Green Pass, Draghi cede a Salvini Rinviate le misure per la scuola

Nel giorno decisivo sul fronte giustizia e sulle misure anti-Covid sulla scuola, il governo decide di rinviare. La cabina di regia e il Consiglio dei ministri anti-contagi vengono posticipati di una settimana. L’annuncio arriva a metà mattinata, appena uscito da Palazzo Chigi, da un soddisfatto Matteo Salvini che si intesta la vittoria politica. “Avevo letto sui giornali che il governo stava per fare altre restrizioni, ma se ne riparla la prossima settimana in base ai dati”, ha detto il leader della Lega dopo aver incontrato Mario Draghi per un chiarimento dopo la stoccata del premier in conferenza stampa (“un appello a non vaccinarsi è un appello a morire”) che lo aveva fatto irritare (“sono rammaricato” ha ripetuto ieri Salvini).

Una motivazione ufficiale – quella dell’attesa di capire se i contagi continueranno a salire – concreta (al ministero della Salute stanno monitorando il caso Uk con i casi in discesa) ma dietro cui si cela una grossa questione politica: Draghi, di fronte all’opposizione leghista su green pass e obbligo vaccinale nelle scuole, non poteva permettersi di aprire un nuovo fronte nella maggioranza durante la delicata trattativa sulla riforma della giustizia che arriverà in aula venerdì e su cui il governo ha intenzione di mettere la fiducia. “Prima dobbiamo chiudere la partita giustizia, poi pensiamo al resto” ha detto Draghi a Salvini. E su questo il premier ha incassato una vittoria: la Lega non metterà i bastoni tra le ruote al governo sulla giustizia. Un ministro conferma che all’ordine del giorno del governo al momento c’è solo la riforma Cartabia. Ed è anche per facilitare la mediazione che Draghi ha deciso di rinviare il Cdm sul decreto anti-Covid: che dovrà accontentare i 5S sulla giustizia e ha dovuto cedere alle richieste del Carroccio di non approvare nuove misure restrittive. Anche perché la Lega temeva una ricaduta sul turismo a ridosso di Ferragosto. Da qui il rinvio perché intenzione di Draghi è approvare comunque il decreto entro la pausa estiva, probabilmente giovedì prossimo.

E un assist al premier ieri è arrivato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che durante la cerimonia del Ventaglio ha blindato il governo su riforme (“vanno rispettati gli impegni”), green pass e vaccini mandando un messaggio anche alla Lega: “La vaccinazione è un dovere morale e civico – ha detto il capo dello Stato – Altrimenti rischiamo nuova paralisi, chiusure, pesanti conseguenze su famiglie e imprese che possono essere evitate con attenzione e senso di responsabilità. È il virus che limita le libertà, non le regole”. Mattarella ha anche definito “una priorità assoluta” la riapertura delle scuole in presenza e spiegato che “le persone hanno il diritto che nessuno porti contagio nei luoghi pubblici”.

La prossima settimana però i nodi politici verranno al pettine, le divisioni nella maggioranza restano profonde. “Non c’è accordo su nulla” è la sintesi di un ministro. Perché sull’obbligo vaccinale (o il green pass) per il personale scolastico (circa 200 mila gli insegnanti non ancora immunizzati), Lega e M5S sono contrari mentre il Carroccio ha espresso perplessità anche sui mezzi di trasporto – treni, navi e aerei – su cui si vorrebbe imporre il pass già dalla seconda metà di agosto.

Il vero nodo del governo però riguarda le decisioni sulla scuola con il ministro Patrizio Bianchi che ha incontrato più volte i sindacati e annunciato che a settembre gli studenti torneranno in presenza al 100% nonostante le proteste di presidi e sindacati. Ieri il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, Antonello Giannelli, ha chiesto l’obbligo vaccinale per il personale e posto dei dubbi sul rientro in classe in presenza perché non è stato risolto il problema dei trasporti: “Non si è riusciti a comprare più mezzi e assumere più autisti” ha denunciato Giannelli. Oggi Bianchi presenterà alle Regioni il piano per il rientro a scuola che prevederà il 60% degli studenti vaccinati, gli ingressi scaglionati e l’80% della capienza sui mezzi pubblici. Il dilemma sarà come metterlo in pratica. Resta però il problema della Lega di lotta e di governo. Perché se da Chigi hanno definito il faccia a faccia Draghi-Salvini “proficuo e cordiale” e i due hanno superato le ultime tensioni, il leghista ha chiesto chiarimenti sull’uscita del premier in conferenza, mentre quest’ultimo ha posto un paletto: “Sui vaccini non possono esserci dubbi”. Ieri è stato il giorno delle manifestazioni in 12 città (da Torino a Milano, da Palermo a Roma) del comitato “Libera scelta” contro il pass e l’obbligo vaccinale. Alla fiaccolata in piazza della Scala a Milano c’erano 200 persone mentre tra i mille a Roma, in piazza del Popolo, c’erano anche diversi parlamentari della Lega che protestavano contro il governo di cui fanno parte, tra cui Claudio Borghi, Armando Siri e Alberto Bagnai. Siri e Vittorio Sgarbi, che guidavano il corteo che ha lanciato un coro di “vaffa” contro Draghi.

 

I pareri

Donatella Di Cesare il bene comune rende accettabile questo sacrificio

Parlare di discriminazione verso chi non ha il Green pass è un’argomentazione che non sta in piedi. “Discriminare” è una parola che ha un peso, un valore preciso. In questo caso non è solo un’esagerazione, ma un’affermazione senza fondamento. Anche perché il vaccino è un’opportunità che hanno tutti, dunque quella di non vaccinarsi è una scelta. Chi preferisce rinunciarvi, si auto-esclude dallo spazio pubblico. Da un anno e mezzo è evidente a tutti che abbiamo dovuto accettare alcune limitazioni, perché il nostro corpo può trasformarsi in un’arma contro gli altri. Il senso della comunità e del bene collettivo deve far sì che tutti quanti sopportino qualche sacrificio, non si può ragionare soltanto sulla base del nostro ego sovrano. La discriminazione esisterebbe se il vaccino fosse impedito a certe categorie, se all’improvviso si dicesse che le donne o gli ebrei non hanno diritto a immunizzarsi. La situazione, ovviamente, è ben diversa.

