Appelli improcedibili, mafia e “priorità”: i tre no del Csm

Ora è ufficiale. Il Csm ha bocciato la riforma della ministra della Giustizia Marta Cartabia con il voto definitivo di ieri in plenum, a larghissima maggioranza. Sono passati così i due pareri, uno solo sulla improcedibilità e uno sul resto della riforma, entrambi deliberati dalla Sesta commissione presieduta da Fulvio Gigliotti, laico M5S. In merito alla improcedibilità prevista in Appello e in Cassazione, parla di “rilevanti e drammatiche ricadute” dato che manderà in fumo decine di migliaia di processi e non garantirà giustizia alle vittime.

I due anni fissati per la durata massima del giudizio di Appello (a parte le eccezioni che, però, sono state approvate in Cdm ieri sera) pena l’improcedibilità, “sono largamente inferiori a quelli medi” che “oscillano dai 4 ai 5 anni”.

Questa riforma, ha scritto il Csm, ha pure profili di incostituzionalità, a partire dalla previsione che debba essere il Parlamento, ogni anno, a dettare le linee guida ai procuratori su quali reati devono indagare: una norma che rappresenta “un possibile contrasto con l’attuale assetto dei rapporti tra poteri dello Stato”, ovvero il principio costituzionale della divisione dei poteri. Inoltre, l’individuazione dei reati che i magistrati dovranno perseguire “rispecchierà, inevitabilmente e fisiologicamente, le maggioranze politiche del momento”.

Su improcedibilità e su priorità ordinate dal Parlamento si sono concentrati gli interventi dei consiglieri durante un lunghissimo dibattito. Per Nino Di Matteo ci sarà “un aumento esponenziale dell’impunità anche per reati molto gravi”. E fa rumore la sua affermazione, pronunciata quando la trattativa dei partiti di governo sembrava a un punto morto, che l’improcedibilità “segnerà la fine della stagione dei maxi-processi alla mafia, aperta a Palermo per volere di Giovanni Falcone” oltre alla “mortificazione dei diritti delle parti offese, alimentando un diffuso senso di sfiducia dei cittadini verso la giustizia”. Quanto alle priorità del Parlamento, dice Di Matteo, è “un vulnus evidente, apre la via ad una chiara violazione del principio di separazione dei poteri, all’indipendenza della magistratura e obbligatorietà dell’azione penale”. Giuseppe Marra (AeI), bocciando l’improcedibilità ricorda che con questo sistema rischiano di saltare i processi per il crollo del ponte Morandi o la caduta della funivia di Mottarone: “Non possiamo immaginare uno Stato che non assicuri giustizia, si crea un problema di tenuta democratica”. Giuseppe Cascini (Area) ricorda che “l’Europa non ci chiede di non fare i processi” e che l’improcedibilità “è un formidabile incentivo per gli imputati a tirarla per le lunghe, perché porta alla morte del processo”. E Alberto Bendetti, laico M5s: “Oggi sono in gioco i principi portanti di una società civile, questa riforma finirà con il privilegiare alcune classi che possono permettersi di andare in Appello e in Cassazione e di uscirne con l’improcedibilità. Il fine processo mai, conclude lapidario, non si risolve con processi farsa”.

Le votazioni sono state due perché prima del rinvio del plenum, deciso dal presidente Mattarella martedì scorso, la Sesta commissione aveva già deliberato un parere solo su improcedibilità. Poi, con il rinvio dovuto alla richiesta assai tardiva della ministra Cartabia di avere un parere, è stato deliberato un secondo testo sul resto della riforma. Sull’improcedibilità il parere è stato votato anche dal presidente della Cassazione Pietro Curzio, oltre che dai togati di Area, AeI, Unicost e dai 3 laici M5S, Benedetti, Gigliotti, Donati e Cerabona, FI. Contrari Alessio Lanzi, FI, storico avvocato di Berlusconi, Basile, Lega, e la togata Balduini di Mi, la corrente di centro-destra; si sono astenuti, come il laico leghista Cavanna, anche gli altri 4 togati di Mi. Proprio i togati di Mi, hanno tentato, fallendo, di “annacquare” il secondo parere nel punto in cui demolisce l’ipotesi che sia il Parlamento a dettare la linea ai pm. Ma, essendo rimasti isolati, a malincuore votano il parere originario. Contrari Lanzi (anche se poi non ha votato perché andato via) e Basile. Cavanna ancora astenuto, idem i capi di Corte Curzio e Salvi. Sulla posizione di Mi, rimbalzano alcuni commenti maliziosi nei corridoi di palazzo dei Marescialli: sono filogovernativi, lato centrodestra, che alle prossime elezioni viene dato vincente con Giulia Bongiorno papabile ministra della Giustizia.

Un regime “speciale” per 416bis e ter, tempi più lunghi sul resto

Ore e ore di estenuanti trattattive, di lunghi momenti in cui l’intesa sembrava davvero impossibile e poi la mediazione sui reati gravissimi: mafia e terrorismo. Ma anche traffico di droga e violenza sessuale. E così i processi per mafiosi e diversi loro “sostenitori” o “beneficiari” si salveranno dalla morte assicurata, fino a ieri, per improcedibilità-impunità. La riforma Cartabia ora prevede, infatti, che per i processi in cui viene contestata l’associazione di stampo mafioso (articolo 416 bis) gli imputati non potranno puntare all’improcedibilità che scatta (vedremo in seguito come) per altri reati in Appello e in Cassazione, se si sforano dei tempi prefissati.

