A Rignano non c’è neanche Matteo. Finisce deserta la festa di Italia Viva

“Dov’è Matteo?” domanda deluso un militante di Italia Viva arrivato fin qui da Pontassieve per incontrare il suo beniamino. Solo che Matteo, cioè Renzi, non c’è. Gli organizzatori della festa “Rignano Viva” dicono che no, Matteo non poteva venire per impegni pregressi: venerdì ha preferito In Onda, stasera la masseria di Bruno Vespa in Puglia, ieri non si sa.

Qualcun altro maligna che non sia stato invitato nemmeno a casa sua, a Rignano sull’Arno, per evitargli la brutta figura di trovarsi di fronte una trentina di persone. No, Matteo non c’è. E il povero militante che aspettava di stringergli la mano si deve accontentare di qualche vecchia foto di Tiberio Barchielli e di un cartonato: c’è Renzi in giacca e cravatta ai tempi di Palazzo Chigi, con diversi chili in meno, che sorride e saluta. Solo che per trovarlo bisogna impegnarsi: è stato riposto in un angolo del tendone della festa, quasi nascosto dalle bandiere di Italia Viva.

Non solo non c’è Matteo, ma non c’è nemmeno Maria Elena Boschi da Laterina (a 40 chilometri da qui), né Francesco Bonifazi, né Agnese Landini, né tantomeno i big nazionali, da Ettore Rosato a Teresa Bellanova. Giovedì sarebbe dovuta venire la ministra della famiglia Elena Bonetti ma anche lei ha dato forfait, impegnata nel consiglio dei ministri per decidere sul green pass. “La ministra si scusa molto ma gli impegni di governo sono certamente più importanti” allarga le braccia Patrizia Ciabattoni. Ci mancherebbe. Ma la partecipazione di Bonetti non è stata posticipata, è stata cancellata. Sicché i militanti che da giovedì hanno deciso di partecipare alla festa si sono dovuti accontentare della vicepresidente della Regione Toscana Stefania Saccardi, del consigliere regionale senese Stefano Scaramelli, dell’europarlamentare Nicola Danti e oggi pomeriggio di Roberto Giachetti che arriverà qui per far firmare i quesiti sulla giustizia di Radicali e Lega.

Sarà anche per questo che nel tendone degli impianti sportivi di Rignano sono più i tavoli vuoti che quelli occupati. Nella sera di venerdì, quella della “cacciuccata” molto poco rignanese (è il piatto tipico di Livorno), non ci sono più di 35 persone. C’è chi, ai dibattiti e alla cena per finanziare il partito, preferisce addirittura il bar a fianco per bere un bicchiere di Chianti. Qualcun altro è venuto solo per le fettuccine ai porcini a prezzo popolare, 7 euro, che valgono bene un dibattito sul futuro del centrosinistra. “Fa caldo e ci sono le zanzare” si giustificano gli organizzatori.

Come che sia, Rignano sull’Arno non è più quella di una volta. In questo piccolo paese del Valdarno fiorentino un tempo “arrivavano giornalisti da tutta Italia e da tutta Europa per raccontare dov’era nato Matteo – racconta il rignanese Mirko davanti al Comune – il rottamatore di qui, il rottamatore di là… oggi ci vedono come degli appestati”. Come cambiano i tempi. “Gli unici giornalisti li vediamo quando c’è uno scandalo che riguarda i genitori” conclude Mirko. Già, i genitori.

Perché se i big di Italia Viva hanno disertato, non si può dire lo stesso di babbo Tiziano e mamma Laura. Tutte le sere sono qui: hanno organizzato tutto, compresi i pasti. Tiziano Renzi, in bermuda e ciabatte, fuma il sigaro, fa il padrone di casa con gli ospiti, fa battute contro i comunisti (“io non lo sono mai stato e ho sempre vinto”) e mal sopporta qualunque domanda dei giornalisti: “Buona Pasqua” risponde irritato. Anche Laura Bovoli, fresca di assoluzione a Cuneo, si aggira per il tendone come una star: “Grazie a tutti!” dice ai pochi presenti.

Di fronte alla penuria di partecipanti, non resta che prendersela con il nemico numero uno: quel Pd che a Roma si è alleato con i “populisti” del M5S (“Senza grilli per la testa” c’è scritto sui volantini della kermesse) e che a Rignano sostiene il sindaco Daniele Lorenzini, ex amico di famiglia dei Renzi con cui ha rotto per il caso Consip. Giovedì qui si è riunito il direttivo di Italia Viva per decidere se sostenere o meno Enrico Letta a Siena ma il clima era pessimo: “C’è profondo malessere su Letta” ha detto Danti minacciando la “rottura” nella maggioranza in Consiglio regionale per la decisione di Giani di far approvare il nuovo statuto tagliando fuori Italia Viva. C’è voglia di sgambetto, di far perdere Letta a Siena: “Enrico stai sereno” sogghignano al tavolo del direttivo.