 

Massimo Cacciari Misure severe e contraddizioni dopo l’europeo

La mia critica al Green pass nasce dal fatto che non sia stato fissato alcun criterio preciso in base alla quale questa emergenza possa finire. Oggi siamo in una situazione che dal punto di vista degli ospedalizzati è incomparabile con quella di qualche mese fa e con quella del primo lockdown, tuttavia restano misure estremamente severe e oltretutto contraddittorie, perché trovo indecente che chi ha autorizzato i mega-schermi e le manifestazioni di giubilo per l’Europeo oggi ci dica che non possiamo andare al ristorante al chiuso. È un segnale pericoloso, non perché ci sia chissà quale disegno oscuro sotto, ma perché testimonia l’inconsapevole deriva che continua da anni e che ci porta da un’emergenza all’altra con l’unica soluzione di ridurre i diritti fondamentali, sorvegliare e punire. Il tutto mentre nessuno degli scienziati che circondano il ministro Speranza fa mai chiarezza su alcuni aspetti poco chiari sui dati delle vaccinazioni e sulla sicurezza dei farmaci.

 

Michele Ainis Ok i limiti ai diritti “secondari”, non a scuola e lavoro

I diritti non sono tutti uguali, alcuni sono dichiarati fondamentali dalla stessa Costituzione, altri li definirei “secondari” perché riguardano soprattutto la gestione del tempo libero. Un conto è quindi limitare l’ingresso nei ristoranti o nelle piscine, un altro intervenire sul diritto al lavoro o alla scuola. L’ultimo decreto è una mediazione figlia di una situazione sanitaria non certo grave come quella dello scorso anno, per cui oggi è possibile imporre degli obblighi purché restino alcuni limiti. In concreto, così come si è obbligato il personale sanitario a vaccinarsi lo si potrà fare, dal punto di vista costituzionale, anche con gli insegnanti. Ma non si può certo pensare di intervenire su chi fruisce del servizio pubblico, che sia l’ospedale o la scuola. Senza dimenticare che per i più giovani esiste anche un problema di affidabilità dei vaccini.

 

 

“Ci sono troppi interessi. Il governo non sceglie e così si sono incartati”

Bruxelles chiede garanzie sui piani di riforma, ma a quanto pare la macchina del governo arranca, tra risorse che non si trovano e veti incrociati dei partiti. “Non credo che il problema sia di risorse, ma politico – spiega l’ex ministro Vincenzo Visco, che ebbe la delega al Fisco nei governi Prodi, D’Alema e Amato –, la situazione si sta incartando come del resto era prevedibile sei mesi fa, quando è nato il governo: su certe cose non c’è condivisione”,

Eppure la maggioranza del governo dei migliori è ampia.

Non è un pregio, ma un difetto; siamo alle solite, questo è un Paese che non riesce a tirarsi fuori dal buco in cui si è cacciato da tempo perché è diviso, lacerato. Quello che preoccupa è proprio l’approccio alle riforme. Il vantaggio del governo Draghi sarebbe solo di poter fare cose che i partiti dovrebbero accettare obtorto collo.

E invece?

Prendiamo la riforma fiscale: si può fare a parità di gettito, significa che qualcuno perde e qualcuno guadagna. Il punto è che le commissioni parlamentari quasi all’unanimità hanno respinto questa possibilità, i partiti vogliono una riforma che riduca le tasse. Si potrebbero recuperare risorse rilevanti se si adottassero alcune concrete misure contro l’evasione fiscale che il centro studi Nens, che presiedo, ha reso pubbliche da molto tempo e che ho anche comunicate al governo. Le ricordo che Draghi era direttore generale del Tesoro quando ero ministro, la risposta non è arrivata.

Il premier non ha grandi margini di manovra, la Commissione europea ha fatto richieste precise.

L’Europa ci chiede la riforma del catasto, l’aumento dell’imposizione patrimoniale, il contrasto all’evasione, l’aumento del gettito dell’Iva che in Italia significa recupero dell’evasione fiscale, non è un problema di aliquote.

Le commissioni parlamentari hanno dato indirizzi vincolanti, nessuno deve pagare un euro in più di imposte, il catasto non si tocca e neppure le patrimoniali.

Quando si fa una riforma fiscale, in particolare dell’Irpef, non è concepibile che nessuno ci debba perdere. Si può ridisegnare l’imposta sia nelle aliquote sia nell’imponibile e se accade che qualcuno perda qualche decina di euro al mese, soprattutto nelle fasce più alte di reddito, non è una tragedia. La situazione di partenza è talmente diseguale che non è possibile, senza perdere un paio di punti di Pil almeno, unificare tutti al livello più basso. Se il governo lo vuole fare può recuperare per questa via soldi che servono a fare altre operazioni e anche ridurre un pochino le tasse.

Come? Anche il piatto del ministro Orlando sulla revisione degli ammortizzatori sociali piange.

Se si risolve il problema fiscale, gli 8 miliardi che, a quanto dicono, servono, si trovano: è già previsto che il governo possa investire una decina di miliardi nella riforma delle aliquote, se questa si autofinanzia quei soldi potrebbero essere utilizzati per altro.

Anche sul ddl Concorrenza slitta tutto: l’Italia si è impegnata ad approvarne uno ogni anno, con un programma dettagliato di interventi.

Sulla Concorrenza ci sono vecchie resistenze che riguardano soprattutto la direttiva Bolkestein e la liberalizzazione dei servizi pubblici. In teoria il governo sta lì per fare cose che il Parlamento da solo non riuscirebbe a fare, ma era chiaro fin dall’inizio che su questa strada si va allo scontro con la maggioranza.