Per gli imputati di associazione mafiosa i processi potranno prolungarsi “sine die”, senza un limite di tempo. Ma le proroghe, ricorribili in Cassazione, devono essere sempre motivate dal giudice. Lo stesso vale per gli imputati accusati di voto di scambio politico-mafioso (416 ter), stiamo parlando di promesse di procacciare voti a politici con le modalità mafiose; di casi in cui si accetta “la promessa in cambio dell’erogazione o della promessa di denaro o di altra utilità al sodalizio criminale”. Idem per terrorismo, traffico di droga e violenza sessuale.

Binario speciale ma con dei paletti, per i reati con aggravante mafiosa (416bis.1/comma 1), quando si prevede l’aumento di pena perché la condotta contestata è stata messa in atto al fine di agevolare le associazioni mafiose: per esempio, anche se rubo “solo” una macchina, ma per agevolare una cosca. Per questo tipo di processi le proroghe sono “al massimo 2” sia in Appello, ciascuna di un anno, sia in Cassazione, ma ciascuna di 6 mesi. Sempre motivate. La riforma vale, comunque, per tutti i tipi di reato commessi dopo il primo gennaio 2020 e ha una norma transitoria fino al 31 dicembre 2024.

Fino a quella data, cioè, i termini per celebrare i processi per tutti i reati non a “regime speciale” saranno più lunghi: 3 anni in Appello e 18 mesi in Cassazione. Inoltre, possono essere prorogati: “Fino a 4 anni in Appello”, quindi 3 più 1; fino a 2 anni in Cassazione: 18 mesi più 6 mesi di proroga. Ogni proroga, però, deve essere motivata dal giudice con un’ordinanza, ricorribile in Cassazione, in base alla complessità del processo. “Di norma, è prevista la possibilità di prorogare solo una volta”.

Conclusa la fase transitoria, quindi dal 1 gennaio 2025, in Appello, i processi possono durare, di base fino a 2 anni, più una proroga di un anno al massimo in alcuni casi; in Cassazione, il giudizio si deve concludere in 1 anno, di base, più una eventuale proroga di sei mesi. I reati puniti con l’ergastolo sono rimasti esclusi dall’improcedibilità.

“Le modifiche sono merito nostro: nessun limite sulla mafia”

Il baratro della crisi è stato lì, a un passo, ma a sera inoltrata il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli respira, nonostante l’afa romana: “Ho appena fatto una breve corsa, dopo una giornata così ci voleva…”.

Il bicchiere è davvero mezzo pieno? Matteo Renzi già esulta: “La riforma Bonafede è un caro estinto”.

È sicuramente più che mezzo pieno. Da oggi per tutti i reati, fornendo una motivazione, si potrà aggiungere un anno per terminare il processo di appello e sei mesi in Cassazione. E fino al 2024 si potrà aggiungere un ulteriore anno, quindi siamo passati a quattro anni, cioè il doppio rispetto al testo originario (che prevedeva due anni per l’Appello e uno per la Cassazione, ndr).

Ma l’impianto della riforma Bonafede è stato stravolto. Vi hanno tolto una bandiera…

La forza di quella riforma era che rendeva di fatto inutile la prescrizione, perché era accompagnata da tali e tanti rafforzamenti degli organici e dei mezzi che la prescrizione non sarebbe servita più. Ricordo che sono 22.500 le assunzioni previste dalla legge Bonafede e confermate dalla riforma Cartabia. E poi per i processi complessi ci si potrà prendere del tempo in più. Soprattutto, per il reato di associazione mafiosa e per quello di scambio elettorale politico-mafioso non ci saranno praticamente termini, visto che si potranno disporre proroghe senza limiti.

Lei elenca risultati. Ma il Parlamento potrà indicare ai pm su quali reati indagare in via prioritaria. Preoccupante, no?

La Carta è molto chiara nel suddividere i poteri dello Stato e quello giudiziario è separato da quello esecutivo. Avevamo chiesto di togliere questa norma e non l’abbiamo ottenuto. Detto questo, il Parlamento si limiterà a fare una relazione. Non sarà una cosa che potrà incidere più di tanto. E poi, ripeto, c’è la Costituzione che tutela la magistratura.

Oggi per qualche ora il M5S è stato con un piede e mezzo fuori dal governo. Minacciavate di astenervi, giusto?

C’è stata un’iniziale interlocuzione su un testo diverso da quello finale che non ci consentiva di superare tutte quelle criticità già emerse. Sulla base di ciò che è successo dopo l’otto luglio (quando i quattro ministri del M5S votarono sì alla riforma Cartabia in Cdm, ndr) abbiamo percepito tutti l’esigenza di modificare il testo. Ma oggi quando siamo arrivati in Consiglio non avevamo ancora le garanzie necessarie. È stata una trattativa lunga e complessa, ma a differenza di quell’otto luglio abbiamo percepito la leadership di Giuseppe Conte.

Quella volta avevate votato sì per le pressioni ricevute, comprese le telefonate di Grillo?

