Effetto Solinas: Antincendio allo sbando, rogo Sardegna

Il vaticinio l’ha lanciato il 7 luglio: “Anche per la Campagna antincendio 2021 in Sardegna abbiamo una flotta adeguata che garantisce tempi di intervento brevi”. Parola di Gianni Lampis, assessore regionale all’ambiente della giunta di Christian Solinas. Un’affermazione smentita tragicamente sabato scorso, quando l’Oristanese ha iniziato a bruciare. Per arginare le fiamme, sono state mobilitate 60 unità a terra, 5 canadair, un elicottero, più 4 velivoli giunti da Grecia e Francia.

Il rogo alimentato dai forti venti solo ieri ha concesso una tregua. Terribile la prima conta dei danni: 20 mila ettari di boschi, querceti e uliveti andati in fumo, centinaia di migliaia di animali carbonizzati, intere coltivazioni e attività commerciali cancellate, danni per centinaia di milioni, 1.500 sfollati (tornati ieri quasi tutti a casa). A Cuglieri è andato in cenere l’olivastro millenario, il monumento naturale di “Tanca Manna”.

Una tragedia che non ha sorpreso gli ambientalisti del Comitato spontaneo del Montiferru, che il 7 giugno scriveva al Comune di Cuglieri e alla Regione: “La vegetazione abbandonata a se stessa, a causa della mancanza di politiche di forestazione, di piani di prevenzione e della pianificazione di tagli controllati (…), è diventata talmente fitta e impenetrabile da rappresentare un pericoloso deposito di combustibile alla mercé di qualunque piromane che può decidere di appiccare un incendio senza lasciare alcuna possibilità di spegnerlo e vederlo bruciare fino a quando non si sarà consumato l’ultimo albero”. Esattamente come è avvenuto.

“Saremo inflessibili nella ricerca delle responsabilità di una tragedia immane”, ha tuonato Solinas. Ma i responsabili non sarebbero solo i piromani.

Il 20 maggio 2021 il Consiglio regionale approvava infatti la norma che spostava la Direzione generale del Corpo forestale sotto la Presidenza della Giunta. Cioè sotto il controllo del presidente. Non un dettaglio tecnico, ma un’ennesima leva nelle mani di Solinas per decretare assunzioni, avanzamenti di carriera e nuove nomine per i posti vacanti. Nomine che però, a oggi, non ha ancora fatto.

Tanto che il 6 luglio scorso, i sindacati dei Vigili del fuoco denunciavano i “gravi ritardi” organizzativi che stanno “limitando l’operatività del Cfva”. Denunciavano poi che “fra qualche giorno scadranno irrevocabilmente quattro direttori di servizi territoriali che dovranno essere avvicendati in piena campagna antincendio con relativi ritardi (…) evidenti macroscopiche inaccettabili carenze nella programmazione”. Ma i dirigenti dell’antincendio non ancora rinnovati sono molti di più, tanto che appaiono sguarniti i responsabili degli uffici dell’Antincendi e logistica; Affari generali-personale; gli Ispettorati di Oristano, Nuoro, Lanusei e Iglesias. Solo Sassari, Tempio Pausania e Cagliari sono pienamente operativi.

Solinas, il 22 luglio, ha anche silurato il dg del Corpo forestale, Antonio Casula, perché presente al famoso pranzo di Sardara dell’8 aprile.

Inoltre il presidente appena insediato aveva deciso di affidare la Protezione civile a un suo compagno di partito (“una cambiale elettorale al Partito Sardo d’Azione”, dice una fonte interna), Antonio Belloi, sebbene fosse privo dei requisiti richiesti per l’incarico.

Quella nomina è storia nella storia: ingegnere, pompiere volontario e campione di sollevamento pesi, Belloi assurge alla vetta della Protezione civile nonostante vanti come incarico dirigenziale solo la direzione di una associazione sportiva dilettantistica. La nomina (che avviene insieme con quella di Silvia Curto, un’altra che non avrebbe avuto i titoli per diventare dg) spinge il sindacato dei dirigenti regionali Sdirs a ricorrere al Tar, ma il Tar si rifiuta di pronunciarsi (a presiedere il collegio è il giudice Francesco Scano nominato la settimana scorsa braccio destro dello stesso Solinas). Ma si muove anche la Procura di Cagliari, che il 10 dicembre 2020 chiude l’indagine contestando per quelle nomine il reato di abuso d’ufficio a Solinas, al suo capo di gabinetto, Maria Grazia Vivarelli, di induzione indebita a dare o promettere utilità e all’assessore al Personale, Valeria Satta, la tentata concussione.

Ora, che il fuoco devasta la Sardegna, sapere che c’è Belloi al comando delle operazioni a molti non fa dormire sonni tranquilli.

