Virus, tutto quello che la Cina non ha mai rivelato

Pechino mente dall’inizio della pandemia. Lo ha fatto anche di recente con l’ultimo rapporto demografico dell’Ufficio di statistica, che ha censito la popolazione nel 2020 – 1,411 miliardi di cinesi -, ma non cita il numero di decessi. È evidente che le autorità non vogliono che venga fatto il confronto con gli anni precedenti. A questo punto risulta impossibile misurare i danni umani causati dal Covid-19 in Cina e ci dobbiamo accontentare del bilancio ufficiale: 93 mila contagi e 4.743 morti a fine dicembre 2020. Il paese conterebbe dunque poco più di tre morti per milione di abitanti, contro i 1.436 del Belgio, primo paese al mondo per tasso di mortalità da Covid-19. Questa la cronologia delle menzogne di Pechino stilata da Mediapart.

 

31 dicembre 2019

È la data ufficiale in cui viene identificato un nuovo coronavirus in Cina, ben presto battezzato Sars-CoV-2. Era stato individuato nel mercato del pesce di Wuhan alcuni giorni prima, il 16 dicembre 2019. All’epoca, la primaria del pronto soccorso dell’ospedale Ai Fen aveva trasmesso l’informazione ai suoi colleghi (tra cui l’oculista Li Wenliang) attraverso WeChat. Ma un’inchiesta viene aperta contro di lei ed almeno altri sette medici. Il virus circolava già a Wuhan prima di dicembre? Per rispondere basterebbe consultare i dati sanitari degli abitanti della città e le banche del sangue (come fa in Francia l’Institut Pasteur), ma queste informazioni in Cina restano inaccessibili. Una fonte di Mediapart, membro del team di esperti internazionale di sicurezza creato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, sostiene che “un membro cinese del gruppo, vicino alle autorità, aveva segnalato nel forum di discussione la presenza del nuovo virus a Wuhan da settembre 2019”. Senza fornire ulteriori precisioni.

 

9 gennaio 2020

Le autorità cinesi comunicano per la prima volta sul “2019-nCov”. A metà gennaio la sequenza genetica del virus viene quindi trasmessa a istituti e laboratori in tutto il mondo. Uno dei rari gesti di trasparenza del regime. Due settimane dopo scatta il primo lockdown a Wuhan.

 

31 gennaio 2020

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara che la malattia rappresenta “un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale”. Il sito cinese Caixin pubblica un’intervista dell’oculista Li Wenliang, arrestato qualche giorno prima per aver accennato su WeChat ad una grave patologia polmonare che stava circolando a Wuhan. Il whistleblower muore sette giorni dopo per complicazioni da Covid.

 

3 febbraio 2020

Sulla rivista Nature, un gruppo di esperti dell’Istituto di virologia di Wuhan (WIV) segnala l’esistenza di un altro virus, il RaTG13, al 96,2% simile al Sars-CoV-2. Quattro mesi dopo, la direzione dell’istituto precisa che questo patogeno era stato identificato nel 2016 sotto un altro nome (Ra4991). È impossibile stabilire che tipo di studi sono stati condotti in tutto questo periodo sull’adattamento molecolare del virus, in particolare sulla proteina che ne facilita la penetrazione nelle cellule polmonari umane. L’accesso a queste informazioni archiviate nelle banche dati del WIV è bloccato dall’autunno del 2019 e le tracce della loro esistenza occultate, come dimostrano le indagini del collettivo di scienziati DRASTIC.

 

7 febbraio 2020

Dei ricercatori dell’Università di agricoltura della Cina del sud assicurano di aver trovato nella sequenza genomica di un virus dei pangolini il 99% di elementi in comune con il Sars-CoV-2, come riportato dall’agenzia Nuova Cina. Questo piccolo animale simile a un formichiere viene presentato come l’anello di congiunzione nel processo di contaminazione dal pipistrello all’uomo. La tesi, ormai accantonata dagli scienziati in Occidente, è servita alle autorità cinesi per escludere ogni ipotesi alternativa. Nulla ha permesso finora di convalidarla, dopo migliaia di prelievi di campioni nel sud-est asiatico (come è stato fatto tra l’altro nell’ambito del programma Discover) su dozzine di specie di animali selvatiche e domestiche. Fino a quando non sarà individuata la “specie intermedia”, la tesi di un’origine animale del virus rimane un’ipotesi tra le altre.

 

Febbraio 2020

Bo-tao Xiao e Lei Xiao, docenti all’Università tecnologica della Cina del sud, suggeriscono, senza fornire prove, che all’origine del virus ci sia un incidente di laboratorio. Le autorità li hanno messi a tacere, ma il loro contributo resta accessibile fuori dalla Cina, tra l’altro su Web Archiving. Malgrado la censura, gli scienziati di DRASTIC dicono di ricevere regolarmente informazioni dalla Cina con cui alimentano le loro indagini.

 

29 febbraio 2020

Il sito Caixin rivela che diversi laboratori di analisi in Cina avevano ricevuto già da dicembre dei campioni prelevati su dei malati a Wuhan. Ma l’agenzia provinciale della salute dell’Hubei avrebbe dato l’ordine di distruggerli.

 

13 marzo 2020

Secondo il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, un caso di Sars-CoV-2 sarebbe stato registrato già il 17 novembre 2019 su un abitante della provincia dell’Hubei.

 

Giugno 2020

Uno studio del collettivo DRASTIC rivela che, nel giugno 2019, l’università di Wuhan era stata ispezionata da una commissione speciale del ministero di Scienze e Tecnologie. Era emerso tra l’altro che nei locali mancavano pareti divisorie tra le diverse zone di sperimentazione, che le misure di sicurezza dei laboratori erano scarse, che le attrezzature per gli studenti erano inadeguate, così come le diverse installazioni del WIV (docce chimiche, sterilizzatori ad alta pressione, trattamento delle acque reflue…) utilizzate nell’ambito del programma 2013FY113500, la ricerca sui coronavirus dei pipistrelli. I rifiuti medici pericolosi non erano inoltre trattati in modo efficace. L’ispezione aveva portato alla chiusura di un impianto di depurazione il 9 settembre 2019.