Ho detto più volte internamente e lo ridico anche pubblicamente che se non avessimo votato a favore quel giorno oggi non avremmo ottenuto i miglioramenti che abbiamo raggiunto. Sfilandoci non avremmo avuto un nuovo testo. E poi se fai parte di una maggioranza eterogenea devi accettare dei punti di caduta. Altrimenti non se ne fa più parte.

È vero che Draghi minacciò di dimettersi se vi foste astenuti?

È una cosa passata. Non ci sono mai minacce in Cdm.

Magari prima…

(Sorride, ndr).

Ora i gruppi parlamentari reggeranno? In tanti non ce la fanno più a stare nel governo Draghi. E avete perso un’altra senatrice, Elena Botto. che ha parlato di “troppi compromessi al ribasso”.

Non conosco le ragioni della senatrice, forse accennava al dl Semplificazioni. Di certo questo accordo è stato reso possibile dalla mediazione di Conte, e ora Giuseppe ha bisogno di compattezza. Altrimenti è giusto che ce ne andiamo a casa.

Grillo sarà contento di questo accordo?

Beppe ha dato il contributo che tutti sappiamo alla formazione di questo governo. Questo accordo ci consente di continuare a lavorare per i cittadini, quindi credo che sarà contento.

Conte minaccia la crisi e riscrive la Cartabia: tutti mugugnano, poi votano

C’è Giuseppe Conte che festeggia: “Non è la nostra riforma, ma l’abbiamo migliorata”. Secondo la Lega sta mentendo: “È a lutto e inventa falsità”, come quella – sostengono – secondo cui sono stati i ministri di Matteo Salvini i più strenui oppositori della modifica che escludeva dalla riforma Cartabia i reati per mafia. Italia Viva sventola il re nudo: “Da stasera la riforma Bonafede non esiste più”. E lei, la ministra della Giustizia, fa scrivere nel comunicato finale del Cdm di ieri che è stata lei a proporre – anche alla luce dei rilievi degli “addetti ai lavori”, preciserà – le modifiche al testo che era già stato “approvato due volte all’unanimità dal governo”. Così, domenica il nuovo processo penale arriverà in aula alla Camera, probabilmente blindato con la fiducia: non piace del tutto a nessuno, ma lo voteranno tutti, inaugurando di fatto il semestre bianco come chiedeva Sergio Mattarella. Non è un caso che, a caldo, dal Quirinale filtri “soddisfazione” per l’accordo nella misura in cui “tiene insieme tutti i partiti e fa navigare Mario Draghi in acque tranquille”.

Ecco dunque la riforma Cartabia “riformata”, ovvero riscritta soprattutto nel punto più controverso, quell’improcedibilità che – secondo l’Associazione nazionale dei magistrati – avrebbe mandato in fumo 150 mila processi in un amen. Cede al pressing di Giuseppe Conte e dei 5 Stelle, allungando a 4 anni e 2 anni la finestra entro cui si potrà tenere il processo di appello e in Cassazione e rinviando al 2025 l’entrata in vigore della “tagliola” (3 anni per il secondo grado di giudizio, 18 mesi per il terzo) che dovrebbe velocizzare i processi, sempre che l’Osservatorio appositamente istituito per monitorare lo smaltimento degli arretrati dica che si è nelle condizioni per andare avanti. Fuori dalle nuove regole – come vi spieghiamo qui accanto – resteranno comunque i reati puniti con il 416 bis e ter, mentre per molti reati gravi (mafia, terrorismo, violenza sessuale, traffico di droga ma non per quelli contro la pubblica amministrazione) si fissa in 6 anni il termine entro cui deve chiudersi l’appello. Se funzionerà, resta tutto da vedere. Per ora ci sono le dichiarazioni di Luigi Di Maio, secondo il quale “non c’è più alcun rischio di impunità per mafia e terrorismo”. È stato lui, insieme ai colleghi 5 Stelle al governo, ad aggiornare Giuseppe Conte sull’andamento della trattativa, una volta iniziato il Consiglio dei ministri. Per tutto il giorno l’ex premier ha seguito la partita dal “quartier generale” allestito nella sala Siani di Montecitorio: i contatti diretti al mattino con Mario Draghi e Marta Cartabia, la sequela di proposte bollate come “irricevibili”, la mediazione condotta (e rivendicata) dal Partito democratico, fino all’inizio della riunione di governo cominciata alle 14 senza i ministri 5 Stelle e chiusa poco dopo le 18 con il via libera sull’accordo.

“Una durissima battaglia”, la racconta il leader M5S. Non solo per le resistenze della ministra e delle altre forze politiche: la Lega, dicevamo, ma anche Forza Italia e i renziani, per nulla favorevoli a cedere terreno alle richieste dei 5 Stelle, tanto che Draghi ha dovuto fare appello alla “responsabilità di tutti” per convincerli a deporre le armi.