Troppo poco tempo per elaborare soluzioni soddisfacenti e una maggioranza rissosa da accontentare, come se ne esce?

Con il buon senso. Guardi lo scontro sulla riforma della Giustizia, che per l’economia è un tema molto sensibile. Si cercano soluzioni rapide come questa della non procedibilità, mentre il problema è rivedere tutte le procedure a monte che impediscono la velocità dei processi: solo dopo aver fatto questo puoi stabilire un termine ragionevole per la durata del processo.

Le riforme dei “migliori” restano al palo

Era – o almeno così si è letto un po’ ovunque sulla grande stampa – il fiore all’occhiello del Piano nazionale di ripresa (Pnrr) del governo Draghi. Eppure il capitolo “riforme” sembra essersi impantanato. Al netto della Giustizia, al centro di uno scontro il cui esito ancora non è chiaro, sono almeno tre quelle fondamentali (“abilitanti”, per usare il gergo del Pnrr) che slitteranno a fine estate o in autunno e che comunque rischiano di uscire assai ridimensionate rispetto alle aspettative sollevate: fisco, ammortizzatori sociali e legge sulla Concorrenza. Per tutte e tre, il governo si era impegnato a consegnare un testo al Parlamento entro la fine di luglio, e invece, vuoi per la mancanza di fondi, vuoi per il disaccordo all’interno dell’ampissima maggioranza che regge l’esecutivo, il cronoprogramma è slittato. Le riforme fanno parte di “un intervento epocale, per cui forse non vi sarà più il tempo per porvi rimedio”, ha spiegato Draghi nel suo discorso di presentazione del Piano alla Camera. Ora che inizia il “semestre bianco”, e le Camere non potranno essere sciolte, il lavoro si complicherà ancora. Ecco lo stato dell’arte.

 

Lavoro È una “riformina”. Ma i fondi non si trovano

Il rinvio all’autunno della riforma degli ammortizzatori sociali rischia di essere doloroso per lavoratori e disoccupati. L’intervento dovrebbe estendere la protezione della cassa integrazione a tutti i settori e a tutti i datori, ma anche rendere più generosi e inclusivi i sussidi di disoccupazione. Promesso entro il 31 luglio, ancora non esiste un testo ufficiale presentato al tavolo con sindacati e Confindustria. Ormai è scontato che sarà rimandato a ottobre, con la legge di Bilancio. Nel frattempo, il primo luglio sono stati sbloccati i licenziamenti e sono partite le prime ristrutturazioni. Per la verità, quello di questi giorni è il secondo posticipo della riforma. Il governo Conte-2 era pronto a presentare un impianto già a fine gennaio, ma poi c’è stata la fuoriuscita di Italia Viva, la nascita dell’esecutivo Draghi e l’arrivo al ministero di Andrea Orlando al posto di Nunzia Catalfo che ha interrotto tutto. Ora, invece, il problema è dato dalle risorse, perché l’unica dote concessa è il miliardo e mezzo ottenuto con la cancellazione del cashback; troppo poco rispetto agli almeno 8 miliardi necessari per un sistema di tutele comunque annacquato rispetto all’ipotesi iniziale. Poi c’è il dilemma di chi deve pagare, con le aziende che si oppongono ad aumenti contributivi. L’esigenza di garantire la cassa integrazione a tutti è un’urgenza emersa soprattutto con la pandemia, quando tante attività hanno dovuto chiudere ma è stata necessaria la cassa in deroga per coprire soprattutto i dipendenti di piccole imprese e servizi.

 

Fisco Tante idee (sbagliate) Ma senza copertura

Mario Draghi, nell’annunciare davanti al Senato il programma del governo sulle tasse era stato chiaro. Serve una riforma complessiva e profonda basata su due pilastri: ridurre il carico dell’Irpef mantenendo la progressività e la lotta all’evasione. “È un meccanismo complesso, le cui parti si legano l’una all’altra”, per questo, aveva scandito il premier, “non è una buona idea cambiare la tasse una alla volta”. L’Europa si attende tempi rapidi, ricordava il presidente del Consiglio che si era dato una scadenza precisa per la presentazione di una legge delega, il 31 luglio e un modello da imitare: “Faremo come la Danimarca”, filtrava da Palazzo Chigi, dove nel 2008 fu nominata una commissione di esperti che incontrò partiti politici e parti sociali e che solo dopo presentò una relazione in Parlamento. Draghi notava che “un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli”. Sono passati 5 mesi, l’annunciata Commissione di esperti non è stata convocata e in sostituzione si sono fatte avanti le Commissioni Finanze del Senato e della Camera, che hanno trasformato in un documento di indirizzo al governo le audizioni conoscitive condotte nel frattempo con parti sociali e cultori della materia. Nel testo si chiedono riduzioni di imposte per 2 punti di Pil, tra le quali spicca l’abolizione dell’Irap e la riduzione delle tasse sulle plusvalenze finanziarie. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, in una recente audizione, apparentemente ha recepito in pieno le richieste dei partiti, ma con un’avvertenza: non ci sono risorse stanziate e nulla sarà finanziato in deficit. Il Consiglio dei ministri per l’approvazione del ddl non è stato ancora convocato. Se ne riparla ad agosto o, più probabilmente, nella legge di Bilancio.

