Mentre la Sardegna bruciava, Solinas era alle nozze della figlia del suo “Mister Wolf”

Mentre la Sardegna andava a fuoco, il governatore Christian Solinas cosa faceva? Gestiva le operazioni? Partecipava a tavoli di crisi? Impartiva ordini e riceveva rapporti? Nulla di tutto ciò: sabato 24 luglio – quando già le fiamme stavano distruggendo l’Oristanese – il governatore era impegnatissimo a celebrare un matrimonio. Il Fatto è infatti in grado di mostrare un’immagine del presidente con tanto di fascia tricolore intento a congiungere due giovani, Enrico e Veronica, all’interno dei giardini pubblici di Cagliari. Sposalizio che poi è continuato al ristorante Osmosis di Cagliari, dove si è tenuto il banchetto nuziale. Ma perché Solinas, nonostante le drammatiche notizie che arrivavano dal fronte delle fiamme, ha voluto comunque partecipare alla cerimonia invece di presiedere alle operazioni di spegnimento (si paleserà all’unità di crisi della Protezione civile solo domenica mattina)? A sposarsi non era una coppia qualunque, bensì la figlia del consigliere regionale Nanni Lancioni, l’uomo da mesi più vicino a Solinas. Lancioni, 55 anni, un passato nel Pd, nel 2014 entra in consiglio regionale col Partito Sardo d’Azione. È un imprenditore con interessi nella stampa, turismo ed edilizia (suo il quarto reddito più alto dell’attuale Consiglio) e, soprattutto, è uomo con ottime entrature nei livelli più alti della Guardia di Finanza. Fonti interne alla giunta lo descrivono come il “Mister Wolf” di Solinas, un facilitatore che conta – secondo alcuni esponenti centristi della coalizione di centrodestra – 13 nomine tra enti e agenzie regionali. Non a caso, è proprio Lancioni che domenica 25 ha accompagnato Solinas nella sala crisi della Protezione civile.

Matrimonio a parte, anche ieri 7 Canadair e 4 elicotteri dell’antincendio hanno dovuto operare per spegnere i focolai ripartiti nell’Oristanese. Intanto sul fronte delle indagini, la Procura di Oristano ha aperto un fascicolo con le ipotesi di reato di incendio boschivo colposo aggravato dal pericolo per gli edifici e dal danno grave. Il procuratore, Ezio Domenico Basso, già martedì aveva disposto accertamenti e organizzato un vertice tra gli inquirenti. “L’indagine al momento è contro ignoti – ha detto Basso – l’incendio dell’auto potrebbe essere considerato il peccato originale, ma ci può essere stata una serie di condotte, attribuibili potenzialmente a qualcuno, che hanno aggravato la situazione”.

Contro la discarica a Tivoli l’omaggio a Franca Valeri

“Saremo lì accanto ai nostri monumenti come sentinelle, per impedire che quest’ultima parte di Agro Romano antico ancora integra venga irrimediabilmente compromessa da discariche e cementificazione”. Urbano Barberini, già assessore alla cultura di Tivoli, da anni si batte contro i progetti di discariche nella zona intorno a Villa Adriana, fuori Roma, su cui al momento pendono due ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Quest’estate, insieme al Fai di Roma e al comitato promotore per il Distretto Archeologico Rurale, Barberini si è fatto promotore del Festival “Ponte Lupo e i Giganti dell’acqua”, una rassegna di incontri nei luoghi più significativi dell’Agro Romano Tiburtino Prenestino con la speranza di sensibilizzare alla tutela dell’arte e del paesaggio. Sabato 31 luglio, il Festival vedrà la sua serata conclusiva, in cui si celebrerà anche la memoria di Franca Valeri, fino all’ultimo in prima linea contro la discarica di Villa Adriana e madrina di tante iniziative.