Ma anche all’interno del Movimento, la faccenda è tutt’altro che filata liscia. Da una parte l’ala governista guidata da Luigi Di Maio, che in mattinata non nascondeva tutta la preoccupazione per la “corta tirata” da Conte e invitava tutti alla “ragionevolezza”. Dall’altra le truppe per le quali la legge Bonafede – bandiera del Movimento anti-prescrizione – andava difesa a costo di uscire dalla maggioranza. Li galvanizza, dalla Bolivia, Alessandro Di Batttista: “Non sarà più una legge salva-mafiosi ma resterà una legge salva-ladri, salva-colletti bianchi, salva-potenti e, soprattutto, salva-politici. Avallare questa porcata nonostante sia un po’ meno sudicia è un grande errore. Per essere chiari (e mi scuso per il turpiloquio ma a volte è necessario) se a 100 kg di merda vengono tolti 20 kg sempre 80 kg restano. E sempre merda è!”. Ieri mattina la senatrice Elena Botto ha già girato le spalle al nuovo M5S guidato da Conte. Lui è “fiducioso” ma lo sa: non è detto che resti la sola.

Scartabia

Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Già il fatto di porsi questa domanda su un governo che ha tentato fino all’ultimo di mandare al macero centinaia di migliaia di processi per reati gravissimi segnala il livello criminale delle classi dirigenti che lo esprimono. Comunque la risposta è: più pieno che vuoto. Il compromesso al ribasso che salvava solo i processi per associazione mafiosa e voto di scambio, condannando all’improcedibilità tutti i delitti “strumento” dei clan – corruzione, estorsione, usura, riciclaggio, turbativa d’asta, truffa, frode, traffico di droga, armi, rifiuti tossici, prostituzione ecc. – è stato evitato dall’intransigenza di Conte, in una trattativa che partiva disperata: i processi d’appello per tutti i reati con l’aggravante mafiosa potranno durare 6 anni fino al 2024 e poi 5. E quelli per associazione mafiosa, voto di scambio, terrorismo, droga e reati sessuali avranno proroghe senza limiti. In più la sabbia nella clessidra inizierà a scendere non alla sentenza di primo grado, ma 90 giorni dopo. Per gli altri processi d’appello, gli anni non sono più i 2 voluti dalla Cartabia, ma 3+1, poi scenderanno di 1 solo se l’apposito Comitato tecnico dirà che il sistema è pronto. Non solo: se si riapre l’istruttoria dibattimentale per nuovi atti d’indagine o interrogatori, la clessidra si ferma: così i 3+1 o i 2+1 valgono solo per i processi che ridiscutono carte e sentenze di tribunale; per gli altri il termine sale. Resta lo scempio (sia pure annacquato) del Parlamento che indica alle Procure i reati prioritari, ma lì si spera che intervenga la Consulta; e l’obbligatorietà dell’azione penale tutela ogni pm che osi indagare sui delitti “fuori menu”.

I pericoli peggiori (anche se non tutti) della schiforma Cartabia sembrano sventati: basta confrontare il testo originario con quello stravolto dall’accordo di ieri. I 5Stelle, dopo mille cedimenti e sbandate, ridanno agli elettori un motivo per votarli. Lega, FI e i renziani del Pd e di Iv si confermano i santi patroni dell’impunità. Ma questo già si sapeva, anche se il M5S, la parte sana del Pd e Leu dovrebbero prenderne atto. A uscirne con le ossa rotte sono la cosiddetta ministra della Giustizia e Draghi che, o per malafede o per incompetenza (non si scappa: delle due l’una), hanno fino all’ultimo negato l’evidenza e tentato di imporre un testo che tutti gli addetti ai lavori (oltre al Fatto) giudicavano un Salvamafia&ladri. Una Guardasigilli che nega in Parlamento qualsiasi effetto sui processi di mafia e poi ingoia quel po’ po’ di eccezioni imposte da Conte sui reati di mafia (416bis, 416bis.1 e 416ter), dovrebbe scusarsi e dimettersi. Da ieri è ufficiale che o non sa quel che dice, o ci ha provato e le è andata male. Altro che aspirare al Quirinale: dovrebbe andarsene a casa.

“Temptation Island” mania. Ma è solo un copia e incolla

Alessandro non si dava pace. Come avrebbe fatto, laggiù, senza i suoi pesi? Celebre la sua massima: “Spacco tutto”. E quando Jessica ha accennato alla sua vita precedente sotto le lenzuola con lui, il popolo dei social è esploso: “Lo facciamo ogni due-tre mesi. Lui è diventato un unico con la palestra, il divano e il telefono”. Un mese dopo non stanno più insieme, non ce l’hanno fatta a resistere, memori di T.S. Eliot: “L’ultima tentazione è il peggiore dei tradimenti: fare la cosa giusta per il motivo sbagliato”. E che dire del colpo di coda tra Manuela e Stefano? Lei si è baciata con Luciano, e al falò conclusivo gli ha pure rifilato, per la legge di Murphy, uno schiaffone: “Sei un porco, un deficiente”. Gran finale di pubblico, martedì sera, per il docu-reality Temptation Island. Ben 3.694.000 spettatori, il 27,4% di share. Il 44% dei 15-34enni era incollato su Canale 5 a seguire l’ultimo atto di un programma che mette in scena sei coppie, non sposate e senza figli, che vanno a verificare in Italia-visione la solidità della loro love story. Promiscuità e cupidigia tra “belli”. Tutto così cerebrale. Ma è roba autarchica, l’“isola delle tentazioni”? Negativo: è prodotta dalla Fascino di Maria De Filippi, ma è l’adattamento di un programma americano di inizio millennio. Il 4 luglio è calato invece il sipario su Love Island Italia, il dating-reality di Discovery+ e Real Time. I protagonisti sono cinque maschi e cinque femmine tra i 19 e i 30 anni, senza lacci, che rincorrono l’anima gemella in vacanza. Stando piantati per un mese in una villa extralusso. Nella fattispecie pulsa, alla base, un format inglese. Certo, noi alla conduzione vantiamo il best-seller Giulia De Lellis, che ha già preannunciato di volersi votare al canto. Ma che fine hanno fatto i nostri show autoctoni da esportazione? Accadde con Amici e Uomini e Donne della De Filippi e con Chi l’ha visto? e I Fatti Vostri. Poco altro. Oggi importiamo quasi tutto. Dal Grande Fratello a MasterChef e X-Factor. Dal mercato anglosassone agli olandesi, dagli israeliani alla Corea del Sud. Corsi e ricorsi storici: Lascia o raddoppia? derivava dal francese Quitte ou double, a sua volta mutuato dallo statunitense The $64.000 Questions. Mike ipnotizzava, con garbo, una nazione televisivamente nascente. L’originalità stava negli occhi di chi guardava. Accontentarsi o tentare la sorte per assurgere alla gloria video? Che tentazione autentica, irresistibile.

