“Pedinamenti e minacce” Corinna denuncia il suo re

Il re è nudo. E anche tirchio. Poco elegante e stalker. A ricordare i grandi “pregi” del sovrano emerito di Spagna, Juan Carlos I di Borbone è l’amante ufficiale, Corinna zu Sayn-Wittgenstein, anche nota come “la principessa” Corinna Larsen, la quale, come annunciato qualche mese fa, ha denunciato all’Alta Corte di Londra per minacce il vecchio amato, con cui ebbe un’intensa relazione sentimentale dal 2004 al 2009, Se non bastasse, l’imprenditrice – rappresentata da James Lewis, avvocato di Julian Assange – secondo quanto riporta il Financial Times, chiede anche un ordine restrittivo di 150 metri dalla sua residenza nei confronti dell’ex capo di Stato e di ogni agente del servizio segreto interno spagnolo (Cni).

Tutto è iniziato nel 2012, quando Larsen, allora residente a Monaco, iniziò a sentirsi “sotto sorveglianza” per essersi rifiutata di restituire a Juan Carlos i 65 milioni di euro che lui le aveva regalato “in nome dei bei tempi andati”. La storia del pedinamento era venuta fuori già dalla testimonianza della Larsen a gennaio scorso durante l’apertura del processo al commissario Juan Manuel Villarejo, detentore dei segreti spagnoli e pare assoldato per seguirla. Nelle intercettazioni tra lui e la donna, veniva fuori che a fare visita all’ex amante dell’allora re spagnolo fu anche il direttore del Cni, Félix Sanz Roldán. Sarà che la tesi del pedinamento va sostenuta per convincere la Procura svizzera che indaga sui conti off-shore dei piccioncini derivanti da affari di Juan Carlos I in Arabia Saudita, ove ora risiede al riparo dalla giustizia spagnola, che lei quei soldi non li aveva ricevuti per aver partecipato a loschi affari, fatto sta che Larsen insiste. Secondo lei, Juan Carlos non avendo riavuto indietro il regalo, come nei peggiori epiloghi amorosi, avrebbe iniziato a gettare discredito addosso all’ex amante, cosa che ha pregiudicato i suoi affari e motivo per il quale ora, l’ex principessa di Spagna reclama anche i danni all’emerito sovrano. Tutto questo mentre la sua casa di Monaco veniva di fatto occupata da un’agenzia di sicurezza, con la scusa di offrirle protezione non richiesta da parte dei servizi segreti interni che da lì passarono poi a minacciarla di morte al suo arrivo all’Hotel Connaught di Londra. “Ero spaventatissima, minacciarono me e i miei figli dicendomi che non avrebbero potuto garantirmi incolumità fisica”, ha raccontato Corinnna al Financial Times. “Volevano assicurarsi il mio silenzio. Mi mandavano mail sotto pseudonimi nelle quali mi spiegavano che se avessi parlato con i media la mia immagine ne sarebbe uscita distrutta”. Dalla Casa Reale non arriva replica. Dall’Arabia Saudita idem.

Tra le accuse della donna che fino a poco tempo fa sosteneva alla stampa rosa spagnola di “non temere neanche la regina Sofia, con la quale – assicurava – l’ex re aveva da anni solo un patto di rappresentanza della monarchia”, e l’immagine oramai distrutta dell’ex monarca, resta l’inchiesta della Procura svizzera, aperta nel 2018, nella quale i due amanti si ritrovano imputati insieme a due altri presunti prestanome, Artura Fasana e l’avvocato Dante Canónica, per conti off-shore. Le indagini del procuratore Yves Bertossa hanno accertato un bonifico di 100 milioni di dollari del 2008 dall’Arabia Saudita a una fondazione legata al Borbone. Secondo Bertossa si tratta di mazzette incassate dall’allora re di Spagna per l’intermediazione nell’appalto dell’opera per il treno veloce a La Mecca a favore di imprese spagnole, tra le quali la Ohl dell’amico Juan Miguel Villar Mir. È da lì che nel 2012 escono i 65 milioni di euro trasferiti sul conto di Corinna. Un pegno d’amore, come sostiene lei, poi richiestole da un amante poco elegante, o una commissione condivisa di cui si vuole far sparire le tracce? Entrambe le ipotesi non riabilitano l’immagine del sovrano emerito nel suo esilio arabo. Né liberano il figlio Felipe VI, seduto scomodo sul trono, dalle colpe del padre.

