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Il “Conticidio” smaschera i tanti anti-italiani

Grazie direttore per la sua precisa e godibile – per quanto amara – ricostruzione dei fatti relativi alla caduta del governo Conte e per averci mostrato chi sono i veri anti-italiani. Anche il Conticidio è un prezioso promemoria per tutti coloro che desiderano sottrarsi allo stravolgimento della realtà a opera dei noti manipolatori.

Anna Maria Guideri

Draghi e i 40 dragoni dritti verso il baratro

Vi scrivo perché, mai come ora, dopo il “Conticidio”, che il direttore ha ben analizzato, non riusciamo a capire cosa sia successo e cosa stia succedendo nel M5S. I numeri alla Camera e al Senato sono sotto gli occhi di tutti, eppure Draghi e i suoi 40 dragoni stanno sistematicamente portando a termine il programma distruttivo avallato anche da Mattarella. È accaduto l’impensabile e il peggio temo debba ancora venire!

Guido Rapalo

Ex-Ilva: soddisfazione per l’operaio reintegrato

Esprimo tutta la mia soddisfazione per l’annullamento del licenziamento di Riccardo Cristello, ordinato dal giudice. In un periodo in cui la classe operaia è attaccata da destra e sconta ancora il tradimento renziano a sinistra, questa sentenza di reintegro è un raggio di sole. Tuttavia, che sia ancora un giudice a rimediare a una palese ingiustizia nel mondo del lavoro fa capire quanto la sinistra – Pd in primis – si sia allontanata dalla protezione dei lavoratori; e quanto sia pericoloso per chi lavora in fabbrica un Movimento ambiguo, che si vanta di non essere né di destra, né di sinistra.

Massimo Marnetto

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo pubblicato ieri dal titolo “PetrolValves, le mazzette per lavorare in Australia” a firma di Stefano Vergine, PetrolValves tiene a precisare che: i fatti riportati si riferiscono a presunti reati commessi nel 2012 da ex funzionari ed ex dipendenti che attualmente – e già da diversi anni – non rivestono alcun ruolo in azienda; nessuno degli attuali amministratori, dirigenti e dipendenti risulta aver alcun coinvolgimento, infatti nessuno è stato destinatario di provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria, e quindi, risulta essere sottoposto ad indagini nell’ambito del procedimento. La società risulta coinvolta nell’inchiesta solo ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001, la disciplina relativa alla responsabilità amministrativa dell’ente, nel caso di specie esclusivamente connessa alle condotte risalenti consumate dalla precedente proprietà e gestione della società; Petrolvalves, a seguito della nuova compagine azionaria (2016) e manageriale, ha operato sin dal 2016 un processo di self cleaning e implementato un rigoroso sistema di controlli interni. La società si considera, pertanto, parte lesa rispetto ai fatti descritti nell’articolo e si è positivamente attivata in ogni maniera con le autorità inquirenti. PetrolValves sta, inoltre, collaborando appieno anche con l’amministratore giudiziario, nominato nell’ambito del giudizio di prevenzione, peraltro, con poteri limitati e senza interferenza alcuna nell’attività del Consiglio di amministrazione, né nella gestione delle attività di business, con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente il proprio modello organizzativo.

Image Building Per PetrolValves

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri a pagina 12 abbiamo titolato “Affare ex Cirio, a processo Cesaro e Pentangelo (FI)” un articolo nel quale davamo correttamente conto di un avviso di conclusa indagine per corruzione nei confronti dei due parlamentari campani. Avviso che di solito è il preludio di una richiesta di rinvio a giudizio, e quindi di un processo. Richiesta di rinvio a giudizio che, però, al momento non è stata formalizzata, né poteva esserlo, perché il codice prevede per gli indagati la possibilità di produrre memorie difensive o chiedere di essere interrogati nei 20 giorni successivi all’avviso.