Cronista clochard “Bar Fusco”. Dal pugilato al “Mondo”

Negli anni Cinquanta del secolo scorso il Caffè Fappani era il cuore della risorta Passeggiata a mare di Viareggio; nell’azione al rallentatore dei tramonti versiliesi, non era raro veder formarsi un capannello dove un irresistibile personaggio ipnotizzava i clienti con il racconto della sua vita, anzi “delle sue molte vite”. Aveva un’aria da senza tetto, e lo era davvero. Viso scavato, riccioli incolti, occhi saettanti. Raccontava di quando era stato al servizio dei “durasse” della mala marsigliese (specializzazione “bambù”, guardiano di prostitute); di quando aveva calcato il ring, specialità Pesi Gallo; di quando aveva combattuto in Albania da geniere alpino. Dopo la liberazione, eccolo in Versilia. Finché la pineta del Tombolo era stata terra di nessuno, aveva messo su un baraccone di arte varia: boxeur, ballerino di tiptap, fachiro, chiromante, e perfino incantatore di serpenti (in realtà, innocue bisce d’acqua).

Ogni mito ha la sua levatrice. Venere sorge dalle acque di Cipro, Montanelli nasce insieme alla sua Lettera 22. Gian Carlo Fusco, figlio di un ammiraglio spezzino, classe 1915, emerge dai tavolini del Fappani, dove l’amico Manlio Cancogni, collaboratore del Mondo, ascoltato l’ennesimo racconto, non ha più dubbi: “Questa la devi scrivere, poi spediamo il pezzo a Pannunzio”. Che un lucchese (quale era il direttore del Mondo Mario Pannunzio) desse credito a un viareggino non si era mai sentito; ma la vita di Fusco è stata la più confermata delle regole, fatta di sole eccezioni. Il Mondo lo terrà a battesimo pubblicando La sua battaglia, esilarante sortita di Mussolini sul fronte albanese, e di lì a poco arriverà una proposta di assunzione.

Che due lucchesi diano credito a un viareggino attiene al paranormale; eppure il direttore dell’Europeo Arrigo Benedetti (anch’egli nato a Lucca, e come Pannunzio cresciuto alla scuola di Leo Longanesi) nota quell’esordiente di genio, quella scrittura impasto di documentazione, ironia e mimesi, e lo convoca a Milano. Camilla Cederna racconta il materializzarsi di Gian Carlo Fusco tra i redattori radical-chic di via Monte di Pietà con queste parole: “Sandali sfasciati ai piedi, pantaloni con un fil di ferro per cintura e una cordicina più sotto, dove era più che necessaria una chiusura, quella bocca vuota, la barba lunga e un bosco di riccioli disordinati. Un clochard”.

Nei match di pugilato qualcosa di vero doveva esserci, perché le scazzottate gli avevano fatto cadere tutti i denti. “Lo assumo a patto che si faccia fare la dentiera”, dice Benedetti, così i primi stipendi serviranno per restituire a Cancogni i soldi anticipati per una costosissima protesi. Il resto se ne va per la grappa che la Nardini spedisce all’indirizzo del “Bar Fusco”, immaginando che quegli ordini di parecchie casse al mese potessero arrivare solo da un bar.

“Bar Fusco”: ormai lo chiamano così sia i colleghi di redazione, sia gli amici con cui tira mattina nei locali di Milano, dove all’occorrenza la sofisticata dentiera si rivelerà un’ottima arma impropria. Fusco non rinnegherà mai né i caffè, né i tavolini, darà diverse dimissioni e mai l’esame per diventare giornalista professionista, ma è proprio questa anarchia a nutrire il suo talento di irregolare assoluto, senza tetto né legge. Al Giorno ruggente di Baldacci e Mattei, diventa la prima firma; narra la leggenda – unica fonte attendibile quando si parla di Fusco – che per stilare le trenta righe della Colonna sudasse davanti alla macchina da scrivere per ore assistito dai suoi grappini, e la leggenda è fededegna, perché il giornalismo non fu mai per lui un’attività di serie B, casomai lo furono scrivere per il cinema e la letteratura, nonostante il capolavoro di Duri a Marsiglia scritto negli ultimi anni quasi per necessità.