Gli islamisti cambiano tono: esortano Saied a nuove elezioni

Dopo la chiamata ai sostenitori a protestare anche fuori dal Parlamento contro le dimissioni forzate imposte al premier Hichem Mechichi da parte del presidente Saied, Ennahda, il più grande partito politico tunisino ha chiesto il dialogo per risolvere la crisi e sfidato il presidente a indire nuove elezioni legislative e presidenziali, mettendo in guardia contro qualsiasi ritardo che sarebbe “un pretesto per mantenere un regime autocratico”. Un cambiamento di tattica e anche di toni rispetto alle accuse di “incostituzionalità” alla decisione di Saied che ieri gli islamisti hanno invitato con un approccio più conciliante a revocare le misure adottate. Questo dopo che a rispondere all’appello per le proteste lunedì erano state solo poche centinaia di sostenitori, l’annuncio di Saied del coprifuoco notturno dalle 19 alle 6 del mattino per un mese e il divieto di assembramenti di più di tre persone, che porterebbe allo scontro con la polizia. “Rachid Ghannouchi, presidente del parlamento e leader di Ennahda, ha capito che il confronto nelle strade sarebbe costoso e sanguinoso e li delegittimerebbe”, ha commentato a Al Jazeera Hamza Meddeb, analista del Carnegie Middle East Centre. Il partito islamista mette in guardia comunque dai discorsi di violenza ed esclusione e considera le misure straordinarie decise da Saied e chiede agli “apparati della sicurezza e ai militari, dispiegati intorno al Parlamento e alla sede del governo, di restare fuori dalle dispute politiche”. Nel frattempo il presidente Saied dopo aver emesso una serie di decreti con cui ha revocato anche il ministro della Difesa e il ministro ad interim della Giustizia e fermato per due giorni i lavori delle amministrazioni, ha incontrato rappresentanti della società civile e sindacati, nonché rappresentanti dei consigli giudiziari. Il potente sindacato dei lavoratori, l’Ugtt, si è espresso a sostegno di Saied pur sottolineando che queste misure eccezionali devono essere limitate. Secondo il vicesegretario generale, Abdelkarim Jrad, il Capo dello Stato opterà per un processo consultivo di tutte le forze in gioco per la scelta del nuovo premier. Contro Saied resta la maggioranza dei partiti che ha tacciato la sua mossa come incostituzionale, nonostante lui si appelli all’art. 80. Tra loro anche la corrente democratica centrista, che tendeva ad allinearsi con il presidente nel conflitto politico con il premier. Dall’Unione europea, preoccupata per la crisi tunisina, arriva un coordinamento tra Italia, Francia, Germania e Spagna che, su impulso di Roma, seguirà la situazione.

“È un’isola senza giustizia”. 2021, fuga da Hong Kong

Tre giudici scelti dal governo fantoccio di Hong Kong hanno riconosciuto ieri colpevole di secessione e terrorismo Tong Ying-kit, il motociclista di 24 anni che il 1º luglio 2020 aveva sfondato un cordone di polizia con la bandiera: “Hong Kong Libera, la nostra rivoluzione”. È la prima sentenza che applica la legge di sicurezza nazionale imposta da Pechino il 30 giugno 2020. Ton Yin Kit rischia l’ergastolo. “Su 120 arresti sulla base della nuova legge, questo è il primo che arriva a sentenza. È un precedente storico per capire quanto saranno severe le pene comminate in questi processi, visto che in tutti i casi che coinvolgono violazioni della legge di sicurezza nazionale è coinvolta l’Alta corte” commenta al telefono Simon Cheng, 30 anni, il primo dissidente di Hong Kong a rivelare, nel 2019, il progetto di imporre la legge di sicurezza nazionale.

“È patetico che giudici, avvocati, poliziotti, un tempo professionisti rispettati, oggi facciano il gioco dei dittatori… È una parodia della giustizia”.

Impiegato del consolato britannico nell’isola, Cheng era stato arrestato nell’agosto 2019 durante un viaggio di lavoro a Shenzen, la città cinese subito oltre il confine. La sua colpa? Aver partecipato, da privato, ad alcune proteste pro-democrazia. E lavorare per una potenza straniera. “Sono stato interrogato e torturato ripetutamente perché identificassi altri manifestanti e ammettessi di essere una spia britannica. Ero sempre incappucciato, ma fra i miei carcerieri ricordo la voce di un uomo che parlava il cantonese di Hong Kong e mi gridava di ammettere le mie colpe. Per una settimana mi hanno costretto a restare immobile per ore, privandomi del sonno. Se cedevo mi colpivano, o mi costringevano a cantare l’inno nazionale cinese ”. Finisce per confessare il crimine posticcio di sfruttamento della prostituzione. Dopo due settimane di detenzione, viene liberato grazie alla pressione internazionale. Fugge a Taiwan, poi arriva nel Regno Unito, primo dei due richiedenti asilo di Hong Kong finora riconosciuti dal governo britannico. Il secondo è Nathan Law, leader della protesta studentesca che il Fatto ha intervistato lo scorso anno. Simon fonda l’associazione Hongkongers in Britain, che accoglie e supporta la diaspora dall’isola. “Londra a gennaio scorso ha dato il via a visti speciali per i residenti della ex colonia. Al momento ci risultano circa 4 mila richieste di visti a settimana”.