La parabola del miliardario: da eroe a nemico del Dragone

Il costo della dissidenza, o meglio del supporto ad amici critici del regime: 18 anni di carcere, 3,1 milioni di Yuan (circa 400 mila euro). Lo ha pagato Sun Dawu, 67 anni, da ex allevatore di maiali miliardario a capo di un impero agricolo. Ricchezza e potere non lo hanno protetto da accuse come “istigare una folla ad attaccare organi dello Stato“, “ostacolare l’amministrazione del governo” e “creare problemi”, formula generica utilizzata tradizionalmente per reprimere il dissenso. L’arresto è avvenuto lo scorso 11 novembre con il pretesto di una disputa territoriale fra la sua società e una fattoria confinante, di proprietà pubblica. Con lui erano state fermate altre altre 19 persone, fra cui la moglie, i figli e due fratelli. Come riporta il Guardian, la vera ragione della condanna, da parte di un tribunale provinciale di Gaobeidian a 80 chilometri da Pechino, dopo un processo segreto, cioè soggetto ad arbitrio totale, sarebbe l’appoggio di Dawu ad amici dissidenti. Sun è un capitalista cinese atipico: il suo gruppo, il Dawu Agricultural and Animal Husbandry Group, è costruito su un modello utopico di società rurale egualitaria alla Olivetti: i 9.000 dipendenti, riporta il quotidiano britannico, hanno accesso gratuito o scontato a istruzione, sanità e divertimenti. Nella migliore tradizione del regime, all’inizio Dawu è stato celebrato dal governo come la bandiera della retorica produttiva del regime. Salvo precipitare quando le sue critiche e la sua amicizia con altri dissidenti si sono fatte fragorose e scomode. Se per eliminare gli avversari politici il presidente Xi preferisce accuse, vere o false, di corruzione, la strategia per mettere a tacere i critici del regime nel settore privato passa da sentenze politicamente motivate che mirano a colpire capi d’azienda ed estendere il controllo del governo centrale sulle loro società. Il caso più recente è l’inchiesta sul colosso del commercio online Ali Baba, con 2,8 miliardi di dollari di multa e il ritiro dalla vita pubblica del proprietario Jack Ma, apertamente critico verso il governo centrale.

Dopo il golpe, Ennahda è indagato per fondi illeciti

In attesa che il presidente della Repubblica, Kaies Saied, a capo dell’esecutivo assieme al primo ministro come previsto dalla Costituzione “ibrida” del 2014, nomini nelle prossime ore il nuovo premier dopo aver destituito Hichem Mechichi con tutto il governo e congelato l’attività dell’Assemblea legislativa, le piazze della Tunisia sono tornate tranquille. Non solo la gente infuriata contro il partito islamico Ennahda ha ascoltato la richiesta di Saied di evitare qualsiasi forma di violenza, ma anche il leader del partito, Rashid Ghannouchi, fino a domenica scorsa presidente del Parlamento, ha chiesto ai propri sostenitori di tornare a casa.

Il portavoce della Fratellanza Musulmana in Tunisia è passato dalle accuse di golpe nei confronti del presidente della Repubblica alla richiesta di dialogo “perché ha capito che portare avanti un braccio di ferro con Saied sull’articolo 80 dell’attuale Costituzione avrebbe alla fine mostrato le pecche della sua leadership in ambito gestionale e politico”, spiega al Fatto Sami Mahbouli, editorialista delle più autorevoli testate indipendenti africane. Secondo l’avvocato Mahbouli, Ennahda non avrebbe potuto continuare ad accusare Saied di non avere atteso l’approvazione della Corte costituzionale in merito al proprio ricorso all’articolo 80, per il semplice fatto che sono stati proprio gli ostacoli messi dal partito islamico a impedirne la creazione. “Ennahda avrebbe voluto una Corte costituzionale basata su principi vicini alla Fratellanza Musulmana tradendo lo spirito laico dello Stato tunisino. Non potendola orientare l’ha quindi boicottata. Il fatto che dalle elezioni del 2019 Ennahda domini il Parlamento, non dimostra che la decisione di Saied vada contro i principi democratici. Questi islamisti che si spacciano per moderati nelle ultime elezioni, due anni fa, infatti hanno ottenuto una maggioranza con una percentuale risibile a causa di un sistema proporzionale foriero di instabilità e grazie a donazioni occulte durante la campagna elettorale che hanno drogato e orientato l’esito delle consultazioni, come ha dimostrato la Corte dei Conti”, sottolinea l’avvocato. A proposito di soldi occulti usati da Ennahda anche per gonfiare un sistema nepotistico facendo assumere centinaia di sostenitori in ambito pubblico, la magistratura ha avviato un’indagine per presunti finanziamenti stranieri e donazioni anonime erogate molto probabilmente da associazioni soprattutto del Qatar e della Turchia (i paesi guidati dai Fratelli Musulmani) anche ad altre due formazioni islamiche tunisine. Il portavoce dell’ufficio della procura finanziaria, Mohsen Daly, ha riferito che le indagini riguardano l’agenzia anticorruzione del Paese, sospettata di corruzione, e sulla Commissione verità e dignità, creata per occuparsi degli abusi commessi durante la dittatura in Tunisia.