Adriatici rimane ai domiciliari: “Non si controlla e lo ammette”

“Occorre una misura che limiti profondamente la libertà di un soggetto che per sua (…) ammissione ha dichiarato (…) di non essere in grado di gestirla senza gravissimi rischi per la collettività”. Questi alcuni passaggi delle 19 pagine di ordinanza con cui ieri il giudice di Pavia ha confermato gli arresti domiciliari per Massimo Adriatici, politico leghista e assessore alla Sicurezza del comune di Voghera. Riserva sciolta dopo che la Procura aveva chiesto la conferma della misura per la reiterazione del reato. Confermata l’accusa di eccesso colposo di difesa rispetto al colpo mortale (calibro 22) sparato da Adriatici martedì sera (20 luglio) in piazza Meardi a Voghera contro il 38enne marocchino Youns El Boussettaoui. Per ragioni di sicurezza e su richiesta dei legali, il politico ieri è stato spostato in una località segreta. Scrive il giudice: “Riferisce (Adriatici, ndr) di passeggiare con in tasca una pistola” senza sicura e “con il colpo in canna (…). Attitudine (…) alla base della condotta oggetto di valutazione, essendo evidente che se avesse rimosso la sicura all’atto dello sparo il reato muterebbe in doloso”.

La dinamica, confermata dal gip, “salva” l’assessore da un’accusa più grave, “omicidio doloso”. L’assessore, si legge nell’ordinanza, “ha dichiarato di aver estratto la pistola dalla tasca in un momento in cui era ancora lucido (…). Tale azione appare spropositata a fronte di un uomo che lo aggrediva disarmato (…) creando (Adriatici, ndr) le condizioni perché addivenisse all’evento nefasto (…). E ciò si ritiene (…) in considerazione della consapevolezza qualificata che si deve richiedere a un uomo per anni nelle forze dell’ordine”. Prosegue il giudice: “Adriatici ha dichiarato che quando portava l’arma (…) la metteva in tasca senza sicura (…) e che l’arma” aveva “il colpo in canna, così vanificando in modo gratuito (…) ogni accorgimento di cui le armi sono dotate”. E ancora: “Ciò che è successo ha dimostrato quanto fosse imprudente il comportamento dell’indagato, che non ha saputo governare la concitazione e lo stress (…)”. Tutto ciò “consente” di trarre “un giudizio negativo di personalità (…)”. Per il resto il documento ripercorre i fatti, spiegando, attraverso testimonianze, l’atteggiamento “aggressivo” della vittima. E confermando che lo sparo parte dopo che Adriatici cade a terra, e perde gli occhiali. Una situazione dove “il mirare” sembra azione incerta. Non vi è dubbio, sostiene l’accusa, che il grilletto sia stato tirato in modo consapevole. Questo spiegano i testi. Un cittadino straniero, il 21 luglio, dice ai pm: “Mentre (Adriatici, ndr) era sdraiato (…) puntava la pistola allungando il braccio e sparava”.

Due giorni dopo, una seconda versione dello stesso teste viene depositata come indagini difensive dai legali delle parti offese. Qui spiega che Adriatici “ha estratto la pistola (…) e ha sparato a sangue freddo (…). Non ha sparato per sbaglio, ha preso la pistola e l’ha puntata”. Un dato che per il giudice non modifica il reato contestato.

“Stabilire priorità tra i reati sarebbe incostituzionale”

La strada per velocizzare la giustizia non è un termine massimo per i processi, ma uno snellimento del sistema: “depenalizzare alcuni piccoli reati”, limitare gli appigli a cui ricorrono “gli avvocati più furbi” per far slittare le sentenze, valorizzare “i riti alternativi”. Per questo Gaetano Azzariti, professore di Diritto Costituzionale alla Sapienza, esprime forti dubbi sull’efficacia della riforma Cartabia, la cui ipotesi di affidare al Parlamento l’indicazione delle priorità sui reati da perseguire crea peraltro un problema di costituzionalità.

Professore, che idea si è fatto della riforma?

C’è un problema riconosciuto da tutti: la lentezza dei processi, per cui l’Italia è stata più volte sanzionata dall’Europa. Si discute troppo di prescrizione e improcedibilità e troppo poco di come creare le condizioni per un giusto processo. Siamo attratti da questo scontro e si parla in astratto dei tempi, ma non di come si possa svolgere un processo giusto con una durata ragionevole.

Che cosa intende?

Faccio alcuni esempi. Si discute poco di riti alternativi e vedo che su questo tema le indicazioni della commissione Lattanzi sono state tradotte in modo non così soddisfacente. Allo stesso modo, depenalizzare alcuni piccoli reati lascerebbe più spazio in Tribunale per i grandi processi. E poi c’è il tema delle troppe scappatoie a disposizione degli avvocati più furbi per dilatare i tempi. Intervenire su questi aspetti sarebbe molto più efficace che discutere di termini del processo.