 

Giugno/Novembre 2020

Una nuova teoria emerge in Cina: il virus sarebbe stato importato dall’estero via alimenti surgelati, in seguito alla contaminazione degli operai dei depositi frigoriferi di Qingdao e Tianjin. Dei controlli a tappeto vengono allora effettuati sulla carne congelata importata da Brasile e Argentina o ancora sul pesce dall’India. Obiettivo: dimostrare che, anche se il nuovo virus era stato individuato per la prima volta in Cina, era nato altrove. Un’ampia campagna di disinformazione viene portata avanti sui social. Centinaia di falsi articoli sono diffusi tramite il sito canadese Globalresearch.ca.

 

Novembre 2020

Sempre sulla rivista Nature, i responsabili del WIV riferiscono di aver raccolto, nello loro missioni nello Yunnan, oltre al RaTG13, altri otto coronavirus le cui sequenze, pubblicate poi nel maggio 2021, hanno legami con il Sars-CoV-2. Ma alcune tesi compilate tra il 2014 e il 2019, e discretamente trasmesse al collettivo DRASTIC dai membri delle commissioni d’esame, mostrano che almeno un altro virus era stoccato nei congelatori del WIV. Da Wuhan viene risposto che alcuni campioni utilizzati per le ricerche dal 2016 al 2020 non sono più disponibili. Le autorità cinesi non sono mai state chiare sul numero e sulla natura dei coronavirus prelevati sui pipistrelli nelle miniere dello Yunnan e studiate fino al dicembre 2019 a Wuhan.

 

Gennaio 2021

Tredici esperti dell’OMS, guidati da Peter Ben Embarek, è a Wuhan per elaborare un rapporto sulle cause della malattia, ma non viene lasciata loro la minima libertà di documentare l’indagine.

 

23 maggio 2021

Sulla base di indiscrezioni dei servizi segreti statunitensi, il Wall Street Journal rivela che tre scienziati del WIV erano stati ricoverati nel novembre 2019 con sintomi “compatibili sia con quelli del Sars-CoV-2 che con quelli dell’influenza stagionale”. Due mesi prima, il WIV aveva ribadito in un comunicato che nessuno dei 590 membri del personale del laboratorio era stato in contatto con il virus prima del 30 dicembre 2019.

(Traduzione di Luana De Micco)

Moneyfarm. Come una buona comunicazione esalta una vecchia formula del risparmio gestito

Moneyfarm è una società del risparmio gestito che offre il suo servizio anche tramite le Poste Italiane nella sezione online Postefuturo Investimenti. Essa punta molto sulla comunicazione. Ha commissionato spot televisivi anche convincenti, almeno per chi non conosce la materia, e il suo ufficio stampa ha lavorato bene su Internet, dove abbondano i giudizi positivi, fotocopia l’uno dell’altro. Il sito di Aranzulla poi propina pagine e pagine super elogiative che una nota finale ammette essere state “realizzate in collaborazione con Moneyfarm”. Come dire? Pubblicità redazionale. Nella sostanza la proposta di Moneyfarm si appoggia a due tecniche, vecchie come il cucco. La prima è la gestione di patrimoni tramite fondi comuni e in particolare Etf, cioè tramite il subappalto ad altri della scelta delle azioni, obbligazioni o altri valori mobiliari. Così anche chi non sa neppure imbastire l’analisi di un titolo azionario od obbligazionario, può presentarsi come gestore finanziario. L’altra tecnica è la replica automatica di un portafoglio base su tutti i clienti di una certa linea di gestione. Comunque roba del secolo scorso.

Tutto funziona in automatico, con un programma che ripartisce quanto versato dai clienti in al massimo 14 Etf, che sono una categoria di fondi comuni che promettono di replicare pedissequamente un indice finanziario. Per cui è solo una vanteria che il “team di gestori[…] prenda le decisioni necessarie per cogliere le opportunità di mercato”. Anche se si accorgesse della convenienza sul momento di uno specifico titolo ovvero appunto di un’opportunità di investimento, non potrebbe comprarlo, operando solo tramite Etf. E i titoli che hanno in pancia gli Etf non li decide Moneyfarm.

Benché la formula sia trita e ritrita, sarebbe però ingeneroso infierire su Moneyfarm. È facile imbattersi in gestioni patrimoniali con costi annui dichiarati anche superiori al 3%, cui vanno aggiunti quelli non riportati nei resoconti e inoltre i rischi molto maggiori di malversazioni. E magari anche pesanti commissioni di uscita. I costi di Moneyfarm per portafogli medi sono intorno all’1% annuo. In questo senso il servizio offerto (anche) dalla Posta può essere visto come un male minore. Non è buono in sé, ma è meno peggio di tante indecenze rifilate agli italiani dall’industria parassitaria del risparmio gestito.

Altre sono invece le proposte “postali” davvero interessanti. E in questo momento soprattutto una, ignorata o denigrata dal giornalismo finanziario, perché sgradita alla spuria coalizione della previdenza integrativa. Si tratta del buono fruttifero Obiettivo 65 della Cassa Depositi e Prestiti, che garantisce come minimo il potere d’acquisto iniziale della somma investita all’età appunto di 65 anni. Una sicurezza che non offre nessun fondo pensione, aperto o chiuso, nessuna polizza e nessun piano individuale (pip) previdenziale.