Intanto il presidente ha licenziato anche 20 alti funzionari governativi e il procuratore generale militare, Taoufik Ayouni. Tra i silurati, il Segretario generale del governo, Walid Dhahbi, e il presidente del Comitato generale dei martiri e dei feriti della rivoluzione e degli atti terroristici, Abderrazek Kilani.

“Con la scusa del Covid, il Cremlino taglia fuori i candidati di Navalny”

Oltre alla variante Delta che dilaga nella Federazione, c’è un’altra epidemia che il Cremlino vuole curare alla vigilia delle elezioni parlamentari del prossimo settembre: quella del dissenso. Da un lato all’altro del Paese, negli ultimi mesi, retate ripetute di arresti hanno fatto finire in manette oppositori e giornalisti, le cui testate indipendenti sono state vietate. Aleksej Navalny, dalla colonia penale in cui è rinchiuso, ha chiesto due giorni fa ai suoi sostenitori di tornare in piazza dopo che il suo sito, quello del Fondo Anticorruzione da lui fondato, e altri 50 siti satelliti sono stati bloccati per ordine del Roskomnadzor, servizio federale controllo comunicazioni di massa.

Prima di tagliare la rete digitale, Mosca ha scisso quella delle alleanze degli oppositori del Cremlino. A giugno l’intero movimento del blogger è stato tacciato di estremismo, è finito nella stessa lista dello Stato islamico e dichiarato illegale dal tribunale di Mosca. E chi continua a indagare sul “caso Navalny”, come Roman Dobrokhotov, redattore capo del giornale Insider, si è svegliato ieri nella Capitale con la polizia alla porta. “Se tutti finiscono in carcere, in tribunale o sotto sorveglianza, è perché le elezioni sono alle porte” dice l’oppositrice Violeta Grudina, che non è dietro le sbarre ma in ospedale. Grudina, a capo degli uffici del Fondo anticorruzione, ha provato a correre da indipendente per ottenere un seggio alla Duma di Murmansk, la più grande città a nord del Circolo polare artico. Ma su di lei è stata applicata una nuova strategia: nonostante ai test sia risultata negativa e non affetta da Covid, Grudina è stata costretta “all’ospedalizzazione forzata” dalla Corte che l’ha dichiarata colpevole di “violazione delle restrizioni” in vigore per arginare la pandemia. L’attivista, tra i corridoi del reparto dell’ospedale dove è rinchiusa da settimane, dice al telefono di essere guarita già a giugno e le accuse sono successive: “Al termine della quarantena però sono stata avvicinata dalla polizia, hanno aperto un caso penale contro di me, hanno imbastito una campagna per screditarmi con la popolazione, dalla quale invece ho ricevuto enorme supporto. I russi sono abituati a questo tipo di giochetti a cui ricorrono le autorità quando vogliono tapparti la bocca. Hanno messo una persona sana in ospedale. Avviene per impedirmi di correre alle elezioni, e sono convinta che mi terranno qui a lungo”. Grudina, perfettamente sana, è tra flebo e camici, Navalny è in carcere, molti altri oppositori sono fuori gioco o fuori dal Paese: “I miei amici e colleghi sono emigrati all’estero, i giovani fuggono da Murmansk, dove, molto più che a Mosca e Pietroburgo, è difficile opporsi”.

