“In fumo tanti processi: modifiche o potrei non votare il sì alla fiducia”

Chiede e propone modifiche, vere, perché se rimane così com’è la riforma Cartabia sarà una mannaia: “Migliaia di processi andranno in fumo”. Magistrato per una vita impegnato contro la mafia, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso si aggiunge ai tanti pm, giudici e avvocati preoccupati per i possibili danni della controriforma.

Senatore, cosa non funziona in questa riforma?

Penso che in molti si saranno chiesti se i dati drammatici sui tempi attuali di durata dei processi, da tempo noti, siano stati letti dai tecnici del ministero che hanno scritto l’emendamento o dai decisori politici, senza desumerne l’assoluta certezza che centinaia di migliaia di processi andranno in fumo.

Si spieghi meglio.

Come si sa, la riforma Cartabia introduce come una sorta di prescrizione processuale, l’improcedibilità dell’azione penale qualora i processi d’Appello e di Cassazione non si concludano rispettivamente nei termini di due e di un anno, con possibilità di proroga della metà per i reati di mafia, terrorismo, corruzione e con la già esistente imprescrittibilità per i reati puniti con l’ergastolo.

Tempi strettissimi…

Io dico che il legislatore non può non tenere conto della realtà esistente che, col suo intervento, va a modificare e dei prevedibili effetti che andrà a produrre. Nel dettaglio, la Cassazione è forse in grado di rispettare il termine di un anno. Ma 9 Corti di appello su 26 superano la media di durata di due anni dei processi, e gli uffici di Roma, Napoli, Reggio Calabria, Bari e Venezia, che rappresentano circa la metà del carico giudiziario, non concludono un processo in appello prima di mille giorni, cioè praticamente tre anni.

Si prepara una falcidie?

Se non si apporta alla riforma qualche ulteriore modifica, non v’é dubbio che i cittadini non potranno che prendere atto che la scelta politica sarà quella di far andare in prescrizione, sostanziale o processuale che sia, i numerosissimi procedimenti accumulatisi nelle corti di Appello meno virtuose.

La Ue ci chiede di ridurre del 25% i tempi del processo penale…

Quell’obiettivo si può ugualmente raggiungere prendendosi per un periodo limitato un margine in più: tre anni piuttosto che due per l’Appello e uno e mezzo per la Cassazione, con esclusione della improcedibilità per i reati di mafia, terrorismo e corruzione, e con una norma transitoria che ne preveda l’entrata in vigore dopo tre anni. Nel frattempo il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale”, opportunamente introdotto con l’articolo 15 bis, si impegnerà per l’attuazione delle misure organizzative messe in cantiere e per seguire le Corti d’appello più lente.

Altro punto controverso è da quando debba iniziare il calcolo dei tempi dei processi di secondo grado.

Non si può partire dalla data del deposito della sentenza di primo grado, ma occorre considerare i tempi tecnici di trasmissione del fascicolo dai tribunali alle corti di Appello – a Napoli passano anni – e da lì in Cassazione.

Le sue proposte ricalcano quelle di Conte e del M5S, ma Mario Draghi ha già fatto approvare in Cdm il voto di fiducia sul testo. Senza queste modifiche, lei non la voterebbe?

Se non cambiasse nulla farei fatica a partecipare al voto di fiducia.

Questa riforma ha il sapore di una restaurazione, di un favore a certe lobby o a certi mondi?

Direi che, improcedibilità a parte, i restanti emendamenti hanno recepito molte, purtroppo non tutte, delle innovative e pregevoli proposte della commissione Lattanzi, ma per potersi definire una riforma ci vorrebbe una coraggiosa revisione di tutto il sistema processuale. Più che di restaurazione parlerei di restauro conservativo.

Riforma Cartabia, il giorno della guerra in commissione

Sarà un giorno nervoso e importante, per certi aspetti decisivo. Perché oggi la commissione Giustizia torna a riunirsi, a discutere di quella riforma Cartabia che ha reso più incerto il cammino perfino per il governo di Mario Draghi, per l’esecutivo del presidente del Consiglio che di solito va dritto e con la rotta e l’andatura che vuole lui: e i partiti dietro, da bambini al massimo un po’ birichini. E sarà una giornata lunghissima, perché in commissione si annunciano botole e isterie assortite. Con Forza Italia che chiederà di allargare il perimetro della riforma ai reati contro la pubblica amministrazione, compreso l’abuso di ufficio. Gli altri partiti di centrodestra e i renziani di Iv sono pronti a sostenere la richiesta, evidente benzina sul fuoco. “Se passa siamo pronti a far saltare i lavori” già ringhiano fonti grilline. Ulteriore ostacolo sulla già dissestata strada per una mediazione tra Draghi e Cartabia con Giuseppe Conte e il M5S. Con il capo in pectore dei Cinque Stelle che continua a chiedere modifiche, concrete, tali da poter essere mostrate come un risultato al Movimento di cui deve assumere la guida. Partendo dall’esclusione delle nuove norme sull’improcedibilità – cioè qualcosa di peggio della vecchia prescrizione – di tutti i reati per mafia. Richiesta fatta arrivare al premier e alla ministra anche ieri, in una domenica di trattative incrociate, in cui sarebbe stato molto attivo anche Luigi Di Maio. Mentre Conte ha riunito i deputati grillini della commissione Giustizia per ragionare degli emendamenti e della strategia.