Fq

 

Nel mio articolo di ieri “Pisa, il sindaco leghista assume guardie private per la sicurezza. Il Viminale tace”, ho confuso, per un clamoroso lapsus, il sindaco di Livorno con quello di Pisa. Da livornese doc non posso che chiedere scusa agli interessati, ma soprattutto ai miei concittadini.

Gia. Sal.

Cappotti, canottiere e la democrazia in garage col motorino

Se vi state chiedendo che fine abbia fatto la democrazia parlamentare in Italia, dato che sembra sparita, tranquilli: è nel mio garage, in uno scatolone. L’ho messa lì due anni fa, quando i grillini andarono al governo, certo che fosse diventata inutile: in quattro e quattr’otto, i grillini avrebbero aperto il Parlamento come una scatoletta di tonno, abolito l’intermediazione dei partiti e inaugurato la stagione della democrazia diretta, quella che decide a maggioranza pigiando un tasto sullo smartphone, e non causa tanti problemi come una democrazia vera, dove gli appetiti di Confindustria e Goldman Sachs possono venir ostacolati da quei rompicoglioni dell’opposizione, a trovarli. Ma c’è un modo ancor più diretto: Renzi che infila una forchetta nella presa di corrente e fa saltare tutto, piattaforma Rousseau compresa (e questo è un peccato, perché la morosa del figlio di Casaleggio ci contava). Così adesso c’è al governo Mario Goldman Sachs Draghi, con la sua panchina lunga che ingloba maggioranza e opposizione, in nome dell’emergenza Covid. E la democrazia? Come ha confessato ieri Prodi alla Stampa, è sospesa fino a contrordine: “Conoscendo bene Bruxelles, è possibilissimo che a un certo punto possano interrompersi i finanziamenti. Le condizioni sono estremamente analitiche e dettagliate. Di una precisione al limite della pignoleria: sono state scritte perché un domani risorse possano essere sospese per qualsiasi Paese e quindi anche per l’Italia. Il governo Draghi è nato proprio per evitare questo scenario”. Votare, insomma, è considerato pericoloso da chi comanda davvero: infatti, se un Paese sbaglia la direzione che hanno deciso per lui, gli aizzano contro i Fondi internazionali, che sono i Black bloc del Potere vigente. Basta con questa farsa: facciamo gli Stati Uniti d’Europa, oppure voglio poter votare il board di Goldman Sachs, visto che sono loro a decidere. Nell’attesa, occorre pensare a un partito che stia dalla parte di quelli cui Goldman Sachs sta sul cazzo, e si dia da fare per rimettere in moto la democrazia. Come si sa (sempre che lo sappiate), una democrazia è un composto formato da potere costituito, potere costituente, idrogeno, ossigeno e qualche agente sbiancante (l’Italia è piena di agenti sbiancanti, e non tutti lavorano alla Rai). Non è facile far sì che una democrazia funzioni perfettamente, dato che la cosa non dipende solo dalla qualità dei cappotti a una prima della Scala. Una vera democrazia si forma col tempo, quando i conflitti sociali, saltato lo squalo, creano una condizione atmosferica nota come “volontà popolare” (Vp, se questo può aiutarvi). La Vp, a sua volta, determina una certa quantità di scelte politiche (un termine tecnico che significa “scelte politiche”), e il risultato è quella che chiamiamo “democrazia”, o, più spesso, “questo cazzo di democrazia”. Il problema principale della democrazia è nella sua distribuzione: come farla arrivare facilmente e rapidamente a tutte le parti della nazione? Sono necessari dei camion, e i camion richiedono camionisti; se la temperatura è torrida, questi camionisti avranno bisogno di canottiere. Per cui le canottiere sono la prima cosa che serve in una democrazia (l’aveva capito bene Bossi). Prendo un pezzo di carta e scrivo “canottiere”. Fin qui, tutto bene. Poi, una democrazia permette il dissenso civile. Questa è tosta, perché significa spesso manifestazioni di piazza, e dopo una certa ora non ci sono più autobus che ti riportino indietro. Per cui diventa necessario assoldare dei giovani che si rechino in piazza a esibire dissenso civile al posto della gente che ha altro da fare. Ciò richiede dei motorini. Scrivo “motorini” sotto “canottiere”. Di bene in meglio. (1. Continua)

