Fontana rischia il processo. Così i pm l’hanno smentito

“Non scherziamo”, disse il governatore Attilio Fontana, alcuni giorni dopo (era il 9 giugno 2020) la notizia sul caso della fornitura di camici affidata a suo cognato, Andrea Dini, dalla Centrale acquisiti della Regione Lombardia (Aria). Puntava a ridefinire i “contorni regolari” della vicenda. Contorni lontani dall’essere “regolari”, secondo la Procura di Milano, che ieri gli ha recapitato l’avviso di chiusura indagini, nel quale si parla di “un accordo collusivo tra Attilio Fontana” e il cognato “Andrea Dini” titolare della Dama spa “con il quale si anteponeva all’interesse pubblico, l’interesse e la convenienza personale del presidente della Regione Lombardia”. Al centro i 75mila camici (per 513mila euro) solo in parte consegnati da Dama ad Aria. Il contratto è del 14 aprile 2020. Da lì e fino al 20 maggio, Dama consegnerà circa 45mila camici (mai pagati da Aria). Consegna poi trasformata in donazione dopo un’email di Dini a Filippo Bongiovanni, ex ad di Aria, il quale accettava e dava l’ok a che la restante parte non fosse consegnata. L’accusa contestata è quella di frode in pubbliche forniture. E riguarda, oltre Fontana, Bongiovanni e Dini, anche Carmen Schweigel (direttore acquisiti di Aria) e Pier Attilio Superti, vicario del segretario generale della Regione e persona di fiducia di Fontana. Il governatore ora rischia il processo. Senza contare che resta indagato per autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary per il filone che riguarda i suoi conti esteri. L’indagine, condotta dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Milano, parte da una segnalazione per operazione sospetta (Sos) di Bankitalia, quando in prossimità del passaggio alla donazione, si legge, “Fontana decideva, previo accordo con Andrea Dini, di pagare a titolo personale il prezzo dei camici sino allora fatturati (circa 250mila euro, ndr) mediante una disposizione di bonifico da un conto svizzero personale di Fontana”. Operazione “non andata a buon fine per mancanza di sufficiente provvista e di una fattura giustificativa”.

“Era una donazione”
Pm: “fu risarcimento”

Il 27 luglio 2020 in una intervista a La Stampa, il presidente descriveva in altro modo questo passaggio. “Quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione ho voluto (…) fare anche io una donazione, mi sembrava il dovere di ogni lombardo”. In realtà, secondo i pm, altro non era che un risarcimento al cognato. Scrive ancora la Procura, “Fontana per la parte dei camici ancora da consegnare” interveniva su Bongiovanni “affinché rinunciasse alle residue prestazioni contrattuali al fine di contenere il danno economico per Dama”. In questo modo, secondo la Procura, si “creavano le premesse (…) per non adempiere agli ulteriori obblighi (…) facendo mancare beni destinati a far fronte (…) allo stato di emergenza sanitaria”. Camici restanti che Dini, come emerge dagli atti, già il 20 maggio tentava di rivendere. Non solo: come rivelato dal Fatto il 9 settembre 2020, secondo i pm, i 75mila camici erano, sulla carta, solo una prima tranche di una partita più ampia: 200mila camici da consegnare ad Aria, e circa altri 250mila al Pio Albergo Trivulzio (Pat) per un guadagno (mai concretizzato) di 2,7 milioni. Un affare, iniziato con gli antipasti del 14 aprile con i 75mila camici ad Aria e del 30 aprile con i 6.600 (pagati 48mila euro) al Pat. Altro che “dare una mano per l’emergenza Covid”, come disse Fontana il 26 luglio in Consiglio regionale.

“Informato il 12 maggio”
Il primo sms il 16 aprile

Alla base del meccanismo illegale, rilevato dalla Procura, vi era “lo scopo di tutelare l’immagine pubblica del presidente Fontana, una volta emerso il conflitto d’interessi derivante dai rapporti di parentela di Dini”, fratello della moglie del governatore. Conflitto del quale Fontana, a suo dire, venne a sapere “il 12 maggio”, mentre a verbale l’assessore regionale Raffaele Cattaneo spiegherà di averne parlato con i vertici della Regione già ad aprile. Tanto più che “il diffuso coinvolgimento di Fontana” è testimoniato da un messaggio che Dini invia alla sorella il 16 aprile: “Ordine camici arrivato, ho preferito non scriverlo ad Atti”. Risponde Roberta Dini: “Giusto, bene così”. La parte legata al conflitto d’interessi, cioè la turbativa d’asta, reato che riguardava Bongiovanni e Dini è stata archiviata dalla Procura. L’accordo “collusivo tra Fontana e Dini”, alla base della frode, “veniva automaticamente recepito dalla centrale acquisti”, con “Bongiovanni e Schweigel che si attivavano per eseguirlo senza informare il Cda di Aria.