Per cambiare il testo prima dell’approdo in Aula, fissato per il 30 luglio, ci sono quattro giorni. E il primo obiettivo, raccontano dal Movimento, “è sottrarre alla riforma Cartabia tutti i reati per cui si applica il regime carcerario del 41 bis”, cioè i cosiddetti reati “ostativi”, crimini gravi per cui non sono previsti la sospensione della pena nè molti dei benefici carcerari (cioè per cui, in pratica, il carcere è obbligatorio). Quindi non solo reati di mafia e camorra, ma anche quelli di corruzione e concussione, associazione a delinquere, terrorismo e molti reati a sfondo sessuale. Altro punto controverso, da quando far decorrere i tempi del processo di secondo grado, ossia se dal deposito della richiesta di appello, come vorrebbe Cartabia, oppure dalla prima udienza, come chiede Conte: deciso, ripetono, a ottenere molto di ciò che chiede. In caso contrario, l’avvocato valuta seriamente di premere il bottone rosso, ossia di consultare gli iscritti del M5S sulla permanenza in questa maggioranza. Un’opzione che – a dispetto di zoppicanti smentite – è sul tavolo da giorni. D’altronde anche ieri da ambienti vicini all’ex premier ribadivano che la condizione per votare la fiducia al governo è “salvare” dalla riforma tutti i reati per mafia.

Ma la strada è strettissima, da qualsiasi lato la sia prenda. Così Lorenzo Borrè, avvocato di molti degli espulsi dal M5S, teorizza: “Se i 5Stelle non votano la fiducia alla riforma Cartabia si autoespellono dal Movimento o, in alternativa, si mettono fuori dal governo, lo prevedono le loro regole”. Mentre il nemico dei nemici, Matteo Renzi, morde facilmente: “Oggi Conte avrebbe detto che se non cambia la norma sulla giustizia lui se ne va. Il Pd deve scegliere se inseguire lui o scegliere Draghi”. Di sicuro tra domani e mercoledì Conte incontrerà tutti i parlamentari del Movimento, divisi per commissioni, in presenza. Un modo per tastare il polso ai gruppi in una fase delicatissima.

Ma prima sempre da lì bisognerà ripartire, cioè da quella commisisone Giustizia dove il centrodestra e i renziani sono pronti a sbarrare il passo al Movimento che ha presentato centinaia di emendamenti. Fiutano la possibilità di fare molto male all’ex premier ancora prima che diventi capo – il nuovo Statuto che lo prevede come “presidente” del M5S verrà votato il 2 e il 3 agosto – e devono comunque ricordare a Draghi che nel governo ci sono anche loro, eccome. Ci sarebbe anche il Pd, “da cui sulla battaglia per i reati di mafia ci aspetteremmo di più, un appoggio vero” sibila in serata un grillino di rango.

E magari è solo rabbia, per una partita dove nel migliore dei casi il M5S potrà dire di aver limitato i danni. Nel peggiore, chissà cosa ne sarà dei 5Stelle, e di Conte.

Ma mi faccia il piacere

Patologie penali. “Mi è venuta un’embolia: colpa dei pm” (Beppe Signori, ex calciatore, Libero, 19.7). A me invece un giorno, per colpa dei pm, venne un’unghia incarnita.

Elettrodomestici. “Il trombettiere Travaglio, senza senso del ridicolo, afferma che la Cartabia ‘non distingue un tribunale da un phon’” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 25.7). Chiedo venia: volevo dire tostapane.

Brrr cha paura/1. “Draghi striglia Conte: o fai come dico io o tutti a casa” (Riformista, 21.7). Tutti a casa, così prendiamo due piccioni con una fava.

Brrr che paura/2. “La guerriglia grillina colpisce pure Cingolani. E lui minaccia l’addio” (Giornale, 19.7). L’unico rischio che corriamo è che la minaccia non venga mantenuta.

Brrr che paura/3. “Se qualcuno vuole minare il lavoro di Draghi si prenderà le sue responsabilità” (Ettore Rosato, coordinatore Iv, 19.7). Ha parlato il noto tutore della stabilità dei governi.

Lo stalker. “Figliuolo aumenta il pressing sulle Regioni: ‘Voglio il numero dei professori No Vax’” (Stampa, 23.7). Li chiama lui uno per uno.

Dovere di cronaca. “Fino a ieri non sapevo niente della pallamano in spiaggia” (Adriano Sofri, Foglio, 23.7). E sono bei problemi.

A grande richiesta. “Con questo governo l’avvocatura è tornata in Parlamento” (on. avv. Francesco Paolo Sisto, FI, sottosegretario alla Giustizia e difensore di Berlusconi nel processo Escort, Dubbio, 21.7). Per vincere i processi che perderebbe in tribunale.

A sua saputa. “Dopo il G8 De Gennaro voleva dimettersi. Dissi no perché già aleggiava lo spettro di Bin Laden” (Claudio Scajola, Riformista, 23.7). Poi si scoprì che era Bin Lader.

Un pesce di nome Zanda. “Riformare le carceri? Prima svuotiamole” (Luigi Zanda, senatore Pd, Riformista, 22.7). I detenuti li mandiamo tutti a casa Zanda.

Forza bavaglio. “I magistrati in servizio che non parlano fanno bene. Fanno invece male, e molto male, i pm che parlano” (Francesco Merlo, Repubblica, 23.7). Peccato non averlo saputo prima: sennò, ai tempi di Berlusconi, Repubblica sarebbe uscita tutti i giorni con dieci pagine bianche.