 

Concorrenza Dall’Energia ai servizi: troppi i nodi divisivi

Draghi l’aveva presentata come una delle riforme “imprescindibili per la ripartenza del Paese”. L’impianto parte dalle segnalazioni dell’Antitrust e va dai farmaci al mercato libero dell’energia, dai porti ai rifiuti passando per le concessioni autostradali e i servizi pubblici locali. Il provvedimento era stato annunciato per oggi ma, salvo sorprese, potrebbe approdare in Parlamento con uno schema definitivo solo a settembre, se tutto va bene. Il lavoro di stesura del testo ha subito rallentamenti per gli svariati rilievi posti dai ministeri su singoli temi. E la messa a punto del ddl per ora è inimmaginabile. Tempi che si dilateranno ancora di più tenendo conto che, una volta approvata la riforma, poi serviranno una serie di decreti attuativi. Quello sulla Concorrenza è uno dei dossier più ostici da maneggiare. Di sicuro, nella legge non ci sarà la messa a gara delle concessioni balneari prorogate fine al 2033 nonostante la procedura di infrazione Ue per violazione della direttiva Bolkestein. Dovrebbero entrare nel testo le procedure semplificate per l’autorizzazione a realizzare nuovi impianti di gestione dei rifiuti, le norme che rivedono le regole sulle concessioni portuali e le misure per facilitare l’installazione delle colonnine di ricarica per le auto elettriche. Sul fronte della fine della maggior tutela per le bollette di luce e gas, si sta cercando di anticipare il passaggio nonostante nel mercato libero i prezzi in media siano più alti. Potrebbe finire nella legge anche l’uscita del canone Rai dalla bolletta elettrica (ma va evitato il rischio di aprire un buco nei conti Rai). Sui servizi pubblici, dovrebbe arrivare una stretta per il mancato ricorso alle gare, ma sul punto Comuni e partiti non sono d’accordo. Nel Pnrr il governo ha assunto l’impegno di rilanciare a cadenza annuale la legge sulla Concorrenza almeno fino al 2024. Dovrebbe arrivare ogni anno in Parlamento, così come imposto nel 2009. Ma fino a oggi c’è stato un solo provvedimento approvato nel 2017, stilato nel 2015.

Referendum: Salvini arruola Totò Cuffaro, Paolo B. e Alemanno

Il variegato universo dei promotori del referendum della Giustizia si arricchisce ogni giorno di fantasiose sorprese. A fianco a Lega e Radicali – binomio già di per sé insolito – si stanno facendo avanti pregiudicati e impresentabili, innamorati come Matteo Salvini ed Emma Bonino della separazione delle carriere, della responsabilità civile dei pm, delle limitazioni alla custodia cautelare e della revisione della legge Severino, oltreché delle modifiche ad alcune norme relative al Csm.

Gli ultimi a firmare per i quesiti sono stati, ieri, Catello Maresca e Paolo Berlusconi. Il primo, candidato sindaco del centrodestra a Napoli, fa rumore soprattutto perché magistrato, evidentemente già calatosi alla perfezione nelle vesti del politico. Anche Paolo Berlusconi firma in virtù di una certa familiarità con le aule dei tribunali, lui che nel 2010 è stato condannato in Cassazione a 4 mesi di reclusione per alcune false fatturazioni dopo aver patteggiato 1 anno e 9 mesi per concorso in corruzione e reati societari nella gestione di una discarica del milanese.

Ma ai banchetti di raccolta-firme sarà possibile imbattersi pure in Totò Cuffaro, la cui nuova Dc sostiene i quesiti referendari. In questi giorni l’ex presidente della Regione Sicilia, condannato a 7 anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio, partecipa a una serie di incontri con l’associazione radicale Nessuno tocchi Caino, a sua volta impegnata sul tema delle carceri e della giustizia.

Fresco di firma è poi Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma che si porta dietro una condanna definitiva a sei mesi per finanziamento illecito ed è in attesa che la Corte d’appello ridetermini la pena per traffico di influenze, dopo la pronuncia della Cassazione. Il tutto per colpa “di due sentenze basate su teoremi – assicura lui – che dimostrano che molto deve essere cambiato anche nel rapporto tra politica, magistratura e mondo giornalistico”.

Insieme ad Alemanno, al gazebo c’era Guido Bertolaso, factotum della Sanità che durante l’emergenza Covid si è spostato tra Lombardia, Umbria, Abruzzo e Sicilia, secondo il quale la riforma della Giustizia “è la madre di tutte le battaglie”. Una sensibilità che nei giorni scorsi ha smosso anche Matteo Renzi, ai gazebo con altri italovivi come Davide Faraone e Raffaella Paita e festeggiato anche dai social della Lega appena dopo la firma.

Non un gran portafortuna in materia di referendum, l’ex premier, ma una tessera in più in un mosaico partitico già pittoresco. Basti pensare che a mobilitarsi per le firme sarà anche CasaPound, che a inizio settembre organizzerà iniziative in favore dei referendum durante la propria festa nazionale.

E se poi nemmeno tutti questi illustri testimonial dovessero bastare, Salvini e compagnia potranno sempre affidarsi alle Regioni, secondo Costituzione titolate – se si coordinano almeno in cinque – a richiedere i referendum anche senza il raggiungimento delle 500 mila firme: ieri la Sicilia è stata la quinta Regione a far approvare alla propria assemblea di eletti i quesiti sulla giustizia, raggiungendo gli altri feudi di centrodestra in Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Umbria.

“Così aumenteranno gli impuniti per mafia”

Domenico Gallo è presidente della Seconda sezione penale della Cassazione ed esponente del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Pensa che l’improcedibilità prevista dalla riforma Cartabia sia assolutamente da scartare.

Presidente Gallo, lei ha parlato di effetti paradossali. In che senso?

Invece di dare gli strumenti ai magistrati per accelerare i processi, elimina il processo, non si tratta di una norma acceleratoria dei processi, ma di una norma eliminatoria. La Ue ci chiede di celebrare processi veloci, non ci chiede di non fare i processi, ci chiede una giustizia più efficiente, non di restringere il campo di azione del controllo di legalità.

Questa norma che prevede la fine dei processi se non si rispettano i due anni in Appello e 1 anno in Cassazione, cosa comporta?

Di fronte a condotte gravemente lesive dei diritti dei cittadini e delle imprese, lo Stato rinuncerebbe a esercitare il controllo di legalità, abbandonerebbe la pretesa punitiva senza una ragione oggettiva che lo giustifichi, come può essere il passare del tempo.

Non ci sarebbe un vero deterrente a non delinquere?