In che modo Navalny possa guidare un movimento che può osservare solo da dietro le sbarre della cella nella quale è rinchiuso se lo chiedono in molti; per Grudina è difficile fare previsioni. Di sicuro anche dentro il movimento qualcosa è cambiato: “Le persone che seguivano Aleksej si sono divise: per alcuni non sarebbe dovuto tornare dalla Germania, perché sapeva che lo attendeva la detenzione. Altri hanno apprezzato il suo coraggio e ciò che ha fatto, perché la Russia è la sua patria”. Di una cosa l’aspirante alla Duma è certa: “Uno scenario bielorusso a Mosca non è possibile, non avverrà quello scoppio, quello strappo che c’è stato in piazza a Minsk”, dove sono state le ragazze a guidare la protesta contro Lukashenko. Nel movimento di Navalny restano due donne in prima fila: la dottoressa Ljubov Sobol, fedele alleata del blogger e fondatrice dell’Alleanza dei medici e Yulia Navalnaya, che però “ha ripetuto più volte che non ha intenzione di prendere il testimone del marito e guidare il dissenso”. Anche la ragazza di Murmansk rientra tra chi non vuole piegare la testa allo strapotere degli oligarchi, e lei ha sempre ripetuto che malchat ne variant: rimanere in silenzio non è un’opzione. Ciò che accadrà adesso è chiaro per la trentenne che attende nel prossimo futuro “repressioni massive: arresteranno ogni attivista, politico, oppositore” finché “ogni cittadino proverà terrore alla sola idea di esprimere un’opinione diversa in pubblico”. Alle prossime elezioni trionferà Russia Unita, il partito del presidente, ma dopo settembre tornerà l’oblio: “Caleranno di nuovo anni di silenzio e le autorità ci dimenticheranno. Come società civile, per questo, il nostro compito sarà di nuovo tornare a fare gruppo, evitare di smembrarci”. Con la giusta costanza, Grudina crede che si arriverà a un futuro luminoso come le aurore boreali nell’Artico: “Ci sarà una svolta pacifica, avanzerà un’altra generazione, si formeranno attivisti e, certo, forse non saranno radicali come lo siamo stati noi che siamo stati la rottura, ma l’importante è che proseguiranno a chiedere democrazia, perché con loro arriverà il cambiamento finale”.

Camere passacarte sì, ma ora si esagera…

Una premessaè necessaria: chi scrive non è appena sceso dalla montagna del sapone. L’andazzo per cui il potere esecutivo annette progressivamente a sé quello legislativo (cioè il governo la funzione del Parlamento) va avanti da trent’anni ed era fatale che la cosa peggiorasse col combinato disposto tra governo tecnico e “contratto con l’Europa” (copyright Brunetta) noto come Pnrr. Eppure la tranquillità con cui questo accade, e in forme sempre più scoperte, non può non sorprendere. Ieri MF ha aperto la sua prima pagina così: “A rischio 24 miliardi del Recovery. La mancata revisione della giustizia impedirebbe l’arrivo dei finanziamenti Ue”. La fonte di quest’allarme è un interventino a pagina 11 firmato da una senatrice umbra di Forza Italia, l’avvocato Fiammetta Modena. Il senso è questo: il Parlamento, se vuole i soldi, voti la riforma Cartabia com’è. Ora, la libertà di pensierino è garantita a tutti, figurarsi a una parlamentare della Repubblica, anche laddove esprima tesi ardite, diciamo, quanto agli anticipi del Pnrr: stupisce, però, che un eletto rivendichi in modo così esplicito il suo ruolo di passacarte. Deve appartenere alla scuola giuridica che ha ispirato Mario Draghi nella sua recente innovazione del diritto parlamentare: l’autorizzazione della questione di fiducia su un testo appena uscito dal Cdm e che si dice di voler cambiare. La fiducia preventiva, un po’ come la guerra preventiva, prelude sempre a un’invasione, ma il premier deve stare tranquillo: alle Camere non troverà resistenza, solo decreti legge. Dacché s’è insediato gliene ha mandati 24, uno a settimana, 4 dei quali lasciati decadere perché erano solo Dpcm mascherati. Poi ci sono le “riforme” coi tempi contingentati come decreti e immodificabili perché ce lo chiede l’Europa. Infine i voti di fiducia veri e propri. Inaccettabile per noi che, se non nel reddito, nell’animo siamo allievi di Sabino Cassese: “Non capisco perché il Parlamento tolleri questo abuso del parlamentarismo” e “si limiti a ratificare” decisioni altrui come d’altronde fa “anche il Cdm”. Così il Maestro al Giornale lo scorso gennaio ed è un peccato che i suoi molti impegni e la sua nota ritrosia gli impediscano di indicarci ancora la strada in questi tempi così difficili.

