Non c’è fretta: la nuova Cig slitta a dopo la pausa estiva

Afuria di ripetere da due mesi che “la prossima settimana sarà quella decisiva per la riforma degli ammortizzatori sociali”, siamo arrivati a fine luglio senza che le parti al tavolo, sindacati in primis, abbiano ricevuto alcuna bozza di testo. E soprattutto con il delinearsi di uno scenario ben più realistico: tutto rimandato all’autunno, con la legge di bilancio.

Nel fissare il termine a prima della pausa estiva, il ministro del Lavoro Andrea Orlando era stato particolarmente ottimista e non aveva fatto i conti col nodo più spinoso, quello delle risorse. Quanto costa garantire a tutti la cassa integrazione e rendere più generosi e inclusivi i sussidi di disoccupazione? E soprattutto, in un’ottica assicurativa, chi deve pagare queste nuove tutele? Se si ipotizza di porli a carico della fiscalità generale, rischia di essere troppo onerosa per lo Stato; se, più opportunamente, si chiede anche alle piccole imprese di contribuire, visto che sarebbero loro a beneficiarne, queste si oppongono. Ecco quindi che il dossier si è impantanato proprio nel terreno più prevedibile.

Così, dopo quello sul fisco, rischia seriamente di essere rinviato anche l’intervento sugli ammortizzatori sociali. Entrambe riforme che dovrebbero rivestire un ruolo fondamentale nell’accompagnare il Pnrr: una importante per alleggerire le tasse sui ceti medi, l’altra per proteggere i lavoratori dalle future crisi dopo che il Covid ha mostrato la debolezza del sistema messo in piedi solo sei anni fa con il Jobs Act.

Prima della pandemia, a fruire della cassa ordinaria erano solo l’industria e l’edilizia. La crisi scatenata dal virus, però, ha colpito soprattutto i servizi, il commercio e il turismo, settori sprovvisti di paracadute specialmente nelle piccole aziende. Questo ha reso necessaria una pesante iniezione di cassa in deroga, che ora si vuole abolire e sostituire con un ammortizzatore strutturale. Per questo nella seconda metà del 2020, quando c’era ancora tutto il tempo, l’ex ministra Nunzia Catalfo aveva nominato una commissione per proporre la riforma. A gennaio il governo Conte era pronto a incontrare i sindacati per presentare i risultati, ma la caduta dell’esecutivo e l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi hanno bloccato tutto. Questo ha inevitabilmente rallentato la tabella di marcia e, soprattutto, ha realizzato quello che tutti volevano evitare: siamo arrivati allo sblocco dei licenziamenti senza i nuovi ammortizzatori sociali rafforzati. Ancor peggio sarebbe fallire l’appuntamento del 31 ottobre, quando i tagli di personale saranno permessi anche nei servizi e nelle imprese piccole, circostanza che però ora appare più che verosimile.

I problemi sarebbero due: il primo è che resterebbero necessari strumenti per tamponare le crisi, come la cassa in deroga; il secondo è che i licenziati, specialmente quelli con poca anzianità e bassi salari, avrebbero sussidi di disoccupazione deboli, visto che oggi la Naspi prevede il taglio dell’assegno – il cosiddetto decalage – già a partire dal quarto mese, mentre l’ipotesi contenuta nella riforma è di farlo partire dal sesto.

Sulla cassa integrazione, l’idea è concedere 13 settimane alle imprese sotto i cinque dipendenti e 26 sotto i 15 dipendenti. Tra l’integrazione salariale, i sussidi per chi perde il lavoro e le nuove tutele per gli autonomi e collaboratori, il conto potrebbe lievitare fino a una decina di miliardi. Tuttavia, sul tavolo ora c’è solo il miliardo e mezzo per il ritiro del cashback.

Come detto, la partita delicata è nella trattativa con il mondo delle imprese, perché queste non vogliono subire aumenti del costo del lavoro per pagare i nuovi ammortizzatori. Per distendere il rapporto con le parti sociali, il ministro Orlando aveva messo in standby un tema mal digerito come il salario minimo. Poi, a fine giugno, si è scelta la mediazione anche per lo sblocco dei licenziamenti che dal 1° luglio interessa industria e costruzioni.

Il compromesso, accettato dai sindacati, è stato l’avviso comune con cui la Confindustria si è impegnata a “raccomandare” l’uso delle 13 settimane aggiuntive di cassa integrazione per evitare o almeno posticipare le ristrutturazioni. Finora abbiamo avuto diversi casi di imprese che l’hanno ignorato, e solo con le vertenze che hanno attirato l’attenzione mediatica contiamo 1.051 licenziamenti.

