Conte: “Voto solo se cambia” Ma ora anche la Lega fa muro

La trattativa tra l’avvocato che deve diventare capo e la ministra che magari sogna altri Palazzi è piena di grovigli, una sfida di pazienza e di diritto su reati da togliere, tempi processuali da ricalcolare e norme da riscrivere. Un gioco a incastri che il presidente del Consiglio abituato a correre, Mario Draghi, non si aspettava e non voleva. Non si attendeva questi guai.

Con i magistrati antimafia (e non) di mezza Italia a protestare, le associazioni a fare muro, perfino certi penalisti a confessare perplessità. Ma ieri sera dal fronte opposto ulula la Lega di Matteo Salvini, ancora offeso con il premier che lo aveva bacchettato sui vaccini. Così ecco Giulia Bongiorno: “In merito alle proposte di modifica della prescrizione, la Lega è favorevole al testo approvato in Cdm e leale agli accordi presi”. Mentre fonti del Carroccio teorizzano che “l’Italia non può essere ostaggio dei capricci di Grillo e Conte”. Ergo, la Lega prova a sbarrare il passo al Giuseppe Conte che invoca modifiche alla riforma e a Draghi e Cartabia, che cercano di concederle.

Aumentano i giocatori, nella partita che si disputa innanzitutto tra l’ex premier e la ministra della Giustizia, che dopo aver visto Draghi lunedì ieri entra ed esce più volte da Palazzo Chigi con la sua bozza di mediazione, un testo che cambia di continuo. Tutto questo, mentre in serata trapela il durissimo parere della Sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura, che domani verrà discusso dal plenum: “Le ricadute pratiche dell’improcedibilità potrebbero essere rilevanti e drammatiche, in ragione della situazione di criticità di molte delle Corti d’Appello”. Una leva in più per Conte, che in mattinata incontra i deputati del M5S di quattro commissioni diverse alla Camera e lì cala l’avvertimento di cui domenica aveva già scritto il Fatto e che il suo staff aveva provato a smentire: “È chiaro che una prospettiva di fiducia alla riforma senza alcune modifiche sarebbe per noi difficile”. E anche se dopo, davanti ai cronisti, sarà più sfumato (“Le minacce non mi piacciono, sulla fiducia valuteremo alla fine”) in conclusione dirà: “Non voglio neppure considerare l’ipotesi in cui non venga modificato il testo”. Tenendosi aperta un’uscita d’emergenza: “Valuteremo al momento se fare votare gli iscritti sull’accordo”. Perché l’imperativo resta quello, vere modifiche al testo. Conte ne parla a lungo con i deputati, spiegando: “Abbiamo tracciato linee e punti fermi con una squadra di lavoro tecnica, a partire dai reati di mafia, terrorismo e corruzione”. Ossia quelli che vanno assolutamente “salvati” dalle norme della controriforma Cartabia sull’improcedibilità. È questa la linea rossa dietro cui l’ex premier non può arretrare. Certo, riconosce, “i margini di manovra sono ristrettissimi. Ma li sto sfruttando tutti e ce la sto mettendo tutta”. Assicura: “Ho avuto un colloquio costruttivo con Draghi, ma ho chiarito che la proposta originariamente formulata pone problemi serissimi al Movimento”. D’altronde, rivendica, lui sta per diventare capo del M5S proprio per questo: “C’è necessità di una leadership chiara e forte per interloquire con il governo e ottenere dei risultati”. Nello specifico – ma questo agli eletti non lo dice – Conte vuole estendere quanto più possibile l’elenco dei reati non toccati dalla riforma, aggiungendo quelli a sfondo sessuali e quelli ambientali. E vorrebbe anche intervenire sulla norma che concede al Parlamento di indicare ai pm su quali notizie di reato indagare in via prioritaria. Anche questa censurata dalla commissione del Csm “come in possibile contrasto con l’assetto dei poteri”. Nodi di cui ieri Conte parla più volte, soprattutto con Draghi.

Si tratta fino a tardi, e la seduta della commissione Giustizia prevista in serata salta. “Non possiamo votare senza i pareri del governo” spiegano. Per ripartire serve un’intesa politica. Con Conte che stamattina sarà ancora alla Camera e poi vedrà i senatori.