Scappano clandestinamente, prenotando la Visa via VPN, spesso aiutati dal governo britannico”. Fingono di venire in visita, prenotano un volo di ritorno che non prenderanno mai. Ma sono costretti, come ha fatto lui, a tagliare completamente i ponti con le proprie radici, per evitare ritorsioni brutali contro famiglia e amici rimasti a Hong Kong o in Cina. Il 93% del campione intervistato da Hongkongers in Britain sei mesi fa citava la situazione politica come ragione per cui considerava Hong Kong un posto non più sicuro per sé e i propri figli. E la diaspora ha subito una rapida accelerazione. Lo scorso 28 aprile l’assemblea formale dell’isola – ormai svuotata di ogni capacità di opposizione – ha approvato una legge sull’immigrazione che consente alle autorità di impedire i viaggi in entrata e in uscita. Una misura giustificata con la necessità di limitare l’immigrazione illegale, ma che potrebbe essere applicata in modo indiscriminato. “In queste settimane vediamo un aumento di richieste” spiega Simon al telefono “perché il timore è che il governo di Hong Kong, dal 1º agosto, impedisca i viaggi”.

‘Hongkongers in Britain’ lavora con il governo britannico per facilitare l’inclusione degli espatriati. Soprattutto famiglie: le condizioni economiche e culturali variano, ma oltre il 70%, secondo quella ricerca, è laureato e aveva, in patria, un buon tenore di vita. Malgrado questo, restano enormi barriere culturali e materiali. La prima è la difficoltà, aggravata dal Covid, di trovare affitti. La seconda è la ricerca del lavoro. E poi ci sono le crisi di salute mentale fra chi è partito, alcuni con ricordi brutali della repressioni di proteste pacifiche. Il 14% non pensa di tornare mai più. Troppo pericoloso. Del resto, la sorveglianza può raggiungerli anche nella nuova patria. “Organizziamo manifestazioni pro-democrazia davanti all’ambasciata cinese, ma non possiamo escludere di essere identificati da agenti cinesi”. Pechino arriva anche qui.

 

Nuovo maxi-controllo nella logistica: il tasso di irregolarità è sopra il 70%

Messaggio recapitato: 400 carabinieri si sono presentati ieri in dieci siti della logistica dei trasporti in tutta Italia. Hanno ascoltato 1.500 lavoratori e verificato le posizioni in 200 aziende: accertate 93 violazioni in materia di sicurezza del lavoro, 53 contratti irregolari e 10 totalmente in nero; tre imprese sospese dall’attività e 13 sanzionate per violazioni della normativa anti-Covid.

I nomi dei player ispezionati sono ignoti, ma il Fatto Quotidiano può riferire le località e alcune delle aziende oggetto dell’ispezione: Alessandria, Lodi (con la Compagnia Trasporto Servizi), Catania, Palermo, Bari, Caserta, Verona, Piacenza. E infine Colleferro, dove ha sede il polo logistico di Amazon. “La logistica dei trasporti è all’attenzione delle istituzioni”, dice il generale Gerardo Iorio, a capo del Comando Tutela Lavoro. “Un’importante operazione per l’accertamento di eventuali irregolarità e abusi”, l’ha definita il ministro del Lavoro, Andrea Orlando.

Messaggi, si diceva. L’ultimo inviato a un comparto – la logistica – che brinda agli investimenti del Pnrr e attrae capitali, ma che da troppo tempo prospera all’ombra dei suoi fantasmi. Nel 2020 su 8.850 accessi, l’Ispettorato nazionale del lavoro ha riscontrato un tasso di irregolarità del 71,84%. Così dove non agisce la “carota” della politica arriva il “bastone” di forze dell’ordine e magistrati. Difficile non leggere come unitari una serie di episodi.

A inizio giugno Dhl Supply Chain Italy, ramo di Deutsche Post, finisce nelle carte di Guardia di Finanza e Procura di Milano per evasione fiscale e contributiva. Sequestrati al colosso 20 milioni di euro. A luglio è l’operazione “Karma” delle Fiamme Gialle a sconquassare i territori di Biella, Novara e Vercelli. Nel mirino degli inquirenti una presunta maxi frode da 30 milioni: la pm Rosamaria Iera contesta l’associazione a delinquere con tanto di “linguaggio in codice che siamo riusciti a decifrare”.