 

Borghi&Bagnai: il potere di far fallire le feste

Del duo Borghi&Bagnai (al secolo, Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai) non diremo, sbrigativamente, che sono i Cric e Croc della Lega, i Franco e Ciccio sovranisti, i Gianni e Pinotto dei No Vax. E neppure, Dio ce ne scampi e liberi, che sono figli di papà, o peggio ancora, che non capiscono un cazzo. No, nessuna ironia o derisione, anzi sincera ammirazione per il ruolo che essi svolgono nel piattume conformista della politica italiana.

Poiché i B&B sono gli avvocati delle cause perse, i bastian contrari dell’ovvio, i piantagrane senza costrutto, quelli che guidano contromano in autostrada e si chiedono come mai tutti gli altri guidino contromano. Rappresentano cioè un’istituzione guastafeste che in una vera democrazia dovrebbe essere prevista dalla Costituzione e regolata per legge. Osservati di profilo non si assomigliano troppo: morbido e sorridente il Borghi, spigoloso e severo il Bagnai, l’uno concavo, l’altro convesso, differiscono in quanto a passatempi e stili di vita. Mentre l’uno non sembra insensibile ai piaceri della buona cucina, l’altro (leggiamo) ha conseguito il diploma accademico di primo livello in “Maestro di cembalo”. E quando non presiede un convegno di terrapiattisti, si esibisce in apprezzati concerti di musica da camera.

Entrambi economisti, con la differenza che mentre a Borghi si deve l’idea un po’ pazzerella dei mini-Bot, Bagnai vanta un prestigioso curriculum accademico. Dopo essersi battuti leoninamente, ma senza apparente successo, contro la moneta unica, e dopo avere inutilmente espresso dubbi sull’efficacia dei vaccini anti-Covid (“non esiste il rischio zero”), i B&B annunciano la loro presenza alla fiaccolata che si terrà stasera in piazza del Popolo contro l’obbligatorietà del Green Pass. Dicono che ogni volta che i due aderiscono a un’iniziativa, a Matteo Salvini venga in mente la frase di Jep Gambardella ne La Grande Bellezza: “Io non volevo solo partecipare alle feste, io volevo avere il potere di farle fallire”. E rabbrividisca.

Addio a Otelo, ambiguo eroe dei “Garofani”

Erano in tanti ieri mattina nella Basilica di Estrela, a Lisbona, per l’ultimo saluto al generale Otelo Saraiva de Carvalho, architetto della “Rivoluzione dei Garofani” che il 25 aprile 1974 depose Marcelo Caetano mettendo fine a oltre quattro decenni di dittatura in Portogallo. “Otelo”, come lo chiamavano i suoi concittadini, “il Che Guevara portoghese”, De Carvalho si è spento domenica nell’ospedale militare della Capitale all’età di 84 anni. “Simbolo della rivoluzione che ha posto fine alla più lunga dittatura del XX secolo in Europa, aprendo la strada alla democrazia. La sua capacità strategica e operativa e il suo impegno e la sua generosità sono stati decisivi per il successo del movimento”, ha ricordato il premier, Antonio Costa. Figura controversa, nato nel 1936 a Maputo, in Mozambico, allora colonia portoghese, De Carvalho ha iniziato la carriera militare negli anni 60 mentre il Portogallo era impegnato nelle guerre coloniali. Fu lui al timone della “Rivoluzione dei Garofani” e a promuovere la costituzione della Giunta di Salvezza nazionale. Accusato di avere appoggiato il fallito golpe del 25 novembre 1975, promosso dall’ala radicale delle forze armate, fu allontanato dagli incarichi. Dopo la controrivoluzione dei settori conservatori dell’esercito, che portò al potere António Ramalho Eanes, perse le elezioni a presidente nel 1976 e nel 1980. Imputato per il coinvolgimento nel movimento di estrema sinistra FP-25, accusato di diversi attacchi mortali negli anni 80, fu condannato nell’87 a 15 anni e poi graziato. Il presidente Marcelo Rebelo de Sousa nel suo ricordo ha sottolineato l’ambiguità del personaggio: “Otelo suscita profonde divisioni all’interno della società portoghese” pur essendo stato “protagonista di primo piano in un momento decisivo della storia portoghese contemporanea”.