Diversi magistrati ritengono che la riforma mandi in fumo migliaia di processi.

Il rischio c’è e comprendo le preoccupazioni. Ma invito tutti a riflettere sulle cause e non sugli effetti. Quando il vicepresidente del Csm Ermini ammette che molte corti d’Appello, “a parità di risorse e personale”, non reggerebbero l’urto, io mi preoccupo anche dell’inciso, pur sapendo che non è così semplice intervenire sulle assunzioni.

Il Parlamento potrebbe indicare le priorità su quali reati perseguire. Si rischia l’incostituzionalità?

Bisogna scongiurare questa ipotesi. Un indirizzo specifico del Parlamento nei confronti dell’azione penale contrasta col principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale stessa. Spero che non si arrivi a tanto: la soluzione del problema spetta all’autoregolamentazione della magistratura, non certo alla politica.

La riforma passerà col voto di fiducia, previ aggiustamenti da inserire probabilmente in un maxi-emendamento. Il ruolo del Parlamento ne esce svilito?

Il fatto che ormai siamo abituati a questa deriva non deve far sì che ci si smetta di scandalizzare. Un maxi emendamento poi lascerebbe ancor meno spazio all’autonomia del Parlamento: su un argomento così importante il passaggio in Aula dovrebbe invece essere decisivo per raggiungere una sintesi.

Il Parlamento rischia di allungare i tempi.

I tempi sono stretti, ma mi piacerebbe che i capigruppo organizzassero un calendario intenso e compatto, pochi giorni per fare uscire questa discussione dalle stanze del governo e delle segreterie di partito per trovare un compromesso in Parlamento. Non intendo sminuire il ruolo del governo, tutt’altro: ogni emendamento riceve il parere dell’esecutivo, dunque la voce della ministra resta fondamentale anche senza ricorrere alla fiducia.

La Cartabia ha chiesto un parere sull’intera riforma al Csm, rinviando così l’imminente stroncatura sulla improcedibilità. Una mossa scorretta?

La vostra riflessione è di tattica politica e non è di mia competenza. Posso dire che la richiesta da parte del governo di un parere al Csm sulla riforma è sacrosanta e, anzi, forse tardiva, nel senso che doveva essere sollecitata fin dall’inizio.

 

Tutti contro tutti in Commissione: il centrodestra minaccia battaglia

Mentre proseguono le trattative sul triangolo M5S-Pd-Palazzo Chigi per modificare la riforma Cartabia, domani il ddl inizia il suo iter in commissione Giustizia alla Camera per arrivare nel più breve tempo possibile in aula (la data fissata è venerdì 30) ed essere approvato, come ha chiesto il presidente del Consiglio Mario Draghi, entro la pausa estiva. L’autorizzazione a chiedere la fiducia sul testo è già stata votata dal governo. E non sarà un atterraggio morbido quello degli emendamenti proposti dalla Guardasigilli perché se da un lato ci sono le durissime critiche del M5S, dall’altro il centrodestra non sta fermo a guardare: Matteo Salvini e Silvio Berlusconi vogliono che la riforma venga approvata così com’è senza ulteriori modifiche. Ma nel frattempo provano a bloccare sul tempo l’asse Conte-Letta. Venerdì sera il forzista Pierantonio Zanettin si è visto bocciare dal presidente della commissione, il 5S Mario Perantoni, tre emendamenti per depotenziare l’abuso d’ufficio e sulla definizione di pubblico ufficiale e per vendicarsi ha chiesto che venga deciso l’allargamento della riforma penale anche ai reati contro la pubblica amministrazione. Una proposta su cui si riunirà domani mattina l’ufficio di presidenza della commissione e su cui i rappresentanti dei gruppi dovranno votare. A quel punto la maggioranza rischia già di spaccarsi perché a favore della proposta sono Lega, FI, FdI e Iv mentre contrari sono Pd, M5S e LeU. Nel caso in cui la proposta fosse approvata, la maggioranza rischierebbe grosso visto che il M5S non potrebbe accettare di andare a toccare anche i reati dei colletti bianchi.

Quello del voto in commissione sarà dunque un percorso a ostacoli perché da una parte Pd e M5S devono trovare una mediazione condivisa con Palazzo Chigi, e dall’altra il centrodestra proverà a fermare ogni ipotesi di modifica. Draghi, annunciando la questione di fiducia, ha già chiarito che il nuovo accordo dovrà avere – come quello attuale – il via libera del Cdm all’unanimità. Ma l’ipotesi di rinviare la riforma al 2024 e allungare i tempi di prescrizione a 3 anni in Appello e 1 anno e 6 mesi in Cassazione (il “lodo Serracchiani”) non piace al centrodestra. Che a quel punto andrebbe al contrattacco proponendo di cancellare del tutto la Bonafede e prevedendo anche un tempo fisso in primo grado, probabilmente tre anni, superato il quale scatterebbe l’improcedibilità. Se invece il centrodestra si sentisse messo all’angolo dalla coppia Draghi-Cartabia a quel punto l’ordine dato alle truppe sarebbe quello di tentare i blitz in commissione sugli emendamenti più divisivi.