Milano, toghe sfilano al Csm. Anche il giudice Eni-Nigeria

Per i casi scaturiti dai verbali segreti dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari, l’anno scorso, all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ieri pomeriggio sono iniziate le audizioni dei magistrati di Milano davanti alla Prima commissione del Csm: sono stati sentiti il presidente del collegio del processo Eni-Nigeria, Marco Tremolada, che avrebbe confermato quanto scritto nelle motivazioni delle assoluzioni, la presunta scorrettezza dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per aver omesso prove a favore della difesa. Inoltre, si sarebbe lamentato anche perché i pm avrebbero provato a farlo astenere in maniera “irrituale”. Sentito pure il presidente del tribunale Roberto Bichi, che nei mesi scorsi si era lamentato perché i pm avvrebbero “insinuato” che i giudici del processo non erano terzi.

In questa vicenda, con tante sfumature di grigio e tentativi di inquinamento esterni con vari obiettivi, non ultimo la partita che in autunno si giocherà al Consiglio sul successore di Francesco Greco a capo della Procura, monta la lettera promossa da un veterano come il coordinatore delle indagini antiterrorismo, Alberto Nobili, e firmata dalla quasi totalità dei pm milanesi e da diversi giudici, a cui hanno aderito anche toghe di Roma, Napoli, Salerno, Verona. Inevitabilmente, viene vista come uno schierarsi a favore di Storari e della sua posizione contro Greco, anche se c’è scritto: “Esclusa ogni valutazione di merito, la nostra serenità non è turbata dalla permanenza del collega (Storari, ndr)” a Milano. Il riferimento è alla richiesta del Pg Giovanni Salvi di trasferimento cautelare di Storari su cui i giudici disciplinari del Csm si pronunceranno venerdì. Contro la misura cautelare pure il gruppo Articolo 101, che la bolla come “intempestiva, spropositata, ingiusta e incredibile” e prosegue con un attacco che comprende oltre Salvi, anche Greco. Questa misura, si legge, “rischia di apparire un modo per punire la non accondiscendenza ai desiderata del capo dell’ufficio”. La lettera dei magistrati milanesi non sarà acquisita dalla Prima commissione che non può aprire, se l’oggetto è identico, procedimenti di trasferimento per Storari, indagato a Brescia per rivelazione di segreto insieme a Davigo e sotto azione disciplinare o anche nei confronti di De Pasquale e Spadaro, indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, dopo le accuse lanciate da Storari su una presunta gestione spregiudicata dell’indagine Eni-Nigeria, versione respinta dai due pm.

La Prima commissione, per aprire un procedimento, deve capire se qualcuno dei tre pm, per motivi diversi, abbia appannato l’immagine di imparzialità e indipendenza dei magistrati. Oggi altre due importanti audizioni: quella di Laura Pedio che ha indagato con Storari (e smentisce la versione del collega) e del procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili.

Abuso d’ufficio: FI ci prova, ma la Lega vuole il sì alla riforma

La mossa è strategica più che di sostanza: mandare un messaggio alla coppia Draghi-Cartabia che sta trattando con Pd e M5S sul tema dell’improcedibilità. Come dire: “Ci siamo anche noi”. E allora ieri mattina è stato il centrodestra – Forza Italia appoggiata dalla Lega – a bloccare i lavori in commissione Giustizia dove nel pomeriggio sarebbero dovuti iniziare i voti sugli emendamenti. L’Ufficio di presidenza della commissione avrebbe dovuto decidere sull’allargamento del perimetro della riforma Cartabia chiesta dai berlusconiani comprendendo anche i reati contro la Pubblica amministrazione, e in particolare l’abuso d’ufficio, ma tutto è stato rinviato a questa mattina. Motivo: il capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha fatto ricorso contro la decisione del presidente di commissione, il 5S Mario Perantoni, di dichiarare inammissibili i suoi tre emendamenti per svuotare il reato di abuso d’ufficio. La richiesta è stata inviata al presidente della Camera Roberto Fico che dovrà dare una risposta, anche se con ogni probabilità confermerà quella di Perantoni. Anche il governo non è intenzionato ad aprire la trattativa con il centrodestra sull’abuso d’ufficio ma potrebbe impegnarsi ad affrontare la questione in un altro provvedimento.