Ove Mai

Paolo Mieli vaga ramingo di talk in talk lacrimando non tanto per quel che ho detto su Draghi alla festa di Articolo 1, quanto perché la gente applaudiva. In effetti è bizzarro che il popolo della sinistra non si prostri adorante al culto mariano del governo che prende ordini da Confindustria e persino da Bonucci&Chiellini, sblocca i licenziamenti, blocca il cashback, condona gli evasori, ingaggia la Fornero, fa politiche ambientali da Premio Attila e riforme della giustizia da Trofeo Berlusconi. Io però, appena vedo Mieli, non riesco a non pensare al suo scoop del 17 giugno a Otto e mezzo sul cambio della guardia tra Figliuolo e Arcuri: “Quando è arrivato Draghi, ha trovato che Conte e Arcuri avevano acquistato mascherine per 763 settimane, cioè per 14 anni e mezzo, da qui al 2035!”. Obiettai che era una cifra campata per aria. Ma lui ripeteva a macchinetta: “Segnàtevi questo dato: 763 settimane, 14 anni e mezzo di mascherine comprate… un giorno faremo i conti… opacità, cose strane… 763 settimane, 14 anni e mezzo!”. Ricordai che l’inchiesta romana riguarda l’acquisto di circa 1 miliardo di mascherine dalla Cina nel marzo 2020. Ma Mieli mi incalzò implacabile: “Ammetti che sono troppe, ove mai fosse vero che Draghi e Figliuolo han trovato nei loro magazzini 14 anni e mezzo di mascherine?”.

Arcuri smentì quel dato iperbolico con le cifre ufficiali e ricordò che nel marzo 2020 servivano mascherine per un mesetto, poi partì la produzione nazionale. Mi attendevo una puntuta replica, almeno un “ove mai”, invece Mieli non ne parlò più. Ma siccome ha detto che “un giorno faremo i conti”, appena lo vedo spero sempre che il giorno sia arrivato. Nell’attesa, a parte la scena comica di Arcuri che chiama il fornitore e intima “mi mandi 763 settimane di mascherine”, come se si ordinassero a mesi e non a numero, qualche conto l’ho fatto io. Posto che nel lockdown, per ogni italiano circolante (40 milioni su 60), occorrevano due mascherine al giorno (vanno cambiate ogni 4 ore), il fabbisogno giornaliero era 80 milioni, pari a 427,3 miliardi per 763 settimane. A 1 euro a pezzo, Conte e Arcuri avrebbero speso 427,3 miliardi di euro: metà della spesa pubblica annua, oltre il doppio del Recovery fund, sommetta difficile da occultare nelle pieghe del bilancio. Dove avranno preso tutti quei soldi? E dove saranno i famosi magazzini in cui Draghi e Figliuolo han trovato quel po’ po’ di mascherine? A metterle l’una sull’altra a mucchietti, formerebbero un parallelepipedo alto 4mila km su una base di 7,2 milioni di kmq (vasta poco meno dell’Europa). Non vediamo l’ora di andarci in visita guidata, con Mieli, Draghi e Figliuolo come guide turistiche. Ove mai non fossero tutte cazzate.

Sicilia, il cielo sopra Troina brilla per gli astro-turisti

Niente razzi di forma fallica nello spazio, c’è ancora – Bezos a parte – chi le stelle le guarda volgendo lo sguardo in alto. Che sia dal terrazzo con il binocolo puntato o da sdraiati sul prato naso in su, per gli amanti dell’astroturismo c’è una nuova meta da raggiungere. Si chiama Troina, in provincia di Enna (Sicilia). A 1100 metri di altitudine, nell’area del Parco dei Monti Nebrodi, il borgo – 9mila abitanti circa, riconosciuto tra i più belli d’Italia – aveva già fatto parlare di sé per l’iniziativa del sindaco di mettere in vendita i numerosi immobili disabitati al modico costo di 1 euro. La sua fama era scavallata oltreoceano grazie a un servizio della Cnn che ne proclamava le bellezze. Ed ora ci ha pensato Astronomitaly a riconoscerle il primato: Troina è il primo borgo del Sud a essere stato premiato per “il cielo più bello d’Italia”. Il certificato le è stato rilasciato perché rientra tra “le migliori ed esclusive location in cui osservare il cielo stellato e presso cui è possibile usufruire di servizi dedicati ai viaggiatori delle stelle”. Il primo dei requisiti per ottenerlo è “un cielo buio ed esente da inquinamento luminoso”. Non si tratta di un semplice bollino di qualità – assicurano da Astromitaly, il progetto della Rete del turismo astronomico –per una vera esperienza astroturistica occorre che vi siano anche “servizi decisivi per la promozione e lo sviluppo” del posto. A Troina già da tempo è in corso un processo di riqualificazione urbana e di valorizzazione del centro storico. Per vedere brillare le stelle è in fase di realizzazione un percorso naturalistico che include il suggestivo monte Muanà. Sono cinque i borghi italiani ad essere annoverati per lo sfavillio delle stelle: il cielo d’oro lo hanno solo la provincia ennese per l’appunto e Ossana in Val di Sole (Trento). D’argento, invece, sono i cieli di due comuni laziali: Labro, nel reatino, e Rocca Massima (Latina); e Darfo Boario Terme in Val Canonica nel bergamasco (Lombardia). Non mancano strutture ricettive specifiche da cui poter ammirare gli astri. La lista contempla nel nostro Paese ben 51 siti, inclusi i cinque comuni. La maggior parte dei punti strategici sono collocati nell’Italia centrale, tra Lazio, Umbria, Abruzzo e Toscana meridionale. Non mancano alcuni rifugi di montagna in Trentino, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta.