Il meccanismo attenzionato è sempre identico. Appalti di lavoro fittizi, evasione Iva e contributiva, cooperative formalmente distinte che in realtà sono orchestrate da un’unica regia: consorzi nati “all’unico scopo di allungare la catena commerciale e ostacolare le attività di controllo” si legge nel fascicolo su Dhl. La Gdf lo chiama il sistema delle “società serbatoio e filtro”. Il 28 giugno si va in Toscana: 14 milioni confiscati a un consorzio di coop di facchinaggio su richiesta dei pm di Firenze. C’è l’evasione e c’è lo sfruttamento. Lo denunciano da anni i sindacati di base, entrati di forza nei magazzini di un’industria che non può delocalizzare all’estero, a cui il blocco ai cancelli può fare milioni di danni e bruciare la reputazione.

A Padova la multinazionale americana FedEx ha deciso di non rischiare più con gli appalti. Troppo forte è diventato l’Adl Cobas con 120 iscritti su 180: meglio assunzioni dirette pur di far fuori i facchini sindacalizzati del Consorzio “Pharum”. D’altronde FedEx gioca duro. A Piacenza ha tradito il patto con le istituzioni, mentendo davanti al Prefetto a febbraio sul mantenimento dell’occupazione, poi chiudendo il sito a marzo per aprire un nuovo centro di smistamento nel 2022 a Novara, in Piemonte. La regione in cui a giugno il sindacalista Adil Belakhdim viene investito e ucciso fuori dai cancelli di un altro hub: la Lidl di Briandate.

Fotografie da un mondo del lavoro senza regole. Il far west ritenuto essenziale in pandemia e che oggi riorganizza filiere e occupazione a piacimento. L’unico argine, come detto, sono le inchieste. Il 2 luglio a Lodi i finanzieri individuano 30 lavoratori di una coop con centinaia di ore di straordinario non pagate nel 2020. Lodi è un simbolo: la Gdf dice che la vicenda è scollegata dagli scontri fuori dal magazzino FedEx avvenuti a giugno. Sarà. Ma intanto durante le vertenze sindacali coi Cobas appaiono le società di sicurezza privata a sedare i picchetti, come rivela il Fatto il 19 giugno.

Che sia troppo lo sanno anche gli addetti ai lavori. Il 30 giugno Assoram – l’Associazione degli operatori logistici nella farmaceutica – celebra la sua assemblea nazionale. Invitano a parlare Federico Cafiero De Raho, il Procuratore nazionale antimafia. Messaggi.

Scontro tra ministeri e partiti Slitta la legge sulla concorrenza

Palazzo Chigi, ripetono nei ministeri coinvolti, “ha imposto il massimo riserbo”. La fuga in avanti, però, c’è stata e ora l’imbarazzo è palpabile. Salvo sorprese, la legge sulla Concorrenza non andrà in Consiglio dei ministri domani né in Parlamento entro luglio, come il governo si era impegnato a fare nel Piano nazionale di ripresa (Pnrr), dove compare tra le riforme “abilitanti”. I più ottimisti spiegano che lo slittamento porterà al via libera in agosto, ma se non si trova l’accordo su diverse misure, complice la pausa estiva, si andrà verosimilmente a settembre.

I dissidi tra i ministri non sono pochi. Molte norme ancora sono oggetto di confronto tra gli uffici legislativi di 6-7 ministeri più quello di Palazzo Chigi, che coordina il lavoro. “La decisione sullo slittamento la prenderà Draghi”, assicurano. La legge sulla Concorrenza dovrebbe arrivare ogni anno in Parlamento: lo impone una norma del 2009, ma è avvenuto solo una volta nel 2015 (con approvazione nel 2017). Il premier si è impegnato sul tema già nel suo discorso di insediamento, ma la strada è in salita.

Un testo articolato ancora non esiste. L’impianto parte dalle segnalazioni dell’Antitrust e dovrebbe toccare materie politicamente esplosive, dalle concessioni dei servizi pubblici locali alle procedure velocizzate per realizzare impianti di trattamento dei rifiuti, dal mercato elettrico alle concessioni portuali.

Sui servizi pubblici locali, il Pnrr parla apertamente di favorire un maggior ricorso al mercato, anche a costo di aumentare il contenzioso obbligando gli Enti locali a motivare in anticipo perché si rivolgono a società pubbliche invece di ricorrere alle gare. La questione potrebbe essere demandata a una legge delega. La Lega – segnalava ieri il Sole 24 Ore – è invece contraria alla norma che riporta allo Stato le grandi concessioni idroelettriche regionalizzate. Non c’è accordo nemmeno sui nuovi criteri di nomina dei dirigenti della sanità regionale e sui limiti all’elettrosmog (Italia Viva vorrebbe alzarli, ma il resto della maggioranza è più freddo, come il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti).

Di certo, ma anche qui manca l’accordo, nel testo entrerà la fine del mercato tutelato dell’energia con milioni di famiglie che finiranno nel “mercato libero”, dove i prezzi in media sono più alti. È previsto dal 2017, ma finora è sempre arrivata una proroga, l’ultima al 2023. La palla è in mano al ministero della Transizione ecologica e si ipotizza perfino un anticipo al 2022. In un documento riservato inviato ai ministeri – visionato dal Fatto – Palazzo Chigi scrive di procedere senza proroghe: entro fine anno verrà emanato il decreto che detterà il passaggio, riservando tutele solo alle fasce più deboli.