Astenersi incensurati. “L’invasione delle toghe nella politica: un virus da estirpare” (Emma Bonino, senatrice Più Europa, Riformista, 23.7). Da vecchia alleata di Craxi, Berlusconi, Previti e Dell’Utri, preferisce l’invasione dei delinquenti.

Animal House. “Ovviamente Conte sa che la riforma Cartabia non mette a rischio il processo per la strage di 43 persone (del ponte Morandi, ndr). Perché lo dice allora? Per spaventare e gabbare… È il vero parlar male: dal turpiloquio chiaro di Grillo al turpiloquio oscuro di Conte” (Francesco Merlo, Repubblica, 21.7). Ovviamente la riforma Cartabia mette a rischio tutti i processi, anche per reati precedenti al 2020 grazie al favor rei, come ben sanno gli avvocati difensori del gruppo Autostrade che hanno già annunciato ricorsi per il favor rei. Dal turpiloquio chiaro di Grillo al turpiloquio somaro di Merlo.

Chi non muore si risiede. “Non partecipo a questo gioco al massacro e me ne vado da Più Europa a testa alta prima che mi facciate fuori voi. Non voglio più starci, ma immagino non sia un problema per nessuno… Tenetevi pure il mio seggio parlamentare, è a disposizione, non vi preoccupate” (Emma Bonino, 14.3). “Torno in Più Europa, c’è tanto lavoro da fare insieme” (Emma Bonino, 18.7). Delle due l’una: o nessuno s’era accorto che se ne fosse andata, o qualcuno l’aveva presa sul serio chiedendole indietro il seggio.

È venuto giù l’Armando. “No ai muri contro la riforma. Va messa alla prova prima di bocciarla” (Armando Spataro, ex pm, Corriere della sera, 21.7). Giusto: prima ammazziamo un processo d’appello su due, poi vediamo di nascosto l’effetto che fa.

Robin Hood alla rovescia. “Industria senza risorse. La colpa è del reddito e del welfare elettorale” (Marco Bentivogli, “sindacalista”, Giornale, 21.7). Fate la carità alla povera Confindustria.

Mancava solo lui. “Bertolaso firma i referendum sulla giustizia: ‘Riforma madre di tutte le battaglie’” (Verità, 23.7). Firma anche la massaggiatrice brasiliana?

Premio Sambuca. “Premio Spadolini a Maurizio Molinari” (Repubblica, 22.7). Povero Spadolini, non meritava.

I titoli della settimana/1. “Ora parla Palamara: ‘La mia verità’” (Dubbio, 21.7). Ora?

I titoli della settimana/2. “Il leghista spara. La sinistra ci marcia” (Libero, 22.7). Ah, ecco di chi è la colpa: della sinistra.

I titoli della settimana/3. “Mario è stufo di trattare coi partiti” (Libero, 23.7). Povera stella.

Il titolo della settimana/4. “Noi stiamo con la scienza, non con i partiti” (Pietro Senaldi, Libero, 24.7). Senaldi con la scienza: uahahahahahah.

I titoli della settimana/5. “Quel timor panico di Travaglio e soci di vedere Cartabia sul Colle” (Francesco Damato, Dubbio, 20.7). Ti dirò: più che timor panico, è proprio vomito.

Oro e argento, il Sol levante dà le prime soddisfazioni

Nel primo giorno di competizioni olimpiche, piovono le prime medaglie per l’Italia. Due: una d’oro, l’altra d’argento. Il campione olimpico si chiama Vito Dell’Aquila, 20 anni, taekwondista. L’argento, lo sciabolatore Luigi Samele, 24 anni. Bottino significativo. In discipline di nicchia, ma affascinanti e meravigliose. La scherma, il nostro santuario a cinque cerchi, metafora dei duelli che la vita ci propina. Il taekwondo nato in Corea due millenni fa, arte marziale sofisticata con venature filosofiche e impostazioni meditative: picchio, ergo sum. Nel medagliere provvisorio siamo dietro la Cina, assieme al Giappone. È l’illusione del primo giorno. Poi loro continueranno a cumulare vittorie e podi, noi dovremo dare il massimo per raggiungere l’obiettivo che il Coni si è prefissato: almeno 28 medaglie, una ogni 13,714 atleti. Abbiamo portato a Tokyo la spedizione più corposa di ogni tempo, 384 atleti, ci mancherebbe fallire il “target”. Certo, capita di perdere in maniera poco onorevole, come hanno fatto ieri Vincenzo Nibali e soci, fantasmi del ciclismo su strada: avevamo un grande passato, viviamo un modesto presente. Nel tennis Berrettini è assente (malanno), al primo turno sono passati due su quattro. Troveranno la strada sbarrata dai big della racchetta, Djokovic in testa. Nuoto ok. Canottaggio pure. Tiri: così così. Ma siamo i numeri uno del thrillersport, nuova interdisciplina. Vito Dell’Aquila ha imitato gli azzurri che hanno battuto l’Inghilterra. Nella sua finale (categoria 58 chili) si è ritrovato per avversario Mohamed Khalil Jendoubi, un tipo tosto e orgoglioso, a un passo dalla storia tunisina. Pensava d’essere un mini Ibrahimovic, fanatico di questa disciplina. A un minuto e 8 secondi dal termine, i due erano 10 pari. A 13 secondi (!) dal gong, Dell’Aquila rifila a Mohamed un “kick” al corpo da due punti, e lo sorpassa. Due secondi dopo, il bis e Dell’Aquila va sul 14 a 10. Il tunisino accorcia, 14-12, a sei secondi il colpo del trionfo: 16 a 12. Nel taekwondo nulla è scontato: è elevatissimo il rischio di essere sconfitti anche nell’ultimo secondo di gara. Dell’Aquila ha dedicato la vittoria al nonno scomparso di recente. Sia lui che Luigi Samele sono pugliesi. Il primo, di Mesagne. Il secondo, di Foggia. Dell’Aquila ha combattuto nella Sala A del Makuhari Messe di Chiba, Samele nella Sala B della stessa struttura. Destini misteriosamente intrecciati.