Stellantis, nuovo debito da 12 mld: si slega le mani dagli aiuti italiani

Può sembrare un mero fatto tecnico, ma non lo è: l’annuncio di ieri di Stellantis è il primo passo per chiudere la linea di credito da 6,3 miliardi aperta da Fca presso Intesa Sanpaolo con la garanzia della pubblica Sace. Com’è noto, quel credito garantito fu concesso in cambio di alcuni impegni della società dell’auto in merito a investimenti e occupazione nel nostro Paese almeno fino al 2023. Ebbene, ieri Stellantis – il gruppo nato dalla fusione/vendita della ex Fiat coi francesi di Psa – ha annunciato di aver finanziato con un gruppo di 29 banche una nuova linea di credito revolving sindacata da 12 miliardi di euro. Questo nuovo prestito, spiega la nota dell’azienda, sostituisce quelle esistenti di Psa (3 miliardi) e di Fca (6,25 miliardi) “fornendo così un aumento della liquidità complessiva del gruppo e un’estensione della durata della linea di credito”. Insomma, il colosso dell’automotive si slega le mani per il prossimo piano industriale dagli impegni contrattati insieme alla richiesta della garanzia pubblica sul suo debito che, nei tre anni di previsione, avrebbe fruttato un risparmio sugli interessi di mezzo miliardo per Elkann e soci.

Poche settimane fa il governo italiano, anche ricordando all’Ad Carlos Tavares il prestito garantito da Sace, ha strappato a Stellantis l’impegno all’apertura di una gigafactory per le batterie delle auto elettriche negli impianti di Termoli, in Molise. Una buona notizia, ma per il futuro Draghi & C. avranno meno armi per fare pressioni sull’azienda: è di ieri, ad esempio, la notizia che c’è l’accordo coi sindacati per 800 esodi incentivati nella zona del torinese, personale che difficilmente sarà rimpiazzato a breve visto che da anni gli impianti ex Fiat in Italia vivono di ammortizzatori sociali e tra i progetti ventilati in questi mesi dall’azienda c’è quello di ridurre la capacità produttiva totale nel nostro Paese (1,5 milioni di veicoli l’anno, oggi però sfruttata per poco più della metà).

Recovery, il ricorso al Tar non potrà bloccare le opere

In caso di ricorso al Tar, le opere del Pnrr proseguiranno il loro iter e non subiranno interruzioni. È quanto prevede il decreto Recovery approvato alla Camera. Per gli investimenti previsti dal Recovery, la norma stabilisce che in caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento, si applichino le disposizioni del codice del processo amministrativo. “È la garanzia – sottolinea il ministro della P.A Renato Brunetta – che l’Italia procederà in velocità, senza pregiudicare le legittime tutele per le imprese”. Altra novità riguarda il Superbonus: arriva il modulo unico valido in tutta Italia per la Cila, ossia la comunicazione di inizio lavori. È quanto prevede il decreto Semplificazioni per semplificare le procedure della misura che incentiva la riqualificazione del patrimonio edilizio e immobiliare del Paese, recentemente prorogato dal governo. Per le opere di edilizia libera nella Cila è richiesta la sola descrizione dell’intervento, mentre per le variazioni in corso d’opera basterà comunicarle a fine lavori come integrazione della stessa Cila.

Il potere dell’immaginario e dei suoi mutevoli riflessi

 

Ho smesso di fumare. È stata dura. Soprattutto per i capezzoli della mia cagnolina. (Gregg Rogell)

 

LE STRUTTURE ANTROPOLOGICHE DELL’IMMAGINARIO E LA PRASSI DIVERTENTE

Certe gag, a parità di tecnica e di condizioni comunicative, hanno più efficacia di altre. Perché? La spiegazione è questa: le gag attingono sostanza dall’immaginario, un immenso repertorio, personale e collettivo, di simboli e archetipi. Catalogarli serve a poco, senza un atlante che permetta l’orientamento ragionato fra le loro relazioni. L’antropologia dell’immaginario di Gilbert Durand (1963) è l’atlante necessario e sufficiente: classifica le immagini seguendone la produzione lungo il tragitto antropologico che va dalla neurobiologia (i riflessi primari: posturali, digestivi, ritmici) alla socio-cultura. Vediamo come.

 

DUE REGIMI E TRE ARCHETIPI

In base all’analogia strutturale delle immagini (la loro origine da uno dei tre riflessi primari), Durand divide l’immaginario in due regimi: diurno e notturno. Del regime diurno fanno parte le immagini dell’archetipo distinguere (che originano dal riflesso posturale); del regime notturno, quelle dell’archetipo confondere (dal riflesso digestivo) e dell’archetipo unire (dal riflesso ritmico). Le strutture che derivano dal riflesso posturale sono antitetiche (eroiche), quelle del riflesso digestivo sono eufemistiche e antifrastiche (mistiche), e quelle del riflesso ritmico sono sintetiche (drammatiche). Così, Durand crea un atlante isotopico universale delle immagini. Questo ci interessa, perché ogni isotopia rende possibile l’allotopia, cioè lo scarto dalla norma che è alla base della prassi divertente (Qc #16, #19, #50, #57). Il modello di Durand permette, inoltre, l’analisi dell’immaginario, e quindi la comparazione fra epoche, civiltà, culture, opere, gag. La dinamica dell’immaginario è fatta di armonie, complementarità, conflitti e transizioni: fra regimi e fra strutture. Più un comico sa dominare questa dinamica, più le sue gag avranno impatto, poiché i vari effetti divertenti (comico, spiritoso, umoristico, cfr. Qc #48) sono in relazione analogica con i tre sistemi riflessologici primari. L’effetto comico è in relazione analogica con i riflessi posturali (la gag comica parodia la postura: il protagonista è goffo, pasticcione e distratto, come nelle comiche del muto); quello spiritoso con i riflessi digestivi (la gag spiritosa parodia l’inghiottimento: il protagonista è sarcastico, come nella satira); e quello umoristico con i riflessi ritmici (la gag umoristica parodia la copula: il protagonista è distaccato, come Flaiano). Ma torniamo a Durand.