Nel testo, invece, non dovrebbero entrare né le concessioni balneari (care alla Lega) né i trasporti pubblici locali e neppure la fine del Canone Rai in bolletta: lo chiede Bruxelles da tempo, ma andrà prima trovato un modo per non tornare agli alti tassi di evasione precedenti alla riforma del 2015 voluta dal governo Renzi.

Viale Mazzini, sconfitta olimpica

Il piglio con cui la Rai sta affrontando Tokyo 2021 pone dei problemi spaziotemporali che avrebbero suscitato l’interesse di Albert Einstein. Chi cercasse una prova definitiva della Teoria della Relatività, potrebbe trovarla nelle fallimentari scelte strategiche fatte dal nostro servizio pubblico. Cominciamo col dire che queste Olimpiadi antelucane, mattutine e pomeridiane sono di per sé qualcosa di insolito, ai confini della realtà e della relatività. Tra le dune dei desertificati palinsesti estivi, le Olimpiadi appaiono come miraggi su Rai2, che negli ultimi tempi era stata data per dispersa. Ma dei miraggi ci si può fidare solo nel deserto. La maratona salta di palo in frasca per forza di cose, e solo una certezza resta salda: quando c’è da andare in trasferta, i mezzibusti di Rai Sport sono da medaglia d’oro, le truppe microfonate sono scese in massa galvanizzate dall’effetto Festival di Sanremo; niente pubblico all’Olimpic Stadium come al Teatro Ariston, ma con Federica Pellegrini al posto di Orietta Berti.

Insomma, tradizione di ferro. Due uniche reti via etere (Rai2 e Rai Sport, nessun diritto streaming per Rai Play), 200 ore di gare e 200 anche tra inviati, telecronisti, redattori iridati del Tg olimpico, opinionisti, storyteller delle imprese epiche che imitano Federico Buffa, una serie di salottini serali dove Jacopo Volpi imita Jacopo Volpi. Se ci fosse ancora il monopolio, la Rai potrebbe anche passare inosservata. Ma pare che oltre al passato esistano anche il presente, e perfino il futuro. Infatti quest’anno a detenere i diritti delle gare c’è anche il gruppo Discovery (offerte diverse sono su Eurosport – ma non sui canali Sky – TimVision, Dazn, che con un abbonamento permette di vedere due dei canali di Eurosport). Tremila ore di diretta contro 200, con automatico capovolgimento delle priorità: tutte le gare in versione integrale, briciole alle chiacchiere, abbonati in crescita e ascolti Rai in caduta libera. Bella lezione impartita dallo sport a una tv generalista drogata di vaniloquio: un fatto vale più di mille opinioni.

La Consulta boccerà la Cartabia quando lei sarà già sul Colle?

Non è così impossibile che la riforma della Giustizia venga approvata così com’è: le peggio cose le hanno fatte i governi tecnici. Basta pensare alla riforma dell’articolo 81 della Costituzione, approvata nell’ubriacatura del post Berlusconi, regnante un altro migliore, Mario Monti. Ce lo chiedeva l’Europa anche allora (ma almeno allora era vero). Proviamo però ad astrarci dalle tentazioni infantili di un dibattito pubblico gestito per lo più da analfabeti orecchianti, che basano i loro giudizi non sulle idee, ma in ragione della provenienza di tali idee. Noi ci permettiamo di saper leggere e far di conto da qualche tempo e dunque di capire ciò che ci viene sventolato sotto il naso, nonostante l’odore di santità. Come i nostri lettori sanno bene, due sono i punti inaccettabili di questa riforma. Il più dibattuto riguarda l’improcedibilità che scatterebbe in automatico due (salvo alcune eccezioni) anni dopo l’inizio del procedimento di secondo grado. Come ha rilevato la commissione ministeriale e come ha ricordato sul Fatto Piercamillo Davigo, l’arretrato delle Corti è pari al doppio dei processi definiti ogni anno, e quindi le Corti impiegherebbero due anni solo a smaltire l’arretrato. Mettiamoci poi i nuovi processi di secondo grado, che finiranno in coda ai pendenti: tutti, o quasi, in fumo.