Leicester, che premier. L’eccezionale scudetto del 2016

Sono le 22.40 del 13 agosto 2016 quando sugli schermi di Bbc One il programma Match of the day, il 90° Minuto inglese, si apre con il conduttore in piedi a centro studio nudo e in mutande. È Gary Lineker, leggenda del Tottenham e della Nazionale, da tempo apprezzato e ironico conduttore tv. “L’avevo promesso: devo pagare pegno”, allarga le braccia il buon Gary. Che qualche mese prima, il 14 dicembre, dopo la vittoria del Leicester sul Chelsea (16esima giornata, 2-1), in un tweet ormai passato alla storia aveva detto: “Se il Leicester vince la Premier League, condurrò la prima puntata di Match of the Day in mutande”. Proclama a rischio zero, pensavano tutti. Perché il Leicester allenato dall’italiano Claudio Ranieri stava sorprendentemente veleggiando nelle prime posizioni della classifica, è vero, ma sempre di Leicester si trattava, un club che dopo aver languito a lungo in Seconda divisione, al ritorno in Premier era stato sempre con un piede nella tomba: ultimo a 19 punti a 8 giornate dalla fine, si era salvato miracolosamente vincendo 7 match e pareggiandone uno, raccogliendo in 8 partite più punti (22) di quelli raccolti nelle prime 30 (19).

Di più, era ancora fresco il ricordo degli sfottò con cui gli inglesi, il 13 luglio, avevano accolto la notizia del passaggio di Ranieri al Leicester. “Claudio Ranieri? Really?”, aveva twittato Lineker. Davvero? L’allenatore era reduce dalla più rovinosa esperienza della sua carriera, cacciato dopo tre mesi da Ct della Grecia dopo un infausto tracollo interno contro le isole Fær Øer; e in Inghilterra, dove a inizio 2000 aveva allenato per quattro stagioni il Chelsea, era ricordato con l’appellativo di “Tinkerman”: “Quello che si arrangia” per i più benevoli, “l’indeciso a tutto” per i più malevoli. E comunque.

Con la squadra appena salvatasi sotto Nigel Pearson, Ranieri concorda col presidente thailandese Srivaddhanaprabha, proprietario della “King Power” (negozi duty-free aeroportuali), una campagna acquisti minimale: dalla Bundesliga arrivano il difensore Fuchs (Schalke) a parametro zero e l’attaccante giapponese Okazaki (Mainz) a 9 milioni; e dalla Francia giunge lo sconosciuto Kanté, 9 milioni, un 24enne della matricola Caen. Per la cronaca, quando l’8 agosto la Premier prende il via la vittoria del Leicester è data a 5.000 a 1: punti 100 euro, vinci mezzo milione. E invece.

Non si sa come né perché il Leicester inizia giocando bene e facendo punti. I colossi sono altri: i due Manchester di Van Gaal e Pellegrini e Aguero (24 gol), l’Arsenal di Wenger e Giroud (16), il Chelsea di Mourinho, il Tottenham di Pochettino e Kane (25), il Liverpool di Rodgers. Alcuni però battono subito in testa (Rodgers dopo 8 partite salta, Mourinho dopo 16) mentre la bagnarola di Ranieri naviga che è un piacere: prende una strambata con l’Arsenal (2-5) ma dopo 7 partite ha 12 punti, segna più di 2 gol a partita (15) e il solo cruccio di Ranieri è la difesa che incassa troppo. “Tinkerman” ci lavora: e quando alla decima giornata i ragazzi battono 1-0 il Crystal Palace centrando il primo clean sheet, lui va in tv e annuncia: “Stasera pizza per tutti: e lo rifaremo”.