La linea la dà Anna Maria Bernini, capogruppo di FI in Senato: “Per noi servirebbero modifiche più incisive ma abbiamo coerentemente sostenuto la mediazione della ministra e non vogliamo rimettere in discussione la riforma. Ci aspettiamo lo stesso senso di responsabilità da tutti”. Insomma, sulla riforma Cartabia il premier si trova stretto nella morsa delle due componenti della maggioranza e per questo, senza un accordo che vada bene a tutti entro venerdì, il governo chiederebbe il voto di fiducia che spaccherebbe il M5S.

I giallorosa quindi proveranno a trovare una mediazione prima di allora. Ieri il segretario del Pd Enrico Letta, in Calabria per sostenere la candidata del centrosinistra Amalia Bruni, ha detto che per il Pd la riforma della giustizia è una “priorità” e che il voto di fiducia “non è in contrasto con possibili aggiustamenti” per fare sì che alla fine votino tutti a favore. A stretto giro gli ha risposto il deputato calendiano Enrico Costa che venerdì si è visto approvare un ordine del giorno per modificare la legge Severino per i sindaci condannati per abuso d’ufficio: “Letta e il Pd vogliono modificare la riforma anche al Senato con tempi imprevedibili?”. La strada è in salita e decisamente accidentata.

Conte all’ultimo bivio: “Senza modifiche non votiamo la fiducia”

L’avvocato tratta e tratterà, perché un buon accordo, qualcosa da presentare come un risultato politico degno di un capo, è ancora possibile. Ma possibile non è sinonimo di vicino, per Giuseppe Conte. Soprattutto perché dall’altra parte c’è il presidente del Consiglio che di solito ottiene ciò che vuole, Mario Draghi. Così in un sabato di afa e cattivi pensieri dal M5S accusano: “Da palazzo Chigi fanno muro alle nostre richieste”. Prima tra tutte l’esclusione di diversi reati, cominciando da quelli di mafia, dal campo di applicazione della controriforma Cartabia. Ma c’è distanza anche sul calcolo dei tempi per i processi di appello. Va male, insomma.

E allora in caso di mancata intesa Conte potrebbe davvero decidere per lo strappo, per il mare aperto, cioè per l’uscita dal governo Draghi. “Se non accettano modifiche vere, preservando innanzitutto i processi per mafia, per noi sarà impossibile votare la fiducia” dicono alcuni contiani doc, riassumendo la linea. L’opzione che l’ex premier non cerca ma che non considera eresia, per nulla. Tanto che non si è irritato, anzi, con la ministra Fabiana Dadone, che venerdì mattina ad Agorà aveva ventilato come possibile le dimissioni dei ministri in caso di mancato accordo sulla controriforma Cartabia. “È un’ipotesi che dovremo sicuramente valutare assieme a Conte”.

Ore dopo, di fronte al montare delle reazioni, la ministra aveva abiurato (“Non è nel mio stile minacciare, Draghi e Conte troveranno un punto d’incontro”). Ma l’ex premier, racconta chi gli ha parlato, ha apprezzato la franchezza della ministra, capace di mettere in gioco anche la sua poltrona in una battaglia identitaria per il M5S. Chi non ha affatto gradito, assicurano in diversi, è Luigi Di Maio. L’uomo della mediazione con Beppe Grillo, il ministro degli Esteri che non vuole neanche pensare alla rottura con Draghi. E lo ha ripetuto più volte in questi giorni, come un mantra: “Il governo deve arrivare al 2023”.

Molto di più il ministro lo ha detto venerdì sera dal palco della festa di Articolo Uno, a Bologna: “Io non credo che sia irragionevole discutere della riforma della giustizia e dire che va migliorata. È irragionevole se vogliamo fare una battaglia ideologica per cui le riforme di tutti gli altri non sono buone perché le presentano gli altri e l’unica buona è la nostra. Questo è un salto che stiamo facendo in questa fase storica”. Traduzione, non possiamo impiccarci alla riforma Bonafede nel nome della purezza a 5Stelle. Sillabe pragmatiche: troppo, per le orecchie di diversi della vecchia guardia del M5S. “Non possiamo morire come Movimento perché lui vuole restare ministro”, sibilavano ieri alcuni veterani. Ed è lo scontro tra il corpaccione parlamentare e l’ala governista, una distanza che si sta facendo ferita. Ma Conte pare comunque pronto ad andare dritto. “Qui il punto non è neanche il M5S, non possiamo recedere di fronte al rischio di favorire l’impunità dei mafiosi” ripetono ambienti vicini all’ex premier. E il tesoriere dei 5Stelle alla Camera, Francesco Silvestri, ribadisce: “Abbiamo ascoltato e letto gli allarmi di magistrati come Gratteri e De Raho e dell’Anm e i dubbi del Csm: non possiamo fare finta di niente, il M5S sta facendo proposte serie e responsabili per evitare spazi di impunità”.