L’altra questione riguarda il nodo delicatissimo dei rapporti tra i poteri. La legge delega prevede che “gli uffici del pubblico ministero nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Si realizza così, senza sporcarsi le mani, il sogno proibito della separazione delle carriere e cioè l’assoggettamento della magistratura inquirente al potere politico. Il legislatore già prevede una gerarchia della gravità disponendo per delitti e contravvenzioni pene più o meno gravi. Qui però c’è un passaggio ulteriore: già immaginiamo emergenze securitarie in cui reati come scippi, furti e rapine diventeranno allarmanti criticità da perseguire a scapito di meno visibili reati (che però producono danni, anche economici, incalcolabili). Una soluzione l’ha individuata la ministra stessa durante la conferenza stampa con il presidente Draghi, quando ha parlato di interventi mirati nei distretti di Corte d’appello dove gli arretrati sono più gravosi: il problema della cronica lunghezza dei processi si risolve in prima battuta con gli investimenti, dotando gli uffici giudiziari di più personale, più risorse, più tecnologia.

Tornando alla riforma com’è, è già stato ampiamente chiarito come e perché queste norme sono contro la Costituzione. E sì, è stupefacente che le proposte arrivino da una commissione guidata da un presidente emerito della Consulta e che siano state recepite da una ministra a sua volta ex presidente della Corte. C’è un ulteriore possibile cortocircuito, di non scarso rilievo istituzionale. E riguarda l’ipotesi tutt’altro che remota di un’ascesa al Colle di Marta Cartabia, che sarebbe in teoria da preferire a un irrituale secondo mandato à la carte dell’attuale inquilino. In teoria, ma non in pratica. Se tutto procederà come pare probabile, la riforma che porta il nome della ministra diventerà legge. Prima o poi la Consulta dovrà giudicarne la conformità alla Costituzione ed è più che possibile che certifichi l’incostituzionalità di alcune parti, causando un imbarazzo istituzionale inaudito, perfino peggiore dell’umiliazione che il Parlamento ha dovuto subire con la doppia bocciatura di due leggi elettorali una in fila all’altra.

 

Green Pass Chi ha dubbi (fondati) passa subito per amico di Salvini

Se si prova ad ascoltare la gente, anziché gli arguti corsivisti del giornali – pardon del Giornale Quasi Unico che si vende, sempre meno, in Italia – si capirà senza troppo sforzo che le perplessità sul Green pass obbligatorio sono articolate e numerose, non tutte campate per aria. Si può cogliere fior da fiore, naturalmente, in un esercizio che non finisce più.

Si parla di Green pass per i treni ad alta percorrenza (cioè quelli dove già si siede distanziati e ti regalano la mascherina) e non sui carri bestiame dei pendolari o sugli autobus in città all’ora di punta, per dirne una. O si può notare che né Germania né Gran Bretagna vaccinano i minorenni, se non in casi con patologie, mentre qui un tredicenne non vaccinato viene indicato come pericoloso terrorista che vuole ammazzare il nonno (che però dovrebbe essere vaccinato, no?). Insomma, in un dibattito libero condotto da cervelli liberi e non da tifoserie schierate a gridare “merda-merda” agli altri, gli argomenti sarebbero numerosi e la discussione persino interessante, con risvolti etici, giuridico-costituzionali, di opportunità, eccetera eccetera.

Si assiste invece al feroce giochetto delle criminalizzazioni, nascosto dietro la formuletta facile “no-vax”, per cui si attribuisce agli scettici (non tanto sui vaccini, ma sull’impianto generale del Green pass) una specie di tendenza al nichilismo. Per dirla in parole povere, se provate a esprimere qualche perplessità (tipo quella per cui dovete avere il Green pass per mangiare al ristorante, ma non per cucinare o servire ai tavoli) passate immediatamente nel mare magnum dei negazionisti, di quelli che temono il chip sottopelle, oppure dei ridicoli balilla di Forza Nuova o di CasaPound, oppure siete amici di Salvini, e via discorrendo, in una specie di discesa negli inferi dei deficienti conclamati.

C’è dunque, diciamo così, un pensiero unico per induzione. Nessuno con la testa sulle spalle vuole essere assimilato al signor Castellino, il piccolo federale di Forza Nuova già condannato in primo grado per pestaggio, che in sprezzo a qualunque regola democratica guida i “rivoltosi” per le strade di Roma. Insomma, il dibattito è inquinato: chiunque abbia una posizione non perfettamente allineata diventa automaticamente imbecille (il G5 cinese nel sangue!) o ardito tatuato di svastiche.

La questione è molto complicata e nessuno la risolverà a breve, certo. Però viene da chiedersi (se lo chiede in Francia la sinistra, per esempio) come mai si preferisca un obbligo indotto (senza Green pass le tue libertà sono limitate) a un obbligo vero, di legge. Ci sono già vaccini obbligatori, in Italia, punture che lo Stato garantisce e impone. Se si è convinti che il vaccino sia l’arma più efficace (io, per esempio, ne sono convinto) perché non imporlo? Perché lo Stato, che secondo l’articolo 32 della sua Costituzione deve garantire la salute dei cittadini, preferisce una delega di responsabilità anziché imporla? Si fosse cominciato subito con l’obbligo per gli over 60, poi per gli over 50, e così via, monitorando seriamente i numeri di ospedalizzazioni e decessi, si sarebbe fatto prima e più seriamente. Invece abbiamo centinaia di migliaia di ultasessantenni non vaccinati e grida di “vergogna-vergogna” verso i genitori dubbiosi di adolescenti. Fare lo Stato senza farlo davvero, insomma, perché colpevolizzare i cittadini pare meglio, più produttivo, che prendersi una reale responsabilità da Stato sovrano (ti vaccino e sono responsabile di quel che ti inietto).