 

Proposte per non far pagare la “carbon tax” ai più poveri

Negli ultimi decenni la crescita basata sull’energia fossile a basso costo ha giovato molto di più ai paesi poveri che a quelli ricchi. Il carbone e il petrolio (o il legname, che se bruciato inquina molto) costavano relativamente poco, e se una cosa costa poco i poveri se ne avvantaggiano. I ricchi possono acquistarla comunque. L’India e la Cina sono fuoriuscite dalla povertà estrema e dalla fame bruciando carbone (la sostanza più inquinante e disponibile in quei paesi), e petrolio, che pure ha avuto prezzi più oscillanti. Se queste forme di energia a basso costo saranno soggette a tasse, l’energia fossile costerà di più, coloro che avranno minori ricadute negative saranno in generale i paesi ricchi, che pagano nel caso dell’Europa tasse già rilevanti (“internalizzanti”) sui combustibili fossili. Diverso il caso degli Stati Uniti, dove certo le classi medie e a basso reddito sarebbero colpite, fatto da cui discende la cautela di Biden per l’introduzione di una “carbon tax” generalizzata.

I poveri rischiano di stare molto peggio, soprattutto i più poveri, che si vedranno precluso l’accesso ai fossili. Razionare questi consumi avrebbe un effetto identico, facendo sorgere immediati “mercati neri”. Ma c’è un altro fenomeno rilevante in controtendenza: se i ricchi ridurranno davvero l’uso di petrolio e carbone, nonostante il tentativo di formare “cartelli” per tenere alti i prezzi, questi crolleranno, come effetto di una enorme sovraproduzione e si avvicineranno ai costi marginali di estrazione e trasporto, cioè vicino allo zero.

Bene per i poveri (ma non quelli che vivono nei Paesi produttori), un disastro per l’ambiente. O si fanno improbabili enormi trasferimenti di ricchezza tra paesi di continenti e regimi politici diversi per consentire ai poveri di comprare energia pulita a scala planetaria, oppure occorre accelerare al massimo la produzione di energia non fossile a basso costo. Purtroppo la velocità della produzione di tecnologie alternative non è agevolmente prevedibile. Pare tuttavia che ci sia una accelerazione e quindi che la meta non sia lontanissima, se i grandi inquinatori collaboreranno (includendovi gli Usa). Allora una soluzione potrebbe essere davvero quella proposta dai paesi più poveri: una “carbon tax” differenziata, che acceleri il progresso tecnico verso energie pulite per i paesi ricchi (responsabili dell’inquinamento fino a ieri), in modo che anche il mercato collabori rendendo “vendibili” prodotti a basso impatto ambientale nel mondo. E lasciar consumare fossili a basso costo ancora per un po’ ai paesi poveri per i beni essenziali (fenomeno comunque inevitabile).

Il problema maggiore rimane proprio l’atteggiamento politico dei due inquinatori maggiori, come scrive il Nobel per l’ambiente William Nordhaus: Usa e soprattutto Cina. Mentre ci sono speranze per gli Usa dopo l’avvento di Biden, non legato come Trump ai produttori di energie fossili, la Cina, oggi il maggior inquinatore mondiale, predica bene ma continua a costruire nuove centrali a carbone, senza nemmeno accennare a intenzioni di “catturare” sottoterra il CO2 che emette, tecnica costosa e innovativa, ma compatibile con il livello di sviluppo raggiunto da quel Paese.

Rimane poi avvolto nell’ideologia il problema delle fonti nucleari. Mentre la fusione (tecnica “miracolosa” di generazione eterna e non inquinante di energia), appare anche da un recente servizio dell’Economist “distante, come sempre, ancora trent’anni”, diverso potrebbe essere il discorso per l’energia “da fissione”, cioè quella fonte nucleare tradizionale che fornisce energia in quantità rilevantissime in Francia e in mezzo mondo. Ci sono stati incidenti, certo, e con vittime. Ma qualsiasi analisi di rischio comparato non basato su fattori emotivi, mostrerebbe che le vittime che ci sarebbero state se in questi decenni quell’energia fosse stata prodotta da fonti fossili, sarebbero state un multiplo con molti zeri di quelli prodotti dagli incidenti di Cernobyl, Fukushima o Three Miles Island. E il progresso tecnico non si arresta: perché non consentire un ulteriore balzo all’Europa nella tecnologia (in sicurezza e riduzione dei costi) dove il nostro continente è ancora dominante e ha pagato un prezzo umano molto basso? E questo anche con le risorse del Pnrr, oggi impiegate con costi di abbattimento molto elevati ed esiti incerti (si pensi alle nuove linee ferroviarie AV). La gravità del problema ambientale, non del tutto presente ai tempi dell’arresto di molti programmi di ricerca nel nucleare, potrebbe indurre a una seria riflessione. Le alternative oggi sul tavolo di riduzione dei costi ambientali rischiano in alcuni casi di avere effetti devastanti per gli strati più deboli della popolazione.

Cultura, il Covid smonta il modello delle Fondazioni

Giovedì 15 luglio, a Verona, l’Aida è andata in scena in forma ridotta, con solo un pianoforte ad accompagnare lo spettacolo: l’80% dei lavoratori della Fondazione Arena aderiva a uno sciopero che per la prima volta vedeva unite tutte le sigle sindacali. Tra i motivi alla base della mobilitazione, la paura che il festival estivo, con lo stesso numero di rappresentazioni del periodo pre-Covid ma capienza di posti ridotta, possa mettere a repentaglio i bilanci e quindi i posti di lavoro. Per una Fondazione che nel 2019 fatturava oltre 24 milioni di euro potrebbe sembrare capzioso, eppure il problema è reale, per le fondazioni partecipate che gestiscono patrimonio pubblico, e il caso veronese è solo l’ultimo campanello d’allarme.