 

LO SPAZIO SENSO-MOTORIO

RIFLESSOLOGIA

Come abbiamo visto un anno fa (Qc #13), la coscienza dispone di due modi per rappresentare il mondo: una diretta (percezione, sensazione), l’altra indiretta (immaginazione, ricordo). Inoltre, la razionalità è sia logica che analogica (Qc #15). Questi fondamenti permettono a Durand di catalogare le immagini secondo i tre sistemi riflessologici primari (posturali, digestivi, ritmici). Ciascun sistema coinvolge specifici apparati sensoriali, e genera una caratteristica comportamentale dominante nell’interazione con l’ambiente.

Riflessi posturali. Governano la stazione verticale. Apparati sensoriali: vista, udito, fonazione. Dominante: posizione.

Riflessi digestivi. Governano la nutrizione. Apparati sensoriali: tatto, olfatto, gusto. Dominante: inghiottimento.

Riflessi ritmici. Governano l’accoppiamento. Apparati sensoriali: suzione, sesso. Dominante: copulazione.

 

TECNOLOGIA

Durand pone in relazione analogica il livello involontario, istintuale, con quello volontario, tecnologico: ai riflessi corrispondono materie, tecniche, attrezzi e azioni.

Riflessi posturali. Materie: aria, luce. Tecniche: separazione, purificazione. Attrezzi: dita, unghie, attrezzi taglienti. Azioni: distinguere (separare/mischiare, salire/cadere, &c.).

Riflessi digestivi. Materie: acqua, terra. Tecniche: alimentazione. Attrezzi: cavo delle mani, contenitori. Azioni: confondere (possedere, penetrare, discendere, &c.).

Riflessi ritmici. Materie: cielo, ciclo della vita. Tecniche: connessione. Attrezzi: ruota. Azioni: unire.

 

LO SPAZIO RAPPRESENTATIVO

FILOSOFIA, ICONOLOGIA E SEMIOLOGIA

Proseguendo lungo il percorso antropologico, Durand passa dallo spazio sensomotorio a quello rappresentativo. Qui, i livelli istintuale e tecnologico trovano corrispondenze nel livello filosofico, con le sue strutture e le sue logiche; in quello dell’iconologia, con i suoi archetipi; e in quello della semiologia, con i suoi simboli e i suoi sistemi.

Distinguere. Strutture: antitetiche (eroiche). Logiche: principi di identità, esclusione, contraddizione. Antitesi. Archetipi: salire≠cadere, alto≠basso, cima≠abisso, cielo≠inferno, l’eroe≠il mostro; separare≠mischiare, chiaro≠scuro, pulito≠sporco, luce≠tenebre. Simboli e sistemi: la scala, il campanile, l’ala, l’aquila, la colomba, l’aeroplano, il capo eretto, il gigante, il pene eretto, la coda; il sole, l’azzurro, l’occhio del padre, il mantra, le armi, le corazze, il recinto, la circoncisione, la tonsura, i detersivi. “Dissidi nella destra sovranista. Matteo: ‘Stasera sei molto asciutta.’ Giorgia: ‘Stai leccando il tappeto.’”

Confondere. Strutture: eufemistiche, antifrastiche (mistiche). Logiche: principi di analogia e similitudine. Eufemizzazione. Antifrasi. Archetipi: discendere, possedere, penetrare; profondo, calmo, caldo, intimo, nascosto; il nutrimento, la sostanza, la dimora, il centro, il fiore, la donna, il colore, la notte, il recipiente, la madre, il mare, il bambino. Simboli e sistemi: il latte, il miele, il vino, l’oro alchimistico, l’uovo, la conchiglia, la crisalide, l’isola, la caverna, il mandala, la barca, il ventre, la vagina, il velo, il mantello, la coppa, la tomba, la casa. “Un elefante vede un uomo nudo. Si avvicina e gli dice: “Come fai a mangiare le noccioline con quello?”