“Monicelli e le sue cattiverie. Gli amici de l’Ultimo bacio. E io tutto nudo in teatro…”

Il buongiorno ha un sottofondo ecumenico con modalità laiche: “Mi può chiedere tutto, non ho segreti”. Magari è allenato alla bugia. “In passato ho provato a darmi un tono, ma poi cado nella mia ingenuità degna di un bergamasco”. È posato. “Forse con venticinque anni di Roma e d’attore ho maturato degli anticorpi”.

Giorgio Pasotti è uno dei belli e bravi del cinema italiano, uno per anni inseguito da gossip e sogni: il suo sorriso, i suoi capelli biondi, la sua seduzione leggera, i suoi ruoli non bellicosi lo hanno portato a lavorare con i grandi maestri (Monicelli, Sorrentino, Luchetti e Muccino) e per produzioni così fortunate da toccare picchi in stile Nazionale di calcio (“La puntata di Distretto di polizia, quando sono morto, ha segnato 14 milioni di spettatori”). Ora è anche regista con Abbi fede e a Taormina è stato premiato in occasione del Nations Award.

Insomma, niente segreti.

(Sorride) In teoria ho imparato dai grandi che meno dici, meno ti fai capire, e meglio è; poi ammetto di non riuscire ad applicare sempre questa regola, sono ancora affetto da slanci emotivi, e ogni tanto perdo i freni inibitori.

Chi sono quei “grandi”?

Penso ai registi con i quali ho lavorato: tutti parlano poco e quei pochi concetti sono quasi enigmatici; (ride) c’era Monicelli che stava sempre in silenzio, ma quando apriva bocca sembravano delle piccole scosse di terremoto, anche perché l’ho conosciuto in un’età che gli consentiva di non mantenere filtri rispetto ai suoi pensieri.

Già da giovane non era molto contenuto…

E nonostante i novanta e passa anni trasmetteva intelligenza rara e grande lucidità: gli stavo accanto e godevo di ogni attimo, poi il massimo l’ho vissuto durante un pranzo con lui e Dino Risi.

Dei due chi era il più cinico e spietato?

Una gara impossibile: criticavano chiunque con un’ironia straordinaria, e alla base una cattiveria mai banale.

Monicelli la insultava sul set?

No, aveva un occhio di riguardo per me e per Michele Placido, mentre uccideva tutti gli altri, in particolare Alessandro Haber; con Alessandro si palesava un rapporto particolare, un po’ gli piaceva ricevere certi maltrattamenti, e all’inizio eravamo tutti imbarazzati, poi abbiamo capito la liturgia e ridevamo come pazzi.

Le critiche come le vive?

Prima le accusavo, oggi so conviverci e avere fiducia nel mio giudizio, soprattutto da quando sono regista.

Da regista è più come Muccino che abbraccia o Monicelli che manda a quel paese?

Nessuno dei due; conosco i lati deboli e quelli forti di chi lavora con me, so ogni dettaglio delle personalità, e ho maturato un metodo che può sconfinare verso una sorta di psicoanalisi o di trasposizione emotiva dei ruoli: a seconda dei momenti divento padre, zio, cugino, semplice confidente.

È mai stato una pecorella smarrita?

Lo potevo diventare. Sono cresciuto in una Bergamo molto diversa da quella di oggi: alla fine degli anni Settanta, specialmente la parte storica, era un quartieraccio dove girava eroina e numerosi ragazzi sono finiti male. Per fortuna lo sport mi ha dato la giusta via: senza le arti marziali non so cosa sarei diventato.

È andato in Cina per seguire la passione sportiva, altro che attore…

Sono l’esempio lampante delle parole di John Lennon: “La vita è quello che ti succede mentre stai realizzando i tuoi progetti”; tutto ciò che un tempo pensavo di fare, poi non si è realizzato.

Rivede i suoi primi film?

Muccino sostiene che parlavo come Arlecchino, e ha ragione: avevo una terribile calata bergamasca e se mi guardo non capisco come qualcuno possa aver creduto in me.

L’aspetto fisico l’ha aiutata?

Forse sì, eppure non mi sono mai visto come un sex symbol o un figo.

Qui scattano i dubbi di chi ascolta.

Sono un artigiano dello spettacolo, non un attore di talento; anzi il concetto di “talento” è ampiamente abusato, soprattutto nel nostro cinema…

Anche Monicelli si definiva artigiano.

È vero, però lui era un genio; comunque ho sempre pensato e lavorato da artigiano, come chi sta a bottega e ogni giorno osserva gli altri, cercando di imparare.

Un suo pregio.

Ho un buon fiuto quando leggo il copione, riesco capire se sto per girare un film valido o no, e mi è successo con L’ultimo bacio, con La grande bellezza e con Distretto di polizia; (ci pensa) dopo il film di Muccino noi protagonisti ci siamo trovati sommersi da proposte per pellicole simili, sempre crisi famigliari intorno a un gruppo di amici; io invece ho scelto di cambiare e buttarmi sulle serie tv.