La riunione in regione
“dietro mandato di Fontana”

Il 19 maggio, un giorno prima dell’email di Dini a Bongiovanni, in Regione si teneva una riunione per mettere a punto “l’accordo collusivo”. Presente anche Pier Attilio Superti oltre a un dirigente di Dama al posto di Roberta Dini, moglie di Fontana e socia in Dama. Qui, scrivono i pm, Superti, vicario del segretario generale della Regione, contribuì a definire “nell’interesse e dietro mandato di Fontana i dettagli dell’accordo” “collusivo”, comunicandolo “a Bongiovanni (non presente alla riunione) come volontà del presidente alla quale dare esecuzione”. Attilio Fontana, attraverso i suoi legali, ha fatto sapere “di non riconoscersi nel capo d’imputazione”.

Sondaggio Ue i no vax italiani sono 3,11 milioni

I no vax? In Italia ce ne sono un terzo in meno rispetto alla media dei Paesi dell’Unione europea. A dire che non intende vaccinarsi mai contro il Covid è il 6% della popolazione sopra i 15 anni, mentre nei 27 Stati Ue il dato è al 9%. I “no vax” italiani autodichiarati sono dunque 3,11 milioni, mentre nella Ue il dato sale a 34,17 milioni. Parola dell’ultima indagine flash su volontà e motivazioni della vaccinazione contro il Covid, realizzata a maggio per conto dell’Eurobarometro, il sondaggio dell’opinione pubblica commissionato regolarmente dalla Commissione Ue sin dal 1973. Il sondaggio è stato svolto con 26.106 questionari in tutta l’Unione, rappresentativi della popolazione con età pari o superiore a 15 anni (379,7 milioni di cittadini), 1.061 dei quali hanno coperto i 51,9 milioni di italiani con 15 anni o più.

Le ragioni principali per vaccinarsi sono che ciò “contribuirà a porre fine alla pandemia” (68%) e “proteggerà i parenti e gli altri” (67%). Tra i motivi principali addotti da chi non vuole vaccinarsi ci sono la convinzione che i vaccini non siano ancora stati sufficientemente testati (85%) e le preoccupazioni per gli effetti collaterali dei vaccini (82%). Metà degli intervistati ritiene che i vaccini vengono sviluppati, testati e autorizzati “troppo rapidamente per essere sicuri”.

Il medico ribelle prima prenota e dopo disdice

Si concentrano soprattutto in Friuli-Venezia Giulia, dove finora gli operatori sanitari che non hanno fatto nemmeno la prima dose del vaccino sono l’11,2%. Poi nel Trentino (10,2%), in Emilia-Romagna (7,5%), in Puglia (6,2) e in Sicilia (4,7%). Sono medici, infermieri, operatori sociosanitari, psicologi, fisioterapisti, dietisti, ostetriche obbligati dalla legge a vaccinarsi contro il Covid entro la fine dell’anno. Un obbligo che hanno trovato il modo di aggirare, per evitare di incorrere nella sanzione della sospensione dalla professione. L’escamotage è semplice. Prenotano la prima dose e poi disdicono. E ripetono l’operazione: avanti così per prendere tempo. Nel frattempo restano in collegamento per scambiarsi informazioni e suggerimenti (su come preservare il posto di lavoro senza vaccinarsi) attraverso Telegram, applicazione di messaggistica istantanea gratuita che consente di chattare anche con l’impiego di un nickname. Cosa che avviene, anche se in misura diversa, in undici tra regioni e province autonome.

Nell’elenco, anche se con percentuali inferiori, ci sono infatti anche la Toscana, il Piemonte, l’Umbria, l’Alto Adige e le Marche. Una strategia di resistenza. Con migliaia di prenotazioni che vengono puntualmente cancellate, per poi essere rifatte. Un trucco che si accompagna al mancato ritiro della raccomandata con la quale le aziende sanitarie li invitano a spiegare perché non si sono ancora vaccinati. Alla fine, se scatta il provvedimento di sospensione da parte dell’Asl questo viene trasmesso anche agli Ordini professionali di competenza, che provvedono ad annotare sull’albo la sanzione: l’iscritto – sia esso medico, infermiere, psicologo – non può più esercitare. “A volte le motivazioni che portano un operatore sanitario a rifiutare il vaccino sono di origine sociale e culturale e spesso alimentate dalla paura degli effetti collaterali – dice Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici –. Ma il medico deve considerare il vaccino un’arma fondamentale: in caso contrario sarebbe come se un ingegnere non credesse nella matematica. Abbiamo le evidenze scientifiche: la vaccinazione funziona. E si continua a dire che è in corso una sperimentazione anche se non è vero: nel mondo sono già state somministrate centinaia di milioni di dosi”.

Sono sempre i medici a chiedere però che i professionisti della sanità non vengano trasformati negli unici capri espiatori. “È evidente che anche tra gli operatori sanitari ci sono persone inadeguate che, pur armate della conoscenza, interpretano i dati scientifici in modo diverso – osserva Fabio Maria Vespa, segretario in Emilia-Romagna della Fimmg, sindacato dei medici di famiglia –. Ma non è giusto né accettabile che venga puntato l’indice solo contro di noi quando ci sono ancora migliaia di insegnanti che rifiutano il vaccino. Tutti quelli che lavorano a contatto stretto con le persone dovrebbero essere vaccinate”.