 

Sul vaccino ai ragazzini manca un dibattito serio

Il principale danno del matrimonio tra No Vax ed estrema destra (che ha generato inaccettabili mostruosità come l’equiparazione tra pass vaccinale e persecuzione degli ebrei) è forse la sottrazione della questione dei vaccini agli adolescenti a un dibattito razionale, informato e dunque capace di aiutare le famiglie a decidere.

Premessa: sono favorevole a ogni tipo di vaccino e, non appena mi è stato proposto, mi sono subito vaccinato (come insegnante) con doppia dose di AstraZeneca, accettando senza fiatare il caos sull’età (oggi non potrei farlo), gestito dal governo Draghi con un dilettantismo che non sarebbe stato consentito a nessun altro esecutivo. Aggiungo che, nonostante alcuni non infondati argomenti contrari, sarei anche incline ad accettare un obbligo vaccinale per gli adulti: forse una misura meno ipocrita e più efficace del cosiddetto Green pass, che apre a prospettive più inquietanti, come quella che vede il medagliatissimo generale pretendere le liste di chi rifiuta la dose… Al contrario, nutro non pochi dubbi sulla vaccinazione dei miei due figli adolescenti, e ciò che leggo ogni giorno non giova affatto a scioglierli.

La babele europea, innanzitutto. In Germania il governo sconsiglia di vaccinare gli adolescenti. Su Der Spiegel si è letto (cito la traduzione di Internazionale) che questo avviene perché “tra le voci critiche c’è… quella del comitato permanente sui vaccini (Stiko), la commissione indipendente d’esperti che fornisce un’analisi scientifica sui rischi e i benefici della vaccinazione. Lo Stiko fa parte dell’Istituto Robert Koch, il centro federale per il controllo delle malattie. Le valutazioni preliminari del comitato rischiano di smorzare l’euforia intorno alle vaccinazioni. ‘Ne stiamo ancora parlando’, spiega Rüdiger von Kries, professore di Pediatria sociale e Medicina degli adolescenti all’Università Ludwig Maximilian di Monaco. Secondo lui, le vaccinazioni tra i 12 e i 17 anni non saranno probabilmente raccomandate a tutti indistintamente, ma solo alle persone con disturbi preesistenti come diabete, tumori o immunodeficienze”. E anche i governi inglese, belga, olandese e finlandese sono sulle stesse posizioni.

In Italia, invece, offrendo il Green pass a chi ha più di 12 anni, il governo Draghi di fatto compie la scelta diametralmente opposta (in compagnia di quelli di Francia, Spagna e molti altri), spingendo verso una vaccinazione di massa degli adolescenti: ma lo fa senza quella campagna di divulgazione, e senza promuovere quel dibattito che, in una democrazia, non possono non accompagnare una svolta di questo tipo. E la devastante incapacità di questo ineffabile “governo dei migliori” a eliminare le “classi pollaio”, e a provvedere a edilizia scolastica e trasporti pubblici, lascia immaginare che, a settembre, il pass possa esser chiesto anche per andare a scuola.

Quel che manca – nonostante l’onnipresenza mediatica di virologi e immunologi – è un serio discorso pubblico sul rapporto rischi-benefici per i ragazzi: un discorso che permetta di quantificare, in qualche modo, i rischi di vaccini sostanzialmente non sperimentati per la loro fascia di età, e il beneficio di evitare decorsi avversi del virus, sempre nella loro fascia di età. Insomma: una sedicenne rischia più vaccinandosi o non vaccinandosi? È a questa domanda che bisognerebbe rispondere con onestà e documentazione. Invece, da noi la sostanza del discorso non si concentra sugli interessi dei più giovani, ma sul loro ruolo di vettori del virus verso gli adulti. Naturalmente anche questo è un argomento da valutare (rammentandosi, però, che anche sotto i dodici anni si può essere “untori”), ma sarebbe lecito aspettarsi che prima di esporre gli adolescenti a un rischio in buona parte incognito, il governo portasse a termine la doppia vaccinazione di tutti gli adulti (compresi i marginali), appunto anche ricorrendo all’obbligo, se necessario.

