Afuria di ripetere da due mesi che “la prossima settimana sarà quella decisiva per la riforma degli ammortizzatori sociali”, siamo arrivati a fine luglio senza che le parti al tavolo, sindacati in primis, abbiano ricevuto alcuna bozza di testo. E soprattutto con il delinearsi di uno scenario ben più realistico: tutto rimandato all’autunno, con la legge di bilancio.
Nel fissare il termine a prima della pausa estiva, il ministro del Lavoro Andrea Orlando era stato particolarmente ottimista e non aveva fatto i conti col nodo più spinoso, quello delle risorse. Quanto costa garantire a tutti la cassa integrazione e rendere più generosi e inclusivi i sussidi di disoccupazione? E soprattutto, in un’ottica assicurativa, chi deve pagare queste nuove tutele? Se si ipotizza di porli a carico della fiscalità generale, rischia di essere troppo onerosa per lo Stato; se, più opportunamente, si chiede anche alle piccole imprese di contribuire, visto che sarebbero loro a beneficiarne, queste si oppongono. Ecco quindi che il dossier si è impantanato proprio nel terreno più prevedibile.
Così, dopo quello sul fisco, rischia seriamente di essere rinviato anche l’intervento sugli ammortizzatori sociali. Entrambe riforme che dovrebbero rivestire un ruolo fondamentale nell’accompagnare il Pnrr: una importante per alleggerire le tasse sui ceti medi, l’altra per proteggere i lavoratori dalle future crisi dopo che il Covid ha mostrato la debolezza del sistema messo in piedi solo sei anni fa con il Jobs Act.
Prima della pandemia, a fruire della cassa ordinaria erano solo l’industria e l’edilizia. La crisi scatenata dal virus, però, ha colpito soprattutto i servizi, il commercio e il turismo, settori sprovvisti di paracadute specialmente nelle piccole aziende. Questo ha reso necessaria una pesante iniezione di cassa in deroga, che ora si vuole abolire e sostituire con un ammortizzatore strutturale. Per questo nella seconda metà del 2020, quando c’era ancora tutto il tempo, l’ex ministra Nunzia Catalfo aveva nominato una commissione per proporre la riforma. A gennaio il governo Conte era pronto a incontrare i sindacati per presentare i risultati, ma la caduta dell’esecutivo e l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi hanno bloccato tutto. Questo ha inevitabilmente rallentato la tabella di marcia e, soprattutto, ha realizzato quello che tutti volevano evitare: siamo arrivati allo sblocco dei licenziamenti senza i nuovi ammortizzatori sociali rafforzati. Ancor peggio sarebbe fallire l’appuntamento del 31 ottobre, quando i tagli di personale saranno permessi anche nei servizi e nelle imprese piccole, circostanza che però ora appare più che verosimile.
I problemi sarebbero due: il primo è che resterebbero necessari strumenti per tamponare le crisi, come la cassa in deroga; il secondo è che i licenziati, specialmente quelli con poca anzianità e bassi salari, avrebbero sussidi di disoccupazione deboli, visto che oggi la Naspi prevede il taglio dell’assegno – il cosiddetto decalage – già a partire dal quarto mese, mentre l’ipotesi contenuta nella riforma è di farlo partire dal sesto.
Sulla cassa integrazione, l’idea è concedere 13 settimane alle imprese sotto i cinque dipendenti e 26 sotto i 15 dipendenti. Tra l’integrazione salariale, i sussidi per chi perde il lavoro e le nuove tutele per gli autonomi e collaboratori, il conto potrebbe lievitare fino a una decina di miliardi. Tuttavia, sul tavolo ora c’è solo il miliardo e mezzo per il ritiro del cashback.
Come detto, la partita delicata è nella trattativa con il mondo delle imprese, perché queste non vogliono subire aumenti del costo del lavoro per pagare i nuovi ammortizzatori. Per distendere il rapporto con le parti sociali, il ministro Orlando aveva messo in standby un tema mal digerito come il salario minimo. Poi, a fine giugno, si è scelta la mediazione anche per lo sblocco dei licenziamenti che dal 1° luglio interessa industria e costruzioni.
Il compromesso, accettato dai sindacati, è stato l’avviso comune con cui la Confindustria si è impegnata a “raccomandare” l’uso delle 13 settimane aggiuntive di cassa integrazione per evitare o almeno posticipare le ristrutturazioni. Finora abbiamo avuto diversi casi di imprese che l’hanno ignorato, e solo con le vertenze che hanno attirato l’attenzione mediatica contiamo 1.051 licenziamenti.