Il vaccino protegge, ma non fa miracoli

Quarta ondata (forse) in corso o alle porte, green pass obbligatorio dal 6 agosto, piazze no vax o no pass più o meno piene in tutta Italia, ipotesi obbligo vaccinale per i lavoratori della scuola, dopo quello disposto per gli operatori sanitari, il dilemma se vaccinare in massa anche gli adolescenti. I temi all’ordine del giorno non sono pochi e non sempre condivisi. Proviamo dunque, per quanto possibile, a fare un po’ di chiarezza sulla base di ciò che sappiamo a partire dai dati più aggiornati diffusi il 21 luglio dall’Istituto Superiore di Sanità e del ministero della salute.

I punti fermi sono tre. Primo: la campagna vaccinale in Italia è a livelli di eccellenza. Il numero di dosi somministrate ogni 100 abitanti (111,59) è tra i più alti al mondo se confrontati a Paesi demograficamente simili. Meglio solo il Regno Unito (123) e la Spagna (116).

Secondo. Nonostante la massiccia campagna vaccinale, siamo di fronte a una ripresa del contagio, per il momento a livelli non allarmanti, ma la crescita è ormai un fatto da alcune settimane (ieri 4.522 nuovi casi, 24 morti e tasso di positività all’1,9% sul totale dei tamponi effettuati). Preoccupa soprattutto la ripresa dei ricoveri (dopo mesi di flessione) in ospedale e in terapia intensiva. Attualmente i posti letto occupati in area medica sono 1.611 (solo tre settimane fa erano circa 500 in meno), 189 i pazienti in rianimazione.

Terzo. I vaccini funzionano, proteggono dal contagio, dall’ospedalizzazione e dal rischio di decesso a percentuali anche superiori (stando a quanto comunicato dalle Agenzie internazionali e nazionali del Farmaco) rispetto ai vaccini “tradizionali”. Proteggono al 100%? No, com’è noto è possibile ammalarsi, essere ricoverati e purtroppo anche morire nonostante un ciclo di vaccinazione completa. Tutto sta a capire quanto questo rischio sia elevato.

Ed è qui che gli ultimi dati disponibili diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità aiutano a fare chiarezza. L’ultimo report analizza nel dettaglio le diagnosi Covid-19, le ospedalizzazioni, i ricoveri in terapia intensiva e i decessi, divisi per fasce di età, relativi agli ultimi 30 giorni disponibili (per i contagi si arriva al 18 luglio, per i decessi solo al 27 giugno perché i dati completi arrivano in ritardo), quindi solo in parte legati alla variante Delta la cui maggiore resistenza ai vaccini non è ancora compiutamente definita. E distingue tra non vaccinati, vaccinati con ciclo incompleto (una sola dose o seconda dose fatta da meno di 14 giorni) e vaccinati con ciclo completo (almeno 14 giorni dalla doppia dose). Il tasso di copertura vaccinale è riferito al 3 luglio.

Partiamo dalle diagnosi Sars CoV-2. Nella fascia di età 40-59 anni (non vaccinati al 3 luglio 44,3%, con una dose 33,4%, con due dosi 22,4%), i soggetti non vaccinati sono il 60% dei contagiati, il 100% dei ricoverati in terapia intensiva e l’88,4% dei deceduti. Sia detto subito che, sempre sulla base di quanto comunicato dall’Istituto Superiore di Sanità, dallo scorso febbraio il 99% dei decessi riguarda persone che non avevano terminato il ciclo vaccinale: fino al 21 luglio i decessi di persone vaccinate con ciclo completo sono stati 423, l’1,2% del totale delle vittime dal 1° febbraio, generalmente con un’età e un numero di patologie pregresse superiore alla media.

Passiamo alla fascia di età 60-79 anni (23% non vaccinati, 35,6% con una dose, 41,5% con ciclo completo). I soggetti non vaccinati sono il 43% dei contagiati, il 64% degli ospedalizzati, il 71,2% dei ricoverati in terapia intensiva e il 72% dei deceduti.

Quanto alla fascia over 80 (9,8% non vaccinati, 5,4% con una dose, 84,8% con ciclo completo), i non vaccinati sono il 33,2% dei contagiati, il 46,1% degli ospedalizzati, il 70,6% dei ricoverati in terapia intensiva e il 69,3% dei deceduti.

Leggendo questi dati potrebbe sembrare che con l’aumentare dell’età la protezione vaccinale diminuisca, ma non è così. Se le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura (come nella fascia over 80 e non solo), si verifica l’effetto paradosso per cui il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile tra vaccinati e non vaccinati. Il motivo è semplice: se la quasi totalità degli ultraottantenni è vaccinata, è statisticamente molto più probabile che ad ammalarsi, a essere ricoverata o a morire sia una persona vaccinata. Diversa è ovviamente l’incidenza. Un caso critico su 90 ha un peso diverso rispetto a un caso critico su 10.