Così alle 9.30 si voterà se allargare il perimetro della legge in base alle richieste del centrodestra e la maggioranza potrebbe spaccarsi visto che Pd e M5S sono contrari. Se dovesse passare la richiesta di Zanettin, la legge tornerebbe in alto mare e salterebbe la data del 30 luglio per arrivare in aula: i giallorosa sono contrari a depenalizzare l’abuso d’ufficio e servirà ulteriore tempo per far sì che le forze di maggioranza presentino proposte di modifica. Quella di FI è dunque una mossa per alzare la posta con il governo di fronte alla trattativa Draghi-Conte che potrebbe portare all’eliminazione della prescrizione per i reati di mafia: “Sarebbe una vittoria del M5S e noi saremmo completamente tagliati fuori” va dicendo Zanettin ai colleghi. Per questo il centrodestra ha bloccato i lavori in commissione anche se potrebbe spaccarsi: la Lega, che formalmente ha appoggiato la richiesta, alla fine potrebbe staccarsi per evitare che la riforma venga rinviata a settembre. “Va approvata così com’è e in tempi rapidissimi” è il diktat di Matteo Salvini ai suoi. Tant’è che Zanettin alla fine potrebbe ritirare la sua proposta. E la mossa di FI ha imbarazzato anche il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto che, dopo lo stallo di ieri, ha detto laconico: “Il governo è compiaciuto che i lavori vadano avanti”. All’attacco vanno invece Pd e M5S che non vogliono riaprire il capitolo dei reati contro i colletti bianchi. “La richiesta di Lega e FI di allargare il perimetro della legge è una boiata perché così si va a settembre”, dice il dem Alfredo Bazoli. L’iter della riforma si deciderà questa mattina ma è molto probabile che la richiesta di FI sarà respinta. A quel punto il centrodestra dovrà valutare l’esito della trattativa tra i giallorosa e Draghi. Ieri il deputato calendiano Enrico Costa ha posto i primi dubbi: “Non vogliamo il ritorno del fine processo mai”. Antonio Tajani invece continua a chiedere “correttivi” sull’abuso d’ufficio per i sindaci.

Ieri gli emendamenti sono stati tagliati da 1.631 a 400 per rispettare i tempi. Tra quelli “segnalati” dal Pd anche uno per prorogare i tempi per i processi di mafia e terrorismo, stessa proposta dei 5S. Ma la vera partita si gioca fuori dalla commissione: il governo entro giovedì presenterà emendamenti mirati per mettere nero su bianco il possibile accordo con Pd e M5S. Sempre che vadano bene al centrodestra.

“Norme copiate da B. Altro che velocizzare, si faranno più appelli”

La riforma della Giustizia di Marta Cartabia? “Rischia di segnare un ulteriore incremento di prestigio per le organizzazioni mafiose”. Il motivo? “I boss si dimostrano sempre capaci di celebrare i loro processi ed emettere le loro sentenze, mentre lo Stato dimostrerebbe la sua impotenza”. Nino Di Matteo è preoccupato. Per il consigliere del Csm la norma in discussione in commissione a Montecitorio “ricorda per analogie evidenti la cosiddetta riforma del processo breve dell’ultimo governo Berlusconi, che rappresentava un pericolo per la tenuta stessa del sistema democratico”.

Quel pericolo è ancora attuale?

Le somiglianze tra le due riforme sono evidenti e il mio giudizio è fortemente negativo e preoccupato. Quando parlo di analogie mi riferisco ovviamente al meccanismo dell’improcedibilità: farà andare in fumo molti processi e sarà equivalente a una denegata giustizia. Non solo per le vittime, ma pure per gli imputati che magari sono innocenti e hanno diritto a una sentenza di merito. E poi mi faccia dire un’altra cosa.

Dica.

A mio avviso il meccanismo dell’improcedibilità costituisce non solo un grave arretramento nel funzionamento del sistema di giustizia in generale, ma rischia di rappresentare un ulteriore arretramento nella fiducia che i cittadini devono nutrire nella giustizia. Quando qualsiasi processo andrà in fumo senza una pronuncia nel merito, è destinato ad aumentare il senso di sfiducia dei cittadini nei confronti dello Stato. Parallelamente ci sarà un incremento del prestigio criminale di coloro che hanno commesso reati, ma resteranno impuniti.

Pochi giorni fa la Guardasigilli ha detto che l’improcedibilità non si applicherà a reati di mafia e terrorismo, perché sono puniti spesso con l’ergastolo.

L’equazione non trova sostegno nella normativa in vigore. Moltissimi processi di mafia riguardano fatti gravissimi che non sono punibili con la pena dell’ergastolo: basta ricordare quelli relativi alla gestione delle estorsioni, al traffico di stupefacenti, ai tanti che hanno riguardato la contestazione solo del reato di associazione mafiosa o del concorso esterno per politici e uomini delle istituzioni.

Per trovare un accordo con i 5Stelle il governo pare sia disposto a escludere i reati di mafia dal meccanismo dell’improcedibilità: questa modifica basta?

Segnerebbe un primo passo perché almeno si salverebbero molti processi di mafia che così sono destinati ad andare materialmente in fumo. Il mio giudizio sull’intero impianto della riforma, però, rimane comunque di preoccupazione.

Perché?

Perché l’improcedibilità continuerebbe a riguardare molti altri processi per reati gravi, tra i quali quelli contro la Pubblica amministrazione, tipici della criminalità dei colletti bianchi. Quelli continuerebbero a rischiare di andare in fumo.

Dentro la riforma c’è anche un’altra novità: la possibilità per il Parlamento di indicare i criteri generali da seguire per selezionare la priorità delle notizie di reato.

L’approvazione di questa parte della legge comincerebbe ad aprire uno squarcio, limitato ma facilmente allargabile, alla possibilità che poi sia la politica a dettare l’agenda alle procure. Questo, oltre a contrastare con i principi fondamentali della Carta, segnerebbe un passo verso il sostanziale assoggettamento delle procure al potere politico.