Allora considerate di serie B.

Infatti molti colleghi mi sconsigliarono, forse pure lo stesso Gabriele.

Oggi tutti lanciati nella serialità.

E ce ne fossero di lavori come Distretto; quando il mio personaggio è morto, e per scelta mia, la puntata venne vista da 14 milioni di spettatori.

I fan in lacrime.

Lì ho capito il potere della televisione: al supermercato incontravo persone che mi toccavano per controllare se stavo bene, altri si sono piazzati fuori da Cinecittà per uno sciopero della fame: pretendevano il ritorno del mio personaggio.

Per Muccino quel gruppo di attori ha rischiato di perdersi per il troppo clamore.

Il pericolo c’è, sopratutto se quel tipo di successo arriva quando sei giovane, e noi avevano meno di trent’anni; e poi il mondo dello spettacolo, se sei alle stelle, non vede l’ora di assestarti un calcio nel culo e rimandarti da dove vieni.

Nessuna solidarietà.

Macché! E invece quel gruppo de L’Ultimo bacio ha mantenuto la prerogativa della professionalità, non ci siamo mai fermati sui traguardi conquistati. E siamo sempre amici.

Allora chi era il più bravo?

(Silenzio prolungato) Durante le riprese di Ecco fatto guardavo Claudio Santamaria, amavo il suo esserci e non esserci, poi ho scoperto Accorsi e Favino; (ci pensa) sono le scelte a determinare un attore, al di là delle capacità interpretative, e un giorno me lo ha spiegato Abatantuono: “La nostra fortuna è basata al 70 per cento dai film, il 30 dal talento”.

Un copione che ha sbagliato a non prendere.

Ero a un passo dal girare Radiofreccia, poi all’ultimo provino ci andai controvoglia perché avevo accettato e già firmato un contratto con Cecchi Gori.

Si è mai sentito onnipotente?

Mai, e torno a ringraziare lo sport: la mia disciplina era ed è povera, dovevamo pagarci le trasferte, quando vincevi ti davano una medaglia e un panino con la mortadella; quando sono arrivato nel cinema ho sempre pensato a quella realtà.

È fragile?

Meno di altri; (ride) ora sembro fissato, ma con le arti marziali mi sono piegato, caduto a terra e sempre rialzato. È una scuola di vita.

I ragazzi del suo quartiere la provocavano per verificare le sue capacità?

Non molto: Bergamo è piccola, ci conosciamo, e già sapevano che non era il caso.

Un collega dal quale ha imparato…

(Silenzio) Tony Servillo o Giorgio Tirabassi; Giorgio è stato utilizzato poco dal cinema, ma è strepitoso, sia come si prepara alla parte sia per la leggerezza che porta con sé.

Per recitare quanto conta piacere anche fuori dal set?

Non è proprio così: spesso le persone più modeste e disponibili passano per essere un po’ coglione, come se non fossero virtuose; mentre attori e attrici con atteggiamenti da divi, magari non sono in grado di fare due più due. Tutto questo alla lunga non paga, e come dice Castellitto: “La carriera di un attore va valutata nell’arco di venti o trent’anni, non due o tre”.

La sintesi.

Che i più grandi hanno atteggiamenti modesti, magari sono affetti da psicopatie, ma senza prosopopea.

La psicopatia più ricorrente?

C’è un attore che non ti tocca mai, non gli puoi dare la mano, altrimenti corre al bagno per pulirsi; altri sono schiavi di tic imbarazzanti o versi strani con la bocca, talmente strani che uno si sente preso in giro.

Le scene di nudo la imbarazzano?

No; (silenzio) parla di nudo integrale?

Sì.

Quelle eccome! Una volta mi è capitato a teatro, il regista era Robert Lepage, un mezzo genio, me ne parlavano meglio di Peter Brook, e ha preteso che scendessi da un muro senza nulla addosso; (sorride) esordii al teatro Giovanni da Udine, era enorme, e quando dalle quinte mi accorsi che era pieno, diventai rosso e pensai: “Ora tutti vedranno il mio pisello”. Ancora oggi non ci posso pensare.

Per una serata…

Una? Tutta la tournée. Quando finiva lo spettacolo e le persone arrivavano nei camerini, cercavo di uscire per ultimo: mi vergognavo.

E le scene di sesso sul set?

Agli inizi le trovavo imbarazzanti ora no, e forse mi impegno poco; Monicelli credeva di non essere in grado di raccontarle e c’è un fondo di verità: o uno le affronta in maniera autoriale, altrimenti sono tutte uguali.

La scena di sesso l’avrebbe girata più con la Fenech o la Bouchet?

Non mi può porre una questione così complicata: ci sono cresciuto, per anni sono state le mie amanti o fidanzate.

E per anni è stato protagonista del gossip.

Mi ha rotto tanto e soprattutto hanno scocciato le persone che avevo accanto: quando ero al centro dell’attenzione arrivavano a studiare le targhe delle auto dei miei amici, oppure conoscevano le scuole dove andavano i loro figli e solo per cercare delle mie tracce.

Molti suoi colleghi ci hanno costruito delle fortune.

Alla fine sono carriere che non valgono nulla, preferisco gli attori riservati; (cambia tono) se gli attori li conosci personalmente, ti deludono quasi sempre.

Vita reale o set?

Vita reale, sempre.

Spinelli?