In definitiva, aggregando i dati, l’Iss calcola che nel periodo che va dal 4 aprile (approssimativamente la data in cui la vaccinazione è stata estesa alla popolazione generale) al 18 luglio 2021, l’efficacia complessiva della vaccinazione, aggiustata per età, sia superiore al 70% nel prevenire l’infezione in vaccinati con ciclo incompleto (70,2%), superiore all’88% per i vaccinati con ciclo completo (88,2%). L’efficacia nel prevenire l’ospedalizzazione sale all’81% con ciclo incompleto e al 95% con ciclo completo. L’efficacia nel prevenire i ricoveri in terapia intensiva è pari all’89% con ciclo incompleto e 97% con ciclo completo. Infine, l’efficacia nel prevenire il decesso è pari all’80% con ciclo incompleto e a 96% con ciclo completo.

Ci sono ottimi motivi, dunque, per non dubitare dell’efficacia dei vaccini e per comprendere che limitazioni dovute al possesso o meno di un green pass hanno la loro ratio. E continua, seppur in misura minore, l’effetto green pass. A quasi una settimana dal decreto con il quale il governo ne ha imposto l’obbligo per accedere a spettacoli, competizioni sportive, eventi e ristoranti anche nelle zone bianche, non ci sono frenate nella corsa a prenotare la vaccinazione contro il Covid. L’effetto si protrae, anche se in misura diversa, in molte regioni, con molta probabilità spinto anche dall’imminenza delle vacanze d’agosto.

In Sicilia lunedì scorso si sono fatti avanti in 17 mila per fissare la data della prima dose, quasi tremila in più rispetto a tre giorni prima. Un balzo destinato a ridurre la quota di coloro che non si sono ancora vaccinati, pari al 42,7% (dato aggiornato alle 17 di ieri). Corsa alle prenotazioni anche nel Lazio – circa 130 mila, sempre lunedì scorso, contro le 80 mila del giorno precedente – e in Campania, dove negli ultimi quattro giorni ne sono state fatte 15 mila in più rispetto a prima. La stessa cosa in Lombardia: le nuove adesioni alla campagna vaccinale, ancora lunedì scorso, sono state oltre 21 mila in più.

Il senatore “artista-conduttore”. I 6 contratti tra Renzi e Presta

Estate 2018. Governo Conte-1. Matteo Renzi, senatore ancora in quota Pd, è all’opposizione. E nel frattempo crea le basi per una seconda attività: quella di “conduttore” e “autore” e più in generale di “artista”. Proprio nell’estate di tre anni fa, infatti, l’ex premier (oggi leader di Itavia Viva) firma le scritture private con la Arcobaleno Tre srl, la società di cui è amministratore unico Niccolò Presta, figlio di Lucio, l’agente dei più noti volti della televisione e non solo. Le scritture private sono sei: quattro per il documentario Firenze secondo me, una per conferire alla Arcobaleno Tre “mandato esclusivo” a rappresentarlo e ancora una per la realizzazione di “opere dell’ingegno”.

I contratti sono finiti al vaglio degli inquirenti della Procura di Roma, che ha indagato Renzi per finanziamento illecito. Nella stessa inchiesta sono stati iscritti nel registro degli indagati anche Lucio Presta e il figlio Niccolò, accusati di finanziamento illecito e fatture per operazioni inesistenti. Secondo i pm romani – è questa in sostanza l’accusa da verificare – vi sono stati “rapporti contrattuali fittizi” dietro i quali si celerebbe un presunto finanziamento alla politica. I rapporti economici tra Renzi e la Arcobaleno Tre srl si possono ricostruire appunto dalle scritture private. Sei in totale. Gli investigatori si stanno concentrando in particolar modo su due di queste.

Opere dell’ingegno I format televisivi “inediti”

A cominciare dalla scrittura privata, che riguarda il “mandato esclusivo” che il leader di Italia Viva ha conferito alla società per rappresentarlo sul territorio nazionale e mondiale e per promuovere la sua attività professionale esclusivamente nei settori dello spettacolo: televisione, cinema e teatro. Nel contratto c’è la voce “obblighi dell’artista”, ossia Renzi. Che quindi dovrà riservare al produttore l’esclusività delle proprie prestazioni artistiche e professionali e di conseguenza non prestare la propria opera, in Italia e all’estero, a favore di altre persone fisiche o giuridiche, enti o organizzazioni. “L’esclusiva riguarda l’artista” e non dunque il produttore, che è libero di assumere l’incarico di trattare anche altri artisti. Il contratto – firmato a luglio 2018 – prevede un compenso per Renzi di 100 mila euro lordi, mentre l’incarico si intende conferito al produttore dal 1º agosto 2018 al 31 dicembre 2019.