Dicono che questa riforma abbia come obiettivo quello di velocizzare i processi: è quello che succederà?

No, anzi se approvata così come è stata disegnata la riforma produrrà un’ulteriore moltiplicazione degli appelli.

Perché?

È facile prevedere che pure il reo confesso ricorrerà in Appello e Cassazione nella speranza che il decorso del tempo faccia venire meno il processo. La ragionevole durata dei processi è interesse di tutti, ma ci sarebbero altre le soluzioni compatibili con il mantenimento dello stato di diritto.

Ci faccia solo un esempio.

Serve una seria riforma dell’appello che scoraggi le impugnazioni strumentali, con l’abolizione del divieto di reformatio in peius. Oggi l’imputato condannato fa comunque appello perché il suo ricorso, anche quando infondato, non lo espone mai al rischio di una condanna più severa.

Fuori mafia e terrorismo. Oggi Conte “consulta” gli eletti sulla mediazione

Qualcosa si muove. Ed è meglio di niente, ma non è affatto detto che basti. “I segnali cominciano a essere positivi” sussurrano da ambienti vicini a Giuseppe Conte, ma anche alcuni 5Stelle. Perché sulla giustizia, Mario Draghi e Marta Cartabia hanno aperto a una delle richieste dell’ex premier, cioè sottrarre i reati di mafia e terrorismo alla riforma della ministra della Giustizia, quella che vuole sostituire la prescrizione ripensata dalla riforma Bonafede con l’improcedibilità, qualcosa di peggio della vecchia prescrizione. Però è tutto ancora da verificare e da chiudere, si cammina ancora su una lastra di ghiaccio. “Si vedrà solo alla fine se quest’apertura potrà bastare” scandisce cautissimo in serata un big del Movimento. Perché per parecchi 5Stelle, a partire da diversi dei deputati della commissione Giustizia, potrebbe non essere sufficiente. E non solo per loro. “Abbiamo i telefonini che traboccano di messaggi della base, infuriata” sillaba un parlamentare, mentre i 5Stelle della commissione si riuniscono per fare il punto sugli emendamenti da segnalare, cioè quelli più importanti per cui chiedere comunque la votazione.

E l’obiettivo è innanzitutto allargare il campo dei reati non toccati dalla riforma, partendo da quelli a sfondo sessuale. La conferma che il Movimento vorrebbe di più: sia sul numero di reati da “salvare”, sia sui tempi dei processi, perché con Cartabia fino a ieri c’era ancora grande distanza sul modo di calcolare la tempistica in Appello. Ma su come ottenere più risultati ci vorrà soprattutto altro. Ossia la politica dietro le quinte, il lavorìo dei maggiorenti.

Anche quello del Luigi Di Maio di nuovo mediatore, che ieri batte un colpo per rivendicare il suo ruolo, assicurare che “sostengo Conte” e ribadire la rotta: “Bisogna evitare che i responsabili di reati gravi come quelli di mafia rimangano impuniti”. Ma Di Maio parla anche ai suoi: “Serve unità interna, lavoriamo assieme”. Ergo, bisogna sopire divisioni ed evidenti malumori se si vuole ottenere di più al tavolo. E ovviamente lo sa anche Conte, che ieri ha portato avanti le trattative. Entrate nella fase decisiva, come prova indirettamente anche l’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra Draghi e Cartabia per limare la controproposta per il M5S. Ma l’ipotesi di mediazione va soppesata anche in base alle idee e le sensazioni di un Movimento frammentato, esausto dopo mesi in cui ha dovuto inghiottire di tutto.

Anche per questo, da stamattina Conte sarà alla Camera per incontrare i deputati, divisi per commissioni (ma quelli di Giustizia e Affari costituzionali, le commissioni ora cruciali, li vedrà giovedì). E lo scopo non dichiarato ma evidente è tastare il polso agli eletti, anche sulla trattativa in cui il capo in pectore si gioca già moltissimo. L’avvocato deve capire dove può spingersi, e se davvero ci sono 20-30 parlamentari pronti a votare comunque no, se non arriveranno modifiche davvero rilevanti. Un nodo rilevante soprattutto alla Camera, ma che esiste anche in Senato, dove l’ex premier sarà domani. Conte sa che anche una parte dei suoi, dei contiani, gli chiede da giorni “coraggio”. E che vorrebbero sul piatto della trattativa il no alla fiducia. Una carta che nei colloqui riservati l’ex premier ha sempre descritto come possibile: facendolo anche trapelare, eccome. Ma il margine di manovra è stretto. Molti dei 5Stelle di governo lì vogliono rimanere, nella maggioranza di quasi tutti. E Conte teme la reazione avversa di diversi mondi a un eventuale strappo con Draghi. Però servono modifiche vere alla riforma Cartabia, per mostrarsi come capo ai suoi, per tenerli.