Il “patto della pizza” diverte tutti, ma nessuno fa caso a quel che sta succedendo alla squadra; che è terzultima per possesso palla, ha abolito il palleggio ma con le ripartenze di Kanté e il rilancio sistematico verso Vardy e Mahrez, due frecce, sta cogliendo frutti impensabili. Ranieri scopre tre autentici campioni che proprio con lui si rivelano. Kanté è uno stantuffo alla Tardelli e gioca per tre; Mahrez, pescato a Le Havre, serie B francese, per 750 mila sterline, diventa un Bruno Conti che segna come un Paolo Rossi (passa dai 4 gol dell’anno prima a 17) e in quanto a Vardy, ex operaio a 30 sterline a settimana prelevato per un milione dai dilettanti del Fleetwood Town, entra nella leggenda inglese segnando consecutivamente per 11 giornate di fila. A fine torneo lo score dirà 24.

A fine andata il Leicester è primo a pari punti (39) con l’Arsenal. Alla prima di ritorno fa 0-0 col Bournemouth, ma Ranieri esulta: “40 punti, siamo salvi. Ora ci divertiamo”. Alla 25esima, in casa del City (valore dell’undici schierato da Pellegrini: 473 milioni contro i 32,5 del Leicester), Ranieri sbanca e vince 3-1. “Abbiamo perso contro i più forti”, taglia corto Pellegrini. Dopo il ko in casa dell’Arsenal per un gol al 94’, in 10 per l’espulsione di Simpson, Ranieri manda tutti in vacanza. E fa bene. Al ritorno il Leicester vince 6 partite su 7, cinque per 1-0 e una per 2-0: pizza come se piovesse.

Nessuno regge il passo delle Foxes, l’ultimo a provarci è il Tottenham. A tre giornate dalla fine i punti di vantaggio sono 7: Ranieri ha il primo match point, ma da Old Trafford (1-1) torna con un solo punto. Titolo rimandato? Macché. L’indomani il Tottenham si fa rimontare dal Chelsea, da 2-0 a 2-2, e Ranieri e il Leicester conquistano davanti alla tv il più incredibile dei trofei. Finirà coi ricchissimi Arsenal a -10, Tottenham a -11, i due Manchester a -15, Liverpool a -21, Chelsea a -31. E con una domanda: “Claudio Ranieri? Really?”.

Sfumato l’oro nel fioretto E anche Fede è “affaticata”

Luci e ombre sull’Italia ai Giochi: Federica Pellegrini in semifinale nella “sua” specialità, oro a Pechino 2008, poi grappoli di record, titoli mondiali e medaglie olimpiche. Ma ci arriva col penultimo tempo. Sembra il canto del cigno. Comunque vada, la Divina è la bellissima immagine del nuoto italiano.

Intanto, altre medaglie. Tre argenti, un bronzo. Tiro, scherma, nuoto. Due argenti potevano essere due ori. Ma il fioretto tricolore in questi Giochi è apparso spuntato: non vince più. Daniele Garozzo, 29 anni, siciliano di Acireale e campione a Rio 2016, è stato battuto (15 a 11) dal sorprendente Ka Long Cheung, cinese di Hong Kong, che già aveva liquidato Alessio Foconi, il favorito. Un tempo la scherma era riserva di poche nazioni. Ora non più.

Cheung ha un maestro italiano: quasi una perfida stoccata alla patriottica scherma azzurra. Ma è la logica della globalizzazione. Bravo Garozzo a combattere nonostante i crampi alla gamba destra.

L’infallibile tiratrice Diana Bacosi, 38 anni, umbra di Città della Pieve, pure lei campionessa olimpica uscente nello skeet, ha sbagliato mira e ha mancato l’ultimo piattello. Spasmodica la sfida con l’americana Amber English, che ha fatto 56 centri su 60, uno più della Bacosi. Garozzo non ha accampato alibi: “Cheung ha tirato meglio, con importanti stoccate”. La Bacosi ha dedicato la medaglia agli italiani: “La pandemia ci ha messo in ginocchio ma noi, come popolo, siamo stati capaci di rialzarci, nella vita come nello sport”. Oro a entrambi in lealtà e civiltà.

L’argento della staffetta maschile 4×100 stile libero invece ha riflessi d’oro, per l’Italia del nuoto: Alessandro Miressi, Thomas Ceccon, Lorenzo Zazzeri e Manuel Frigo si sono arresi solo ai fuoriclasse Usa. Risultato storico. E prestigioso. Suggellato dal bronzo di Nicolò Martinenghi nei 100 rana.