Luca Bernardo, ovvero il pediatra con la pistola

Conoscevamo molte facce del multi-sfaccettato Luca Bernardo, candidato sindaco del centrodestra a Milano. Conoscevamo il Luca Bernardo amico di Nicole Minetti, da lui chiamata a fare “l’angelo custode” della Casa pediatrica dell’ospedale Fatebenefratelli, quando l’infaticabile organizzatrice delle feste del bunga-bunga ad Arcore era già indagata per favoreggiamento della prostituzione. Conoscevamo il Luca Bernardo impegnatissimo a cercare visibilità sui media per raccontare al mondo le meraviglie del pediatra capace di creare al Fatebene (con soldi regionali ma anche tante donazioni private) un reparto coloratissimo per i bambini; e per piazzare in tv e sui giornali se stesso come esperto di bullismo, che è un argomento di cui i media sono ghiotti. Conoscevamo il Luca Bernardo politico, con saldi rapporti nell’area che va da Forza Italia al centro cattolico, importante e influente in Lombardia nel mondo della sanità pubblica. Conoscevamo il Luca Bernardo grande amico di Fabio Altitonante, uno dei politici più citati (ma mai indagato) nelle indagini antimafia milanesi per i suoi rapporti con personaggi a loro volta in contatto con i boss calabresi della ’ndrangheta attivi in Lombardia.

Ma non conoscevamo il Luca Bernardo pediatra con la pistola. Questa proprio ci mancava. Ce lo ha rivelato un suo collega pediatra, Michele Usuelli, ora consigliere regionale nel gruppo +Europa/Radicali: “Bernardo gira con la pistola in corsia. Non è un pettegolezzo: è una cosa nota nel mondo della pediatria milanese”. Il candidato sindaco, dopo qualche tentennamento, ammette: “Sì, ho portato la pistola in ospedale. Ma non sono mai entrato in corsia con un’arma, nel mio reparto non ci sono neanche armi giocattolo. Ci sono i clown che fanno ridere i bambini in terapia, ma mai nessuno si è vestito da sceriffo”. Poi ha spiegato: “Ho il porto d’armi da difesa, ce l’ho da circa dieci anni, come la maggior parte dei medici”.

Ora, io non so voi, ma conosco molti medici e nessuno gira armato, né ha il porto d’armi. A che cosa dovrebbe servire, la pistola, ad affrontare i pazienti infuriati, o – per un pediatra – a difendersi dai genitori inferociti dei bambini malati? È una domanda che genera altre domande: dieci anni fa, quando il dottor Bernardo si è procurato il porto d’armi, è stato minacciato? È bene che gli elettori milanesi, prima di scegliere a chi dare la preferenza come sindaco, sappiano: da chi è stato minacciato? Per quali motivi? Riguardavano la sua vita professionale o le sue relazioni? Ha denunciato le minacce alle autorità? Aspettiamo le risposte: è impensabile che chi si candida a guidare una grande città abbia zone d’ombra in campi così delicati.

P. S. Chiuso questo articolo, ci viene un dubbio, un pensiero clandestino. Un lampo. Non è vero niente. Il dottor Luca Bernardo non gira con la pistola. Non sa neppure com’è fatta. Non ha mai chiesto il porto d’armi e non ha mai frequentato il poligono di tiro.

Ha inventato questa storia che scandalizza i milanesi pacifici e che odiano la violenza, su consiglio di un geniale spin doctor russo che vuole dargli un’immagine meno esangue, meno salottiera e più maschia, per fargli conquistare i voti del popolo di centrodestra che apprezza, per esempio, le gesta dell’assessore alla sicurezza leghista di Voghera Massimo Adriatici il quale, coerente con il suo mandato, ha sparato al cittadino marocchino Youns El Bossettaoui.