Unire. Strutture: sintetiche (drammatiche). Logiche: principio di causalità. Archetipi: morire, progredire, avanti:futuro, il figlio, il germe, l’albero, il fuoco; ritornare, verificare, indietro:passato, la ruota, la croce, la luna, l’androgino. Simboli e sistemi: l’iniziazione, il messia, l’orgia, la pietra filosofale, la musica; il sacrificio, la luna, il drago, l’orso, l’agnello, il serpente, la spirale, la chiocciola, il filatoio, il sangue mestruale; il calendario, lo zodiaco. “La cosa più noiosa di un’orgia è tutte le persone che devi ringraziare dopo.”

(65. Continua)

Il caso dei verbali di Amara: il Csm deciderà venerdì se trasferire il pm di Milano Storari

È stata fissata per il 30 luglio la camera di consiglio della sezione disciplinare del Csm per decidere sulla richiesta di trasferimento cautelare del pm milanese Paolo Storari, avanzata dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi. Come rivelato ieri dal Fatto Quotidiano e dal Corriere della Sera, Salvi ha chiesto nei confronti del magistrato non solo il trasferimento dalla Procura ma anche il cambio di funzioni da pm a giudice per aver dato l’anno scorso all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo i verbali secretati dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara, plurindagato, che aveva parlato con Storari e con la procuratrice aggiunta Laura Pedio di una presunta loggia denominata Ungheria, citando, tra gli altri, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita e l’ex consigliere Marco Mancinetti, salvo, poi, fare marcia indietro su Ardita, con alcune interviste. La prima “grave scorrettezza” per cui Salvi, titolare dell’azione disciplinare, chiede la misura cautelare per Storari, riguarda “l’irrituale e informale” consegna dei verbali a Davigo. Il pm ha sempre detto, e lo ripeterà anche il 30 luglio con una memoria molto articolata, di averli consegnati a Davigo, come membro del Csm, per “autotutelarsi” da una presunta inattività per quell’indagine da parte del suo ufficio. La versione del procuratore Francesco Greco, in una relazione citata dal Pg Salvi, è diversa: Storari “non ha formalizzato alcun dissenso su presunte lentezze o mancanze” in quell’indagine, se non dopo la consegna dei verbali a Davigo. Inoltre, quando Il Fatto riceve, in forma anonima, gli stessi verbali e il collega Antonio Massari sporge denuncia alla Procura di Milano così come Liana Milella, di Repubblica, denuncia alla Procura di Roma, Storari non racconta ai colleghi che aveva consegnato i verbali a Davigo e non si astiene dall’indagine che conduce, con l’ignara Pedio, sulla fuga di notizie. Anzi compie, secondo l’accusa, un “rallentamento”, “un ostruzionismo”. Il Pg lo contesta perché Pedio, nella sua relazione, ricostruisce che il 21 gennaio scorso aveva concordato con Storari, via Whatsapp, che avrebbe incaricato un perito informatico per provare a scoprire chi avesse dato i verbali ai giornali. Storari lo nomina l’8 marzo ma solo per esaminare le carte spedite ai quotidiani e non i pc della Procura. Per la spedizione anonima è indagata a Roma Marcella Contrafatto, l’ex segretaria di Davigo. Intanto, da domani la Prima commissione del Csm, competente per le incompatibilità ambientali, sentirà pm e giudici milanesi.

Appalti alle coop negli hotel di lusso, 22 mln di contributi non versati a lavoratori e fisco

“Il lavoratore in coop costa meno che un dipendente in Federalberghi”. Mail indirizzata a Roberto Cevoli, general director del gruppo Chc che controlla gli Holiday Inn di mezza Italia. Gli “svarioni del servizio di pulizia avvengono sotto il vostro naso”, dice Gianluca Maregotto, vicepresidente della Federalberghi Terme Abano Montegrotto e patron dell’Hotel Aqua di Abano Terme, minacciando di “farsi lo sconto” a colpi di “qualche mille euro alla volta”. È la fotografia di un mondo del lavoro in apparenza blasonato, l’inchiesta della Procura di Milano e del Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza sugli appalti negli hotel e il re delle coop, Pierantonio Pegoraro. Sequestrati 22 milioni di euro al colosso dell’outsourcing Cegalin-Hotelvolver. Il contesto? Gli hotel (non indagati) – di lusso e non – di Milano, Roma, Versilia e in Veneto. Ossessionati dal mantra di abbassare il costo del lavoro. “Da 14,4 a 14 euro” per le colazioni è la richiesta degli hotel Teco e Cinque Giornate a Milano. Serve un sistema di “società serbatoio” dice la GdF: decine di coop intestate a prestanomi nullatenenti. Che cambiano di continuo. Prima di sparire con i contributi dei lavoratori e i crediti fiscali Iva o Ires. Sembra uno “schema frodatorio creato a tavolino volto a evadere le obbligazioni contributive e fiscali” scrive il pm Paolo Storari. C’è il gotha del mondo alberghiero. Pegoraro fa affari con l’hotel Galles di Milano, il Crowne Plaza, l’Hotel Milano Scala, il Cavour, il Duca II, il De la Ville e decine di altri. A Roma? Il Gran Melia al Gianicolo che suggerisce i servizi di Cegalin a un competitor nonostante ci sia un problema: vogliono ben “25 centesimi a stanza” di sconto. In Versilia con l’Hotel Plaza e de Russie di Viareggio, al Grand Hotel Principe di Piemonte o il Villa Medici di Firenze. Gli investigatori hanno acquisito documentazione sugli appalti dall’Inps. Il datore? I lavoratori “non sono in grado di riferirlo o devono leggere il cartellino identificativo sulla divisa”, scrivono gli ispettori. La manodopera passa così spesso di mano fra coop e srl da non sapere più per chi stia lavorando. Fra il 2013 e il 2016 Cegalin impiega 21 società appaltatrici e 7.022 dipendenti. Di questi 1.780 in carico a due diverse società; 851 hanno cambiato tre datori di lavoro; 149 lavoratori ben quattro. Un addetto è passato in 7 diverse imprese subappaltatrici, una ogni 5 mesi della sua vita.