La controproposta della ministra dovrebbe arrivare oggi, in mattinata. “Va letta nel dettaglio, bisogna capire l’assetto complessivo del nuovo testo” riassume un maggiorente dei 5Stelle. E poi comunque lì fuori ci sono sempre il centrodestra e i renziani. Pronti a ricordare, già da stamattina in commissione Giustizia, che nel governo ci sono anche loro e che ai grillini non va concesso troppo. Ancora ieri sera, nel M5S temevano possibili botole in commissione, e anche di questo hanno discusso in alcune riunioni via Zoom. Ma tanto oggi a Montecitorio arriverà Conte, quello che cerca una soluzione. Per non cadere, ancora prima di diventare capo.

Il piccolo fiammiferaio

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. L’altra sera ho accolto l’invito alla festa di Articolo 1 e, intervistato da Chiara Geloni, ho risposto addirittura alle sue domande. E il pubblico ha osato financo applaudire. Apriti cielo. La Lega ha chiesto le dimissioni di Speranza (giuro), il quale ha dovuto precisare che, quando parlo io, non è lui che parla (ri-giuro). Una domanda riguardava una frase di Speranza sull’estrazione sociale dei ministri del Conte-2, quasi tutti figli del popolo, diversamente da quelli che contano nel governo Draghi: tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri. La consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social ne ha dedotto che ho offeso la memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi, dunque secondo Rep avrei fatto “una gaffe”. Per dire com’è messa questa gente. Un’altra domanda riguardava la diceria, molto in voga fra i leccadraghi, sui Migliori discesi dall’empireo per salvarci dal “fallimento della politica”. Siccome dissentivo, pensando che fosse ancora lecito, ho ricordato qualche “Migliore”: Brunetta, Gelmini, Cingolani, Cartabia. E ho aggiunto che Draghi è un ex banchiere esperto di finanza, ma non ha la scienza infusa e i suoi atti dimostrano che non capisce una mazza di giustizia (solo ora lui e la Cartabia scoprono cosa c’è scritto nella loro “riforma” e quali catastrofi ne seguiranno), di politiche sociali (licenziamenti subito, nuova Cig chissà quando, Fornero consulente) e di sanità.

Uno che fa un decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi, pena il divieto di esercitare, e poi li cazzia perché si vaccinano; uno che sospende Astrazeneca mentre Ema e Aifa dicono che è sicuro e tre giorni dopo revoca la sospensione perché Ema e Aifa ri-dicono che è sicuro; uno che si fa la prima dose con AZ, prescrive il richiamo omologo per gli over 60 e poi, a 73 anni, si fa l’eterologo perché “ho gli anticorpi bassi” (in base a un test che gli scienziati ritengono farlocco); uno che vieta per decreto gli assembramenti e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizza i calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento perché “con quella Coppa possono fare ciò che vogliono”; uno che pensa di convincere i No Vax a vaccinarsi dando loro degli assassini; ecco, uno così non mi pareva un grande esperto di vaccini. Ma l’unanime sdegno per la duplice lesa maestà, manco avessi detto “figlio di Tiziano”, mi ha fatto ricredere: Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia.

Tre bronzi per l’Italia, flop nuoto e scherma

Arrivano tre bronzi per l’Italia a Tokyo nella giornata di domenica con il totale delle medaglie che sale a 5. Terzo gradino del podio per Elisa Longo Borghini nella prova su strada in linea di ciclismo femminile (137 km con 2.692 metri di dislivello), Odette Giuffrida (in foto) nei 52 kg del judo e Mirko Zanni nel sollevamento pesi (erano 37 anni che l’Italia non si aggiudicava una medaglia in questa competizione). Delusioni da nuoto e scherma. Gara orribile e squalifica a sorpresa (sgambata irregolare) per la 16 enne Benedetta Pilato che sognava l’oro nei 100 rana, male Gabriele Detti nei 400 stile (solo sesto). Disastro delle fiorettiste, tutte fuori dalle medaglie (non succedeva da Seul 1988. L’oro di Giovanna Trillini a Barcellona 1992 aveva aperto un’era di dominio della squadra azzurra). Medaglia di cartone per Andrea Santarelli nella spada. Il sorriso viene dalle squadre: bene il Settebello, l’Italvolley donne e gli uomini del basket, battuta in rimonta la Germania 92-82.

Storie della buonanotte per svegliarci progressisti

Altro che analfabeti di ritorno, stiamo analfabeti veri e propri. “Solo un po’ meno di un terzo della popolazione italiana – scriveva Tullio De Mauro già sette anni fa – ha i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna”. La percentuale degli italiani che comprende i discorsi politici o capisce come funziona la politica italiana, aggiungeva, “è certamente inferiore al 30%”. Uno su tre. Tre anni dopo, 600 tra rettori, docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, costituzionalisti, sociologi, linguisti, matematici, economisti, rilanciavano l’allarme, con una lettera al presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento, chiedendo “interventi urgenti” per rimediare alle carenze degli studenti. “Alla fine del percorso scolastico – scrivevano – troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”. E, ancora: “Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare”. Terza elementare!