 

Riforma Cartabia: santa subito senza alcun dibattito politico

Non millanto competenze che non ho in tema di giustizia. Tuttavia mi colpiscono la “sacralizzazione” della cosiddetta riforma (?) Cartabia e la esorbitante pressione politico-comunicativa mirata a un suo varo repentino e senza distinguo. Una pressione suggellata con l’apposizione della fiducia da parte del governo. Con opinionisti più realisti del re. Sino a voci francamente settarie e stravaganti, tipo editorialisti del Corriere che assimilano chi eccepisce ai no vax, che rappresentano la nostra come la Repubblica delle procure, che dipingono Conte come un “falco” in preda a “pulsioni revansciste”. Per parte mia, in via preliminare, vorrei concedere le buone intenzioni a entrambi gli opposti fronti, tutti protesi a una “giustizia giusta”, gli uni preoccupati di non propiziare l’impunità da denegata giustizia, gli altri solleciti della ragionevole durata dei processi. Un bilanciamento oggettivamente difficile. Di sicuro, è fuorviante e tendenzioso evocare il fantasma dei “processi senza fine” o degli “imputati a vita”. Formule propagandiste. Da profano, tuttavia vorrei porre sette quesiti.

Primo: se, in zona Cesarini, ci si sta ripensando ciò significa che nel testo era effettivamente troppo limitato il perimetro delle eccezioni alla non procedibilità in ragione della gravità dei reati (di mafia, per esempio).

Secondo: largo e autorevole è il fronte di chi esprime riserve e persino leva allarmi per decine di migliaia di processi al macero, da parte di magistrati di frontiera e del Csm che è pur sempre un organo costituzionale. Se lo si considera a tal punto delegittimato, si abbia il coraggio di mettere a tema la sua soppressione.

Terzo: l’eloquenza e la durezza delle statistiche giudiziarie attestano come la tempistica di sedi importanti è largamente al di sopra di quella fissata dalla Cartabia. Che si riesca, d’incanto, a ridurla drasticamente sembra un atto di fede.

Quarto: si tagliano i tempi… all’ingrosso. Oltre alla gravità dei reati, si dovrebbe considerare il grado di complessità dei processi, che è parametro diverso. Lo fa la Corte europea dei diritti tanto impropriamente chiamata in causa nella circostanza.

Quinto: a proposito di Ue, si è enfatizzato il nesso con le risorse del Recovery. Mi torna con riguardo alle cause civili, assai meno per il penale. Per anni si è sostenuto il contrario e cioè che a inibire investimenti in Italia fossero semmai l’illegalità e la diffusione della criminalità organizzata in vaste aree del nostro territorio. Esattamente il fronte dal quale si levano gli allarmi dei magistrati più impegnati.

Sesto: i limiti inscritti nel mandato del governo in carica. Essenzialmente: vaccini e Recovery. Si aggiunge convenzionalmente: riforme. Ma riforme effettive esigerebbero visione politica (sottolineo: politica) e maggioranze parlamentari coerenti e omogenee. Quali palesemente non sono quelle del governo in carica. Eppure si ha persino la pretesa di tacitare ogni distinguo da parte delle forze politiche. Diktat a troncare ogni discussione nei quali contraddittoriamente si distinguono soloni della democrazia parlamentare di stampo liberale.

Settimo: si stigmatizza il corporativismo dei magistrati, il carattere lasco della loro disciplina interna. Pensando al caso Palamara, vogliamo paragonare magistrati e politici, quanto a misure disciplinari? La radiazione di Palamara e le dimissioni di svariati membri del Csm, con il nulla di nulla di sanzioni comminate dai rispettivi partiti a Ferri e Lotti? Quest’ultimo tuttora capo della corrente maggioritaria nei gruppi parlamentari Pd?

 

De Donno, re del plasma tradito dai suoi miracoli

Giuseppe De Donno si è tolto la vita. Se ne è andato senza lasciare neppure una riga, nel silenzio che lo aveva avvolto negli ultimi mesi, un silenzio denso di sconfitta e delusione. E la sua morte racconta molto di questo tempo storto, malato, incattivito. Perché il medico dei miracoli, l’uomo che con la plasmaterapia avrebbe guarito i malati, sconfitto il Covid, esportato la sua cura in tutto il mondo in una sorta di evangelizzazione terapeutica, aveva dovuto fare i conti con la dura realtà: la plasmaterapia non funzionava. La sperimentazione aveva dato risultati deludenti in tutto il mondo. Il suo ospedale (l’approccio di De Donno alla sperimentazione destò più di una perplessità tra scienziati e virologi) aveva deciso di abbandonarla. I dubbi sui parametri con cui venivano scelti i pazienti, le dichiarazioni (troppo) trionfalistiche del medico, lo studio mai pubblicato erano stati fatali.