Mail Box

 

Giustizia a due velocità: Appendino vs Draghi

Che razza di giustizia è quella che condanna in tribunale la sindaca Chiara Appendino per aver autorizzato, nel 2017, un evento di massa conclusosi funestamente, per cause impreviste e imprevedibili e che, invece, non interviene nei riguardi di chi ha promosso e autorizzato eventi di massa che hanno prodotto (e produrranno ancora) migliaia di nuovi casi (e morti) Covid? Tutti peraltro prevedibilissimi e previsti, da chi non considera il tifo e la giusta esultanza per la vittoria italiana motivo per l’obnubilamento dell’intelligenza. Soprattutto poi, di coloro che sono preposti a dirigere, organizzare e controllare.

Carlo de Lisio

 

Colazione con caffè, brioche e “Il Fatto”

C’è un solo piacere che supera quello di consumare la colazione con caffè e brioche la mattina al bar (da pensionato posso finalmente permettermelo), ed è far colazione in compagnia del Fatto Quotidiano: leggere gli imperdibili editoriali di Travaglio e gli interessanti articoli di tutti i collaboratori; sorridere guardando le divertenti vignette in prima pagina. Insomma, lo spaccato di un mondo perfetto, non fosse per il contenuto di alcune notizie che, con il nuovo corso governativo, appaiono sempre più news da Restaurazione, con ministri che patrocinano riforme che non solo non scrivono ma, viene il sospetto, che non leggano neppure. Grazie di esistere e di darci un po’ di speranza!

Antonio Petrucci

 

Riforma: i processi asserviti al denaro

Quindi la riforma Cartabia non è questione di giustizia, ma di soldi, quelli europei, decisamente molto più importanti agli occhi del banchiere per eccellenza (che li ha ereditati da Conte, tutti lo dimenticano)? Ma l’esperienza ci insegna che i soldi finiscono sempre in rivoli ben canalizzati ad alto livello, mentre i lavoratori sono già sull’inesorabile strada dei licenziamenti. Amnistia dunque?

Sul Fatto, Alessandra Dolci, procuratore aggiunto antimafia, dice che per ridurre i tempi dei processi servono organici adeguati e riduzione del numero dei processi per reati minori e, soprattutto, di quelli prolungati per interesse. Voce di buonsenso e competenza, sarà ascoltata dal Super Draghi?

Giampiero Buccianti

 

Vaccino: nuova scusa per licenziare meglio?

Il 21 luglio i giornali riportavano la voce di Confindustria che tuonava: “Senza vaccino a casa senza stipendio”. Non entro nel merito dell’obbligo o meno nei luoghi di lavoro di essere vaccinati, ma in questa richiesta leggo una scusa per poter licenziare e riorganizzare le proprie aziende, a favore di precariato e sfruttamento, togliendosi di mezzo chi ancora ha qualche diritto. I sindacati confederali dove sono? Sembra siano più concentrati sulla battaglia ai sindacati corporativi, anziché tutelare i loro iscritti.

Flavio

 

Green Pass: Salvini guardi all’Ungheria

Vorrei condividere un pensiero sul Green Pass. Il segretario della Lega viene seguito da chi non ha capacità critica e attinge il proprio repertorio propagandistico da folklore, religione, cucina e convenienze del momento: è chiaro a tutti. Sono stata in Ungheria e per entrare in una pasticceria di Nagykanizsa e poi nel McDonald’s, ci è stato chiesto il Green Pass, controllato con dovizia. Abbiamo apprezzato questa attenzione. Mi risulta che Orban sia una musa ispiratrice per Matteo, che in questo caso però, dissente… l’Ungheria ed il popolo magiaro, non meritano la punizione del suo governo: amo quella terra, ci ho vissuto. Splendida per paesaggio e storia, ma anche per le persone che l’abitano. Un popolo da cui dovremmo imparare l’educazione e la cura del bene comune… Matteo: fai un giro in Ungheria, non per omaggiare il tuo simile, ma per capire come vivere bene!