A breve, forse domani, Conte ripeterà la sua posizione, in modo forte. E in settimana avrà altre riunioni con i parlamentari sulla strategia in Parlamento. Ma cresce l’ipotesi di consultare gli iscritti on line sul votare o meno la fiducia al governo. Anche perché a convocare la votazione sarebbe l’ancora reggente Vito Crimi. E sarebbe la via per superare un nodo non solo burocratico, ossia il fatto che Conte non è ancora formalmente il capo, visto che il nuovo Statuto verrà votato il 2 e il 3 agosto. E chissà cosa accadrà prima.

Giggetto il Draghetto

“Io non credo che sia irragionevole discutere della riforma della giustizia e dire che va migliorata, lo dicono i magistrati e lo diciamo anche noi. È irragionevole fare una battaglia ideologica per cui le riforme di tutti gli altri non sono buone perché le presentano gli altri e l’unica buona è la nostra. Questo è un salto che stiamo facendo in questa fase”. Leggo e rileggo questa frase di Luigi Di Maio alla festa di Articolo 1 e non ci capisco niente. Capirei tutto se qualcuno avesse detto che la “riforma” Cartabia non va bene perché non l’ha proposta il M5S. Ma non risulta. Tutti i magistrati e giuristi (ma anche avvocati) degni di questo nome dicono che la “riforma” uccide con l’improcedibilità almeno 150 mila processi d’appello in corso e chissà quanti in futuro; nega agli innocenti condannati in primo grado il diritto di essere assolti in secondo; nega alle vittime che han visto condannare il colpevole in primo grado il diritto di avere giustizia ed essere risarcite; lascia impuniti centinaia di migliaia di colpevoli solo perché, tra le sentenze di primo e secondo grado, sono trascorsi 2 anni e 1 giorno; calpesta l’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza della magistratura (articoli 104 e 112 della Costituzione) affidando al Parlamento il potere di dettare alle Procure le priorità sui reati da perseguire e da ignorare.

Cos’ha da dire Di Maio su questi dati oggettivi, tutt’altro che “ideologici”? Come pensa di “migliorare” questa schifezza? Mandando al macero “solo” 50 mila o 100 mila processi anziché 150 mila? Calpestando la Costituzione con un piede solo anziché con due? Ha capito che questa legge, copiata (in peggio) dal “processo breve” di B.&Ghedini del 2009, Draghi&Cartabia l’han presentata col doppio scopo di restituire ai colletti bianchi l’impunità perduta con la Bonafede e di asfaltare i 5Stelle, pronti ad ammainare anche l’ultima bandiera del reddito di cittadinanza? E allora che ci stanno a fare i quattro ministri M5S: a passare il resto dei loro giorni a pentirsi di aver avuto ragione? La ministra Dadone ha detto che il M5S dev’essere pronto a uscire dal governo se le modifiche alla schiforma non saranno sufficienti. È ciò che dovrebbero dire anche Di Maio, D’Incà e Patuanelli, se vogliono sperare che il premier e la Guardagingilli scendano a più miti consigli e che gli elettori tornino a votare i 5Stelle anziché inseguirli coi forconi. Se invece nessuno mette in gioco la poltrona, la mediazione di Conte è destinata alla disfatta. I 5S non li voteranno più nemmeno i parenti stretti e, quel che è più grave, andranno in fumo centinaia di migliaia di processi. Anni fa furoreggiava il cartoon di un draghetto allergico al fuoco che sognava di fare il pompiere. Ma si chiamava Grisù, non Luigi.

Botteghe, trattorie e chiese: lì dove resiste lo “Strapaese”