A questo punto, riavvolgere il nastro del “caso De Donno” sarebbe fin troppo facile, se non fosse vero che i suicidi sono materia imperscrutabile. Impossibile però non ricordare con quanta superficialità, nel periodo più duro della pandemia, si siano attribuiti a Giuseppe De Donno talenti e capacità sovrumane. La politica lo vendeva come l’uomo che aveva scoperto la cura economica e miracolosa, la stampa lo intervistava come il nuovo salvatore, le pagine Fb in suo sostegno fiorivano numerose. Giuseppe De Donno ha rappresentato la culla del complottismo, della guerra ai cosiddetti poteri forti. La scintilla che ha acceso i fuochi che illuminano queste notti lunghe di piazze inferocite contro la scienza, il buonsenso, l’evidenza. Il suo sostenere testardamente che il plasma iperimmune (utile per altre malattie) fosse la cura democratica osteggiata dalla politica e dalle grandi case farmaceutiche è stato, anche suo malgrado, il seme della confusione che stiamo vivendo.

Le sue dirette Facebook con Matteo Salvini che lo presentava come l’uomo dei miracoli odiato dal sistema, le audizioni in Senato, le interviste in tv, le sue mascherine griffate “non siamo mammalucchi”, i servizi modello “Stamina” de Le iene hanno ottenuto l’effetto di creare sulla cura col plasma aspettative tanto grandi quanto rovinosamente disattese. De Donno aveva un’idea grandiosa di sé che coltivava talvolta con arroganza (tanti suoi dipendenti ne ricordano le sfuriate), talvolta in maniera ingenua (io stessa smascherai un suo profilo Fb finto con cui fingeva di essere un luminare americano che tesseva le lodi della sua sperimentazione in Italia). Questo vortice di colpevole superficialità ha travolto una personalità complessa, in cui evidenti manie di grandezza facevano i conti – ora lo sappiamo – con fragilità ben nascoste. Fragilità esplose, probabilmente, quando tutto il circo mediatico e politico che l’aveva illuso e corteggiato, ha capito che la grande speranza del plasma miracoloso era tramontata. A un certo punto De Donno non serviva più. Non poteva più supportare la narrazione del medico di campagna che combatte contro i poteri forti. Contro il governo. Che sfida Burioni e chiunque osi mettere in dubbio l’efficacia delle sue cure.

Nel frattempo si era illuso di venire candidato a sindaco di Mantova e di vincere, poi era arrivata l’interruzione della sperimentazione, un progressivo demansionamento al Poma per problemi di salute che lo avevano afflitto negli ultimi tempi. Da poco aveva annunciato che sarebbe tornato a fare il medico di base a Porto Mantovano, e per quanto si cercasse di far passare questo approdo per una scelta libera e felice, era una decisione che sapeva di resa. L’uomo dei miracoli si era scoperto un mortale, fallibile e fragile come i suoi pazienti. Come certe ambizioni alimentate dagli inganni della politica. Dal cinismo di chi usa il narcisismo altrui per abbeverare il proprio. Il senso di fallimento, la vergogna per non essere riuscito a essere ciò che si aspettava da sé, le ambizioni sgretolate devono essere state un peso immane. E poi, come sempre, c’è quel pezzo di mistero sul perché si sia tolto la vita, che ogni suicidio custodisce per sempre.

Non sappiamo perché si sia ucciso, ma sappiamo in quale contesto è maturato il suo disorientamento. Certo è che la strumentalizzazione che i No-vax stanno facendo della sua morte è uno dei punti più bassi di questa follia collettiva. Addirittura c’è chi ipotizza che De Donno sia stato ucciso perché lui era il medico di campagna contro i poteri forti, appunto. E dunque “l’hanno eliminato”. Eppure, ciò di cui i No-vax non si sono accorti è che il dottore da loro considerato “puro”, “che nessuna casa farmaceutica era riuscito a comprare”, si era invece vaccinato. Aveva raccontato alla stampa di essere stato uno dei primi, nel suo ospedale. Aveva ricordato l’importanza di vaccinarci tutti. Insomma, la verità è che De Donno se l’erano dimenticato anche i No-vax. Quei No-vax che ora, dopo averci urlato per mesi “usate i morti per fare propaganda!”, stanno usando un morto pro-vax per fare propaganda.