Le fondazioni di partecipazione per gestire beni pubblici sono uno strumento ideato venticinque anni fa. Come spiega una delibera della Corte dei Conti datata 22 dicembre 2020, devono il loro successo “anche al contemporaneo intervento legislativo volto a limitare la possibilità per gli enti pubblici territoriali di dar vita o partecipare a forme societarie”. In Italia oggi sono migliaia le fondazioni di diritto privato che gestiscono beni pubblici in ambito culturale, raggruppabili in due categorie principali. Le fondazioni lirico-sinfoniche, create ope legis nel 1996 come trasformazione di 14 teatri lirici statali – il più famoso dei quali è La Scala di Milano – regolati da norme comuni e sostenute dal Fondo Unico per lo Spettacolo, statale. E le fondazioni museali, che hanno visto una crescita in quantità e qualità dal 2004 in poi, anno in cui il Museo Egizio di Torino (statale) viene trasformato in fondazione. Da allora molti musei civici seguono la stessa strada per volere delle amministrazioni, a Venezia come a Brescia, mentre non nascono più musei statali, preferendo la creazione di fondazioni partecipate dallo Stato stesso, come al MAXXI di Roma o al Meis di Ferrara.

Non esiste una legge che regoli la specificità di queste fondazioni culturali tenute a fornire servizi pubblici, che quindi registrano divergenze di statuto e partecipanti, anche nette da caso a caso, sia negli obiettivi sia nel modus operandi. Nonostante questa formula gestionale preveda “un conferimento “tendenzialmente perpetuo” del patrimonio (Corte dei Conti, dicembre 2020), – qualora le cose si mettano male, il recesso di Stato ed enti locali dalla fondazione non prevede la restituzione del patrimonio conferito – questa era una realtà in forte espansione prima del lockdown: la riforma Franceschini datata 2014, ad esempio, era volta a trasformare tutti i maggiori musei statali in fondazioni, ma il Covid ha sparigliato le carte.

Il meccanismo di aumento dei prezzi di biglietti e servizi e contemporaneo abbassamento del costo del lavoro, che unito alla crescita del turismo a livello internazionale aveva garantito in questi decenni numeri in crescita, è saltato nella primavera 2020. Il sistema ora è in crisi: né il ritorno d’immagine per dirigenti e membri del Cda, né l’aumento dei visitatori, né la possibilità di staccare biglietti in gran numero appaiono certi, come confermato dal nuovo obbligo di green pass imposto per musei e teatri, anche all’aperto.

Emblematica la situazione delle fondazioni lirico-sinfoniche, come l’Arena citata in apertura. La loro condizione era già difficilissima prima dell’epidemia, avendo contratto negli anni un debito nei confronti dello Stato di 400 milioni di euro: per questo era stato imposto nel 2013 un percorso di risanamento, iniziato negli anni passati (tagli, spending review e commissariamento in cambio di una ristrutturazione del debito). Non solo, con una legge del 2016 era stato imposto un declassamento da fondazioni lirico-sinfoniche a “semplici” teatri lirici in caso di mancato pareggio di bilancio. A differenza delle fondazioni museali di più recente creazione, che hanno fatto ampio uso delle esternalizzazioni in modo da avere personale dipendente in numeri molto ridotti, le fondazioni lirico-sinfoniche ereditavano tutti i dipendenti statali dei teatri lirici: quei 5 mila lavoratori sono stati messi in cassa integrazione per mesi tra marzo 2020 e oggi, mentre solo pochi dei dipendenti a tempo determinato e collaboratori storici hanno visto rinnovi o stabilizzazioni.

Alla fine del 2019 il debito complessivo era di 139 milioni di euro, sceso a 132 nel giugno 2020: il motivo del calo, come spiega il commissario per il risanamento Gianluca Sole nella sua relazione del 24 novembre scorso, è la condizione legata alla chiusura. Abbattendo i costi di produzione e tenendo i dipendenti in cassa integrazione, le fondazioni hanno un risparmio netto (si calcola oltre un milione di euro in sei mesi per quelle con più di 200 dipendenti): aprire con pubblico contingentato ha costi ben diversi. Come spiegava ancora Sole, per salvarle serve un approccio il più conservativo possibile proponendo “attività a bassissimo rischio, realizzando solo quelle con un’elevatissima probabilità di successo, prossima alla certezza”, con buona pace della qualità.

Ed ecco quindi la paura dei lavoratori della Fondazione Arena. Un ragionamento conservativo non dissimile da quello della Fondazione Musei Civici di Venezia, che questo inverno aveva spiegato di aver messo tutti i dipendenti in cassa integrazione fino ad aprile per risparmiare altri 620 mila euro: oggi a Venezia sono aperti tutti i giorni solo due dei 9 musei gestiti dalla fondazione, gli altri aprono poche ore dal giovedì alla domenica.

Era uno scenario prevedibile. Ancora nella delibera dello scorso 22 dicembre la Corte dei Conti si chiede come si possa “rendere controllabile e giustiziabile nell’interesse pubblico, eventuali scelte amministrative consistite in irragionevoli adesioni a fondazioni di partecipazione”. Oggi, e per gli anni a venire, gli interessi di fondazioni in cui la dirigenza ha vantaggio a garantire un bilancio in ordine per tutelare i propri stipendi, e gli interessi dei cittadini che hanno desiderio non solo di andare al museo o a teatro, ma anche di trovarvi un servizio di qualità e non ridotto al minimo, non saranno sovrapponibili.

Il ministero ha permesso a tutte queste fondazioni di chiudere in utile i propri bilanci grazie ad aiuti (nel 2020, 25 milioni per sostegno straordinario alle fondazioni museali partecipate dallo Stato, 60 per le fondazioni liriche), ma non le ha vincolate a offrire determinati servizi e riforme, rischiando di creare le condizioni per chiusure sulla pelle dei più deboli.

“Cambiamo le regole, Roma è l’esempio di cosa non fare”

Magari non è (ancora) un argomento da prima pagina, ma la discussione/scontro sulla riforma delle regole fiscali è quanto di più importante avverrà nell’Ue nel prossimo futuro. Lo European Fiscal Board, un organo consultivo della Commissione europea, ha recentemente sostenuto che bisogna cambiare i vincoli europei per renderli più favorevoli alla crescita. Il Fatto ha sentito Massimo Bordignon, professore di economia alla Cattolica che di quel Board fa parte.