Mostri in Mostra: “Freaks”, poche donne, molti habitué

La carica degli italiani, la riscossa degli internazionali: sulla carta, la 78esima è una grande Mostra di Venezia. Dal 1° all’11 settembre vedremo se gli schermi confermeranno premesse e promesse del programma, a oggi di certo c’è solo quanti spettatori potranno farvi fronte: quattromila sugli ottomila posti disponibili tra Lido e terraferma, perché la capienza delle sale rimarrà ferma al 50% dell’anno scorso. Distanziamento e tracciamento invariati, tamponi e costi aumentati, l’unica novità anti-Covid è il green pass, e ammette il presidente di Biennale, Roberto Cicutto, “è da capire se semplifichi la vita o meno”.

Il direttore della Mostra, Alberto Barbera, professa ottimismo, editorialmente loda “una qualità media più alta del solito, come se il Covid avesse stimolato la creatività”, accoglie film da 59 Paesi e gli accrediti cinema già superiori del 30% all’anno scorso, saluta “il ritorno della major, le star e i divi, segnale incoraggiante per tutti”, però deve segnalare “una battuta d’arresto, giacché dalle otto del 2020 le registe in competizione sono passate a cinque: la pandemia ha pesato, ma confido sia un’interruzione momentanea del processo di parificazione”. Nondimeno, “il tema dominante del cartellone – assicura – è la condizione femminile: il ribaltamento dei ruoli, i cambiamenti sociali, senza dimenticare le violenze sessuali, soprattutto, donne coraggiose che affrontano battaglie una volta prerogativa maschile”.

Sono cinque, e tutti uomini, i connazionali in lizza per il Leone: Paolo Sorrentino, al Lido vent’anni dopo l’esordio L’uomo in più, con È stata la mano di Dio, voltaggio autobiografico, produzione The Apartment (Lorenzo Mieli) per Netflix; sempre targato The Apartament, America Latina, terzo film dei Fratelli D’Innocenzo, debuttanti in Laguna con canovaccio thriller ed Elio Germano protagonista; Freaks Out, l’attesa, travagliata, kolossale opera seconda di Gabriele Mainetti (e Nicola Guaglianone) dopo Jeeg Robot, che Barbera battezza tra Fellini e Leone; Qui rido io dell’aficionado Mario Martone, che celebra il demiurgo teatrale Eduardo Scarpetta con Toni Servillo; l’outsider di lusso Michelangelo Frammartino con lo speleologico Il buco, undici anni dopo Le quattro volte. Battono bandiera tricolore Il paradiso del pavone di Laura Bispuri (Orizzonti), La ragazza ha volato di Wilma Labate (Orizzonti Extra), fuori concorso La scuola cattolica di Stefano Mordini da Edoardo Albinati, Ariaferma di Leonardo Di Costanzo e Il bambino nascosto di Roberto Andò: non bastasse, un posto al sole spetta a Simona Ventura, regista in erba del pandemico Le 7 giornate di Bergamo.

Sul fronte dei grandi nomi stranieri in Concorso, oltre all’apertura di Pedro Almodóvar Madres paralelas, Jane Campion con The Power of the Dog dal libro di Thomas Savage e firmato Netflix, con Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst; Pablo Larraín, con Kristen Stewart che incarna Lady Diana in Spencer; Paul Schrader con The Card Counter starring Oscar Isaac; Maggie Gyllenhaal, che passa dietro la macchina da presa per The Lost Daughter dal romanzo di Elena Ferrante, con Olivia Colman. Non per un premio, ma per la gloria corrono Halloween Kills con il Leone d’Oro alla carriera Jamie Lee Curtis; The Last Duel di Ridley Scott con Adam Driver e Matt Damon; Dune di Denis Villeneuve con Timothée Chalamet; Last Night in Soho di Edgar Wright e la serie bergmaniana Scenes of a Marriage di Hagai Levi con Jessica Chastain e Oscar Isaac, che ha tre titoli in Mostra come il nostro Servillo.