Lo stesso periodo di tempo riguarda anche la durata di un’altra scrittura privata tra Renzi e la società. Quella che riguarda la creazione di opere dell’ingegno “proteggibili dal diritto d’autore”. Per la cessione dei diritti su queste idee, la Arcobaleno Tre – secondo il contratto – deve corrispondere a Renzi 200 mila euro lordi. In questo caso almeno due le opere dell’ingegno sfornate dall’ex premier: un format di interviste e poi le pillole di storia in 5 minuti. Programmi mai venduti. “Rientra nella normale dinamica del settore di acquisire diritti d’autore da parte delle società di produzione – ci ha scritto il legale dei Presta in una diffida arrivata nei giorni scorsi dopo un nostro articolo –, senza che ciò comporti necessariamente un obbligo di produrre tutti i format acquisiti dagli autori (tant’è che esistono gli inediti), essendo la scelta di produrli legata a valutazioni contingenti rientranti nel rischio di impresa, certamente non squalificabili come condotte ‘anomale’”. Il legale dei Presta ribadisce dunque che non vi è nulla di illecito dietro questi contratti (proprio come ripetuto da Renzi nelle scorse settimane).

Il documentario su Firenze doveva chiamarsi “il giglio”

I sospetti degli inquirenti quindi si concentrano su queste due scritture private e non tanto sulle altre quattro che riguardano il documentario Firenze secondo me perché si tratta di un format prodotto e mandato in onda sul Nove.

Per il documentario – che inizialmente doveva chiamarsi “Il giglio” – due scritture private, firmate il 31 luglio 2018, riguardavano le prime cinque puntate. Una prevedeva un compenso per Renzi di 125 mila euro lordi così ripartito: 75 mila euro per l’attività di autore e altri 50 mila per la cessione di tutti i diritti di utilizzo delle opere prodotte. Sempre per le prime cinque puntate sono stati previsti poi altri 125 mila euro lordi in totale (75 mila per l’attività di conduttore e altri 50 mila per la cessione dei diritti d’immagine). A settembre 2018 poi sono stati stilati altri due contratti per ulteriori tre puntate: si tratta di accordi simili a quelli già fatti per il documentario ma per importi ridotti, ossia 75 mila euro lordi ognuno. A conti fatti, in totale per Firenze secondo me (trasmesso sul Nove con il 2 per cento di share) l’ex premier ha incassato 400 mila euro lordi.

Renzi sa essere tante cose: senatore, leader di Italia Viva, conferenziere, ma anche conduttore, autore e ideatore di format televisivi. Insomma, un artista a tutto tondo.

Altro che Cosentino e D’Alì: un metro quadrato d’inchiostro per Travaglio

Pesa di più il giudizio di un giornalista o la condanna per mafia di due ex esponenti del governo? Dipende. Da due giorni, l’intervento del direttore del Fatto Marco Travaglio alla festa di Articolo1 è oggetto di editoriali sui più importanti quotidiani italiani. Corriere, Repubblica, Stampa e compagnia hanno sguainato analisti e grandi firme. Eppure appena una settimana fa, quando i due forzisti Nicola Cosentino (ex sottosegretario all’Economia) e Antonio D’Alì (ex sottosegretario all’Interno) venivano condannati in Appello rispettivamente a 10 e 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, per trovare la notizia sui giornali bisognava dotarsi di microscopio.

Questione di priorità, dunque. Ieri Repubblica si è scatenata: in prima pagina ecco Sebastiano Messina, il cui editoriale scorre su tutta una colonna di pagina 10 a fianco alla cronaca dell’intervento di Travaglio e a una vignetta. Nella pagine delle lettere, pure Francesco Merlo dice la sua. Fossimo al catasto, sarebbero un riquadro da 11 centimetri x 6 centimetri, un pezzo da 25×22, uno da 40×6, un altro da 18×20. Totale: 1.216 centimetri quadri, l’equivalente di più di una pagina intera. Una settimana fa, il giorno dopo le sentenze sui berlusconiani, su Rep non c’era neanche una riga al riguardo, se non nelle cronache locali di Napoli (Cosentino) e Palermo (D’Alì).

Il Corriere ieri s’è affidato a Massimo Franco e alla sua Nota (27×10), più una colonna di cronaca (30×4) a pagina 13. Molto di più rispetto a quanto toccato a Cosentino e D’Alì, imboscati in una colonna a pagina 23 (24×4). La Stampa, per non rischiare, ieri ha dedicato al Draghi-gate un’intera pagina, la 9 (40×24). La filippica include un articolo principale per spiegare le umili origini di Draghi e un corsivo. Non male, soprattutto se si pensa che i forzisti condannati non hanno meritato neanche un riquadrino.