“Guerra del Corsera”, mossa anti-Cairo di Banca Intesa: Miccichè lascia il Cda

La vera partita sul controllo del Corriere della Sera è iniziata ieri con la mossa del cavallo di Gaetano Miccichè, dimessosi “per scelta personale” dal cda di Rcs Mediagroup. Venerdì è in programma il primo cda della società controllata da Urbano Cairo dopo la sconfitta, a metà maggio, nell’arbitrato contro Blackstone per l’acquisto nel 2013 (secondo Rcs a prezzi da usura) della sede del quotidiano in via Solferino a Milano: i consiglieri dovranno approvare il bilancio semestrale e magari discutere della ripartenza della causa che il Fondo Usa ha presentato a New York e in cui chiede 600 milioni di dollari di danni a una società che ne capitalizza 400 e spicci. Perché sono così rilevanti le dimissioni di Miccichè? Perché segnalano, per la prima volta pubblicamente, i rapporti ormai inesistenti tra Banca Intesa e Cairo, che pure è padrone di Rcs solo perché l’ultima “banca di sistema” finanziò la sua scalata nel 2016, accettando pure di incassare con grande calma i molti debiti della società. Miccichè fu al centro di quell’operazione, i cui risultati, a livello di conti, non sono malvagi: se i ricavi continuano a calare, i tagli hanno per ora riportato il gruppo in utile e abbassato i debiti. L’azzardo di Cairo è stato la causa a Blackstone, che ora rischia di togliergli il giocattolo. E qui torniamo a Miccichè, da vent’anni manager di Intesa e da un quindicennio a capo di Banca Imi, la boutique degli investimenti del gruppo. Un particolare non secondario perché fu proprio Imi, in vertiginoso conflitto di interessi con l’allora ruolo di Intesa in Rcs (creditore e azionista), a fare da advisor alla vendita di via Solferino a Blackstone: in sostanza, Miccichè tenne il sacco – secondo la tesi di Cairo – ai rapinatori della sua società. Con perfidia, il banchiere lascia il cda dopo che l’arbitrato ha sancito la bontà dell’affare immobiliare e prima che si discuta della causa per danni.

Com’è noto da tempo – Il Fatto lo ha scritto la prima volta a febbraio 2020 – Cairo ha deciso di non appostare soldi a copertura del rischio legale, scelta confermata anche nell’ultima trimestrale: il fatto nuovo è proprio l’arbitrato, difficile ora far finta di nulla. Venerdì l’assenza di Miccichè starà lì a ricordargli questo, come pure il fatto che la banca che gli aveva garantito fondi e credibilità nella scalata al CorSera s’è ora messa plasticamente all’opposizione: va detto che Cairo non ha alcuna intenzione di rinunciare a Rcs, chi lo vuole fuori da Via Solferino dovrà, dopo la mossa del cavallo, quantomeno metterlo in scacco.

Vaticano, agli atti mandato di cattura al broker Mincione

Mancano diverse centinaia di pagine fra gli atti depositati. Per questo le difese hanno ottenuto il rinvio al 5 ottobre. È durata oltre 8 ore la prima udienza del processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che vede imputate 10 persone, fra cui il Cardinale Angelo Becciu (nella foto), il finanziere Raffaele Mincione e il broker Gianluigi Torzi, accusati – a vario titolo – di reati come peculato, abuso d’ufficio, fino a riciclaggio, truffa e estorsione. Indagine condotta dalla Gendarmeria Vaticana insieme al Nucleo economico-finanziario della Gdf di Roma. A sorpresa, agli atti è apparso un mandato di cattura, risalente allo scorso anno, nei confronti di Mincione. L’atto è stato depositato per errore e oggi revocato. I legali Luigi Panella (per Enrico Crasso) e Cataldo Intrieri (per Fabrizio Tirabassi), hanno ottenuto il deposito delle registrazioni degli interrogatori di Mons. Alberto Perlasca e della media manager, Francesca Chaoqui, i grandi “accusatori”, che nel frattempo Becciu ha querelato per calunnia.