D’altra parte, in Fusco certe distinzioni hanno poco senso, come ha sintetizzato il suo gemello diverso Cancogni: “Mentendo approfondiva la verità, aveva il talento eccezionale di dare una qualità fantastica alla sua vita. Come un grande attore entrava nella vita degli altri, ricreava le loro azioni rendendole più vere del vero”. Il che accade regolarmente nei suoi reportage, nei suoi ritratti, nelle sue inchieste: si tratti di seppellire il Fascismo nel ridicolo della sua stessa retorica, di descrivere i nuovi eroi del Boom o di rendere omaggio alle maîtresse messe a riposo dalla legge Merlin.

In tempi di fact cecking, sarebbe dura per uno come lui; ma sono timori infondati perché il giornalismo è diventato un’altra cosa, come notava Natalia Aspesi già nel 1985: “Oggi uno come Fusco probabilmente non incomincerebbe nemmeno a scrivere”. Già. Ma anche mezzo secolo prima, fosse stato per lui, si sarebbe fermato lì, ai tavolini del Fappani; dopo un decennio di dolce vita a Milano, dagli anni Sessanta si trasferisce a Roma e lì sarà una vita agra, un lungo e non meno leggendario declino, impegnato, da autentico scrittore qual era, a chiudere da giornalista fallito. Un anno prima di morire si può ammirare il suo cameo in Paulo Roberto Cotechinho centravanti di sfondamento, nel ruolo del giornalista Trombetti. Bastian contrario fino all’ultimo, verso tutti, ma prima di tutto verso se stesso.

“La vera lezione di Proietti, la cheesecake e la botanica”

Conduce Il contadino cerca moglie e sa cos’è il topinambur; se qualcuno gli parla di numeri, sono guai (“Ho una laurea in Scienze Statistiche”). Come imperativo morale ha scelto la cheesecake per “colpa” di Limonov e del suo cantore Carrère e con il Trio Medusa ringrazia Vittorio Sgarbi per il salto di popolarità (“Le sue aggressioni sono cult, anche quando ci urlava culattoni e raccomandati”). Oggi Gabriele Corsi compie 50 anni (auguri), ma è un uomo che non ha messo da parte i sogni di ragazzo e con lui la massima “l’ironia è una cosa seria” sembra un guanto.

Come si sente?

Ero già vecchio da giovane, il vantaggio è essere rimasto uguale: ero sempre in biblioteca o a teatro, di rado in discoteca.

Attore teatrale preferito?

Da ragazzo aspettavo Glauco Mauri fuori dal camerino: conservo il suo autografo sul bollettino delle tasse pagate per l’Accademia d’Arte drammatica; a lui aggiungo Proietti.

Con il quale ha lavorato.

La prima volta l’ho visto in teatro quando avevo 16 anni: i biglietti del Gaetanaccio erano il regalo di compleanno dei miei; poi è arrivato Il Maresciallo Rocca e conosciuto il mito.

Ne è rimasto scottato?

Gigi mi ha cambiato la vita: mi ha preso sotto il suo sguardo e insegnato cos’è questo lavoro.

Primo articolo dalla Costituzione secondo Proietti.

Non solidarizzare mai con chi non ha il senso dell’umorismo e chi non sa ridere di sé.

L’hanno espulsa dall’Accademia.

Giustamente: ero insubordinato, inadatto alla struttura, alle regole e a quella impostazione teatrale. Sono selvaggio.

Ribelle?

Sono cresciuto per strada, ma con l’educazione di una nonna marchesa; vengo da Cinecittà (sud di Roma), lo stesso quartiere di Eros Ramazzotti; (sorride) mia madre è stata la sua insegnante alle medie, e ogni volta che ci sentiamo mi domanda: “Come sta mamma?”. E rispondo: “Io bene grazie”.

Insomma, Cinecittà.

Erano anni vivaci, purtroppo molte persone a me vicine se le è portate via la droga: nel parco davanti a casa vedevi la famosa “distesa di aghi sotto il cielo” come cantava De Gregori; in terza media avevo un compagno che morì di overdose.

La favella quando l’ha scoperta?

Subito: il maestro delle elementari mi piazzò su un palco e lì ho capito; (ride) da ragazzo, per otto anni e con i miei due “soci”, abbiamo vissuto una gavetta durissima, siamo andati in giro nei teatri più sperduti d’Italia: ricordo una serata a Grotte di Santo Stefano, dove non ci hanno pagato: “Se volete vi diamo un piatto di pasta e fagioli”. Abbiamo accettato.

Quanti spettatori?

Anche due. A Roma, in una di queste serate, nei camerini si presentò una signora: “Vuoi fare il Maresciallo Rocca?”. “Cos’è?”. “Una serie tv”. “Sono più interessato al teatro. Per curiosità, quanto pagate?”. “800 mila lire al giorno”. La mattina dopo ero sul pianerottolo della casa di produzione.

È anche nel cast di uno dei film più trash del mondo.

Non si permetta di parlar male di Alex l’Ariete e di Alberto Tomba (il protagonista, ndr). A Cortina lo proiettano tutti gli anni e il pubblico conosce a memoria le battute; alla fine delle riprese Damiani (il regista, ndr) mi disse: “Ti voglio bene, taglierò la tua parte”. Mi ha lasciato in una sola scena.