Questo non possiamo dirlo, comunque crescerebbe l’area di impunità anche per fatti gravi, legati ai reati per associazione mafiosa o contro la Pubblica amministrazione.

Ha criticato la legge Bonafede che blocca la prescrizione dopo il primo grado, allo stesso tempo boccia questa proposta. Ma qual è la via per lei?

In questa materia non esiste una ricetta perfetta, che vada sempre bene per tutelare la collettività e i diritti dei singoli. È quindi sbagliato fare del blocco della prescrizione una battaglia ideologica. In altri ordinamenti una volta avviato il processo penale la prescrizione si interrompe perché correttamente lo Stato esercita il suo diritto all’accertamento dei fatti. Ma all’estero non ci sono quelle forti garanzie presenti in Italia dove il rischio che ci siano imputati a vita c’è. La risposta, però, non è la riforma Draghi-Cartabia. A mio avviso bisognava sperimentare la riforma del ministro Andrea Orlando, che stabiliva dei termini di durata ragionevoli del processo con sospensione della prescrizione, ma nel caso di superamento di tali termini la prescrizione riprendeva a scorrere.

Senza il blocco della prescrizione la fanno franca tanti potenti…

Anche la legge Orlando faceva fronte all’esistenza di una finestra di impunità, causa prescrizione, che riguarda principalmente i reati dei colletti bianchi, dando più tempo alla giustizia per arrivare a una sentenza di merito.

La riforma Cartabia prevede che sia il Parlamento a indicare le priorità ai procuratori. Che ne pensa?

È un’antica aspirazione della politica quella di esercitare qualche forma di controllo sul pubblico ministero. In questo modo si prova a mettere un cuneo nei principi costituzionali, soprattutto a quello dell’obbligatorietà dell’azione penale. Questo principio è una garanzia dell’uguaglianza dei cittadini. Invece, se passa questa norma l’esercizio dell’azione penale si troverebbe in balia delle maggioranze politiche, ciò nuocerebbe gravemente alla libertà e ai diritti dei cittadini.

Non stride che la ministra della Giustizia sia stata presidente della Corte costituzionale?

Certamente stride, però quando si cambia ruolo magari si abbracciano punti di vista differenti e bisogna mediare fra orientamenti politici difficilmente conciliabili. A ogni modo la cosa che mi preme dire è che questa riforma fallisce l’obiettivo, questo sì, che ci chiede l’Europa: rendere più efficiente e veloce la macchina della giustizia. Un obiettivo per il quale non esistono soluzioni miracolistiche. Si deve agire contemporaneamente sul versante della deflazione del carico penale e sull’incremento delle risorse.

Salvaladri: trattativa infinita e testo fantasma. Ma Conte non molla

A sera inoltrata, nella pancia del Senato, Giuseppe Conte scuote la testa: “Così l’accordo non va bene, è troppo al ribasso”. Non va come deve andare, la trattativa sulla riforma della giustizia con il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra Marta Cartabia, un corpo a corpo che si trascina fino a notte. L’ex premier insiste per ottenere quelle modifiche al testo che ritiene fondamentali. Innanzitutto, sottrarre all’improcedibilità i reati di mafia e terrorismo, ma anche quelli a sfondo sessuale e ambientali. Ma in mattinata l’avvocato al fattoquotidiano.it aveva ricordato un altro nodo: “Ritengo critica anche la norma che delega al Parlamento l’indicazione dei reati da perseguire in via prioritaria”. E c’è il tema delle modalità di calcolo dei tempi per l’Appello.

Ma dal governo non vogliono concedere oltre una certa soglia. Ci sono anche gli altri partiti lì fuori a rumoreggiare, in una maggioranza larghissima. E Draghi non vuole altri problemi. È già stufo. E potrebbe comunque portare in Aula il testo originario domani, avendo già fatto votare la fiducia in Consiglio dei ministri. Però cerca fino all’ultimo un accordo, per portare un nuovo testo nel Cdm di oggi. Ipotesi del terzo tipo. Perché non può cedere facilmente, Conte, che deve mostrarsi capo ai 5Stelle, quindi giocare forte. Di mattina riappare alla Camera e poi va in Senato, restandovi fino a sera. Incontra i parlamentari, divisi per commissioni, e a tutti predica “unità”. Sa che sono nervosi, anche a Palazzo Madama, il fortino dei contiani. C’è diffusa voglia di uscire dal governo Draghi. Non a caso, in mattinata nove grillini non votano la fiducia al governo sul decreto Recovery. E nell’elenco compaiono due big: il reggente Vito Crimi che, fanno sapere, “è stato assente perché impegnatissimo nell’organizzare le votazioni dello Statuto del M5S di lunedì prossimo”. E la vicepresidente del Senato Paola Taverna (“Aveva un impegno e non sapeva delle assenze” è la risposta ufficiale).

Ma disertano il voto anche il contiano Gianluca Perilli e la veterana Michela Montevecchi. D’altronde il decreto non piaceva ai grillini, “perché danneggia l’ambiente” come accusa un senatore. Ma il segnale politico è chiaro. Lo coglie anche Conte, che ai senatori ripete: “Ogni futura decisione andrà discussa ma poi, una volta presa, andrà sostenuta da tutti”. Ergo, non vuole ritrovarsi con spaccature sulla giustizia, comunque vada. Nel frattempo al ministero va in scena una riunione tra Cartabia e i capigruppo in commissione Giustizia dei partiti di maggioranza. Già prima dell’incontro ai partecipanti viene chiarito che non si parlerà di prescrizione e improcedibilità. Si discute di altro, di emendamenti alla prima parte della riforma, di tecnicismi da sistemare. E la prescrizione? “Su quello si sta trattando altrove” ribadisce (in sostanza) la ministra. Cioè ne discutono i leader con Draghi. Non a caso, nel pomeriggio la leghista Giulia Bongiorno batte un colpo: “Per noi la priorità è ridurre i tempi dei processi, ma c’è anche il massimo impegno per evitare che vadano in fumo processi per reati come quelli per associazione di stampo mafioso, per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e per i reati di violenza sessuale”. Di fatto il Carroccio apre a modifiche chieste anche da Conte. E lo fa dopo l’incontro in mattinata tra Draghi e Matteo Salvini a Palazzo Chigi, dove il premier rassicura il senatore: “La riforma me la intesto io, farò da garante”. Come a dire che non apparirà come il frutto di una vittoria politica di Conte. Per questo Salvini poi scandisce: “Noi accettiamo le proposte di Draghi, non del M5S”.