Non farlo, e scaricare il problema sui ragazzi, mi pare l’ennesima manifestazione di quel saturnismo tipico della classe dirigente italiana, e di questo governo in particolare: dell’attitudine, cioè, a sacrificare l’interesse, e le vite, di chi viene dopo, sull’altare del presente, della crescita e degli interessi di chi comanda oggi. Senza contare il vero e proprio dilemma morale a cui si lasciano milioni di famiglie: lasciate sole a decidere, con i ragazzi che premono, spinti dalle restrizioni imposte dal governo.

Da cittadino e da genitore vorrei esser certo che i ragazzi vengono vaccinati nel loro interesse, per evitare loro un rischio. Non contro il loro interesse, e per evitare un rischio a noi adulti. Prontissimo a convincermi che il vaccino, nonostante le incognite che saranno sciolte solo tra anni, conviene anche ai ragazzi: ma per la loro salute, non per andare al ristorante al chiuso o, domani, in discoteca.

 

Indro Montanelli. Un borghese frondista, sempre controcorrente

Ormai morto e stramorto, sono da poco trascorsi vent’anni dall’anniversario, Indro Montanelli viene ancora processato e bersagliato di contumelie per vicende del suo trapassato remoto, isolando singoli episodi anziché, come sarebbe più giusto, tentare un giudizio complessivo sulla sua figura per intero. Detto che è stato completamente dimenticato il dovere deontologico di storicizzare le azioni di un individuo (la moralità e la mentalità di oggi non possono essere quelle di cento anni fa), Montanelli fu soprattutto un grande maestro di stile nella scrittura, che lavorava, cioè viveva, per poter trarre materia da impastare e modellare per riversare sulla pagina il suo gusto di istantaneista amante del paradosso, di ritrattista dal sagace occhio per il dettaglio, di aneddotista anche un po’ bugiardo – come, o forse meno, di Malaparte – tuttavia irresistibilmente brillante e stimolante.

Nei contenuti e nelle idee, invece, lasciava spesso a desiderare, per non dir di peggio. Per dirne una: quando stava venendo giù il mondo, nei primi anni Novanta, lui ancora stava dietro alla Dc, non avendo capito nulla di quel che stava accadendo. Per forza: quello della Prima Repubblica era il suo mondo, dove gli era consentito fare la fronda, una vivace e personalmente disinteressata fronda, ma non più che una fronda da liberal-conservatore al tempo in cui c’era ben poco da conservare (frondista fu presto anche sotto il fascismo per abbracciare poi la causa partigiana, facendosi il carcere e con una condanna a morte sul collo: il suo fu un fascismo da ebbrezza giovanile, mai rinnegato e mai nascosto, durato il tempo di un’infatuazione). Era un uomo di sistema, il vecchio Indro, che criticava il sistema per salvarlo. Le sue critiche erano, indubbiamente, le meglio formulate, le più eleganti, non certo quelle che andavano più a segno. Giorgio Bocca sosteneva che fosse acuto ma non profondo, e a mio modestissimo avviso ci prendeva: Indro proiettava troppo il suo scetticismo su tutto e tutti (memorabile la cantonata che prese, per dirne un’altra, su Licio Gelli descritto come un piazzista di periferia). Si vede ancor meglio nelle opere storiografiche, dove deforma certi personaggi e taluni pensieri filosofici riducendoli, per carità godibilmente, quasi a burletta. Eppure non c’è una riga, di suo, da cui non si possano imparare il nitore, la musicalità, la scorrevolezza della prosa. La depressione che, a intervalli, lo accompagnò sempre lo induceva a ritagliare ovunque il tratto umano troppo umano, sorvolando però sui risvolti duramente pesanti delle trasformazioni sociali, causate da processi di potere che per lui erano banalizzabili in termini di caratteri, umori, fatalità.

D’altronde, lo confessava lui stesso: era un borghese dell’Ottocento, di una borghesia minoritaria che al dunque si ricongiungeva, turandosi il naso, con la maggioranza. Una borghesia doverista e laica, da caffè che si pretendeva illuminata, nel suo caso un po’ romantica, cavalleresca. Controcorrente, sì, ma nell’alveo della corrente, quasi mai fuori. Eccezion fatta per l’ultimo periodo, quando giustamente non volle unirsi al suo ex editore Silvio Berlusconi (finì, dopo la spumeggiante e disperata parentesi de La Voce, al Corriere della Sera: partito da lì, lì tornava). Una volta Alberto Ronchey, direttore de La Stampa, lo centrò in pieno: Montanelli, scrisse, starebbe all’opposizione anche del suo governo ideale, pur di figurare dall’altra parte. E lui di rimando, scoprendosi con sincerità: “Sì, ma per invitare poi a votarlo”. Chi volesse capire come si scrive, dovrebbe leggerselo e rileggerserlo. Senza fargli sconti. Ma senza neanche sputare sulla sua bara, come fanno i vigliacchi.