Rivolta nelle città, manca l’acqua e la polizia spara

Partite dalla periferia del Paese, le proteste per la scarsità d’acqua in Iran stanno colpendo al cuore la Repubblica teocratica, con morti, feriti e una notevole mobilitazione popolare e intellettuale. La somma delle vittime è incerta: almeno tre nel Khuzestan, nel Sud-Ovest, dove la contestazione è iniziata la scorsa settimana; e almeno una con due feriti nel Lorestan, nell’Ovest, dove, tra giovedì e venerdì, “disordini sono scoppiati nelle strade della città di Aligudarz e si sono protratti per ore”. Ma vi sarebbero anche sette giovani uccisi in scontri con le forze dell’ordine, di cui cinque a Izeh, all’Est, e ad Ahvaz. La tv di Stato ha riferito che un poliziotto è stato ucciso a Mahshahr, definendo che i contestatori sono “mercenari dei nemici”, senza però specificare al soldo di chi. Altri media iraniani riferiscono che le tensioni sono divampate “con il pretesto di problemi idrici”: la mancanza d’acqua avrebbe già causato decessi nel Sud-Ovest del Paese. L’emergenza idrica non è l’unica che l’Iran sta vivendo: i contagi da Covid toccano nuovi picchi, mentre l’altra notte quattro miliziani della base Qods delle Guardie rivoluzionarie sono stati uccisi in scontri nella regione di Khash, nella provincia sunnita sud-orientale del Sistan-Baluchestan, che confina con Pakistan e Afghanistan ed è già stata in passato teatro di scontri tra gruppi separatisti e forze di sicurezza. Non è escluso che i fermenti abbiano a che fare con la situazione in ebollizione in Afghanistan, con i talebani all’offensiva dopo la partenza di quasi tutte le truppe Usa e straniere. La Cnn riferisce che molta gente – persone comuni, sportivi, personalità del cinema e della cultura, attivisti politici e dell’ambiente – sta esprimendo sostegno alle manifestazioni in atto nel Khuzestan per protestare contro la scarsità d’acqua, sia potabile, che per l’agricoltura e il bestiame.

Gli slogan dei contestatori attribuiscono alla cattiva gestione del governo centrale e a incuria e incompetenza delle Amministrazioni provinciali e locali la responsabilità delle conseguenze della diffusa siccità, che si protrae da marzo. La gente del Khuzestan ha inscenato proteste a Shush, Susangerd, Shushtar, Ramhomuz, Behbahan, scandendo slogan contro il sistema. Le forze di sicurezza li hanno affrontati e, secondo rapporti non ufficiali e video diffusi sui social media, hanno fatto ricorso ai gas lacrimogeni e hanno arrestato numerosi manifestanti. Anche a Teheran ci sono state manifestazioni inscenate da attivisti politici, tra cui l’oppositore ed ex detenuto Narges Mohammadi, che è stato arrestato. La gente ha gridato slogan nelle metropolitane e dalle finestre delle proprie case, nelle scorse notti. Sui social media locali è di tendenza l’hashtag “Il Khuzestan ha sete”. La vicenda assume contorni politici, in un Paese in cui le elezioni presidenziali sono appena state vinte dai conservatori sui riformisti. “Persone coraggiose, che hanno combattuto contro l’invasione dell’Iraq durante la guerra degli Anni ‘80 vogliono solo acqua”, scrive il quotidiano riformista Etemaad: “Perché nessun funzionario ha parlato con la gente e ha smorzato la tensione prima che forze speciali intervenissero in massa per reprimere le proteste? È successo qualcosa che non sarebbe dovuto succedere”. E il quotidiano moderato Jomhouri Eslami critica i funzionari sia conservatori che riformisti per la loro inerzia: “Hanno preso l’acqua dalle terre del Khuzestan e non ne hanno risolto i problemi, come se volessero fare della provincia una terra bruciata”. Fronte Covid: secondo il ministero della Salute, i contagi domenica sono stati 31.814, portando il totale a 3.723.246; i decessi sono stati 322, per un totale di 89.122. Le autorità stimano che almeno 60 milioni di persone, su una popolazione di 84 milioni, dovrebbero essere vaccinate per raggiungere l’immunità, ma finora soltanto 2.426.697 sono state immunizzate con due dosi e 8.241.852 con una dose.

Robocop, il giurista amico degli islamisti che ora li terrorizza

Per tutta la vita, Kais Saied ha insegnato Legge nelle aule universitarie, prima di capire che gli piaceva dettarla. Il capo di Stato tunisino, ex professore costituzionalista, ha fatto appello alla materia che ha sempre spiegato ai suoi studenti per sciogliere il Parlamento di Tunisi. Lasciò sorpresi molti quando si assicurò la vittoria con oltre il 70% delle preferenze alle ultime elezioni del 2019 dove corse come indipendente conservatore con alle spalle nessun partito o esperienza politica. Sin da subito ha assicurato ai tunisini di essere, come loro, un figlio del popolo capace di sconfiggere la corruzione “finanziaria e morale”, causa di tutti i mali del Paese. Incantò sia gli islamisti che la sinistra.