Genovese lascia il carcere: andrà a disintossicarsi

Alberto Genovese lascia il carcere di San Vittore. Il fondatore di Facile.it andrà in una casa di cura per disintossicarsi e dovrà portare un braccialetto elettronico. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano che ha accolto l’istanza dei legali dell’imprenditore. Il proprietario di Terrazza Sentimento, a due passi dal Duomo, si trovava nel carcere milanese dal 7 novembre 2020 per due presunti casi di violenza sessuale nei confronti di una 18enne a Milano e di una 23enne a Ibiza, per questo seconda caso è indagata anche l’ex fidanzata dell’epoca dell’imprenditore. In entrambi i casi, secondo le accuse, Genovese avrebbe reso incoscienti le vittime con mix di cocaina, ketamina e mdma. I reati contestati sono violenza sessuale aggravata, anche di gruppo, lesioni personali e detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. Dopo che la Procura nelle prossime settimane avrà chiesto il rinvio a giudizio e si arriverà davanti a un gup, l’imprenditore potrebbe optare per il rito abbreviato che gli consentirebbe uno sconto di un terzo e un processo a porte chiuse.

Sardegna, “occhio antincendio” dimenticato. È costato 30 milioni, ma è fermo da 16 anni

Un inferno di fuoco che non poteva essere bloccato dato che “abbiamo messo in campo tutto ciò che avevamo per contrastarlo”. Per l’assessore all’Ambiente della Regione Sardegna, Gianni Lampis, che ieri ha riferito in Consiglio sui roghi che hanno devastato l’Oristanese e Nuorese, non c’era nulla che si potesse fare. Non è proprio così, visto che non era operativo il “Sistema di telerilevamento degli incendi”, costato alle casse pubbliche oltre 50 miliardi di lire, smantellato “inspiegabilmente” nel 2005 da Regione Sardegna e mai più riattivato. Il sistema antincendio creato dalla sarda Teletron Euroricerche, risale agli anni 90, quando governo, Regione Sardegna e Comunità montana sarda stanziano complessivamente 52 miliardi di lire per un sistema basato su telecamere a infrarossi in grado di rilevare principi di incendio a distanze sino a 20 chilometri e di dare l’allarme in 3 minuti dall’insorgere dell’evento, geolocalizzando il focolaio. In 5 anni in Sardegna si installano 50 impianti di monitoraggio e 9 sale operative. Lo stesso accade in altre regioni italiane, in Spagna e in Francia, dove il monitoraggio diventa il principale sistema di controllo antincendio. E il tutto sembra funzionare, visto che nei territori dove il monitoraggio è attivo gli incendi calano drasticamente. Anzi, nel 2004, la Regione chiede alla società di implementare i software per ulteriori 900 mila euro. Ma nel 2005 tutto si ferma. Per il Corpo forestale, infatti, il sistema non può essere omologato, tanto che con la determinazione n. 50 del 11 febbraio 2008 l’allora direttore del Servizio vigilanza e coordinamento tecnico del Corpo forestale emana il “diniego dell’approvazione degli atti di collaudo”. La pietra tombale dell’intero sistema. La vicenda monitoraggio torna a galla il 20 novembre 2018, quando il Tribunale di Cagliari con la sentenza n. 2879/2018 condanna la Regione per quel mancato collaudo: il sistema andava promosso e utilizzato. Dopo la sentenza, i Riformatori di Zedda hanno presentato un’interrogazione in Consiglio regionale chiedendo a Solinas (che non ha mai risposto) se intendesse riattivare il monitoraggio. Si chiedeva il consigliere Michele Cossa nel 2018: “Si sono sprecate risorse pubbliche, ben 30 milioni di euro (…). In tutti questi anni si sarebbe potuto evitare se solo chi ne aveva la responsabilità avesse fatto il proprio dovere”. Parole che lette oggi fanno ancora più impressione.