Quanto ringrazia Sgarbi?

Come Trio tanto; c’è stato un periodo nel quale mi chiamava al telefono e l’incipit era “sono papà”; con noi ha ammesso di aver perso: per un provocatore il massimo cadere nella provocazione.

Si sente più culattone o raccomandato?

Culattone; raccomandato mai, altrimenti con Furio (del Trio, ndr) non avrei fatto il servizio in un manicomio. Il primo giorno arrivo, vedo un signore, gli chiedo un’indicazione e mentre risponde mi vomita addosso. Era uno dei pazienti.

Con chi niente selfie?

Con i politici: poi passa una settimana, leggo il Fatto e li trovo inquisiti. Comunque non con questa destra, con l’omofobo, il razzista e il non vaccinato.

Sa cos’è il topinambur.

Mi piace la botanica e il giardinaggio è quasi zen, come direbbe Carrère.

Carrère ha appena pubblicato Yoga.

Di lui ho letto tutto; in Limonov racconta come il dissidente russo appena vedeva uno specchio d’acqua doveva farsi il bagno. Era un patto con se stesso. Mi sono detto: devo trovarmi un imperativo morale.

E qual è?

La cheescake: se me la offrono, accetto; (ride) lo so, non è la stessa cosa.

Quale personaggio letterario le piacerebbe essere?

Il colonnello Buendia di Cent’anni di solitudine.

Ha mantenuto i suoi sogni da ragazzo?

L’importante è guardarli con lo stesso stupore: mi sveglio e penso che mi pagano per qualcosa che farei gratis.

I pii mariani in processione per il Sacro Cuore di Draghi

La prossima mossa, da inserire e scolpire nelle Tavole del Recovery Plan, potrebbe essere l’istituzione del Natale di Draghi il 3 settembre, fausto dì in cui si celebra il genetliaco Migliore che c’è. Per quel solenne giorno, si pensa anche a nevicate artificiali per rendere più intimo il raccoglimento popolare. Nel frattempo il culto mariano si è radicato definitivamente dopo l’indicibile peccato di Lesa Draghità (copy Daniela Ranieri) compiuto dal direttore del Fatto, che ha dubitato dell’onniscienza presidenziale con riferimento alle sue origini familiari. Nei talk, sui giornaloni mainstream e non solo, sui social è sfilata un’interminabile processione per adorare il Sacro Cuore di Draghi.

Ad aprire il corteo è stato il Giornalista Collettivo (e quindi ignotamente incappucciato) della Stampa, uno dei due quotidiani degli Agnelli-Elkann di Gedi, che ha camminato innalzando un grande quadro con il Volto Santo di Mario. Commovente, infatti, l’intera pagina che il quotidiano ha dedicato alla dolorosa ricostruzione familiare di Draghi orfano. Subito dietro, alla canonica distanza di quattro metri (il distanziamento nelle processioni è questione plurisecolare), i cugini di Repubblica, altro giornalone del gruppo Gedi. Una fila composta da due firme mariane ortodosse con sacco bianco e sopra una fascia trasversale con la scritta “Mario per sempre”: Francesco Merlo e Sebastiano Messina. Il primo con una tabella allacciata al collo che invita a “Non nominare il nome di Mario invano”, il secondo con l’effigie di una santa minore ma pur sempre importante: Santa Marta martire, che però non è la sorella di Maria e Lazzaro cui è intitolata la residenza di papa Francesco, bensì l’attuale Guardasigilli.

La terza fila della processione è stata quella dell’Ordine dei mariani pelati e calvi(nisti), cioè i direttori della destra di governo: Augusto Minzolini del Giornale e Alessandro Sallusti di Libero. Per l’intero percorso, Minzolini ha fatto l’ostensione della teca con la reliquia di un Capello mariano, da cui è stato estratto anche il Dna per venerare al meglio l’essenza divina del Migliore. Sallusti invece ha portato una preziosa copia di Oliver Twist, l’orfano dickensiano protagonista del romanzo sociale inglese dell’Ottocento.

Al centro del corteo, il folto coro dei cantori della Via Draghis, disposto in cinque file da tre e composto in principal modo da giornalisti e parlamentari minori del renzismo molto attivi sui social da mane a sera. Per tutto il cammino hanno intonato una sola litania salmodica: “Mario onnipotente, Mario onnisciente, Mario capisce tutto”.

Alle spalle del coro, sempre ai canonici quattro metri di distanza, il rappresentante della Confraternita dei Battenti mariani riformisti terziari e terzisti: il ramingo Paolo Mieli (copy Travaglio), che si è flagellato il petto con una spugna di sughero conficcata di chiodi. Accanto a lui l’anonimo Conduttore Collettivo dei talk gli ha versato del vino sulle ferite ogni dieci metri. Lancinante il grido ripetuto a ogni colpo di spugna: “Perché?”. In questa parte della processione si è inteso condannare l’applauso del popolo di sinistra all’indicibile peccato del direttore del Fatto. Da lustri infatti l’élite riformista e terzista del Paese s’interroga gravemente sulla mancata conversione del popolo della sinistra all’unità nazionale e in generale a ogni forma consociativa. Un popolo dalla dura cervice che peraltro ha sempre punito nelle urne il suo partito dopo le esperienze “unitarie” di governo, a partire dal compromesso storico di Berlinguer per arrivare alla Seconda Repubblica (Bersani e Renzi).