Ore dopo, in una telefonata assicura al premier di “non voler mettere i bastoni tra le ruote”. Ma la trattativa ristagna. Tanto che Cartabia in serata non va in commissione Giustizia, alla Camera. Dovevano votare sulla sua riforma, ma è tutto fermo, legato al tavolo tra i big. Così la seduta viene aggiornata a oggi. Mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avverte: “Sulle riforme occorre una grande capacità di ascolto e di mediazione. Ma poi bisogna assumere decisioni chiare ed efficaci, rispettando gli impegni”. Si tratta, fino a notte. Ma la partita è complicata. Per tutti.

Delenda Cartabia

Stupirsi perché l’informazione non informa, anzi disinforma, è come meravigliarsi perché la pioggia non è asciutta. Eppure, a vedere le tv e i giornali sulla “riforma” Cartabia, c’è da rabbrividire. L’Anm, che non è un covo di terroristi ma il sindacato dei magistrati, prevede la morte di 150 mila processi in corso e chissà quanti futuri. Cafiero de Raho, che non è una testa calda ma il procuratore nazionale antimafia, dichiara in Parlamento che l’improcedibilità in appello dopo 2 anni dalla sentenza di primo grado e in Cassazione dopo 1 anno da quella d’appello “mina la sicurezza e la democrazia” perché manda impuniti “reati gravissimi di mafia, terrorismo e corruzione”; e affidare al Parlamento la scelta dei reati da perseguire o ignorare “non è conforme alla Costituzione”. Gli stessi concetti, condivisi da magistrati, giuristi e avvocati, li esprimerà oggi il Csm, che non è un covo di tupamaros ma un organo costituzionale presieduto dal capo dello Stato, se finalmente il Colle gli leverà il bavaglio. Davigo dimostra sul Fatto, sentenze Cedu alla mano, che la procedura d’infrazione, scampata grazie alla blocca-prescrizione Bonafede, ora è assicurata.

Cosa arriva ai cittadini dell’immane catastrofe che sta per abbattersi sulla giustizia, sulla sicurezza, sulla Costituzione, sul dovere dello Stato di punire i colpevoli, sul diritto delle vittime a essere risarcite e degl’innocenti a essere assolti? Nulla, se non che c’è uno “scontro” fra il cattivo Conte e i “giustizialisti” 5Stelle da una parte e i bravi e onniscienti Draghi e Cartabia dall’altra per mettere i bastoni fra le ruote ai Migliori. Sul merito, non una sillaba. Sulle decine di migliaia di processi di mafia, corruzione, stupro, rapina, frode fiscale, giù giù fino ai reati minori (un saluto affettuoso alla legge Zan) al macero, tutti zitti. Dove sono i grandi costituzionalisti che si stracciavano le vesti nel 2009, quando B. tentò la stessa porcata (un po’ meno porca) col “processo breve”? Spariti. Dove sono i Saviano e gl’intellettuali antimafia e anticamorra da parata e da anniversario? Estinti. Nessuno si prende neppure la briga di smentire De Raho, Davigo, l’Anm, il Csm. L’unica cosa che conta è non disturbare il governo, che peraltro nessuno disturba. A questo punto è inutile avvitarsi in mediazioni al ribasso, come se evitare di incenerire 150 mila processi non fosse un dovere di Draghi & Cartabia, ma una gentile concessione a Conte (e naturalmente al Fatto). Molto meglio lasciar passare la porcata così com’è. Chi la vuole vota sì, chi non la vuole vota no. Ciascuno si assume le proprie responsabilità. Poi, ai primi mafiosi, stupratori e rapinatori improcedibili cioè impuniti, le vittime sapranno chi andare a ringraziare. E anche i lettori e gli elettori.

Streghe e libertine, ma Illuminate: le “inique femine” del Settecento

Patriote, scrittrici, pensatrici, amanti, eroine: nel secolo dei Lumi in Italia le donne – non solo quelle nobili ma anche le popolane – ebbero un moto, un impeto di ribellione ai dettami sociali. Tuttavia la storia – o meglio, gli uomini che si occupavano di raccontarla intrisi del perpetuo fallocentrismo di cui ancora stentiamo a liberarci – ne ha cancellato le tracce. Ci ha pensato Massimo Novelli a rinverdire la memoria: Donne libere , edito da Interlienea, è un viaggio nel Settecento tutto al femminile. L’ inégalité des deux sexes” non era la priorità per gli storici dell’epoca, men che meno per il critico torinese Giuseppe Baretti. Ad Aristarco Scannabue, lo pseudonimo con cui firmava i suoi strali polemici su La frusta letteraria, non è che la diseguaglianza non interessasse, peggio, lui la promuoveva. “Essere ignoranti le donne siano nobili siano borghesi: al più leggere romanzi francesi quelle che sapevano leggere, le altre invece darsi o alla dissolutezza o al bigottismo”. La pensava così il nostro, tanto da tagliuzzare e omettere qua e là ciò che non lo aggradava. Novelli riesuma le nostre donne dall’oblio con dovizia di particolari storici e un piglio cronachistico tanto reale da farcele figurare per davvero. Ci sono le aristocratiche, le libertine, le streghe, e le benefattrici. Sono esistite e per una volta tornano a riempire quei vuoti storici, assordanti, a cui consapevolmente o no ci siamo abituati. Angelica Lucia Biondi, poetessa, è una di loro: nell’Ode recitata da una cittadina – doverosamente dimenticata dai libri di letteratura – scrisse della necessità di abbattere il “dispotico regno d’Amore”. Carolina Lattanzi, direttrice del Corriere delle Dame, rese nota l’urgenza di spezzare “le catene”, di porre fine alla “schiavitù delle donne”, di rinsaldare “la resistenza all’oppressione maschile”. Loro furono bollate ovviamente come “inique femine”. Accadde anche a Maria Teodora Cecilia Provana di Bussolino, “la colombina d’amore, offerta – ci dice l’autore – in olocausto all’adolescenza già inquieta”di quello che fu suo marito e, probabilmente, anche il suo assassino. Poi ci sono Elena Matilde, figlia del terribile conte Monsù di Druent; Madama Reale, la duchessa Cristina di Francia; “l’odiosamata Signora” di Vittorio Alfieri; la giacobina Maria Antonia Ferreri; la violatrice del precetto pasquale e tante altre donne piene di spirito e di vivacità intellettuale, deliberatamente stroncati dal patriarcato.