Il Riformista, non nuovo a performance del genere, si è occupato di Travaglio in prima pagina (35×15) e all’interno (28×28), replicando almeno qui lo spazio dedicato a Cosentino il giorno dopo la condanna (solo che Il Riformista lo difese). Presente anche il Foglio, silente sette giorni fa sulle sentenze ma attentissimo su Travaglio, con una colonna in prima, una rubrica e un articolo, 560 centimetri quadrati in totale. Avanti con Il Giornale: richiamo 10×7 in prima e ampissimo pezzo 24×28 a pagina 7, da far impallidire il boxino 10×7 imboscato a pagina 8 per gli ex sottosegretari. Anche La Verità sceglie la prima pagina, con un bel titolo che si prende 23 centimetri e poi l’apertura di pagina 15 (28×28). Altro che le 500 battute per Cosentino e D’Alì infilate in un riquadro 10×7 a pagina 6. E poi c’è Libero. L’editoriale in prima pagina di Alessandro Sallusti (27×6) anticipa un’intera paginata 40×27 (la 6) composta da un articolo principale e raddoppio in basso. Cosentino (citato senza il collega) si era fatto bastare una mezza colonna 23×4 a pagina 7.

Tirando le somme, per raccontare le condanne a questi sette quotidiani sono bastati 8.261 caratteri e uno spazio totale di 1.108 centimetri quadrati, cioè l’ingombro di una paginetta. L’intervento di Travaglio ha invece ispirato 53.432 battute (4mila il Corriere, 7.500 Rep, 9.400 Il Foglio, 3.900 Il Giornale, 4.700 La Verità, 10 mila Libero, 7.600 Il Riformista, 6 mila La Stampa) per 7.128 centimetri quadrati, sfiorando quindi le sette pagine (e non lontani dal metro quadrato). Ergo: le critiche a Draghi valgono sette volte di più due ex sottosegretari condannati per mafia.

Urge decreto di Lesa Draghità (non un Dpcm, siamo liberali)

“Figlio di papà” è espressione esecrabile perché, ci spiegano, Draghi è rimasto orfano a 14 anni. (Come Gianni Agnelli, che infatti era considerato un trovatello). In realtà l’espressione – usata dal direttore del Fatto alla festa di Articolo Uno – infastidisce perché scoperchia la grande truffa meritocratica. I Migliori sono ascesi ai piani alti della società perché concentrati di virtù e forza di volontà, non perché erano già nel giro da generazioni, inzuppati del crisma della fortuna economica e sociale. Non parlate di privilegi di classe alle orecchie suscettibili dei liberali! Sono come quelli del Billionaire, solo che invece dei buttafuori hanno la retta annuale dell’Istituto Bruno Leoni. I percettori del Reddito di cittadinanza invece si possono insultare, perché tolgono ai meritevoli quanto gli spetta.

Figliuolo: sparito per qualche settimana (aveva finito le sparate da bullo nella cartucciera, oltre alle dosi di vaccini), è stato insignito della Penna al merito. “Il virus è intelligente”, ha detto durante la cerimonia. Menomale, almeno uno ce n’è.

L’Italia vince gli Europei. Il metaforimetro esplode. “Italia campione, effetto Draghi”. “Una vittoria che ha il sapore della rinascita”. La Coppa è in lega antivirale. Draghi, Re guaritore degli scrofolosi, autorizza la parata in pullman dei campioni, che hanno la meglio sulle forze di polizia. Lo Stato si piega alla lobby pallonara. Si deroga ai decreti a favore delle ordinanze straordinarie del difensore Bonucci. In migliaia assembrati per strada. In autunno si darà la caccia ai runner solitari.

Mattarella compie gli anni. È la prima notizia dei telegiornali. Pensate se non li avesse compiuti!

Liberali che corrono a comprare i libri di CasaPound perché hanno letto una frase di Voltaire (non sono d’accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo), frase che Voltaire non ha mai pronunciato, passano 24 ore a bastonare Travaglio per aver espresso su Draghi un’opinione “da querela” per la quale Draghi non ha querelato.

“il Green pass è garanzia di ritrovarsi tra non contagiosi”, dice Draghi, che di vaccini ne capisce moltissimo.

Draghi: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”. Geniale, alla luce dei cartelli esposti dai no-vax: “Meglio morire che vaccinarsi”. Si potrebbe dissuadere così i kamikaze dell’Isis: “Chi fa attentati suicidi muore”.

Giustizia. Presi due insiemi di persone A e B, dove A è un gruppo a prevalenza di corrotti, indagati e figli di indagati, e B un gruppo a prevalenza di vittime e incensurati, il gruppo A sarà quello più a favore della riforma. Considerare la variabile dei liberali: che stanno sempre con quelli del gruppo A perché Voltaire ecc.

Un assessore leghista uccide un 39enne marocchino per strada. Enrico Letta dice che è stata “una pistola”, finita chissà come in mano al leghista (si dichiarerà parte lesa?). Salvini che se il marocchino fosse stato espulso prima non sarebbe morto. Nel senso che l’assessore non avrebbe preso un aereo per andare a sparargli in Africa. Però: potrebbe essere la nuova politica migratoria del governo.