Quali sono le caratteristiche che rendono le proposte dello European Fiscal Board più attente alla crescita?

Già nel nostro report del 2019, noi avevamo l’idea di dare vita a una golden rule, seppur limitata. Significava semplicemente che alcune delle spese destinate agli investimenti e alla crescita dovevano essere scorporate dai calcoli utilizzati per definire il rispetto delle regole. Al fondo delle nostre proposte c’è la constatazione che alcune decisioni (come la transizione verde e quella digitale) sono prese a livello europeo. Dunque, se un Paese si concentra su queste aree economiche concordate a livello europeo, le spese corrispondenti devono avere una considerazione speciale.

Nella maggiore flessibilità introdotta dalla Commissione a partire dal 2015, sono già previste alcune regole su riforme e investimenti. Tuttavia, esse hanno caratteristiche molto particolari e limitate che le rendono sostanzialmente inattuabili. La proposta dello European Fiscal Board è volta anche a semplificare le regole: non so come finirà, ma la Commissione sembra essere interessata a questo approccio.

Recentemente il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz ha rilasciato un’intervista al Financial Times in cui sembra chiudere la porta a un ammorbidimento delle regole fiscali. Quale strategia può aiutare a trovare un consenso più ampio?

Non facciamoci troppo confondere da quello che sta accadendo in questo momento. Fra poco ci saranno le elezioni tedesche e dichiarazioni come quelle di Scholz riflettono il dibattito interno tedesco più che quello europeo. In Germania le elezioni saranno molto combattute. Nel contesto tedesco la discussione sulle regole europee è in realtà una eco delle discussioni interne. Inoltre, un’altra fonte di preoccupazione seria per quanto riguarda la Germania è quella sulle regole nazionali. I tedeschi hanno una regola sul debito (debt brake) ancora più restrittiva dei vincoli europei. I Verdi avevano addirittura proposto di eliminare questa regola, ma in ogni caso c’è bisogno di bypassarla se si vuole davvero portare avanti un piano di ristrutturazione energetica.

In una recente audizione al Cnel, lei ha fortemente criticato le regole fiscali basate sul saldo strutturale di bilancio e sulla misurazione dell’output gap (la differenza fra Pil reale e Pil potenziale, ndr).

I tedeschi fanno fatica a mettere in discussione la nozione di bilancio strutturale perché essa è più facile da applicare in un sistema federale come il loro. Per quanto riguarda il lato tecnico, però, noi non abbiamo idea di come calcolare correttamente l’output gap. Certo, si tratta di un costrutto concettuale utile in macroeconomia. Ma costruirci sopra un meccanismo di sorveglianza fiscale è complicato. La gente e i politici non capiscono di cosa si sta parlando e il modo che abbiamo per misurarlo è molto limitato. Perciò lo European Fiscal Board sarebbe molto favorevole ad abbandonare l’output gap a favore di strumenti più comprensibili. A mio parere la Commissione sarebbe in realtà favorevole, avendo già introdotto una nuova regola della spesa. Il problema è che ora la Commissione usa entrambe le regole (quella dell’output gap e quella della spesa) ed esse a volte danno risultati diversi. Teoricamente e matematicamente le due regole sarebbero identiche, ma dato che le stime sono fatte in modo differente, i risultati finali possono essere diversi. Ciò rende ancora più incerto il meccanismo europeo di programmazione e decisione. Questo sistema non funziona.

Quindi in che direzione stiamo andando?

La nostra proposta sulla golden rule forse non riuscirà a passare, ma di certo la Commissione cercherà di tenere conto non solo della quantità ma anche della qualità della spesa governativa. È inutile, anzi dannoso, fare avanzo primario tagliando gli investimenti, come ha fatto l’Italia. Così non si cresce più.

La guerra contro l’austerità Ue che rischia di schiantare l’Italia

Dopo qualche litigio, la pandemia aveva convinto anche i più testardi a spendere, tanto e in deficit. Ora però, già si affilano le armi per una nuova battaglia, che farà impallidire quella sul Next Generation EU. Il terreno dello scontro è la riforma del Patto di Stabilità e Crescita, sospeso fino alla fine del 2022. Paolo Gentiloni, commissario europeo per l’economia, ha detto il 28 giugno a Repubblica: “Rilanceremo la revisione del Patto in autunno”, ma “non credo che si potranno modificare i Trattati e comunque non è compito della Commissione”.

Tuttavia, esiste un altro modo per cambiare le regole. Per dirla con Gentiloni, si possono “modificare le regole sui percorsi di rientro dai debiti e le modalità di investimento rispetto alle grandi transizioni green e digitale”. Tradotto: la riduzione del debito pubblico resterà l’obiettivo finale, ma i vincoli saranno più flessibili, con un occhio di riguardo per le aree strategiche. Un approccio forse non pienamente “keynesiano”, ma certo impensabile fino a poco tempo fa.

Basti pensare che nel 2018 il governo gialloverde veniva bacchettato dalla Commissione per un deficit programmato del 2,4%. Nel 2020, invece, il deficit italiano ha raggiunto il 9,5% del Pil. Se l’economia italiana ancora regge (a stento) è anche grazie alla spesa in deficit. La stessa spesa che, secondo l’antica vulgata, ci avrebbe dovuto portare nel baratro.