“Un atteggiamento di esagerato provincialismo” è la definizione corrente di Wikipedia alla parola strapaese. Ma è stato anche un movimento culturale nato negli anni Venti contro la deriva metropolitana e modernista d’inizio Novecento contrapposto all’antitetico Stracittà. Auspicava il ritorno alla vita paesana, aborriva l’esterofilia e il cosmopolitismo. I principali animatori? Leo Longanesi, Mino Maccari e Curzio Malaparte e le riviste Il Selvaggio e L’Italiano, con l’ausilio di Morandi, Guttuso, Flaiano e Ungaretti e di un giovanissimo Montanelli. Strapaese è anche il libro di Francesco Giubilei pubblicato da Odoya Edizioni per mettere a fuoco la genesi di questo movimento, il cui spirito indomito vive ancora oggi nei paesi italiani, nelle sue botteghe, nelle trattorie e nelle chiese di campagna. Attraverso le sue trecento pagine, l’autore prova a riscoprire “lo spirito strapaesano in un mondo sempre più globalizzato. È il piccolo mondo di Giovannino Guareschi, di Don Camillo e del Candido ma, ancora prima, è l’Italia di fine Ottocento, delle vecchie zie di Longanesi”. Giubilei scruta l’humus dello strapaese nelle riviste fiorentine di inizio Novecento e individua la sua marginalità nel panorama culturale italiano stigmatizzandola nella compromissione con il fascismo, nonostante le sue posizioni critiche verso il regime. Quale esempio di narrativa strapaesana si guarda a Un uomo finito di Giovanni Papini: “La campagna che sento io, la campagna mia, è quella di Toscana, quella dove ho imparato a respirare e a pensare; campagna nuda, povera, grigia, triste, chiusa, senza lussi, senza sfoggi di tinte, senza odori e festoni pagani, ma così intima, così familiare, così adatta alla sensibilità delicata, al pensiero dei solitari. Campagna un po’ monacale e francescana, un po’ aspra e un po’ nera, ove senti lo scheletro di sasso sotto la buccia erbosa e i grandi monti bruni e spopolati si rizzano a un tratto quasi a minaccia delle valli placide e fruttifere”. C’è spazio anche per uno sguardo alla nascita della Voce nell’agosto 1906, con l’obiettivo di Prezzolini di “tenere vivo il contatto col pubblico delle provincie, dei piccoli centri e delle campagne, dove si respira aria meno scettica che nelle mezze grandi città d’Italia” e ancora, la rivista si fa interprete dei “più schietti e antichi valori della cultura e della civiltà d’Italia”.

Ho un gran dolore da gettare in fondo al mare. E poi risalgo

L’estate è un buco nero.

Ingoia tutto quello che arriva dall’inverno, lo fagocita e non ne lascia più traccia.

È la terra di mezzo dove tutto è concesso.

O ci si illude almeno che lo sia.

Tutto quello che accade prima della calda stagione è come se non fosse mai successo.

Da ragazzo, i baci, le feste, le ansie da interrogazione, i buoni e i cattivi voti, gli amici, quelli da maglioni, gli amori, quelli da termosifone, i buoni propositi, quelli da bravo ragazzo d’inverno, le delusioni e le illusioni, quelle da eterno sognatore, scomparivano tutti col primo bagno d’estate.

Appena fuori dall’acqua, col sale addosso, la pelle e il corpo tutto erano ricoperti di una nuova corazza, pronta a brillare in mezzo alle più disparate battaglie estive.

È la vera fine dell’anno e l’anno nuovo riparte con l’autunno, a settembre, quando è proprio l’estate a finire.

Capodanno, per quanto mi riguarda, potrebbe coincidere perfettamente con l’ultimo giorno di mare.

Dovrebbe essere così: quando per ognuno arriva quel giorno, l’ultimo dell’estate (e per ognuno arriva in tempi diversi, chiaramente) quel giorno lì è la fine e l’inizio di ogni cosa.

Allora il mio capodanno è il 30 di settembre, a volte, altre è il 28 d’agosto, per te magari lo è il 28 di luglio, per lei boh… chissà?!

Perché l’estate è un tempo dell’anima, è un sentimento preciso, “in bilico”, cantavo e ancora canto mentre tremo, tra la ragione e la follia, tra la felicità insensata e la malinconia senza motivo, pure quella.

Poco importa, è estate!

Ci arrivo sempre così, senza essermene accorto fino in fondo di essere in mezzo al mare, sotto un sole cocente e tra la folla di gente che è un mare sopra il mare.

Arriva la stagione che più ci cambia, ci trasforma ogni volta che arriva e passa, e per alcune di queste, senti il desiderio irrefrenabile addosso che vorresti potesse non finire mai, proprio quell’estate che ti ha segnato per sempre o magari ti accorgi poi che si era solo travestita di tempo e amore solenni e invece era solo “un calesse”.

È l’illusione più potente al mondo.

“Tanto poi arriva l’estate…” ci ripetiamo come un mantra recitato a dovere, a bocca chiusa e mente aperta, mentre l’inverno si fa sempre più lungo e interminabile.

Poi arriva davvero e ricominci a cercare pure quello stesso inverno che hai mandato via con tanta irremovibile convinzione e ora, nel tempo delle stelle cadenti e dei desideri appesi al cielo, torni a sentire il mondo esplodere attorno, di nuovo, attraverso i pori aperti di un cuore ritrovato.

È il tempo di mezzo.

In cui puoi essere tutto quello che non sei stato in giorni da temperature più rigide.

Ti spogli di ogni convenzione, di ogni formalità.

Ti spogli e basta.

E questo è sufficiente a farti sentire “in stand-by” da ogni consuetudine o dovere dell’anno.