Lo ha fatto con il suo timbro di voce monotono e flemmatico, quasi da automa, per cui la Tunisia giovane lo chiama da allora “Robocop”. Il presidente-professore ha sempre ostentato lessico forbito e letterario che non ha abbandonato quando, dalla cattedra, è passato prima alle urne e poi nelle stanze del potere dove i suoi avversari ricorrevano all’uso dell’arabo più dialettale e comune. Prima all’Università di Susa – dove ha conosciuto sua moglie, la giudice Ichraf Chebil, da cui ha avuto tre figli –, poi a Cartagine, ha arricchito un prestigioso curriculum accademico per cui è stato nominato esperto legale dall’Istituto arabo dei diritti umani. Da quando è presidente però si è espresso a favore della pena di morte e contro l’omosessualità che gli occidentali “contribuiscono a diffondere e incoraggiare”. Contrario alla parità di genere quanto ostile ai diritti Lgbt, ha sempre allontanato l’idea che la nazione tunisina potesse essere guidata e retta con principi di un sistema politico che si potrebbe considerare moderno e liberale. Tra le sue ambizioni rimane quella della riforma elettorale dove i candidati, in un ipotetico sistema di democrazia diretta, vengono scelti non per appartenenza a un partito o a un’ideologia, ma per le loro doti personali. La sua storia comincia con un’infanzia modesta. Prima di lui, in famiglia, era sfuggito da miseria e stenti solo suo zio, primo chirurgo del Paese che ora lui guida, un medico divenuto celebre per aver diviso dei fratelli siamesi in un’epoca in cui non era semplice farlo. Il presidente è fratello di un altro celebre costituzionalista e figlio di un padre coraggioso abbastanza da difendere dai nazisti, durante la Seconda guerra mondiale, femministe francesi d’origine tunisina ed ebrei, verso la cui nazione però, oggi, Said non nutre sentimenti di alleanza o amicizia: più volte ha dichiarato in pubblico di non accettare la normalizzazione dei rapporti con Israele, uno Stato “in guerra con il mondo arabo” con cui nessun leader musulmano dovrebbe scendere a patti.

Per fermare il leader del movimento islamista Ennhada e presidente del Parlamento, Rachid Ghannouchi, Saied ha usato lo stesso esercito che ha schierato per far fronte alla pandemia che sta falciando il Paese. È stato accusato da alcuni di colpo di Stato, da altri di teatro: ha detto più volte di voler cambiare la Costituzione che lui stesso, nel 2014, ha contribuito a modificare perché le leggi, che assicurano distribuzione equa a tutte le forze del sistema parlamentare, spogliano il presidente di poteri che lui ora pretende. Accanto alla sua figura politica qualcuno vede già la sagoma di un altro leader che si è impossessato del potere di una delle più grandi piazze delle primavere arabe, quella del Cairo. Per Imed Ayadi, membro di Ennahda, Saied è solo una nuova versione del generale egiziano che ha annichilito i Fratelli musulmani: “Saied è il nuovo al-Sisi”.

Pandemia e crisi sociale, Saied sfrutta la piazza e “licenzia” il premier

“Tutte le decisioni annunciate dal presidente sono nulle”. Il Parlamento tunisino non ci sta alle dimissioni imposte domenica al premier Hichem Mechichi da Kais Saied, avocatosi la carica di Procuratore generale, alla revoca dell’immunità ai parlamentari e alla sospensione dei lavori per almeno 30 giorni”. E dopo gli scontri seguiti lunedì al divieto, con l’esercito schierato davanti al Parlamento, di entrare nell’emiciclo al premier, i parlamentari, riuniti sotto la presidenza di Rached Ghannouchi, hanno sconfessato il capo di Stato che per motivare il gesto e negare il “golpe” di cui lo si accusa da più parti, si era appellato alla Costituzione. “Le decisioni annunciate da Saied vanno contro la Costituzione e persino contro l’articolo 80, che è stato mal interpretato”, dicono i parlamentari. Questi ultimi hanno annunciato di restare “in riunione permanente a causa di una situazione particolarmente delicata” e hanno invitato “le forze di sicurezza e l’esercito a stare al fianco del popolo tunisino, a proteggere la Costituzione, a sostenere lo Stato di diritto e a preservare il prestigio dello Stato e delle sue istituzioni”.