Il Fondo Monetario Internazionale prevede che il deficit italiano resterà alto anche nel 2021 (8,5%) e comunque non scenderà sotto il 3% prima del 2024. Per quanto riguarda Francia e Spagna, addirittura lo pronostica sopra il 3% almeno fino al 2026. È chiaro che la nuova parola d’ordine dev’essere flessibilità, se si vuole tenere a galla l’economia europea e farla competere con Cina e Stati Uniti. Chi non vuole sentir parlare di maggiore flessibilità, però, è il tedesco Armin Laschet, leader della Cdu e favorito alla successione di Angela Merkel. E non è il solo. Per il connazionale Olaf Scholz, ministro delle Finanze socialdemocratico, il Patto è già “abbastanza flessibile” per far fronte a emergenze come la pandemia. E non sono solo i tedeschi a spingere per il ritorno all’ordine: il ministro delle finanze austriaco Gernot Blümel prova a costruire un fronte per “la stabilità fiscale e l’abbassamento del rapporto debito-Pil”.

Dall’altro lato del ring, Mario Draghi può far valere la sua reputazione internazionale nella vera sfida europea dell’Italia: non è il momento di stringere la cinghia, ha detto all’Accademia dei Lincei il 1° luglio, anzi “a livello europeo dobbiamo (…) ragionare su come permettere a tutti gli Stati membri di emettere debito sicuro per stabilizzare le economie in caso di recessione”. Non a caso, secondo molti studiosi uno dei maggiori limiti dell’Eurozona è la mancanza di un vero titolo pubblico sicuro (safe asset). Per porre riparo a questo difetto alcuni economisti stanno elaborando proposte interessanti, come l’Agenzia del debito europeo. Non sappiamo se nel mazzo di Draghi ci siano anche queste carte, dato che, almeno pubblicamente, l’obiettivo resta una riforma del Patto di Stabilità. È la linea espressa dal ministro dell’Economia Daniele Franco sul CorSera: “Dovremmo evitare una stretta prematura della politica di bilancio in Europa, che rischierebbe di inficiare l’impulso alla crescita indotto da Next Generation Eu”, poi nel “medio periodo” si potrà tornare a regole (in ogni caso da riscrivere) che prevedano l’abbassamento del rapporto debito/Pil.

I punti di disaccordo sono in buona sostanza due. Da un lato la tabella di marcia (vincoli subito o più in là?), dall’altro che tipo di Patto di Stabilità rimettere in campo. Se Berlino & C. credono che l’obiettivo si possa raggiungere coi vecchi vincoli, Draghi è di diverso avviso: una politica fiscale espansiva può generare crescita e aiutare a ridurre il peso del debito.

Dopo anni di sudditanza culturale al paradigma dell’austerità, d’altronde, la lezione del passato non ci lascia molta scelta: dal 1992 al 2019 l’Italia ha avuto un avanzo primario medio di quasi il 2% e non è mai scesa sotto il livello del 1991 (vedi i grafici in pagina), nell’Eurozona solo il Belgio ha stretto di più la cinghia. Un approccio che ha causato danni enormi. Spiega l’economista austriaco Philipp Heimberger: “Le regole fiscali Ue hanno acuito la recessione nella crisi dell’euro. Sono state una spada di Damocle sui Paesi come l’Italia, perché hanno spinto a un consolidamento fiscale nel momento sbagliato, danneggiando anche la sostenibilità del debito. Nei Paesi che hanno fatto più austerità il debito pubblico ha avuto la tendenza a crescere di più e c’è stato un effetto negativo sugli investimenti pubblici”.

Uno degli strumenti dell’austerità sono state le procedure per deficit eccessivo della Commissione: raccomandazioni ai Paesi per mettere in ordine i conti. Nel 2019 due economisti olandesi (De Jong e Gilbert) facevano notare su VoxEu che l’intensità di queste raccomandazioni ha raggiunto il picco durante la crisi dei debiti sovrani – fino a toccare l’1% del Pil totale dell’Eurozona nel 2012. Una strategia che ha acuito le recessioni dei Paesi più in difficoltà. Oggi il grande rischio delle vecchie norme è quello di una stretta fiscale prematura, che stroncherebbe le prospettive di ripresa.

Fra gli esperti, però, non c’è ancora un chiaro accordo sul come cambiare le regole. Lo European Fiscal Board (legato alla Commissione Ue) consiglia di introdurre una golden rule, per valutare in modo speciale le spese per investimenti. Hanno un approccio più drastico Blanchard, Leandro e Zettelmeyer, che a febbraio su Le Grand Continent proponevano di “scartare le regole fiscali in favore di standard fiscali – prescrizioni qualitative che lasciano spazio alla valutazione”. Idea che presenta alcune affinità coi suggerimenti del Consiglio francese d’analisi economica, per cui ci si deve sbarazzare delle regole numeriche sul debito (60%) e sul deficit (3%) e al loro posto utilizzare un target di medio termine per il debito, variabile da Paese a Paese, e una regola di spesa.

L’atteggiamento verso la politica di bilancio sembra essere cambiato. Sarebbe un controsenso, infatti, rendere più restrittive le politiche nazionali, mentre a livello europeo si approvano piani di spesa ambiziosi per la transizione digitale e la transizione verde, e mentre la Bce cambia strategia, diventando più accomodante verso l’inflazione.

Ma cosa si vuole ottenere con le nuove regole? Limitarsi a riverniciarle senza cambiarne lo spirito aggiungerebbe il danno alla beffa. Secondo Heimberger, si dovrebbe mirare a “riorientare la politica fiscale verso la piena occupazione. Ma politicamente non è possibile arrivarci in un passo solo. Le priorità devono essere due: rendere anti-cicliche le regole e permettere grandi investimenti pubblici”. I governi della periferia dell’Eurozona devono in questa fase “sfruttare il cambiamento nel dibattito per cambiare il consenso sulla politica fiscale e costruire alleanze politiche”. Una mano può arrivare dagli Stati Uniti: “Da Biden impariamo che un cambio di paradigma è possibile”, anche se “gli Usa sono in una situazione dato che hanno un governo centrale molto più forte”. Non bisogna però sottovalutare le pressioni di Washington. Il 12 luglio il segretario del Tesoro Janet Yellen ha sostenuto che all’Ue serve “una flessibilità sufficiente” in ambito fiscale. Un prezioso assist all’ex collega banchiere Mario Draghi.