Renzi vuole abolire il Reddito di cittadinanza via referendum, visto che gli riescono così bene. I 4 milioni di poveri che ne hanno beneficiato s’ingegnino. Si facciano dare 450mila euro da un produttore per girare un documentario sulla propria città. Non importa se ne sono assolutamente incapaci e se il prodotto finale è il tentativo risibile di ammantare con velleità registiche una transazione di denaro. Anzi.

Renzi, l’amico di quel Bin Salman ritenuto dalla Cia il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, fatto a pezzi per aver criticato il regime saudita, definisce il direttore del Fatto “un uomo vergognoso” e spiega cosa possono o non possono dire i giornalisti su chi sta al potere. Ci sarebbero modi più spicci per dirimere la questione, ma per ora basti questo.

Il problema, dicono, è che il pubblico di Articolo Uno ha applaudito alla frase “Draghi non capisce un cazzo di sanità, giustizia e politiche sociali”. Allora: prima di dire qualunque cosa bisogna accertarsi che sia impopolare; poi, gli organizzatori dovrebbero incaprettare gli astanti. Infine, urge un decreto di lesa draghità (non un Dpcm, che apre un vulnus democratico e noi, come detto, siamo liberali).

“Reati sessuali, ora la Cartabia cambi la norma sul concordato”

“Ci rivolgiamo al governo, alla commissione Giustizia affinché si tenga conto delle preoccupazioni espresse in merito al rischio che talune parti del provvedimento possano indebolire il contrasto alla violenza di genere”. Dopo gli articoli del Fatto, in cui si spiegava come la riforma Cartabia provocherà un arretramento in tema di lotta contro la violenza sulle donne, l’Intergruppo della Camera per le donne chiede chiarimenti. La riforma prevede ad esempio che il concordato in Appello (l’accordo tra imputato e pm) sia possibile anche nei procedimenti per reati come violenza sessuale. “Viola la convenzione di Istanbul”, aveva poi denunciato Valeria Valente, presidente della commissione contro il femminicidio. “Il ministero della Giustizia – è la nota dell’Intergruppo – ha inteso rassicurare rispetto al fatto che verrà rispettata la Convenzione d’Istanbul”. Il concordato in Appello, aggiungono, “continui a essere escluso per i procedimenti che riguardano reati contro le donne e la stessa esclusione riguardi la non punibilità per particolare tenuità del fatto”.

“Verrà meno la fiducia dei cittadini nello Stato”

Dopo il rinvio di mercoledì scorso, deciso dal Quirinale per una richiesta strategica della ministra Cartabia, domani ci sarà il plenum in cui si vota il parere fortemente critico del Csm alla riforma della Giustizia. Della riforma, ne parliamo con il consigliere Giuseppe Marra, iniziando dall’improcedibilità, “irrazionale” per il Csm: “Allo stato attuale molte Corti d’appello, da Roma e Napoli, non sarebbero in grado di definire nel merito i processi penali. Con ragionevole certezza, molti processi saranno destinati a morire con la dichiarazione di improcedibilità, senza che nessuno possa fare nulla, perché per ora non ci sono le risorse umane per invertire questa previsione”.

I fautori dicono che ce lo chiede l’Europa; che i processi non possono essere infiniti…

La durata ragionevole del processo è un principio costituzionale e della Cedu, che però deve convivere con il principio della effettività della giurisdizione, ossia il dovere dello Stato di giungere a dei provvedimenti che accertino e tutelino i diritti dei singoli, anche delle vittime dei reati.

Invece con la riforma?

Si riducono formalmente i tempi dei processi, ma solo perché molti di essi non verranno portati a compimento, cosa che non ci chiede certamente l’Europa. Inoltre, questo meccanismo della improcedibilità con termini molto stringenti, due anni per l’appello e un anno per il giudizio in Cassazione, avrà l’effetto di incentivare le impugnazioni perché gli imputati non avranno interesse a patteggiare. È facile immaginare che le Corti saranno sempre più ingolfate.

Anche per le parti offese tutto si complica?

Mentre la durata ragionevole viene assicurata all’imputato, la persona offesa che si è costituita parte civile vedrà rallentare l’accertamento del suo diritto al risarcimento.

In che modo?

Con la sentenza di improcedibilità il giudice penale non deciderà più sulle questioni civilistiche definite nella sentenza di primo grado, come accade adesso nell’ipotesi di prescrizione del reato in Appello, ma sarà tenuto a trasmettere gli atti al giudice civile competete, che per stabilire il risarcimento dovrà fare un nuovo processo, valutando anche le prove assunte in sede penale.

Il vostro parere dice che è incostituzionale che il Parlamento indichi le linee generali ai procuratori sulle priorità delle indagini, come prevede la riforma…

I criteri di priorità sono già previsti dalle circolari del Csm e sono predisposti dai procuratori. Mi pare che la previsione che sia il Parlamento a indicare criteri di priorità possa aprire la strada a valutazioni politiche in contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Che effetto le fa considerare che migliaia di processi, anche per mafia e corruzione, sono destinati al macero?

Il non poter assicurare giustizia vuol dire che nel tempo verrà meno la fiducia dei cittadini nello Stato e non ce lo possiamo permettere.