Vally Roberta Tarzia

Cartabia. È roba da Azzeccagarbugli: l’Unione europea ci chiede l’opposto

 

Signor direttore, vediamo di capire bene.

La prescrizione del reato è una regola per cui – decorso un certo tempo, sperabilmente lungo – senza che la collettività abbia perseguito il colpevole, si presume che abbia perso interesse a punirlo. Decorso quel tempo – si sostiene – non è giusto che una persona (anche se colpevole) debba stare sotto la spada di Damocle di un’indagine o di una condanna. Potrebbe anche andar bene.

Solo che dal 2005 (legge ex-Cirielli) i termini della prescrizione sono diventati brevissimi. E gli avvocati italiani si sono specializzati nel tirarla per le lunghe per lucrare la prescrizione per i loro – spesso facoltosi – clienti (immigrati e poveri cristi vanno in galera sempre senza troppi riguardi). Più di centomila processi restano prescritti ogni anno, con spreco immane di risorse pubbliche e con le vittime senza giustizia.

Su impulso del ministro Bonafede, le cose cambiano nel 2019: dopo la sentenza di primo grado il termine per prescrivere s’interrompe definitivamente. Regola ovvia: dopo il primo grado, lo Stato ha mostrato un sicuro interesse a punire e quindi la prescrizione perde ogni ragione di esistere. È così in tutti i Paesi civili del mondo. Ovviamente la cosa non va giù a corrotti e ladroni di ogni genere, per cui l’Italia è sempre un bengodi.

Si arma la potente lobby dell’ideologia “garantista” (che purtroppo conta molti esponenti di sinistra, Berlinguer e Pio La Torre si stanno voltando nella tomba) e si grida al giustizialismo (secondo la miglior tradizione berlusconiana).

Arriva al ministero Marta Cartabia, la mediatrice equilibrata. E s’inventa la soluzione basata sulla ragionevole durata del processo, perché ce lo chiede l’Europa.

La trovata è questa. Resta l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado. Ma, siccome la Convenzione dei diritti dell’uomo prevede che il grado d’appello deve durare al massimo due anni e la cassazione al massimo uno, superati quei termini, il processo (non il reato) si estingue. Geniale, non trova, signor direttore? Se prima gli avvocati dopo il primo grado non avevano stimoli per perdere tempo perché la prescrizione era finita, adesso quell’incentivo viene loro restituito.

Si dice: il progetto Cartabia prevede che il giudice procedente potrebbe disporre la proroga di un anno e di sei mesi dei termini, rispettivamente, di due e un anno per i reati più gravi e se il procedimento è particolarmente complesso. Ad esempio, i maxi processi di mafia, in appello, potrebbero doversi concludere in tre e non in due anni. Com’è buona, ministro Cartabia: concede al giudice la facoltà (e non l’obbligo) di prendersi ancora un annetto per assicurare alle patrie galere affiliati alle cosche che attraverso la corruzione e il prestito a strozzo sono entrati “a pieno titolo” nell’economia legale estromettendo dal mercato le aziende che agiscono nella legalità oltre a detenere il “primato” del traffico internazionale di stupefacenti e di armi.

Mi domando se vi sia un esponente politico in grado di spiegare a Mario Draghi – che tanto si spende per il rilancio dell’economia – che questa riforma darà il colpo di grazia alle imprese che investono in ricerca, sviluppo e innovazione anziché in mazzette.

Ricordo infine che in molte occasioni la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia proprio perché la prescrizione da noi arriva(va) troppo presto (sentenze Alikaj del 2011, Cestaro del 2015 e Bartesaghi-Gallo del 2017). D’ora innanzi la Corte Edu ci condannerà perché il processo si estingue troppo presto e le vittime restano senza protezione: “ce lo chiede l’Europa” è quindi un’altra bugia.

 

*Ex senatrice Pd

Azione penale a caso e addio Giustizia

La riforma del processo penale del governo su proposta della Guardasigilli ha suscitato preoccupate reazioni della magistratura e dei media indipendenti, come il Fatto.

Il testo è stato esaminato più sugli aspetti fattuali di dirompente impatto sulla giurisdizione penale e meno sui profili relativi ai fondamentali presupposti giuridici che denunciano la perfetta collisione della riforma governativa con l’essenza della giurisdizione penale e con i correlati principi costituzionali. Ufficio del processo penale è ristabilire l’ordine giuridico violato con il reato. In questo senso “gli obblighi ed i diritti delle parti sono determinati con l’accertamento che è stato commesso con l’illecito e con l’ordine di una sanzione. Il tribunale, primariamente, accerta che è stato commesso un illecito (civile o penale) e decide una sanzione. Solo secondariamente vengono determinati con ciò gli obblighi e i diritti delle parti” (H. Kelsen).