Ci rendiamo conto di cosa significa tutto questo? Un italiano su tre non sa orientarsi in una società moderna come la nostra, e non capisce come funzioni la politica. Però vota. E decide. Non solo per sé: per tutti. Non basta: pochi giorni fa, l’Invalsi ha pubblicato i risultati dei test 2021 su più di 2 milioni di studenti. Situazione deprimente: alle medie, quasi 4 studenti su 10 (39%) non raggiungono “risultati adeguati” in Italiano. In Matematica, si sale al 45%. Alle superiori, va ancora peggio: gli inadeguati in italiano sono il 44%; quelli in matematica, più della metà: 51%. In entrambi i casi, si registra una crescita di 9 punti percentuali rispetto al 2019. Ripartenza? Non scherziamo: ci mancano i fondamentali. Con medie così, la Nazionale di Mancini non si sarebbe nemmeno qualificata per l’Uefa Euro 2020, altro che vincere la Coppa Europa! Bisogna ricominciare dall’ABC. Qualcuno, per fortuna, ne è consapevole. La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, ad esempio, che manda in libreria queste Storie della buonanotte, una sorta di abbecedario essenziale, che si offre di contribuire alla nostra rialfabetizzazione etica, valoriale, sociale e politica. “Parole chiare e valori saldi, da ritrovare e proiettare verso un futuro semplicemente più giusto e sostenibile per tutte e per tutti”, come sottolinea, Elly Schlein nella prefazione. Perché “è impensabile costruire un futuro che migliori la qualità della vita delle persone e del Pianeta senza una profonda conoscenza del passato e un’accurata analisi di come siamo finiti qui”.

Se dovessi indicare a quel 62% di italiani che legge solo un libro l’anno (!), quale scegliere, non avrei dubbi nel segnalare queste Storie della buonanotte. Storie vere ed esemplari di dieci grandi donne e uomini, che – con la loro vita oltre che con la forza delle loro idee – hanno incarnato e testimoniato i valori nei quali credevano, rendendo il nostro Paese un posto infinitamente migliore di come lo avevano trovato. Esseri umani, non marziani, che avevano un’idea decisamente più chiara e alta della nostra di cosa significhino parole come “essere” e “umano”. Storie per ripartire dall’ABC e imparare verità fondamentali che abbiamo dimenticato, come il fatto che società deriva da “socius”, che significa “socio”, “alleato”, “compagno”, e che o l’“io” diventa “noi” o è destinato a soccombere. In democrazia – soprattutto in tempi di globalizzazione e turbo-capitalismo amorale (non è il lavoro che manca ma la volontà di pagare dignitosamente i lavoratori) – il “mors tua” finisce col diventare “mors mea”.

Poche pagine, accuratamente scelte (tranquilli: ogni lettura dura pochi minuti), dalle quali capiamo che alcune grandi verità che dovrebbero essere ovvi punti di partenza, sono diventate vette irraggiungibili. Dieci brevi ma fondamentali lezioni su ambiente e transizione ecologica (Alexander Langer), buon governo e fiscalità (Luigi Einaudi), dignità della persona – in particolare, donne (Lina Merlin) e malati (Franco Basaglia), economia giusta (Silvio Leonardi), Europa (come dovrebbe essere, non com’è: Ernesto Rossi), lavoro, giustizia sociale e parità di genere (Giuseppe Di Vittorio e Tina Anselmi), politica non caricaturale (Vittorio Foa) e una scuola “che funzioni” nel “corpo” e non solo nello “spirito” (Ada Gobetti).

Ha ragione Elly Schlein: “Testi di questa profondità non finiscono mai di dire quel che hanno da dire, per dirla con le parole con cui Italo Calvino si rivolgeva ai classici”. La domanda è: perché ci ostiniamo a non ascoltarli? Riusciremo mai a restituire umanità all’umanità e a costruire una convivenza che possa dirsi davvero civile?

Calcio, acciaio e socialismo. Il sogno svanito di Piombino

A Piombino hanno coniato anche una parola per unire calcio, politica e lavoro operaio: “acciaiare”. Comparve per la prima volta nel 1949, durante un ottimo campionato di serie C dell’Unione Sportiva Piombino sull’Informatore Sportivo, la testata locale che ogni domenica dava conto delle partite della squadra nerazzurra. Il significato non lasciava spazio all’immaginazione: “La squadra è dotata di compattezza e flessibilità come l’acciaio prodotto dall’Ilva”. D’altronde quella compagine, che arrivò a giocare la serie B negli anni ’50 battendo la Roma di Nordhal ma anche la Juventus di Altafini, era l’erede della “Unione Sportiva Sempre Avanti Piombino” nata 30 anni prima, in pieno biennio rosso e con i fascisti alle porte, con una missione: una squadra di operai, un pubblico di operai. Dalla fabbrica “Magona” allo stadio “Magona”, dalla tuta blu alla maglia nerazzurra, dalla fusione dell’acciaio al tiro in porta. Tutto a pochi metri di distanza, sempre con lo stesso spirito: niente contratti milionari né “calciatori divi”, ma solo un gruppo di operai “pronti a battersi fino allo spasimo” e pago di sentirsi sorretto “della simpatia dei piombinesi”.