Dopo il battente ramingo Mieli, un’altra fila solitaria: Massimo Franco, notista del Corriere della Sera, che scalzo e penitente ha scandito ogni venti passi il sinistro ritornello di Savonarola agli infedeli anti-draghiani: “Ricordatevi che dovete morire”, con o senza vaccino.

Ed ecco finalmente sfilare il cuore del corteo: la statua del Santissimo Mario, con una fiammella tra le mani a simboleggiare che il suo avvento al governo ha portato la luce in Italia e tutto sommato nell’intero orbe terracqueo. Quattro i portanti, scelti dopo un’accurata selezione per zelo e fede, tre direttori e un ex oggi editorialista: Massimo Giannini (La Stampa), Luciano Fontana (Corsera), Maurizio Molinari (Repubblica) e Stefano Folli (columnist di Repubblica). A tratti la statua del Santissimo è parsa ondeggiare pericolosamente, inclinandosi davanti. Colpa dell’altezza di Molinari, il più basso di tutti, e quindi non appaiato con il resto dei portanti. A seguire il sinedrio sacerdotale del culto supermariano, dal reverendo Sabino Cassese al papa laico Sergio I, e la banda musicale dell’Arma dei carabinieri che ha suonato varie canzoni dello Zecchino d’Oro dedicate alla festa del papà.

Infine, le ultime due file. Dopo la banda, una gigantesca luminaria retta da dodici mariani zelanti ha irradiato altra luce con il motto del culto di Draghi, già allievo dei gesuiti: Whatever it takes, in italiano “Tutto ciò che è necessario”, che rievoca la benedizione Migliorista che fece il miracolo di salvare l’euro. Secondo gli apologeti di SuperMario il motto ricalca una citazione altrettanto nota degli esercizi ignaziani: Todo modo para buscar la voluntad divina, “Ogni mezzo per cercare la volontà divina”. Quest’anno peraltro sono 500 anni dalla conversione di Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù.

A chiudere la processione, un reietto coperto solo da un sacco di tela, a capo chino e con al collo una corda, immagine vivente del tradimento di Giuda Iscariota. Circondato dai pretoriani mariani, il reietto si è offerto alla gogna errante per aver offeso il Migliore. No, a sfilare non è stato chi pensate voi. Il poveretto aveva una maschera di Pier Paolo Pasolini buonanima. E sulla pelle incisi a sangue i suoi versi bestemmiatori: “Avete facce di figli di papà”.

CasaPound, parte l’iter per lo sgombero Raggi: “L’avevo detto, le leggi si rispettano”

L’occupazione di CasaPound nell’immobile nel centro di Roma ha i giorni contati. O almeno questo è quanto emerge dall’esito dell’incontro di ieri fra la sindaca (ormai uscente) Virginia Raggi e il prefetto Matteo Piantedosi. Il vertice ha stabilito che la prossima riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza disporrà il censimento degli occupanti dello stabile di via Napoleone III, nel rione Esquilino, a due passi dalla stazione Termini. All’ultimo rilevamento, l’occupazione era formata da 18 famiglie che si dichiaravano in emergenza abitativa, ma che risultano avere legami molto stretti con gli esponenti di punta del movimento. Il censimento è il primo passo per lo sgombero. Successivamente, i servizi sociali del Comune di Roma provvederanno a trovare un alloggio alternativo a chi ha effettivamente i requisiti per l’accesso alla casa popolare, mentre gli altri dovranno provvedere autonomamente. Difficile, tuttavia, che si arrivi alla liberazione dell’immobile prima dell’uscita della Raggi dal Campidoglio, visto che l’Assemblea capitolina dovrebbe sciogliersi, in vista delle elezioni di ottobre, entro la metà di agosto. “CasaPound – ha dichiarato Raggi in un post su Facebook – dovrà abbandonare l’immobile perché non ha alcun diritto di stare lì: non paga un canone, non ha un contratto, vive sulle spalle degli altri. Chi occupa abusivamente un immobile, chiunque esso sia, deve lasciarlo a disposizione di quelle famiglie e quelle persone che hanno realmente necessità di aiuto. La legge, lo ripeto, si rispetta”. L’edificio di via Napoleone III è occupato dal 2003. L’ex sindaco Gianni Alemanno stava per regolarizzare la posizione di CasaPound fra il 2010 e il 2011 attraverso una concessione, salvo poi rinunciarvi in seguito alle fortissime polemiche sollevatesi. Paradossalmente, la mancata formalizzazione ha consentito al movimento di estrema destra di non entrare nel vortice dell’inchiesta Affittopoli e di non fare la fine di altre situazioni borderline, individuate dalla Corte dei Conti, come la sede Pd di via dei Giubbonari e quella di Fdi di Colle Oppio, prima indagate e poi sgomberate negli anni scorsi. Tuttavia, il palazzo è finito nella lista dei 73 edifici da sgomberare stilata dall’ex commissario prefettizio Francesco Paolo Tronca, ma non nella short-list dei 16 a cui la Prefettura di Roma era chiamata a dare precedenza.