Liz e Dick: “Amiamo litigare tranne quando siamo entrambi nudi”

Si innamorano, si sposano, divorziano, si risposano, ridivorziano. Ma non si lasciano. Elizabeth Taylor, detta Liz, e Richard Burton, detto Dick, sono l’icona cinematografica dell’amore. Di quell’amore fusionale, forsennato e furioso che svuota bicchieri e riempie pagine, pellicole e immaginario.

C’è la crasi, Lizanddick o Dickenliz, prima di Brangelina; c’è l’originale, senza replica: “Dopo Richard, gli altri uomini della mia vita era solo persone che mi aiutavano a infilare il cappotto”; c’è il destino, senza pietà: “Che stai facendo in casa mia?”, al telefono è il quarto marito di Liz, Eddie Fisher, e Burton non si sottrae: “Che cosa pensi stia facendo? Sto scopando tua moglie”. Insieme fanno undici film, tra cui La bisbetica domata di Franco Zeffirelli e Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols, insieme creano un mito bifronte.

Si annusano nel 1953 a una festa hollywoodiana, e non si pigliano: “Lei era indiscutibilmente stupenda”, ma trovò lui “spavaldo e volgare”. Il 22 gennaio 1962 il registro cambia: si ritrovano sul set di Cleopatra, lei regina cafonal, lui Antonio imbellettato, e scoprono quel che saranno per i successivi tredici anni. Insomma, si baciano, e più lungamente delle esigenze del copione e delle urgenze dello stomaco: “Vi dispiace se dico ‘stop’?” e, sempre il povero regista Joseph Mankiewicz, “Vi interessa sapere che è ora di pranzo?”. A sfruculiare nel “matrimonio del secolo” sono Sam Kashner e Nancy Schoenberger in Furious Love, e già in quel primo giorno di riprese rinvengono il terzo incomodo: non è Eddie Fisher, non è la prima moglie di Dick, Sybil Williams, che tenterà il suicidio, bensì la bottiglia. Il biglietto da visita di Burton non inganna: postumi e tremori da sbornia a battere il ciak, invero, non una rarità. Liz impara presto: “L’ho introdotta alla birra, lei mi ha presentato Bulgari”.

Diamonds are forever, e chi è Dick per dubitare: un taglio Asscher da 33,19 carati, un altro sudafricano, l’eponimo Taylor-Burton Diamond, da 69,42 che Liz indosserà solo due volte e venderà nel 1978 per cinque milioni di dollari. Al sontuoso décolleté di Mrs. Taylor si confanno pure le perle: appartenuta ai reali spagnoli e ai Bonaparte, La Peregrina è il regalo per San Valentino di Burton nel 1969. Tutto il resto sono litigi, elevati a potenza dall’alcool, dirozzati dall’(auto)ironia, destinati alla leggenda.

Ci sono e ci fanno, impossibile tracciare un confine, ma i detriti parlano da sé: televisori fracassati, stanze d’hotel devastate, bottiglie di vodka scolate senza soluzione di continuità. E alla bisogna utilizzate quali armi improprie: il regista del tv movie Divorce His, Divorce Hers (1973) Waris Hussein contempla in Furious Love la ragazzina invitata da Burton in camera e allontanata dalla Taylor brandendo una bottiglia rotta di vodka. Nelle pause tra un drink e un’ubriacatura c’è tempo per riflettere esteticamente, perfino estaticamente su quest’amore litigarello: “Perde le staffe con vero divertimento, è bellissimo da guardare. I nostri sono deliziosi combattimenti urlanti, e Richard è un po’ come una piccola bomba atomica che esplode”.

Sulla stessa lunghezza d’onda (d’urto) è Dick, che al Daily Mirror confessava la funzionalità social delle baruffe: “Viviamo, a beneficio della folla, il tipo di idiozie che si aspetta” e ne declinava le generalità: “Spesso ingaggiamo una battaglia al solo scopo di tenerci in esercizio. Io la accuserò di essere brutta, lei accuserà me di essere un figlio di puttana senza talento… Amo litigare con Liz, tranne quando è nuda”. Il body shaming è pane quotidiano, Dick addebita alla Venere dagli occhi viola gambe corte e mani tozze, e sebbene nella celebre intervista doppia a 60 Minutes del 1970, vero e proprio memento della natura tempestosa della loro relazione, dichiari che “quando insulto Elizabeth, e lo faccio spesso, non colpisco mai i suoi punti deboli” è egli stesso a rivelare istantaneamente il più debole, “il doppio mento”.

Divorziarono nel 1974, per risposarsi nel 1975 e divorziare nuovamente meno di un anno dopo: gli psicofarmaci di lei, l’alcoolismo terminale di lui, una vita troppo su di giri, o fuori giri, per essere ancora di coppia, eppure, non li abbiamo mai divisi nella nostra memoria. Noi, e forse nemmeno loro: “Non voglio essere mai più così tanto innamorata… Ho dato via tutto… la mia anima, il mio essere, tutto”. Un’unione battezzata nella Roma del trashissimo Cleopatra e rivelata al mondo dal fotoreporter Moreno Geppetti il 18 giugno del 1962, con quello che è probabilmente lo scatto più remunerato di sempre: 30 milioni delle vecchie lire, circa 370 mila euro odierni.