E allora l’importante è che arrivi presto e nell’attesa che lo faccia allora sogni l’estate più bella di sempre e allora, proprio allora, si trasforma in speranza.

Mai come in questo momento.

Abbiamo sognato così forte che il cuore ha sanguinato, o almeno grondato sudore.

Abbiamo desiderato il caldo e l’infuocata stagione e il suon di lei e del suo mare.

E lo abbiamo associato all’idea del ritorno a una vita semplice, normale, limpida e chiara come l’acqua che ci attira nei suoi fondali e ci rigenera fin dentro alle ossa. Si è sentito forte l’odore del mare, da quei balconi in cui abbiamo ritrovato il più prossimo vicinato e la più lontana e remota Umanità.

Si è sentito forte dalla solitudine delle nostre case, dal silenzio dei nostri giorni.

A pieni polmoni lo abbiamo respirato a distanza di centinaia di chilometri, convinti come eravamo che, comunque, il mare fosse sempre dietro l’angolo della strada più deserta.

A due passi da noi.

La speranza, come il mare, ha una grande e sconfinata pazienza.

Sa aspettare sempre fino al nuovo sole.

È un buco nero l’estate sì, lo è sempre stato ed è per questo che ora lo usiamo a nostro vantaggio, per dimenticare e ripartire.

Abbiamo un grande dolore da gettare in fondo al mare. Le sue onde possano passarci sopra fino a cancellarlo, del tutto, per sempre.

Ma nel vento sussurriamo ancora i nomi di chi abbiamo perso in quest’anno terribile, perché restino ancora incollati alla nostra bocca, appiccicati al cuore, come solo il ricordo vivo di chi abbiamo amato può fare, anche quando tutt’intorno è estate, tutt’intorno è leggerezza ritrovata.

Possa quel vento soffiarli ovunque, quei nomi, quando e dove ne sentiremo la mancanza.

L’estate è un buco nero, ma non ingoierà certo le stelle di cui abbiamo bisogno per essere cielo, le onde per essere mare.

Il “Cuore libero” di Bobo Rondelli torna a suonare dopo quattro anni

“Arrivato a quasi sessant’anni non ho più nulla da dimostrare a nessuno, e il motivo per il quale continuo a fare dischi è perché mi dà da lavorare… di tutto il resto non me ne frega niente!”. A quattro anni da Anime Storte e a due dal libro Cos’hai da guardare, Bobo Rondelli, artista poliedrico e vero e proprio animale da palcoscenico, torna con un nuovo lavoro intitolato Cuore Libero. Un album vecchia maniera, composto da 12 brani avvolti in uno spleen tutto livornese, canzoni intime disperatamente malinconiche e minimali dal punto di vista sonoro. I testi, invece, ruotano attorno al concetto del perdono, del ricordo e soprattutto a quello dell’amore. Nel mezzo del cammino, tutto ciò che scorre tra il passato e il presente: il peso delle scelte fatte, la natura che deflagra e la realtà che irrimediabilmente muta. “È un disco malinconico, nato da diverse esigenze, scritto in un periodo difficile come quello della chiusura forzata a causa della pandemia. L’ho registrato in casa, infatti volevo intitolarlo coll’indirizzo di dove abito, come fece Francesco Guccini con Via Paolo Fabbri, 43, ma altri invece hanno scelto per me”. Un cuore libero, del resto, Bobo lo è sempre stato: “Così dicono gli altri, ma riconosco di essere dipendente dall’amore, dalla musica, fortunatamente non dal calcio”. La vittoria dell’Italia agli Europei lo ha lasciato totalmente indifferente. “Non mi piacciono i festeggiamenti quando diventano di tipo patriottico: sono un cittadino del mondo, io. Certo, meglio lo sport della guerra, ma i calciatori oggi sembrano delle macchine, il colpo di estro ormai è cosa rara”. A salvarci non resta che l’amore, di cui questo nuovo disco è ricolmo. Anticipato dal singolo Sabrina, “rappresenta il primo amore di quando ancora non si eiacula. Era una ragazzina bellissima, che scherzava con tutti all’infuori di me, era un po’ un maschiaccio. Mi faceva dispetti, chiaro segno che a me fosse interessata. Poi, nel periodo in cui arrivò l’eroina, ci siamo persi di vista. Lei era una viaggiatrice tipo Arthur Rimbaud, stette diverso tempo in Messico, viaggiando in furgone, poi tornò a Livorno e qui morì per overdose”.

E ora che è possibile tornare a esibirsi davanti al proprio pubblico, colpisce che i concerti in programma di Bobo Rondelli si tengano quasi tutti in Toscana. “È perché c’è gente che qui mi conosce – risponde sorridendo –. Non vado mai in tv, non ho spazi radiofonici, le persone mi conoscono col passaparola. I promoter con me non rischiano… ma in fondo la Toscana è una regione grande, cosa vuoi che me ne importi?”.