L’ordinamento può mantenere la propria vigenza solo se ricompone i fenomeni antigiuridici attraverso la loro riparazione in chiave prevalentemente sanzionatoria. Ciò implica l’accertamento del fatto (se sussista, se sia illecito, se sia punibile e a chi vada imputato) ed in tale contesto vanno modulati i diritti e la posizione delle parti sino a incidere sulla libertà personale (art. 13 Cost.).

Strumento indispensabile per l’accertamento del reato è l’azione penale che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare: lo prescrive l’art. 112 Cost. con formula non soggetta ad alcuna limitazione, come decise l’Assemblea Costituente, preoccupata di evitare interferenze arbitrarie alla purezza e alla potenzialità dinamica di quell’azione. L’unico impedimento effettivo è costituito dalla prescrizione del reato che, in ragione del tempo trascorso, rende inoperante e isterilisce il disvalore determinato dal reato e tale circostanza esaurisce anche l’azione penale. La prescrizione, in ogni caso, riguarda il fatto di reato e l’effetto liberatorio per il prevenuto è sostanzialmente indiretto: la pronuncia sulla prescrizione non contiene alcuna assoluzione ma statuisce solo le conseguenze dell’effetto estintivo. Il che si conforma perfettamente a quanto puntualizzato da Kelsen nel passo su riportato.

Il progetto governativo modifica in radice i presupposti e la sequenza logica e pone al centro non l’accertamento del fatto, quasi infastidito della sua esistenza, ma la posizione del processato. Il disvalore, la lesione dell’ordinamento giuridico contano assai poco rispetto all’esigenza che in tempi piuttosto celeri un soggetto possa liberarsi dell’impaccio di un processo penale! L’espediente è dato dall’improcedibilità dell’azione penale che si innesta dopo che, con la sentenza di primo grado, la prescrizione si è definitivamente interrotta. Per modo di dire, perché l’improcedibilità per decorso del tempo in fase d’appello e perfino di cassazione travolge ab origine il processo! Altro che improcedibilità. Più prescrizione di così, direbbe Nino Frassica… Anzi peggio. Il sistema come congegnato può consentire che rispetto a un reato con prescrizione decennale, la sentenza di primo grado, resa dopo cinque anni, sia posta nel nulla dall’improcedibilità in appello solo dopo altri due anni! Cioè la prescrizione decennale diventa in quel caso di sette anni! Viene meno perciò il parametro costituzionale dell’uguaglianza: un termine eventuale, mobile, non legato a una fattispecie prescrizionale valida per tutti, ma modulabile caso per caso sulla singola vicenda processuale induce ulteriori rilievi di manifesta irragionevolezza.

Sono perciò palesemente violati l’art. 112 Cost. perché si elimina con un marchingegno irrazionale e obliquo modo l’esercizio dell’azione penale dopo averne asseverata la piena operatività con l’attestata interruzione della prescrizione e l’art. 3 Cost. per l’evidente incongruenza della disciplina con le finalità preservate dall’art. 111 Cost. che contempla comunque il dovere di celebrare il processo e non di revocare nell’aleatorio la funzione giurisdizionale. Il che denuncia anche uno scarso rispetto per la funzione medesima, costretta ad autodemolirsi per sforamento di tempi per eventi talora non imputabili a un’operativa autorità giudiziaria. Per la poco plausibile rivoluzione copernicana si è brandito l’ipostatico proclama: “lo vuole l’Europa”. La formula ne ricalca un’altra, notoriamente critica: il Deus vult di Pietro l’Eremita che, con isterico furore, trascinò l’Europa dell’anno mille nella sanguinosa Prima Crociata. Ma che cosa vuole l’Europa? Ovviamente che la giustizia italiana sia più rapida e che si adegui alle migliori condizioni degli altri Paesi membri.

La presumibile volontà dell’Europa è che l’Italia organizzi la funzione giurisdizionale in armonia con le altre, utilizzando un patrimonio giuridico comune: ciò esclude che il nostro Paese neghi i presupposti validi per i confratelli ordinamenti, come invece si propone la riforma governativa. Ad esempio, per contemperare la posizione dell’imputato con una eccessivamente lunga durata del processo, il sistema penale tedesco prevede una congrua riduzione di pena, ma non si sogna di distruggere l’intera procedura. Se la prescrizione è interrotta definitivamente dopo la sentenza di primo grado, diviene inspiegabile un’improcedibilità che annulla con più gravi conseguenze la medesima azione penale. L’interruzione della prescrizione diviene, a questo punto, una specie di affermazione ioci causa. Ancora più grave rilievo merita l’attribuzione all’improcedibilità di strumento per la demolizione integrale del processo: tale perplesso istituto non fa parte della tradizione giuridica occidentale e democratica.

