“Non scherziamo”, disse il governatore Attilio Fontana, alcuni giorni dopo (era il 9 giugno 2020) la notizia sul caso della fornitura di camici affidata a suo cognato, Andrea Dini, dalla Centrale acquisiti della Regione Lombardia (Aria). Puntava a ridefinire i “contorni regolari” della vicenda. Contorni lontani dall’essere “regolari”, secondo la Procura di Milano, che ieri gli ha recapitato l’avviso di chiusura indagini, nel quale si parla di “un accordo collusivo tra Attilio Fontana” e il cognato “Andrea Dini” titolare della Dama spa “con il quale si anteponeva all’interesse pubblico, l’interesse e la convenienza personale del presidente della Regione Lombardia”. Al centro i 75mila camici (per 513mila euro) solo in parte consegnati da Dama ad Aria. Il contratto è del 14 aprile 2020. Da lì e fino al 20 maggio, Dama consegnerà circa 45mila camici (mai pagati da Aria). Consegna poi trasformata in donazione dopo un’email di Dini a Filippo Bongiovanni, ex ad di Aria, il quale accettava e dava l’ok a che la restante parte non fosse consegnata. L’accusa contestata è quella di frode in pubbliche forniture. E riguarda, oltre Fontana, Bongiovanni e Dini, anche Carmen Schweigel (direttore acquisiti di Aria) e Pier Attilio Superti, vicario del segretario generale della Regione e persona di fiducia di Fontana. Il governatore ora rischia il processo. Senza contare che resta indagato per autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary per il filone che riguarda i suoi conti esteri. L’indagine, condotta dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Milano, parte da una segnalazione per operazione sospetta (Sos) di Bankitalia, quando in prossimità del passaggio alla donazione, si legge, “Fontana decideva, previo accordo con Andrea Dini, di pagare a titolo personale il prezzo dei camici sino allora fatturati (circa 250mila euro, ndr) mediante una disposizione di bonifico da un conto svizzero personale di Fontana”. Operazione “non andata a buon fine per mancanza di sufficiente provvista e di una fattura giustificativa”.
“Era una donazione”
Pm: “fu risarcimento”
Il 27 luglio 2020 in una intervista a La Stampa, il presidente descriveva in altro modo questo passaggio. “Quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione ho voluto (…) fare anche io una donazione, mi sembrava il dovere di ogni lombardo”. In realtà, secondo i pm, altro non era che un risarcimento al cognato. Scrive ancora la Procura, “Fontana per la parte dei camici ancora da consegnare” interveniva su Bongiovanni “affinché rinunciasse alle residue prestazioni contrattuali al fine di contenere il danno economico per Dama”. In questo modo, secondo la Procura, si “creavano le premesse (…) per non adempiere agli ulteriori obblighi (…) facendo mancare beni destinati a far fronte (…) allo stato di emergenza sanitaria”. Camici restanti che Dini, come emerge dagli atti, già il 20 maggio tentava di rivendere. Non solo: come rivelato dal Fatto il 9 settembre 2020, secondo i pm, i 75mila camici erano, sulla carta, solo una prima tranche di una partita più ampia: 200mila camici da consegnare ad Aria, e circa altri 250mila al Pio Albergo Trivulzio (Pat) per un guadagno (mai concretizzato) di 2,7 milioni. Un affare, iniziato con gli antipasti del 14 aprile con i 75mila camici ad Aria e del 30 aprile con i 6.600 (pagati 48mila euro) al Pat. Altro che “dare una mano per l’emergenza Covid”, come disse Fontana il 26 luglio in Consiglio regionale.
“Informato il 12 maggio”
Il primo sms il 16 aprile
Alla base del meccanismo illegale, rilevato dalla Procura, vi era “lo scopo di tutelare l’immagine pubblica del presidente Fontana, una volta emerso il conflitto d’interessi derivante dai rapporti di parentela di Dini”, fratello della moglie del governatore. Conflitto del quale Fontana, a suo dire, venne a sapere “il 12 maggio”, mentre a verbale l’assessore regionale Raffaele Cattaneo spiegherà di averne parlato con i vertici della Regione già ad aprile. Tanto più che “il diffuso coinvolgimento di Fontana” è testimoniato da un messaggio che Dini invia alla sorella il 16 aprile: “Ordine camici arrivato, ho preferito non scriverlo ad Atti”. Risponde Roberta Dini: “Giusto, bene così”. La parte legata al conflitto d’interessi, cioè la turbativa d’asta, reato che riguardava Bongiovanni e Dini è stata archiviata dalla Procura. L’accordo “collusivo tra Fontana e Dini”, alla base della frode, “veniva automaticamente recepito dalla centrale acquisti”, con “Bongiovanni e Schweigel che si attivavano per eseguirlo senza informare il Cda di Aria.
La riunione in regione
“dietro mandato di Fontana”
Il 19 maggio, un giorno prima dell’email di Dini a Bongiovanni, in Regione si teneva una riunione per mettere a punto “l’accordo collusivo”. Presente anche Pier Attilio Superti oltre a un dirigente di Dama al posto di Roberta Dini, moglie di Fontana e socia in Dama. Qui, scrivono i pm, Superti, vicario del segretario generale della Regione, contribuì a definire “nell’interesse e dietro mandato di Fontana i dettagli dell’accordo” “collusivo”, comunicandolo “a Bongiovanni (non presente alla riunione) come volontà del presidente alla quale dare esecuzione”. Attilio Fontana, attraverso i suoi legali, ha fatto sapere “di non riconoscersi nel capo d’imputazione”.