Il “Quaderno verde” di Levi: “Va’ dove ti porta il caso”

“Per gli studiosi di Carlo Levi è il leggendario Quaderno verde: un documento inedito del secondo periodo di prigionia, a Roma, di cui si leggevano menzioni vaghe ed estratti di varia lunghezza in forma frammentata e sparsa su riviste e in volume, spesso integrati dalla mano del critico o, al contrario, lacunosi e imprecisi”. Così Gilda Policastro, studiosa di letteratura e critica, ricorda l’aura quasi mitica che per decenni ha accompagnato le annotazioni dal carcere romano di Regina Coeli, in cui era stato rinchiuso per antifascismo dal regime mussoliniano, e poi dal confino in Lucania, che Carlo Levi (Torino, 1902-Roma, 1975), narratore e pittore, scrisse quasi interamente nel luglio del 1935, con un’appendice nel 1936.

Il Diario 1935, “di cui negli ultimi vent’anni sembravano essersi perse quasi del tutto le tracce”, è stato finalmente ritrovato e viene pubblicato per la prima volta integralmente, grazie alla Policastro, nel numero 65 della rivista Autografo, edita da Interlinea, fondata da Maria Corti e diretta da Maria Antonietta Grignani, Gianfranca Lavezzi e Angelo Stella. Intitolato Azionisti e scrittura. Memoria e narrazione, il fascicolo a cura di Gianfranca Lavezzi e Giorgio Panizza è dedicato ad alcuni esponenti del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà e ai loro libri: da Emilio Lussu a Levi, da Jacopo Dentici a Fausta Cialente, a Paolo Vittorelli, a Luigi Meneghello.

Il pezzo forte è naturalmente l’inedito dell’autore di Cristo si è fermato a Eboli, lo splendido libro (pubblicato nel 1945) sul Sud e sulla Lucania che proprio nel Diario 1935 si affacciano nella sua vita. Lo testimonia nel quaderno una poesia scherzosa su Grassano, in provincia di Matera, il paese in cui venne confinato prima di Aliano. “In Provincia di Matera/ si dimentichi che era/ Sian le cinte di Grassano/ i confini dell’umano”. E concludeva in questo modo: “Chiuso dentro la ringhiera/ il cappone cresce sano,/ nel paese di Grassano/ in Provincia di Matera”.

Qualche indicazione sul diario fu lo stesso Levi, osserva Policastro, “a fornircela nelle lettere e in appunti successivi. Partiamo dalle lettere: è il 12 luglio 1935, Carlo è detenuto a Regina Coeli e scrive ai familiari mentre aspetta di conoscere la località del confino, ricevuta ormai, sebbene in via non ancora ufficiale, notizia della condanna. Teme che non potrà dipingere nella sede cui verrà destinato (come già accadeva in carcere), ma intanto si rallegra di avere con sé l’occorrente per scrivere”. Rammenterà Levi: “Il mio quadernetto ha una bella copertina verde chiaro, su cui è stampato ‘Quaderno del detenuto’… Ha 50 bellissime pagine: scrivendo piccolo ci può stare una buona parte del mio libro”.

Il “libro” che cita nel Diario, il cui autografo è oggi conservato nel Fondo Levi del Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, è un saggio sulla pittura, ma anche un “viaggio di idee e sentimenti”. Sempre Levi affermerà in seguito che “su quel quaderno di prigione, avuto dopo mesi di isolamento assoluto e di rifiuto, pensavo di evocare, scrivendolo, tutto ciò che mi era stato, e mi sarebbe stato per chissà quanto tempo di giorni e anni, negato e sottratto: le cose reali, i corpi, gli oggetti, la storia, le vicende, le relazioni, i mutamenti, le passioni, i pensieri: tutto il mondo di fuori”.

Era quel “mondo di fuori” che l’artista e letterato torinese, all’inizio del Diario 1935, rievoca il 14 luglio: “Isolato dagli uomini, mi volgo alle immagini, richiamo i ricordi di un passato che pare pieno di luce come a trovarvi una prova della vita, una certezza oggettiva che nulla nel presente mi potrebbe fornire. Ma posso realmente parlare di un passato, di un presente, di un futuro? Tutto è qui ristretto in un punto: sono rotte le leggi e l’idea stessa del tempo”. Il giorno dopo, poi, scriveva: “Non si può guardare il sole, dove ogni luce è adunata. Rivolgiamogli dunque le spalle, come quell’antico viaggiatore nei paesi agitati dell’azione senza termine, e voltiamoci come lui alla fresca acqua cadente, dove la luce si scinde in mille colori: da essi potremo poi, o con gli occhi o con la ragione, ricostruire quell’unica luce. Già la pittura, la più umana e libera delle espressioni, pare abbia trovato, in una remota sapienza, questa verità: lasciamoci dunque andare, sperando di ritrovarla a compagna, dove ci porta il caso, questa oscura tendenza del nostro cuore”.