A 16 anni, a Bergamo, era quasi inevitabile.

Chi è lei?

Una persona che ha vissuto bene la sua vita, e se la sta godendo appieno.

 

Processi sommari e pene esemplari

Anyelo Troya è il fotografo e regista cubano famoso per il video del singolo Patria y vida, degli artisti Yotuel, Descemer Bueno e il duo reggaeton Gente de Zona, che per il suo sovvertimento dello slogan “Patria o muerte” di Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara stampato sui pesos, è diventato la colonna sonora delle proteste dell’11 luglio sull’isola.

Portato via quello stesso giorno e detenuto per aver violato l’ordine pubblico, Anyelo, 25 anni, è stato condannato il 19 per direttissima, senza poter fare richiesta di un avvocato, a un anno di carcere. Sua madre, Raisa Gonzalez Cantillo, che ha denunciato l’accaduto su Facebook non appena il governo di Miguel Diaz-Canel (in foto) ha riattivato Internet, “da quel giorno non dorme più”. Come lei, sono centinaia le famiglie che dall’indomani della repressione contro le manifestazioni anti-governative non hanno notizie di familiari e amici detenuti.

Per Anyelo, diventato simbolo dei desaparecidos, a molti dei quali è stato riservato un processo sommario come il suo davanti al Tribunale “Diez de Octubre”, si è mobilitata anche la direttrice di Amnesty International per l’America, Erika Guevara-Rosas. “Sono state violate tutte le garanzie del giusto processo. Esigiamo che venga liberato!” ha twittato. Processi sommari e pene esemplari a parte – quelle per violazione dell’ordine pubblico a Cuba vanno da uno a tre anni di prigione – il tempo necessario a far scemare il malcontento per crisi e pandemia e rimandare il confronto politico –, a preoccupare i cittadini cubani è stata anche la reazione degli Stati Uniti. “Il fattore Usa”, come viene definito da analisti e oppositori al regime, infatti, era ritenuto determinante per il prosieguo delle proteste. Ci avevano creduto anche i più di 400 artisti, politici, scienziati e capi di Stato, tra cui Lula Da Silva, Jane Fonda o Susan Sarandom, firmatari sul New York Times dell’appello per spingere Joe Biden a eliminare le 240 sanzioni di Donald Trump contro Cuba. Speranza disattesa venerdì, quando l’amministrazione Usa ha annunciato al contrario nuove sanzioni contro il ministro della Difesa, Álvaro López Miera e la Brigata Speciale nazionale —un corpo d’élite del ministero dell’Interno noto come boinas negras. Racconta il giornalista del Paìs a L’Avana, Mauricio Vicent, che, appresa la notizia, uno dei genitori dei detenuti riuniti a parlare delle sorti dei propri figli in carcere, ha disperso il gruppo con un laconico: “Chiudi tutto e andiamo”.

Di lì a poco, il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodríguez convocava una conferenza stampa per accusare gli Usa di intromissioni servendosi della nota retorica: “Sono gli ultimi a poter parlare di repressione”.

I no vax orfani di politici frenano il piano Merkel

A inizio giugno in Germania venivano iniettate oltre 1,4 milioni di dosi al giorno. Venerdì scorso sono state a malapena 500 mila. Una brusca frenata che è solo in parte ascrivibile alle vacanze.

Un tedesco su due ha completato il ciclo vaccinale e circa il 60% ha ricevuto una dose. Ma da luglio il numero di persone che non si sono presentate per la vaccinazione è cresciuto, molto.

Mario Czaja, presidente della Croce Rossa di Berlino, spiega: “Tra il cinque e il dieci percento dei pazienti salta l’appuntamento presso i centri vaccinali della città, a inizio anno erano lo 0,5%”. Nella maggioranza dei casi a non presentarsi è chi dovrebbe ricevere la seconda dose. In gran parte sono uomini, giovani, convinti che una sola iniezione sia sufficiente. In alcune aree del Paese si arriva a punte del 20% di appuntamenti saltati. “Con 15 mila dosi giornaliere da somministrare – aggiunge Cazja – l’effetto delle disdette ha un impatto devastante sul piano vaccinale a Berlino”. Il presidente della Croce Rossa ha proposto di multare con 25-30 euro chi non si presenta.

Da venerdì, per cercare di far risalire il numero delle inoculazioni, sono stati allestiti tre centri vaccinali a cui accedere senza prenotazione. E possono farlo anche i tanti residenti stranieri della capitale, circa il 20% della popolazione cittadina.

Intanto i contagi sono in rapido aumento in tutta la Germania. Ieri 12 ogni 100 mila abitanti. È il doppio rispetto alla settimana scorsa. Numeri comunque molto più bassi rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa. Il piano di Angela Merkel era vaccinare almeno quattro tedeschi su cinque entro l’autunno ed evitare così una quarta ondata e nuove chiusure. Ma nei calcoli della cancelliera sembra non fossero considerati i no vax. Da inizio pandemia ci sono state piccole e grandi manifestazioni contro le misure adottate dal governo e negli ultimi mesi si sono trasformate in proteste contro la vaccinazione di massa, ieri l’ultima a Berlino. Poche persone, senza distanziamento né mascherine che reggevano cartelli e bandiere piene di riferimenti all’area della destra radicale. Domenica prossima è in programma un’altra protesta e questa volta sarà una convocazione nazionale. Il 29 agosto dello scorso anno, una manifestazione simile si concluse con il tentato assalto al Bundestag e diversi feriti. Ci furono 300 arresti. Molti erano estremisti di destra con una preparazione militare.