Tutte le giurisdizioni penali europee sono organizzate sull’archetipo sopra disegnato (obbligatorietà dell’azione penale, non esercitabile solo se interviene la prescrizione con discipline più rigide di quella finora operante in Italia per quanto riguarda decorrenza e interruzione) e non conoscono il “nuovo” istituto dell’improcedibilità dell’azione penale collegata alla durata dei processi d’impugnazione. Se così è, viene meno in radice, per la non appartenenza di quei contenuti alla tradizione giuridica europea, la giustificazione che “lo vuole l’Europa”. Ulteriore e rovinosa conseguenza sta nel fatto che, spostando l’asse e la funzione del processo da accertamento dell’illecito a salvaguardia dell’imputato, indipendentemente dalla sua colpevolezza, si finisce per obliterare, colpevolmente, la posizione delle vittime.

Ed è questo l’aspetto più imbarazzante e perfino doloroso. Si preferisce salvaguardare l’interesse dell’imputato alla maggiore rapidità del processo (recte: a fuggirne con la complicità delle leggi) anziché il diritto della vittima a ottenere giustizia. Chi sono le vittime? Il più delle volte (ovviamente: non sempre) i deboli, gli inermi, coloro che confidano negli altri. A costoro giunge, con la riforma governativa, un messaggio quasi spietato: “Spiacenti. Non avete compreso come va il mondo e perciò non avete diritto a niente.” Quanto questo risultato faccia corpo con il principio che assegna primario valore alla tutela della dignità della persona umana nella nostra Costituzione è difficile comprendere.

Miracolo. Pani e pesci per la “folla”: la grazia della dignità non si compra

C’è una gran folla (Gv. 6, 1-15). Non un incontro organizzato di gente col biglietto, ma una “folla” che segue i movimenti di Gesù. Perché? Perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. È questo rapporto diretto di lotta al male che colpisce in Gesù. E la gente lo vedeva. È una folla toccata dal male, di sbandati: ha bisogno della potenza di Dio come del pane.

Gesù alza gli occhi e vede. La prima reazione è un problema: e ora come si fa a dare loro da mangiare? La folla era lì spinta dal desiderio di Gesù. E Gesù, lungi dal compiacersene, si interessa del loro stomaco. Vede il caos, la confusione, la malattia, e prova quella compassione che è l’istinto divino in grado di attivare l’onnipotenza di Dio. “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”, chiede a Filippo. Gesù, ponendo la domanda, è ironico, ci dice Giovanni: sa che cosa sta per fare, ma vuole accrescere e definire i contrasti. Filippo risponde: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”. Chiaro, preciso. Serve lo stipendio di due giornate lavorative. Le regole del mercato sono queste. Il mercato non offre soluzioni. Non c’è niente da fare: la gente dovrà restare a digiuno. Gesù allora cambia le regole, ponendo una frattura netta con la logica calcolante della compravendita. Si fa avanti Andrea: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”. Il fratello di Simon Pietro si accorge che c’è un ragazzo che ha portato il pranzo al sacco. Come avrà fatto? In mezzo alla folla, poi! E c’è solo lui ad aver cibo? Tutto questo non importa. Andrea dice: c’è qualcosa, ma non basta. Su questo può intervenire Gesù. Se c’è una disponibilità di base, poi ci pensa lui.

Inizia la scena. Gesù ordina: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Adesso abbiamo una cifra: cinquemila persone. Abbiamo una immagine del contesto: un grande prato erboso, verde a primavera. Ma soprattutto sappiamo che cosa davvero aveva in mente Gesù: farli sedere. Il cibo è una scusa.

Cerchiamo di capire meglio. Il verbo che Gesù usa non è quello del sedersi comune, ma quello proprio della gente libera – al contrario degli schiavi e dei morti di fame – che con dignità può distendersi e mangiare. È la posizione della dignità. A quella folla di sbandati e malati viene fatto il miracolo di assumere la loro dignità. Questo è il “segno”.

Solo adesso Gesù prende i pani e i pesci, rende grazie, e li dà – nota Giovanni – a quelli che erano seduti. Non si parla più di “folla”, ma di gente dignitosamente seduta al pasto. E nella narrazione è come se Gesù stesso li servisse personalmente. Il pane che Gesù dona è la Pasqua. E queste persone ne hanno quanto ne volevano fino a essere saziati. E alla fine bisogna pure raccogliere i pezzi avanzati fino a riempire dodici canestri. E dodici è il numero perfetto, quello delle 12 tribù di Israele, come a dire che il pane è davvero per tutti. Il cibo trabocca, supera la misura, come le statue barocche.

La gente è in delirio: lui è l’uomo della Provvidenza! Bisogna dargli i pieni poteri, farlo re! No, non hanno capito. Come Filippo aveva letto l’evento in chiave di “successo”, così ora la folla legge la domanda di Gesù in chiave di “mercato”. E allora Gesù che fa? Fugge via: si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. Questo è il segno che è proprio lui il Messia. Il suo Regno non è di questo mondo. La sua logica è altra: la grazia – non in vendita – della dignità.

* Direttore de “La Civiltà Cattolica”