Arriva il Pulitzer. “Forse ci vorranno 30 anni ma (come dice l’amico Franco) io lo vincerò”

E…300! Sono arrivata al trecentesimo pezzetto della mia piccola rubrica Cosa resterà. Chi l’ha detto che la matematica non possa dare emozioni. Io sono emozionata come il primo giorno e arrivare a 300, di questi tempi, è un fatto, magari non quotidiano, ma pur sempre un fatto.

Non avevo mai vissuto un’esperienza del genere, non sono solo emozionata, lasciatemelo dire, sono anche alquanto orgogliosa di me. Certo, non vincerò il premio Pulitzer per il giornalismo, però scrivere 300 pezzetti di argomenti vari, più o meno autobiografici, non è stato facilissimo. Ognuno di questi l’ho sentito come un traguardo, ma so perfettamente che ogni traguardo è un nuovo punto di partenza.

Fermi, si ricomincia, anzi non s’è mai smesso! E la settimana prossima sarà il pezzo 301. Ma perché faccio questo? Non è il mio mestiere. Semplice, lo faccio nella speranza che qualcuno mi legga. E qui nasce il problema: da tempo ho una vaga sensazione che sta diventando quasi una certezza. I miei lettori secondo me sono solo… uno! Puntualmente ogni settimana questo unico lettore, mi manda un messaggio per dirmi cosa pensa del mio pezzetto.

Si chiama Franco ed è di Bologna, non ci siamo mai visti, però io gli sono enormemente grata. Le sue osservazioni mi danno gioia e mi stimolano ad andare avanti. Stai tranquillo Franco, non intendo arrivare a 1000 o 1500, magari mi fermo a 350, pensi di farcela? Senza complimenti, se non ce la fai più o preferisci leggere qualcos’altro, scrivimelo sinceramente, io non mi offendo. Certo, se tu decidessi di non leggermi più io perderei il mio unico fan.

Senti Franco di Bologna, non è che per caso hai qualche parente che puoi convincere a leggermi? Me ne basterebbero anche solo due o tre. Così diventereste un gruppo di lettori, e a quel punto il premio Pulitzer non sarebbe più un sogno.

Ginevra Bompiani. L’attesa (e il sogno) di una vita avventurosa: le parole giuste contro il grande nulla

Con questo libro, noto, amato e ripubblicato (L’Attesa, Luca Sossella Editore) Ginevra Bompiani sapeva fin dall’inizio che il suo viaggio (che è anche sonno, sogno, memoria, illusione, allucinazione, avventura) non poteva finire al modo normale in cui si conclude un libro. L’attesa, infatti, è il luogo più grande (puoi dire immenso) e il frammento più piccolo del tempo-spazio che un essere umano attraversa.

L’attesa è solitudine profonda condivisa da chi (o cosa) sta per venire. Per natura chiede altra presenza, per natura la esclude. Ginevra Bompiani sapeva bene di aver iniziato un gioco perverso (senza pause, senza conforto, senza ritorno) e sapeva che l’attesa è una forma di maledizione; una condanna temperata dalla vastità del luogo dove sa infossarsi, lasciando passare l’enormità di un tempo anche minimo. Niente è minimo e niente è enorme, nell’attesa. Niente è in discussione ma non per crudeltà, per natura. La natura dell’attesa è mortale, perché spesso decide di non finire ma di lasciarsi finire.

Ginevra Bompiani ha un talismano. Non equivocate, non è uno strumento di misurazione o di orientamento nello spazio infinito dell’attesa. Il suo talismano è l’uso lievissimo, ininterrotto, di pagine e citazioni di personaggi e persone che hanno popolato la sua vita piuttosto insolita: una giovinezza colta mai finita (che esiste in ciò che sa e ricorda e che è in grado di offrire come strumento di verifica).

È una donna ricca, Ginevra Bompiani. Nel corso del suo lavoro ci offre parte del tesoro raccolto leggendo, scrivendo, commentando, raccogliendo, mettendo da parte come parole magiche splendide citazioni che ci faranno coraggio nei momenti difficili, quando le belle frasi non bastano più. Nel suo modo lieve e senza dramma Ginevra suggerisce qual sia differenza (sempre che ci sia) fra il viaggio e il sogno, se “colui che aspettavamo non è colui che arriva”. E come come si distinguono “l’atteso e l’attesa”, perché il tic-tac di un pendolo non esiste finché non lo ascolti, ma diventa perenne quando il suono del battito entra e colpisce. È vero che il sogno, la noia, il dolore sono il solo rimedio allo spazio (al tempo) incalcolabile dell’attesa?

Verso la fine il libro, che è una splendida avventura di lettura, si rannuvola: “L’attesa è diventata il vuoto assediato dal nulla. L’attesa coincide con la perdita dell’occasione. La cosa attesa è il nulla in agguato”.

 

L’Attesa
Ginevra Bompiani
Pagine: 109
Prezzo: 12
Editore: Luca Sossella

 

“Fauda” in Iran. Lotta ad Hamas anche a Teheran: ma solo in Tv

La caccia ai leader di Hamas arriverà a ora di cena nelle case degli iraniani. La fortunata serie d’azione di spionaggio televisiva israeliana Fauda è stata doppiata in persiano e sarà trasmessa anche in Iran. La serie sarà messo in onda da Manoto TV, in lingua persiana, che trasmette via satellite da Londra verso il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Europa. Tutte e tre le stagioni della serie sono state tradotte – in Europa fanno parte delle proposte di Netflix – doppiate in persiano e sono pronte per essere trasmesse.