A invocare l’art. 80 della Costituzione approvata nel 2014, che prevede l’adozione da parte del presidente di misure straordinarie in caso di “pericolo imminente che minaccia la nazione”, e a fare appello alla popolazione di mantenere la calma e di non cedere alle provocazioni”, è stato lo stesso Saied, che per la stessa ragione ha indetto il coprifuoco dalle 19 alle del mattino, sospeso per due giorni da oggi il lavoro dei dipendenti pubblici e sollevato dagli incarichi il ministro della Difesa Ibrahim Bartagi, al posto del quale, per supervisionare il dicastero ha incaricato il suo fedelissimo Khaled Yahyaoui, direttore generale dell’unità di sicurezza presidenziale, e il ministro ad interim della Giustizia, Hasna Ben Slimane. Ma la situazione è tutt’altro che chiara. Se a spingere Saied a fare tabula rasa del governo sono state le manifestazioni di massa in diverse città e gli attacchi agli uffici del partito islamista al governo Ennahda con slogan contro Mechichi e il Parlamento per chiederne con forza la rimozione dopo il picco di casi di Covid che ha aggravato i problemi economici, è vero che negli ultimi tempi la tensione tra presidente e premier era forte. All’inizio del mese, il ministero della Salute ha dichiarato “crollato” il sistema sanitario del Paese dopo oltre 17 mila morti di Covid su 12 milioni di abitanti. A questo si sommano le crescenti divisioni politiche e le lotte intestine del Parlamento, di cui il presidente Saied – preoccupato per un’incombente crisi fiscale e pandemica – potrebbe aver approfittato. L’attuale situazione desta preoccupazione tra i Paesi vicini, nell’Unione europea, Italia compresa – che aspettava il premier in visita e che con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio chiede “stabilità politica” –, Usa, Russia e Turchia. La soluzione alla crisi politico-istituzionale potrebbe stare già aleggiando tra l’opposizione che starebbe chiedendo un governo di coalizione nazionale e al sindacato di tenere l’esercito in una posizione neutrale. Questo mentre da più parti arriva l’appello a Saied perché non limiti la libertà di stampa dopo l’assalto all’ufficio di Al Jazeera a Tunisi. Ma per le strade della Capitale, soprattutto davanti al Parlamento, ieri si respirava chiaramente la riapertura delle vecchie faglie tra i cittadini schierati da una parte e dall’altra delle barricate tra sostenitori del presidente e contrari al golpe che si colpivano a vicenda con pietre, bottiglie e uova. Una fotografia storica per chi aveva pensato che la Rivoluzione dei Gelsomini fosse l’unica riuscita tra quelle della cosiddetta Primavera araba. Innescata il 17 dicembre 2010 dal venditore ambulante di frutta, Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco contro il sequestro della sua merce da parte delle autorità, la rivolta si estese in molti Paesi del Nord Africa. Da lì la Tunisia è diventata esempio di elezioni libere e Costituzione democratica. Fino a domenica.

Dna e Hiv: le liti ‘sane’ della scienza

Molti, non i diretti interessati, si sono meravigliati delle querelle e spesso dei maschilismi che la pandemia ha alimentato tra gli esperti, virologi e infettivologi. Copione già scritto, purtroppo. Prima di stupirsi bisognerebbe dare uno sguardo alla storia. Non lontano, il caso di Rosalind Franklin, che ha subìto il furto della sua scoperta della tecnica a raggi X per evidenziare la doppia elica del Dna, oltre alla prevaricazione maschilista, da James Watson e Francis Crick. Il furto fu davvero enorme, se si pensa che ricevettero nel 1962 il Nobel per questo risultato, quattro anni dopo la morte della Franklin, dovuta alle conseguenze delle sue ricerche. Precedentemente si era assistita alla lite tra Koch e Pasteur. I due studiosi avevano affrontato gli studi sul bacillo dell’antrace: Koch aveva rivendicato di esser stato il primo a provare la causalità della malattia carbonchiosa e anche l’utilizzo dei criteri che in seguito furono conosciuti come Postulati di Koch. Tuttavia lo scienziato francese gli negò questo riconoscimento, affermando di essere stato egli stesso ad averla documentata nel 1877. Più recentemente abbiamo assistito alla disputa sulla scoperta del virus Hiv. Nel 1983 Robert Gallo, direttore dell’Institute of Human Virology presso la University of Maryland Schovol of Medicine di Baltimora, dimostrò che la malattia poteva essere attribuita a un retrovirus. Negli stessi anni il medico e virologo francese Luc Montagnier, del Pasteur di Parigi, insieme alla dottoressa Francoise Barre-Sinoussi, scoprì un Retrovirus a cui diede il nome di Lav. Montagnier e Barre-Sinoussi ottennero il Nobel per la scoperta del virus responsabile dell’Hiv, nel 2008, ma nessun riconoscimento fu dato a Gallo, i cui lavori hanno dato un contributo fondamentale per i primi test diagnostici dell’infezione. Nello scorrere queste storie, si conferma che anche gli scienziati hanno le fragilità di tutti i comuni mortali. Forse, amaramente, dobbiamo constatare che il livello delle querelle in era Covid è stato più basso. La storia ci riporta diatribe sulla paternità di ricerche che avrebbero cambiato la scienza, noi abbiamo litigato per la conquista di un’apparizione in tv!