Sicché, racconta il giornalista del Corriere Fiorentino Paolo Ceccarelli nel suo libro Sempre Avanti. Cento anni di calcio, politica e acciaio a Piombino (edizioni associazione Il Foglio), la città in pochi anni diventò non solo la capitale italiana del lavoro operaio e del socialismo che si opponeva al regime fascista, ma anche il prototipo di come il calcio aiutasse a plasmare una comunità. E a forgiare la sua coscienza di classe. “Vuoi fare la rivoluzione senza conoscere i risultati delle partite?” era la reprimenda di Palmiro Togliatti, sfegatato tifoso juventino, al vicesegeretario del Pci Pietro Secchia.

Un’intera città ruotava intorno all’acciaieria, al sogno del socialismo reale e al campo di calcio. Quando la siderurgia andava bene, anche la squadra di calcio inanellava successi. Viceversa, ad ogni crisi industriale svaniva il sogno del Piombino calcio e la squadra ha conosciuto sconfitte e retrocessioni. Anche politiche: nel 2019, dopo cinquant’anni di potere rosso, alla crisi dell’acciaieria è seguita la vittoria di Francesco Ferrari. Un sindaco di destra, di Fratelli d’Italia. Oggi la Jsw Steel, così si chiama la nuova fabbrica passata per imprenditori di ogni risma, non sa nemmeno se riprenderà a produrre e l’Atletico Piombino milita mestamente in eccellenza anche se da qui sono passati allenatori di successo come Nedo Sonetti e Aldo Agroppi.

A cento anni dalla nascita dell’Unione Sportiva Piombino, Ceccarelli ricostruisce con precisione certosina, cura dei dettagli e orecchio teso alle testimonianze cittadine, la storia della squadra operaia per eccellenza. Era il 1921 e fu Dante Gronchi a fondare la squadra come reazione alla decisione dei fascisti di chiudere l’Ilva. Sul modello dello Schalke 04, squadra del distretto industriale di Gelsenkirchen nella Ruhr tedesca, i calciatori del Piombino erano solo operai che scendevano in campo dopo il turno in fabbrica. Il portiere Pasquinelli, racconta Ceccarelli che utilizza come fonte privilegiata l’almanacco di Gianfranco Benedettini “Cinquant’anni in nerazzurro”, “fa il muratore, Faraone è meccanico, Grevi carpentiere, Guasconi operaio, Marini il brasatore”. Operai erano anche i tifosi che ogni domenica popolavano le tribune dello stadio Magona. Poi, dopo i primi successi e la promozione in Prima Divisione, la squadra iniziò a crescere attraendo talenti da fuori città fino ad arrivare alla serie B degli anni ’50. Nel mezzo c’era stato il fascismo che aveva messo il cappello sul gioiello nerazzurro, ma i veri successi della squadra arrivarono nel Dopoguerra.

Piombino-Roma del 18 novembre 1951 in città viene ricordata alla stregua di un campionato vinto. La squadra capitolina veniva dall’unica retrocessione della sua storia e quella in Toscana era solo una delle tappe per riavvicinarsi alla serie A. Peccato che, spinto da 14 mila tifosi del “Magona”, il Piombino di Carlotti, Bonci e Lancioni surclassò i giallorossi di Acconcia, Nordhal e Venturi: 3-1. Da quel momento, di pari passo con la crisi della fabbrica che licenziò i primi 500 lavoratori, iniziò la decadenza dei nerazzurri. Nel cuore dei piombinesi resterà, venti anni dopo (1975), il “derby” della Fiat tra la blasonata Juventus, fresca del 16esimo scudetto, e il Piombino, che militava in promozione. La partita fu preceduta dalla visita all’acciaieria del capitalista per eccellenza Umberto Agnelli e poi, il giorno della partita, di un gruppo di calciatori bianconeri tra cui Anastasi, Longobucco e Cuccureddu. Non giocarono Zoff, Capello e Scirea ma Paolo Rossi e Josè Altafini. La partita, combattuta fino all’ottantesimo, finì 4-1 per la Juve. Quarant’anni dopo, il capitano del Piombino, Luciano Bianchi, ricorderà quel match come “un piccolo sogno” per la città. Che da quel momento, tra la crisi dell’acciaio e la fine del Pci, non ha mai più vissuto momenti simili. E con il calcio è svanito anche il sogno della rivoluzione.