Ruby-ter: l’ex Toti fa fallire il blitz di FI per salvare Silvio

Il blitz era stato studiato per tempo. Gli avvocati di Silvio Berlusconi avevano cercato, comma per comma, se nella riforma Cartabia ci fosse qualche norma in grado di favorire il leader di Forza Italia. In mancanza, hanno fatto da soli. Studiando una leggina ad personam che avrebbe salvato Berlusconi da tutti i filoni del processo Ruby-ter (Roma, Siena e Milano) che lo preoccupano non poco. Et pour cause, visto che il 21 ottobre, dopo 5 rinvii causati da altrettanti ricoveri di Berlusconi, a Siena arriverà la sentenza per corruzione in atti giudiziari. Così il tentativo di colpo di spugna si è palesato ieri mattina quando si è scoperto che tra i tre emendamenti presentati da Pierantonio Zanettin, genero dell’avvocato di Berlusconi, Franco Coppi, su cui si chiedeva un allargamento del perimetro della riforma Cartabia, c’era la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, ma soprattutto una nuova definizione del concetto di pubblico ufficiale che avrebbe salvato l’ex premier nei tre filoni del Ruby-Ter. La proposta era quella di svuotare il ruolo dei pubblici ufficiali, tra cui quello dei testimoni, in questo caso le ragazze dei festini di Arcore che sarebbero state pagate per cambiare la propria versione dei fatti. Se oggi i pubblici ufficiali sono coloro che “esercitano una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa”, la proposta forzista era quella di ridimensionare quel ruolo dando ai pubblici ufficiali solo “specifici poteri conferiti dalla legge”. Una norma che di fatto avrebbe fatto finire su un binario morto i tre filoni del processo Ruby-ter perché a quel punto, proprio per la nuova qualifica dei testimoni, la corruzione in atti giudiziari sarebbe stata derubricata a reato minore con un tempo di prescrizione più breve. Una mossa che si spiegherebbe con la voglia di Berlusconi di “ripulirsi” dai processi per continuare a sognare l’elezione al Colle a inizio 2022. E non è passata inosservata la lettera del leader di FI ieri al Corriere in cui diceva un “sì” netto al Green pass ergendosi a nuovo padre della patria, anche a costo di prendere le distanze dagli alleati nel centrodestra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Epperò riaprire la partita della riforma Cartabia per favorire Berlusconi avrebbe portato al rinvio della riforma a settembre e quindi il blitz forzista è stato sventato in commissione Giustizia: dopo che il presidente della Camera Roberto Fico aveva dichiarato inammissibili i tre emendamenti, alle 15 la commissione ha votato “no” all’allargamento del perimetro della riforma con 25 contrari contro i 19 favorevoli, mentre la richiesta ostruzionistica degli ex grillini de “L’Alternativa c’è” è stata bocciata per soli due voti 23 a 21. La proposta su abuso d’ufficio (che interessava a Salvini e ai suoi amministratori) e pubblico ufficiale è stata sostenuta da FI, Lega e FdI, mentre hanno votato contro Pd, M5S, Azione, Iv e anche Coraggio Italia. È il partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro a essere stato decisivo, insieme all’astensione di Maurizio Lupi di “Noi con l’Italia”, per bocciare la norma: la deputata Marina Parisse ha votato contro. Per provare a convincere i “totiani” a dire “sì”, sarebbe sceso in campo Berlusconi che, dopo molti mesi in cui non si parlavano, ha chiamato Toti per provare a convincerlo a votare la norma ad personam.

Il governatore ligure però lo ha respinto spiegandogli che così la riforma sarebbe stata rinviata venendo meno “all’agenda Draghi” che vuole approvarla entro l’estate. Tant’è che nelle ultime ore, da Palazzo Chigi, per mano di Roberto Garofoli, erano arrivate chiamate ai gruppi, tra cui i totiani, per convincerli a dire “no”. Anche Enrico Costa di Azione ha votato contro e, con quei due voti in più, il risultato sarebbe stato in bilico: 23 a 21. La votazione ha prodotto uno strappo in FI con l’uscita di Giusi Bartolozzi, pm che aveva annunciato il suo “no” alla norma ad personam e per questo è stata sostituita in commissione promuovendola a capogruppo nella Affari costituzionali. Ma non è bastato: Bartolozzi se n’è andata e potrebbe passare con Azione o Coraggio Italia. “Torna l’asse giustizialista” attacca Antonio Tajani mentre la responsabile Giustizia Pd Anna Rossomando esulta perché è stato “respinto l’affossamento della riforma”. Resta il dato politico: Lega e FI con questo tentativo mandano anche un messaggio a Draghi-Cartabia che trattano con il M5S. Tant’è che in serata la Lega fa sapere che la riforma deve rimanere la stessa del Cdm. E i tempi si allungano: oggi iniziano i voti in commissione in attesa del maxi-emendamento su cui il governo porrà la fiducia venerdì.