Maghi della democrazia, funerali al papa e lotta eschimese alle Olimpiadi

Riassunto della puntata precedente: per riattivare la democrazia in Italia, e metterla in culo alle Goldman Sachs che dirigono tutto coi loro sovrintendenti, abbiamo visto che sono necessari canottiere e motorini. Serve altro? Qualcuno suggerì “la possibilità di cambiamento”, e in mezzo secondo si levarono grida euforiche da tutte le caselle di Zoom (perché eravamo in conferenza su Zoom, a questo punto): “Cambiamento! Cambiamento! Una democrazia è possibilità di cambiamento!”. Tutti sappiamo cos’è la possibilità di cambiamento. Chi non ricorda di aver cercato il telecomando per liberarsi di Vespa una volta per tutte, e mettere al suo posto qualunque altra cosa purché non lui? (L’uomo sembra sempre in onda, il che lo rende praticamente insopportabile.) Scrissi “telecomando” sotto “canottiere” e “motorini”, e sentii che c’eravamo quasi. Mancava ancora qualcosa, benché fossimo a buon punto, per poter salire in piedi sul tavolo a urlare “Eureka!” dimenandoci. Serviva un partito che si facesse latore delle nostre istanze democratiche. Il modo in cui, per il nostro prodotto, arrivammo al nome Pd, richiederebbe un’epopea a sé. Penso che mi piacerebbe scriverla (non lo so, magari no). Per ora basti ricordare che un’antica consuetudine proibisce di chiamare un partito con nomi propri di persona. Sembra che porti sfortuna, o un tweet di Piroso. Perciò decidemmo di creare una sigla che suonasse come la sigla di un partito democratico, per esempio Pd. “Pd!” esclamammo in coro, e subito salimmo in piedi sul tavolo a urlare “Eureka!” dimenandoci. E non un Eureka! normale, ma un Eureka! al sapore di Nancy Brilli (è caldo, non datemi retta). Restava da architettare la confezione del prodotto, fattore essenziale di ogni proposta commerciale. Quando riuscimmo a escogitare un contenitore non diverso da una scatola vuota, sentimmo d’aver fatto bingo: anche ai gatti piacciono le scatole vuote. Lavorammo infine alla questione del leader. Senza leader, un partito è un corso di risotto. Mi parlarono di un uomo dai poteri ipnotici di nome Eddy Pastello che aveva messo in trance un suo amico, e questi da allora non riesce più a sfilarsi l’indice dal naso. E siccome Eddy Pastello era libero e disponibile, ingaggiammo lui. Prima però doveva cambiare nome. “Enrico Letta” mi sembra perfetto. (2. Fine)

Ultim’ora

* Draghi preoccupato dall’ultimatum di Conte, scherza un portavoce.

* Olimpiadi di Tokyo 2020. Atleti greci e italiani favoriti nella lotta greco-romana, atleti eschimesi favoriti nella lotta eschimese.

* Dopo le polemiche sulle sevizie nel carcere di S. Maria Capua Vetere, finalmente interviene la ministra Cartabia: verrà ritinteggiato.

* Afghanistan, rientrato l’ultimo soldato italiano. Guerini: “Ma l’impegno di supportare ogni cazzata americana in Medio Oriente continua”.

* Concluso il G20 anti-Isis. “Perché ci odiano?” chiede l’Isis.

* Cogne: la villetta resta alla famiglia Franzoni. L’affitteranno a Erika.

* Il Pd teme che il Pd faccia perdere voti.

* Vaticano, nel 2021 rosso di 66 milioni, crollano le entrate. Il Papa dà il nullaosta: “Rifacciamo i funerali di Wojtyla, furono un successo”. Ratzinger: “Se volete, muoio io”. Francesco: “Ma chi ti s’incula…”.