Fauda si concentra su un commando sotto copertura dell’esercito israeliano i cui membri dell’antiterrorismo – chiamati in gergo ebraico “mistaravim” (coloro che sembrano arabi) – sono addestrati per farsi passare come arabi, si radicano nella comunità palestinese, raccogliendo informazioni e prevenendo attacchi terroristici. Entrambi i creatori della serie – Avi Issacharoff, un analista di affari arabi per diversi media israeliani e l’attore Lior Raz – hanno prestato servizio nell’unità dell’esercito raffigurata nella serie. “Siamo orgogliosi che Fauda sia trasmesso da una rete tv che per la prima volta permetterà al pubblico di lingua persiana di guardare la serie e vedere il conflitto israelo-palestinese da un’angolazione con cui certamente non hanno familiarità”, ha commentato Issacharoff. Manoto TV fa parte del gruppo Marjan Television e ha un pubblico di circa 25 milioni di persone. Netflix ha acquisito Fauda nel 2016, l’anno dopo la sua trasmissione in Israele sulla rete tv a pagamento Yes, dove ebbe un successo strepitoso.

Non solo nel pubblico israeliano ma anche in quello palestinese; a Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen non ha mai perduto una puntata. Fauda aveva telespettatori anche nella Striscia di Gaza, “mostra il vero volto dell’occupazione” sentenziò Hamas alla fine della prima serie. Da allora tramite il servizio di streaming è stato trasmesso in più di 190 paesi. Alla fine dello scorso anno è stato annunciato che i produttori stanno lavorando a una quarta stagione della serie.

 

Sean Penn fa lo sciopero della fiala, Eric Clapton suona il blues dei No-Vax

 

BOCCIATI

Di Cazzullo e dei No Global di destra. A 20 anni dalla tragedia del G8 a Genova, Aldo Cazzullo scrive sul Corriere che Donald Trump, la Brexit, il sovranismo becero e forse ogni orpello del demonio sono figli dei No Global e di quella sinistra troppo a sinistra. Il movimento osava dire (pensate un po’) che se le imprese fuggono dai Paesi ricchi verso i Paesi poveri, dove i lavoratori sono pagati un piatto di lenticchie e i sindacati non esistono, alla lunga sarebbero calati gli stipendi e aumentati i profitti in Occidente. “Un’idea”, verga l’editorialista, “diventata patrimonio della nuova destra populista”. Già, ma non solo: pure al Fondo Monetario Internazionale (il tempio del capitalismo) sospettano che “l’eresia” celi un fondo di verità. Ad esempio, nel rapporto del 2017 sulle prospettive economiche mondiali (“World economic Outlook”) gli economisti notavano come si fosse ridotta (tra il 1991 e il 2014) la quota dei salari sul totale dei redditi in 29 delle principali 50 economie del Pianeta. Forse oggi solo Cazzullo e certa sinistra pensano che la globalizzazione faccia bene ai lavoratori dei Paesi ricchi. Del resto Matteo Renzi, l’ex leader del più grande partito progressista italiano (vietate le risatine) l’aveva detto: “Sono geloso del costo del lavoro in Arabia Saudita”. Quasi un elogio dello schiavismo.

 

Eric Clapton, musica per Salvini. Eric Clapton dà un assist a Matteo Salvini e mette il bastone tra le ruote al Green pass di Mario Draghi: la chitarra, infatti, suonerà solo nei locali dove i no-vax potrebbero contagiare altri spettatori. Niente concerto, se l’ingresso è riservato ai possessori del “certificato sanitario”. “Non mi esibirò di fronte a un pubblico scelto facendo discriminazioni – ha detto il musicista – . A meno che non sia possibile a chiunque di assistere al concerto, mi riservo il diritto di cancellare lo show”. Rischiano di saltare dunque i concerti italiani di maggio 2022, ad Assago (Milano) e Bologna. Sempre che il Governo dei Migliori imponga il “passaporto” del vaccino alla riluttante Lega. Il chitarrista, del resto, aveva già incoraggiato il popolo alla rivolta insieme a Van Morrison, cantando l’inno blues contro il lockdown “Stand and deliver”: “Vuoi essere libero o schiavo? Vuoi restare in catene fino alla tomba? È una nazione sovrana o uno Stato di polizia?”. Però Eric Clapton non sembra un no-vax. S’è vaccinato a febbraio con Astrazeneca e poteva andare meglio: “La reazione è stata disastrosa: le mani e i piedi erano congelati, insensibili o doloranti, inutili per almeno due settimane. Temevo di non suonare più”. E ora, i fan del Maestro, offriranno il braccio alla fiala? Il politologo Ian Bremmer non ha dubbi: “Amo Clapton, mi spiace scoprire che è un tale idiota”.

 

PROMOSSI

Sean Penn vaccina tutti. Se Matteo Salvini e Eric Clapton bocciano il “green pass”, Sean Penn è in sciopero finché non saranno vaccinati tutti i lavoratori sul set di Gaslit, dal primo all’ultimo. Fino ad allora, riprese congelate per la serie tv ispirata al caso Watergate e all’ex presidente Richard Nixon. Peccato, una fiction di spessore, ma il vaccino viene prima. A Los Angeles infatti è tornato l’obbligo di mascherina per l’impennata dei contagi da variante Delta (e le scene di Gaslit si girano quasi tutte al chiuso negli studi di Burbank). “Molti set sono già stati bloccati – scrive Wired – come quelli di Bridgerton, American Horror Story, Westworld e Woke”. I produttori della Nbc hanno già vaccinato i lavoratori a contatto con gli attori, ma a Sean non basta: dose per tutti o sciopero. Il divo è pure disposto a pagare di tasca suo le fiale. Dilemma: Julia Roberts, l’altra star di Gaslit, sta con “Salvini&Clapton” o con Sean Penn? Di sicuro s’è vaccinata il 21 maggio senza pentimenti: “Mi sento grata per le misure sanitarie intraprese! Se non siete vaccinati e avete la fortuna di ricevere una dose, beh, approfittatene!”. E ora, i fan no-vax di “Pretty woman”, voteranno Lega?