Richard Burton morì il 5 agosto del 1984: “Tu sei più distante di Venere – il pianeta intendo – e io sono totalmente sordo alla musica delle sfere celesti. Ma una cosa è innegabile. Ti amo e ti amerò per sempre. Torna da me prima che puoi”. Elizabeth Taylor s’è fatta attendere, fino al 23 marzo del 2011. Ma ora lassù qualcuno si ama. Anzi, litiga.

 

Noi, normali maledetti. I Måneskin. “Viva pure il Green Pass”

Li vedi affacciati al Palazzo Senatorio, in look total Gucci, stilosi come si conviene a delle rockstar globali. Ma sono enfant du pays. “Proviamo nostalgia ogni volta che lasciamo la nostra città. Che oggi ci fa sentire importanti”. La sindaca Raggi ha mantenuto la promessa di invitarli in Campidoglio per la consegna della Lupa capitolina, massima onorificenza per romani illustri e non: se l’erano portata a casa pure Armani e Woody Allen, per dire. Ora se ne contendono la custodia la capitana Victoria e il profeta Ethan (“Da bambino sognai di esibirmi di fronte a tantissima folla”), con il beneplacito di un Damiano dalla zazzera metà claustrale e metà guerriera, e di Thomas, il chitarrista detto “Er Cobra” per quei motivi lì. Che ben si legano anche all’icona della Lupa, se come vuole la Storia non era la nutrice animale, bensì una che fondò Roma con il sesso occasionale. Perfetta per i Måneskin da “scandalo” del video cult di I wanna be your slave.

“Non siamo diversi da quel che siamo nella vita. Provocatori? No, bravi ragazzi che credono nella libertà di scelta”. Avanti così: dopo il ritorno trionfale, di nuovo subito a suonare nel Vecchio continente (“Che bello tornare live, viva i Green pass”, cinguettano), poi un tour di palazzetti italiani in inverno, già tutto sold out, infine il concerto-evento del 9 luglio 2022 al Circo Massimo: “Ospiti?”, nicchiano. “Presto per parlarne. Questi mesi saranno pieni di sorprese e segreti”, concedono. Continuando di questo passo, bisognerà incidere le tavole dei Måneskin. E piazzarle accanto a quelle che ai Fori illustrano l’espansione di Roma antica. Per prendersi il mondo, i quattro ragazzi ci hanno messo non secoli ma qualche mese: da Sanremo all’Eurovision Contest, fino a illuminare Times Square con il loro billboard. Anzi, fino a sbancare Spotify con quasi 50 milioni di streaming mensili: il doppio dei Beatles, e più di Billie Eilish. Se lo aspettavano? “No, ma niente è casuale”, ti dicono, e non capisci se stiano esorcizzando questo successo da vertigine, o ammettendo la nuda verità: che se ti fai un mazzo così, restando coi piedi per terra, hai qualche chance in un gioco che può ammazzarti in culla o spararti in cielo. In fondo, quando nacque la Beatlemania, quelli di Liverpool erano loro coetanei. Avevano avuto il colpo di culo di essere notati dal re dei presentatori tv, Ed Sullivan, che li fece sbarcare in un’America in lutto per l’assassinio di JFK. John, Paul & C. inondarono il pianeta dell’energia vitale di cui c’era bisogno. Absit iniura verbis, ai Maneskin può accadere qualcosa di analogo: per tornare a respirare dopo il puzzo mortifero del Covid, serve la botta di adrenalina del rock più sfrenato, e si fottessero i parrucconi che ne esigono la matrice anglosassone: sessant’anni dopo, la nuova radice della pianta è nazionale, anzi romana. A chilometro zero.

Sottolinea Damiano: “Siamo estremamente belli, ed estremamente italiani”. Vic va più a fondo: “Essere cresciuti qui ha innestato qualcosa di tipico nel nostro suono. Abbiamo dimostrato che le origini non sono un problema. Anche in Italia una band può superare ogni ostacolo”. Allora cosa mettere sulle tavole dei Måneskin? Nella prima il liceo Kennedy, a Monteverde. Le case alla Balduina. E il ristorante alla Garbatella dove il primo concerto valse loro una cena. Poi via del Corso, “quei primi 20 euro allungati da uno che credeva in questi stradaioli”. Nella seconda tavola l’Impero Måneskin esce da Roma, direzione Milano per X-Factor, dove arriva l’inopinata sconfitta per mano del tenorino Licitra, ma anche il feeling con quello che ora è il nuovo manager, il producer Fabrizio Ferraguzzo. Poi la marcia su Sanremo, l’Ariston vuoto che trema su Zitti e buoni. La terza tavola è Rotterdam, l’Eurovision, il loro Ed Sullivan Show, con tanti saluti alle lagne francesi e svizzere.

Certi critici inglesi storcono il naso, ma la band azzurra dimostra che anche il rock is coming to Rome. Forse anche per la prossima edizione, con i Nostri inevitabili testimonial della possibile sede italiana (“Al Palalottomatica? O è troppo old school?”, battibeccano). La quarta è di là da scoprire, l’America è un campo minato. Miley Cyrus è stata la prima ad adorarli, magari da questa attrazione potrà nascere qualcosa (“Un duetto? No, anzi vediamo”, si schermiscono), e il New York Times li elogia allineandoli a Draghi. Ma con Kanye West è stata rotta di collisione per una cover con una parola che equivale a “negraccio”. Immediate le scuse di Damiano. “Siamo aperti alle critiche, e ad ammettere i nostri errori. Ma soprattutto a lavorare sodo”. Perché il gioco comincia adesso.