritardo.
“Vorrei che ci chiedessero chi siamo, perché siamo lì”, ci dice Chiara, che neppure vuole che si faccia il nome della società esternalizzata per cui lavora, essendo “una delle tante, solo l’ultima che ha vinto un appalto al massimo ribasso”. Per Chiara è l’intero sistema delle esternalizzazioni a dover essere rivisto, evitando di disperdere competenze e denaro pubblico. E cercando di inserire nell’organico le loro figure, per evitare abusi che pure sono stati resi possibili da scelte politiche e sindacali che ora stanno dando i loro frutti. Ieri sera, ad accompagnare le note del maestro Riccardo Muti che ha aperto con il suo concerto il G20 della Cultura, c’erano gli operatori del Colosseo, esternalizzati a 7 euro orari. Oggi Chiara e i suoi colleghi, che il Palazzo stima ma che non ha i mezzi per pagare di più. Forse il prossimo G20 dovrebbe partire da qui, come chiedevano il sindacato Usb e l’associazione Mi Riconosci che ieri mattina hanno manifestato al Colosseo al grido di “Senza cultura nessun futuro” insieme a lavoratrici e lavoratori da tutto il Paese. Non resta che sperare che qualche ministro si incuriosisca, vedendo quelle quindici silenziose presenze nel Palazzo e possa iniziare una sana discussione a riguardo.
Le vittime: “Resta una porcheria”
La rabbia del movimento Agende Rosse e di chi ne ha sposato l’opposizione alla riforma Cartabia non si placa nemmeno alle notizie dell’accordo in Cdm che sposta più in là i paletti dell’improcedibilità per i reati di mafia. “Resta una porcheria, si differenziano solo le previsioni”, commenta l’avvocato Fabio Repici (nella foto), difensore di numerose vittime di reati di mafia. Solo poche ore prima, nella conferenza stampa delle Agende Rosse alla Camera dei Deputati, trasmessa su ilfattoquotidiano.it, dal significativo titolo “Riforma Cartabia – Ingiustizia di fatto e di diritto”, Repici aveva ricordato che con l’improcedibilità a soli due o tre anni, in Appello sarebbero finiti in fumo “la strage senza vittime dell’Addaura (l’attentato fallito alla villa al mare di Falcone, ndr) e il tentato omicidio del vicequestore Germanà, bersagliato da Bagarella, Graviano e Messina Denaro. Con grande scorno delle vittime perché persino le statuizioni del danno evaporeranno come in un sortilegio”. E comunque secondo l’avvocato “resta spalancata la questione della costituzionalità di una norma che prevede un doppio binario tra l’improcedibilità dei reati non mafiosi e quelli mafiosi, mentre la norma che affida agli indirizzi del Parlamento la priorità dei reati da perseguire è palesemente incostituzionale verso l’articolo 112 sull’obbligatorietà dell’azione penale”. Peraltro “continuano a restare fuori dai reati a improcedibilità più lunga i processi per disastro colposo come quello di Viareggio” ricorda al Fatto Marco Piagentini, il presidente dell’associazione delle vittime ‘Mondo che vorrei’, “per questo domani (oggi per chi legge, ndr) saremo a Montecitorio per protestare”.
Dalla conferenza delle Agende Rosse si alza un grido fortissimo contro il progetto della ministra di Giustizia. Secondo Salvatore Borsellino è stato prodotto “solo per annullare una riforma del governo Conte che bloccava la prescrizione e assicurava giustizia”. Tanto da invitarlo a un appello ai parlamentari: “Fermate questa riforma che distrugge il sogno di giustizia di Falcone e di Borsellino, altrimenti non osino nemmeno pronunciarne il nome”. Il direttore del Fatto Marco Travaglio ha ricordato l’anomalia tutta italiana “dell’unico Paese dove i governi muoiono sulle norme che garantiscono l’impunità”. E ha bollato la riforma come “prosecuzione con gli stessi mezzi delle politiche impunitarie di Berlusconi e del piano di Rinascita Democratica di Gelli: credo di aver fatto un favore dicendo a Draghi e Cartabia che non capiscono niente, altrimenti dovrei pensare che c’è dolo”.