Caso Milano, Raffica di astensioni in Consiglio

Una raffica di astensioni di consiglieri, giudici disciplinari del Csm in vista della camera di consiglio di venerdì, che dovrà decidere se trasferire d’ufficio il pm di Milano, Paolo Storari, e cambiargli anche la funzione, così come vorrebbe il Pg della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha richiesto la misura cautelare provvisoria. Non faranno parte del collegio né il presidente della sezione disciplinare David Ermini, né il vicepresidente Fulvio Gigliotti né i consiglieri-giudici disciplinari Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra e Stefano Cavanna, a cui, l’ex consigliere Piercamillo Davigo aveva raccontato e/o fatto vedere i verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, che Storari gli aveva consegnato perché, ha detto il pm indagato a Brescia con Davigo per rivelazione di segreto, il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio avrebbero lasciato a bagnomaria l’inchiesta. Davigo, in un’intervista, respinge l’accusa di rivelazione di segreto e chiama in causa i suoi ex colleghi al Csm con cui aveva parlato: “Nessuno di loro mi ha detto di formalizzare”. Intanto, il Pg Salvi starebbe valutando anche la posizione disciplinare del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro , titolari dell’indagine Eni-Nigeria, indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, dopo le accuse di Storari di aver ignorato elementi a favore della difesa.

Storari-Amara, omissioni e misteri: cosa non torna

Le vicende della Procura di Milano legate alle indagini sulla presunta Loggia Ungheria (e in parte alla gestione del processo Eni-Nigeria) confluite al Csm e alla Procura di Brescia stanno demolendo la credibilità della magistratura. L’unico antidoto è rispondere alle domande ancora sul tavolo e sciogliere molte incongruenze. Il Fatto, in base agli elementi a disposizione – ancora parziali – prova a mettere in ordine fatti e tasselli mancanti.

Il 6 dicembre 2019, Piero Amara – ex legale esterno dell’Eni – rivela ai magistrati Laura Pedio e Paolo Storari l’esistenza della presunta loggia massonica Ungheria: vi aderiscono molti magistrati e interferisce nei processi e nel Csm. Ad aprile 2020, secondo il racconto dei protagonisti, Storari consegna una pen drive – con i verbali di Amara non firmati – al consigliere del Csm Piercamillo Davigo: ritiene che i suoi capi lo rallentino (in effetti non risultano in quel periodo iscrizioni di indagati) e decide di tutelarsi. Per questo motivo i due sono indagati a Brescia per rivelazione del segreto (Davigo con l’accusa d’istigazione, se ne deduce, per aver sollecitato la consegna dei verbali). La via ordinaria, dopo aver scritto al procuratore capo, sarebbe stata quella di coinvolgere il procuratore generale della corte d’appello (sede vacante ma il “facente funzioni” era operativo). Storari sceglie la strada Davigo (o Davigo la sollecita).

È in quel momento che Storari e Davigo parlano per la prima volta dei verbali di Amara? Al Fatto risulta di sì, ma solo la Procura di Brescia può certificarlo. La situazione descritta dai protagonisti dimostra un fatto: Storari ritiene Amara suscettibile di un riscontro – vuole indagare – e non un calunniatore. Dato coerente con un documento di fine aprile: Storari sottoscrive con Pedio che Amara sta collaborando. Incoerente, però, con un altro dato: sottoscrive anche che ci vorrà tempo, a causa della pandemia, per la definizione delle indagini. Ma è la pandemia a rallentarle o i suoi capi? Davigo sostiene che, per tutelare il segreto investigativo, poiché Amara ha parlato anche di due consiglieri in carica al Csm, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti, decide di non formalizzare nulla: rappresenta a voce la situazione ai vertici del Consiglio (David Ermini e Giovanni Salvi) ad alcuni consiglieri e al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra, vincolandoli al segreto in quanto pubblici ufficiali. Ma allora: perché Salvi – che oggi contesta a Storari l’irritualità della consegna dei verbali a Davigo – non la contestò immediatamente allo stesso Davigo? Mistero.