Nello spettro della politica tedesca, ai no vax manca un referente. Governo e opposizione sono compatti sulla vaccinazione. Siamo in piena campagna elettorale, il 26 settembre si vota per eleggere il successore ai 16 anni di guida Merkel. Unica sponda per gli Impfgegner (contrari al vaccino) è Afd, il partito dell’estrema destra che, per esempio, in Baviera parla di apartheid della vaccinazione.

Secondo lo storico della medicina Philipp Osten, intervistato dal quotidiano Märkische Allgemeine “il 5% della popolazione ha una dura posizione contro la vaccinazione”. I sondaggi condotti dalla Zweites Deutsches Fernsehen, la televisione pubblica, rivelano un problema più ampio: il 10% dei tedeschi non vuole fare nemmeno una dose e un altro 20% non si fida dei vaccini in commercio. Un tedesco non vaccinato, se rinuncia a viaggiare, vive come un cittadino che ha già ricevuto due dosi. Il governo ha allestito migliaia di centri diagnostici. Ce ne sono su ogni strada, davanti a cinema e centri commerciali. Ogni cittadino ha diritto a un test antigenico gratuito al giorno. Riceve il risultato sull’app in dieci minuti. Per chi ne è sprovvisto ci sono alberghi e ristoranti che lo fanno all’ingresso, al costo di uno o due euro.

Usa: Biden, indeciso e braccato

“Batte in testa” l’Amministrazione Biden, dopo sei mesi di Casa Bianca: “L’Ovest è in fiamme, i casi di Covid sono in aumento su scala nazionale, specie fra quanti non sono vaccinati, con picchi letali in Florida e nel Missouri” e la presa di Donald Trump su elettori e congressman repubblicani non accenna a stemperarsi: lo osserva sul New York Times Maggie Astor, scrivendo che “le sirene d’allarme suonano troppo forte per essere ignorate”. Nella sua analisi, la Astor mette insieme fenomeni contingenti e stagionali – gli incendi estivi, che devastano in particolare la California –, il riacutizzarsi della pandemia – che può frenare la ripresa dell’economia– e situazioni politiche strutturali, in vista di una stagione in cui la Corte Suprema a maggioranza conservatrice potrebbe essere chiamata a pronunciarsi su diritto di voto e aborto.

Diversi Stati a guida repubblicana tendono a rendere più difficile l’accesso alle urne delle minoranze nera e ispanica. Il diritto all’aborto, già fortemente limitato in molti Stati – Kentucky, Alabama e altri – rischia, invece, di perdere la sua fragile base giuridica – una sentenza del 1973 –, se il ricorso alla Corte Suprema del Mississippi che si trascina dietro altri 24 Stati dovesse avere successo – lo spauracchio lo agita The Hill, la rivista degli insider di Washington Dc –.

L’impressione è che Biden, nonostante i successi dei primi cento giorni – la campagna vaccinale riuscita al di là delle previsioni – e la raffica di decreti per smantellare i provvedimenti più discutibili del suo predecessore, in materia di ambiente, migranti e diritti civili, non stia riuscendo del tutto a smontare “l’eredità trumpiana”: non riesce a rendere né l’America né il Congresso meno polarizzati e fatica a soddisfare le sue “constituencies” più esigenti, che sono le minoranze nera e ispanica e la sinistra – più socialista che liberal– del suo partito.

C’è di mezzo anche il suo tradizionale essere “sor tentenna”: una reminiscenza di quello “Sleepy Joe” che l’elezione pareva avere trasformato in un “Tiger Joe”. Il riflesso decisionista c’è ancora, ma lo si vede soprattutto in politica estera, nei toni fermi verso Cina e Russia e nella determinazione con cui mantiene la barra del ritiro dall’Afghanistan nonostante la prospettiva di un ritorno al potere dei talebani. Mentre in Congresso non c’è un consenso per mettere in piedi una commissione d’inchiesta credibile su quanto accadde il 6 gennaio, quando migliaia di facinorosi sostenitori del presidente Trump presero d’assalto il Campidoglio per costringere Camera e Senato a cambiare l’esito delle elezioni, il Washington Post pubblica un sondaggio inquietante: aumenta il numero di quanti credono che le presidenziali siano state davvero truccate e che Trump le abbia vinte e pensano che le violenze del 6 gennaio siano state sobillate da provocatori “pro Biden”, agenti dell’Fbi e di altre agenzie federali ostili a Trump. Lisa Lerer, sul New York Times, scrive: “Quel che accadde lo abbiamo visto tutti, ma pare che non tutti abbiamo visto la stessa scena”, citando improbabili testimonianze di protagonisti di quel giorno che paiono uscire da una realtà parallela.

Gli “ultrà trumpiani” sono minoranza nel Paese, ma sono grossa parte dell’elettorato repubblicano. E il magnate ex presidente è ancora in grado di esercitare un controllo sui gruppi parlamentari, specie alla Camera: tutti i deputati devono affrontare l’anno prossimo, nelle elezioni di midterm, il rinnovo del mandato. Più che il confronto coi democratici, i repubblicani temono le primarie del loro partito: i critici di Trump rischiano di uscirne battuti da sfidanti allineati all’ex presidente.

Il quadro non è però così fosco come appare. In un’analisi sul New York Times, David Leonhardt osserva che la Corte Suprema, nonostante le nomine di Trump ne abbiano rafforzato il profilo “di destra” – sei giudici conservatori contro tre progressisti –, ha fin qui mostrato un’indipendenza di giudizio notevole, specie nella vicenda elettorale: non ha mai avallato i proclami di Trump su frodi massicce.