 

Le metamorfosi di Calatrava: la chiesa ora è un videogioco

Immaginiamo che la direttrice del Bargello chieda a Jeff Koons di reinterpretare il Bacco di Michelangelo: e che quello si metta a dorarne i capelli, colorandogli sul marmo un paio di brache rosse da topolino. O che il direttore delle Gallerie dell’Accademia di Venezia chieda a Damien Hirst di risemantizzare la Tempesta di Giorgione, e che quello la metta in una teca stagna e la cali in una vasca piena di squali vivi. E che entrambi questi interventi vengano decisi appunto dai direttori autonomi, senza consultare i loro stessi consigli scientifici, né le soprintendenze e i comitati tecnico-scientifici ministeriali. E che siano interventi senza una data di conclusione. E, naturalmente, che vengano inaugurati dal ministro per i Beni culturali.Ebbene, è esattamente quello che è successo alla chiesa di San Gennaro (1745-1776) nel Bosco di Capodimonte a Napoli, un’opera di un grandissimo architetto del tardo barocco: Ferdinando Sanfelice.

Il direttore di Capodimonte ha chiesto all’archistar Santiago Calatrava di “interpretarla”, di “risemantizzarla”: e il risultato è quello che vedete. Calatrava ha disegnato e fatto eseguire una decorazione totalmente nuova per la chiesa (comprese le stelle conficcate nel soffitto), e le ha imposto un nuovo fortissimo colore. Di fatto, ha cancellato l’opera di Sanfelice con una propria opera, radicalmente diversa: un’operazione perfettamente analoga alle due (per ora) fittizie evocate in apertura. Un’operazione che si vorrebbe tecnicamente reversibile, ma che di fatto è politicamente irreversibile: ce la terremo così. È come se i baffi alla Gioconda, Duchamp li avesse fatti sulla tela originale. Inaugurando questo scempio storico, il ministro Franceschini ha detto che “il restauro della chiesa di San Gennaro è un esperimento straordinario che mescola in modo inedito arte contemporanea e barocco”. Il direttore Bellenger ha invece affermato che “l’intervento di Calatrava nella chiesa di San Gennaro nel Bosco di Capodimonte no è affatto un restauro”. Questa imbarazzante confusione concettuale non è (solo) un pittoresco incidente di comunicazione, è il frutto della natura ambigua e contradditoria dell’intervento di Calatrava: che non è un restauro perché viola pressoché tutti i principi della teoria del restauro monumentale (e delle sue versioni normative, come la Carta del Restauro), e non è un’installazione artistica perché violenta e cancella l’opera di un altro artista. Bellenger parla di un “incontro tra Calatrava e Ferdinando Sanfelice”: grande l’arroganza di chi pensa di poter parlare anche a nome di un architetto vissuto trecento anni fa, negando quel rispetto e quella distanza storica che sono le condizioni indispensabili per avere con il passato un rapporto non distruttivo.

Non stupisce che Calatrava si sia prestato a un intervento così arbitrario e autoreferenziale: con il suo infelicissimo Ponte della Costituzione a Venezia e con il Ponte sul nulla di Cosenza ha ampiamente dimostrato agli italiani di non tenere in alcun conto né la storia né il tessuto urbano in cui interviene. Ma solo fino a qualche anno fa una simile violenza ad un monumento architettonico sarebbe stata impensabile nel Paese di Cesare Brandi, Giovanni Urbani, Roberto Pane… La chiave per capire come si arriva a un esito così culturalmente avvilente si deve cercare in un’involuzione culturale molto più vasta e generale: è la malattia di “un tempo senza storia”, il nostro. È, questo, il titolo di un recente saggio di Adriano Prosperi, il cui sottotitolo (“la distruzione del passato”) non è meno calzante. “Nel senso comune – scrive lo storico – è la storia stessa che è apparsa come un vecchiume da abbandonare perché dannoso”: è questa la sottocultura del presentismo, cioè di quella dittatura del presente che divora contemporaneamente la conoscenza del passato e la capacità di costruire un futuro diverso. L’idea che la chiesa di Sanfelice non fosse interessante, non “bastasse”, non attirasse pubblico, non parlasse al nostro tempo è frutto di una profonda insensibilità sociale prima ancora che culturale: perché di fatto priva il pubblico contemporaneo dell’esperienza del passato, rimettendolo ancora una volta di fronte allo specchio narcisista del presente.

La trivialità della colorazione satura della chiesa “di” Calatrava è figlia dell’epoca in cui si disegna sullo schermo, ed evoca la riduzione di tante nostre chiese antiche a schermi per le “esperienze immersive” fatte di proiezioni di colori forti in movimento. Invece di suggerire alterità, distanza, respiro, riposo questa pacchianissima chiesa “non più antica” ripropone tutto ciò che già riempie la nostra vita. E, naturalmente, questo esperimento da Stranamore del restauro nasce come evento collaterale della grande mostra di Calatrava organizzata a Capodimonte: ormai l’evento si mangia il monumento anche letteralmente. Così come lo spettacolo mangia la conoscenza, il consumatore mangia il cittadino, il presente mangia il passato.