Davigo, intervistato dal Corriere, sostiene di aver consegnato una copia dei verbali a Ermini e al consigliere Giuseppe Marra (nell’ottobre 2020). Le copie in circolazione diventano almeno tre. Ne parla con altri 4 consiglieri (a due di essi li mostra) e quindi arriviamo a 8 membri del Csm. Hanno tutti mantenuto il segreto?

Il 29 ottobre una copia dei verbali non firmati giunge anonimamente al Fatto che – temendo una polpetta avvelenata o il tentativo di distruggere l’indagine – denuncia e li deposita a Pedio e Storari. I due aprono un fascicolo sulla fuga di notizie, ma Storari non parla alla sua collega della consegna dei verbali a Davigo. Perché? A novembre il Fatto riceve un nuovo plico e chi vi scrive riferisce a Storari e Pedio – i due magistrati avevano lasciato intendere che i verbali fossero stati trafugati dai loro pc e forse manipolati – che li ha portati una donna con un’auto bianca. Storari continua a omettere la consegna a Davigo. Al quale – sarebbe umano, logico (e utile a livello investigativo) – potrebbe chiedere: li hai consegnati a qualcuno? Non sappiamo se l’abbia chiesto. Sappiamo che Pedio chiede a gennaio una perizia sui pc che Storari autorizza a marzo. Nel frattempo Storari chiede di controllare le telecamere della via in cui è ubicato il Fatto, la cella telefonica che copre la redazione e di censire le targhe di auto bianche presenti a Roma (decine di migliaia). Ai primi di febbraio – due mesi dopo i verbali consegnatigli dal Fatto – Storari pensa di arrestare Amara per calunnia: cos’è cambiato da quando ne certificava la collaborazione?

Il 9 febbraio invia al procuratore Greco la bozza di richiesta di arresto per Amara e Vincenzo Armanna (imputato e “teste d’accusa” nel processo Eni-Nigeria): ritiene abbiano calunniato i vertici Eni. Spiega che Armanna è inattendibile e ritiene necessario che tutto questo confluisca nel processo Eni-Nigeria (dove l’accusa è sostenuta dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro). A novembre Pedio e Storari – dopo un articolo del Fatto – avevano sequestrato il telefono di Armanna. La Gdf ha stilato una bozza d’informativa nella quale – in una prima versione, poi sarà in parte modificata – sostiene che nel processo Eni-Nigeria Armanna ha tentato di comprare un testimone. Il 15 febbraio Greco comunica a Pedio (che quindi non ne sa nulla, ndr), Spadaro e De Pasquale, le notizie ricevute da Storari. Il 19 febbraio Storari invia ai colleghi la bozza di richiesta d’arresto e la bozza d’informativa. Pedio replica di essere perplessa e invita tutti a parlarne la settimana successiva. Il 20 Storari riassume in mail gli argomenti da discutere. De Pasquale replica: invierà una nota scritta. Ma Storari sparisce. Negli stessi giorni la procura di Perugia, in coordinamento con Milano, è sulle tracce della “postina” dei verbali ai giornali (e al consigliere Nino di Matteo): è Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo. Il 5 marzo De Pasquale scrive a Greco: spiega perché non depositerà le notizie (non erano atti, ma bozze) ricevute da Storari. L’udienza Eni-Nigeria è fissata il 17 marzo, Storari potrebbe ancora far valere le sue ragioni, ma non si fa più vivo. Ad aprile è dal suo capo: “Ho consegnato i verbali a Davigo”.