Anche sui temi dell’Obamacare – l’assistenza sanitaria universale –, dei migranti, dei diritti civili, le decisioni della Corte hanno spesso deluso i conservatori e rinfrancato i liberal: “Fin qui, non è andata così male come si temeva”, rileva David Cole, dell’American Civil Liberties Union. Leonhardt che attribuisce ciò all’impegno del presidente della Corte John Roberts per rafforzarne l’immagine “non partisan”. Ma si avvicinano giudizi sul diritto di voto e sull’aborto che possono riaccendere l’animo conservatore dei giudici scelti da Trump, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e soprattutto Amy Coney Barrett.

Gay Pride, la folla di Budapest contro le scelte di Orbán

Migliaia di persone in piazza Madach contro le politiche anti-gay del governo di Viktor Orbán. La marcia per il Gay Pride di Budapest, partita con ombrelli arcobaleno e cuori di cartone, ha percorso tutto il pomeriggio le strade della capitale, sulle note di “Don’t stop me now”, dei Queen. Il governo di Viktor Orbán ha approvato una legge che vieta la rappresentazione di temi Lgbt+ ai bambini, con gravi implicazioni per istruzione, arte e intrattenimento. Non solo, lo scorso dicembre è stata emendata in Costituzione la definizione di famiglia, in modo da impedire alle coppie dello stesso sesso di adottare. Immediata la risposta della Commissione Ue, che ha avviato un’azione legale contro il governo Orbán, il quale ha annunciato un referendum per chiedere agli ungheresi se intendono “proteggere” i loro figli. L’evento, che chiude il mese del Gay Pride in Ungheria, vuole essere “celebrazione e protesta” contro la stretta omofoba del governo, fanno sapere gli organizzatori.

Gkn, in strada i licenziati di Draghi

Contro i 500 licenziamenti alla Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) scende in piazza la rabbia operaia, mentre i sindacati mandano un ultimatum al governo Draghi: occorre fare subito argine sulla politica industriale se si vuole difendere la manifattura italiana. Ieri mattina erano in 5 mila a sfilare nella zona industriale di Campi Bisenzio in solidarietà con i 422 addetti dello stabilimento e 80 delle ditte in appalto licenziati con una mail dalla Gkn. Oltre ai lavoratori dell’azienda automotive del fondo inglese Melrose, alle loro famiglie e ad altri cittadini, in strada sono scese delegazioni di operai da Bologna e Milano, della Whirlpool di Napoli, Sammontana di Empoli (Firenze), Fca di Melfi e Pomigliano d’Arco. Tra i cori “insorgiamo” e “nessuno ferma la rabbia operaia”. Tra gli altri c’erano il sindaco di Campi Bisenzio, Emiliano Fossi, il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, le assessore regionali al Lavoro Alessandra Nardini e all’Ambiente Monia Monni, Francesca Re David, segretario generale Fiom, e il leader delle “sardine” Mattia Santori.

Per Re David “Gkn è diventata una vertenza simbolo. Il governo deve impedire che le politiche industriali le facciano le multinazionali perché l’industria dell’automotive produce il 27% della nostra bilancia commerciale. Perderla e non difenderla significa rinunciare a essere il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Sulla trattativa al Mise non c’è nessuna novità; l’atteggiamento di Gkn non è cambiato. Questo è uno schiaffo al governo che deve reagire subito”.

“Oggi è scesa idealmente in piazza tutta la Toscana, tutta Italia è con loro. La proprietà Melrose deve saperlo: hanno offeso i lavoratori, tutta la Toscana e tutti coloro che credono che i diritti dei lavoratori sono fondamentali per una vita serena della comunità”, ha dichiarato Giani. “La Toscana si sta attivando per costringere la proprietà a sedersi a un tavolo. Un atteggiamento del genere, offensivo della dignità di queste persone, non possiamo ammetterlo e faremo tutto quello che è possibile per scongiurare questa situazione drammatica”, ha concluso Giani.

Cesare Damiano, già ministro del Lavoro e consigliere Inail, ha lanciato “un appello al presidente Draghi: il Pnrr non sia il piano di ripresa delle sole multinazionali; non si limiti a stimolare una crescita quantitativa, pur importante, ma dimostri di essere, non solo a parole, un percorso di transizione caratterizzato dalla coesione sociale, dalla difesa dei più deboli e dalla lotta alle diseguaglianze”.

“Bisogna che il governo dia seguito agli impegni presi: quindi vogliamo sia riconvocato presto il tavolo del Mise e sia chiesto alla proprietà di presentarsi per iniziare una trattativa”, ha detto il sindaco di Campi Bisenzio Fossi.

Contro la raffica di licenziamenti in corso, avviata da alcune aziende e multinazionali a poche settimane dallo sblocco anti-Covid deciso dal governo, anche la prossima sarà una settimana calda: Fim, Fiom e Uilm proseguiranno gli scioperi di due ore indetti nei giorni scorsi a scacchiera in molte industrie italiane. A catalizzare l’attenzione dei sindacati non ci sono solo le vertenze Whirlpool di Napoli, con 320 esuberi, e quella di Gkn. Ci sono i 152 lavoratori licenziati da Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto (Monza) e la convocazione, promessa dal governo entro fine luglio, per la presentazione del piano industriale dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia.