“Faccio Unza Unza Music”“Amo i Clash. E Sanremo”

Conosciamo tutti l’Emir Kusturica cineasta, col suo cinema sgargiante, dionisiaco, sentimentale, surreale, poetico. Il regista di commedie vorticose e intrise di humour nero, venate di una malinconia di fondo per la patria perduta. Il narratore di storie mai viste prima sul grande schermo, tranche de vie magico-realistiche dalla Jugoslavia post-titina e dall’universo gitano. Il vincitore di due Palme d’Oro a Cannes con Papà è in viaggio d’affari e Underground. Non tutti sanno, invece, della sua passione per la musica, che lo vede cantare e suonare la chitarra elettrica e girare il pianeta con la No Smoking Orchestra, band fondata nel 1980 nella sua Sarajevo. La colonna sonora de La vita è un miracolo, per esempio, era roba loro, non più di Goran Bregovic. Una patchanka di “musica zigana, punk, turbo folk, jazz, reggae e ritmi balcanici. Noi la chiamiamo Unza Unza Music”, ci spiega. Domani sera sarà in concerto a L’Aquila all’interno del festival “I cantieri dell’immaginario”.

Caro Kusturica, ci rivolgiamo innanzitutto al rocker che è in lei. Quanto le è mancato suonare dal vivo nell’ultimo anno e mezzo?

Molto, perché lo scambio tra il palco e le persone che assistono a un concerto è un’emozione diretta, in questi ultimi vent’anni ha rappresentato una fonte d’energia per la mia creatività.

Il suo gruppo nacque all’inizio degli anni 80, in piena transizione post-comunista. Con la musica si fanno ancora rivoluzioni?

La musica è sempre stata un messaggio unificante forte, ma anche di rottura per le nuove generazioni. All’epoca noi ascoltavamo musica punk, i Clash, i Sex Pistols, con la loro carica “fuori controllo”. Ma oggi i tempi sono cambiati. Restavamo per ore fuori dai negozi di dischi, aspettando che aprissero, per l’uscita di un nuovo 33 giri. Adesso le persone fanno la fila per l’ultimo modello di iPhone. Si è passati dal dare importanza al contenuto, al contenitore.

Macchina da presa e chitarra elettrica. In che modo convivono, in lei, questi due strumenti espressivi?

La musica è un mezzo più immediato, che arriva subito al cuore, senza filtri. Il cinema è un’arte che ha bisogno di grosse quantità di denaro per essere prodotta e prevede il coinvolgimento di molti professionisti. Per me sono due facce della stessa medaglia, fanno parte entrambe della mia vita.

Il leitmotiv del suo primo lungometraggio, Ti ricordi di Dolly Bell?, era 24.000 baci di Adriano Celentano. Come lo scelse?

Era una canzone che aveva avuto un grande successo anche da noi: eravamo molto influenzati dalla cultura italiana. Amavo parecchio il ritmo rock’n’roll di questa canzone, si collegava a un momento di trasformazione culturale che avveniva anche in Jugoslavia.

Ha mai visto il Festival di Sanremo?

È sempre stato trasmesso dalla nostra televisione, era una manifestazione popolare pure nei Balcani.

E ha seguito gli Europei di calcio?

L’Italia ha giocato molto bene, penso sia stata una vittoria meritata. E poi, visto che la finale era contro l’Inghilterra, è facile capire per chi abbia tifato. Ho tanti amici in Italia, sono davvero felice per loro.

Cosa le manca di più del suo amico Maradona?

Diego è stato come un eroe, non credo possa avere eredi, con la stessa bravura e coraggio. Sono orgoglioso di aver realizzato un documentario sulla sua vita, anche perché fu girato durante un periodo delicato della sua esistenza. Voglio illudermi che essersi rivisto nelle immagini cinematografiche lo abbia aiutato, in parte, a superare quella fase.

Lei ha inventato un cinema sui generis. Quali sono stati i suoi maestri?

Milos Forman, tra i miei insegnanti alla scuola di Praga. Uno dei registi che ho amato di più è Fellini, ma vorrei ricordare anche il Neorealismo di De Sica, Zavattini e Rossellini. E poi Tarkovskij, e naturalmente il grande Kubrick.

E tra i cineasti italiani coevi chi stima maggiormente?

Sono amico di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, che rappresentano il cinema italiano internazionale di oggi. Ma ci sono anche autentici talenti giovani, come Alba Rohrwacher, i fratelli De Serio e D’Innocenzo, che hanno uno sguardo originale sul mondo.

È vero che sta scrivendo una sceneggiatura ispirata ai personaggi di Dostoevskij?

Sì, è ambientata ai giorni nostri. Il personaggio di Myskin, dal romanzo L’Idiota, si fonde col Raskolnikov di Delitto e Castigo. Due identità letterarie in un’unica figura filmica.

La pandemia ci ha cambiato in meglio o in peggio?

Di sicuro non è stato un momento facile, ma ha aumentato il controllo sulle nostre vite. Nella maggior parte dei casi non solo lo consentiamo, ma forniamo i nostri dati privati volontariamente. E viviamo circondati da telecamere.

Le piace il capitalismo contemporaneo?

Prevede solo di vendere e comprare: ogni domanda che possiamo porci al riguardo complica questa semplice logica.

E i social?

Non ho nemmeno lo smartphone.

Venezia, la Regata rema contro: donne premiate di meno

Hanno invocato la “tradizione”, consuetudine che affonda le sue radici fino al 1953, quando venne istituita per la prima volta la partecipazione delle donne alla Regata Storica di Venezia. Hanno difeso il dovere “democratico” di rispettare l’autonomia decisionale dell’Associazione dei Regatanti che da sempre assegna premi diversi per i due sessi. La realtà è che la maggioranza di centrodestra del consiglio comunale ha bocciato un emendamento che chiedeva l’uguaglianza di genere per una delle manifestazioni sportive più famose al mondo. Non ha voluto parificare i premi. Si è scatenata in Laguna una tempesta che rischia di fare perfino più danni delle Grandi Navi, ora messe al bando dal Bacino di San Marco. Com’è possibile discriminare le donne rispetto agli uomini per un pugno di euro più simbolico che sostanziale?

A scatenare il putiferio, con la sua inflessibilità, è stato Giovanni Giusto, leghista doc, che si fa fotografare con la bandiera della Serenissima attorno al collo ed è il consigliere delegato del sindaco Luigi Brugnaro alle Tradizioni della città. Un assessore esterno, senza stipendio.. Si è imputato per 7mila euro, all’interno di una discussione su un bilancio da 300 milioni. Adesso, nel pieno del fortunale, annuncia la novità: l’amministrazione è pronta a fare un viraggio completo. “Nessuno in giunta, tantomeno il sindaco Luigi Brugnaro, coltiva pensieri strampalati come quelli sulle differenze di genere. Finora abbiamo rispettato le decisioni dell’Associazione dei regatanti che voleva premi diversi, ma adesso decidiamo noi. Grazie ai fondi stanziati per i 1600 anni della nascita di Venezia, viste le strumentalizzazioni della vicenda, livelleremo i premi, fino a pareggiarli”. Il che potrebbe avvenire già con la Storica di settembre.

Tutto è cominciato quando in consiglio comunale, Monica Sambo, capogruppo del Pd, ha presentato un emendamento con la richiesta di stanziare 7.300 euro per portare allo stesso livello i premi tra uomini e donne. Le regate sono quattro: giovanissimi (primo premio nel 2020: 224,21 euro), caorline a sei remi (676,85 euro a testa), donne (976,85 euro a testa, 1.440 nel 2021, pari al 4° classificato tra gli uomini) e uomini (1.995 euro, 1.773 nel 2021). Il tema non costituiva una novità, ma finora aveva trovato resistenze ad essere approvato e sembrava venuto il momento di mettere le cose a posto. Finora l’amministrazione comunale si è sempre adeguata al volere dei regatanti (in maggioranza uomini), anche se è essa che pubblica il bando, con l’elenco dei premi.

Per questo il consigliere delegato Giusto si è opposto all’emendamento. Gli dev’essere sembrato una specie di strappo rispetto alle tradizioni di cui si sente il custode. “Il Consiglio comunale non può intervenire sulle modalità di spartizione del montepremi. Il Comune di conseguenza può solo fissare l’entità complessiva. L’assemblea è sovrana e noi siamo per il principio della condivisione”. Apriti cielo, detta così (e seguita dal voto contrario della maggioranza all’emendamento) è parsa chiara a tutti la volontà della giunta di privilegiare le scelte interne dei regatanti rispetto alla parità di genere. L’unico a dissociarsi dalla linea della maggioranza è stato il consigliere leghista, Nicola Gervasutti. Ha avuto buon gioco Monica Sambo a commentare: “Scandaloso, è una scelta improntata al maschilismo, in più con soldi pubblici. È la conferma di quello che avviene in Italia dove, a parità di qualifica e preparazione, le donne hanno retribuzioni inferiori”.

A cascata sono venuti i commenti delle campionesse del remo: “Un danno all’immagine per la città di Venezia, che sta già valicando i confini della laguna”, dice Elena Almansi, segretaria e portavoce dell’associazione dei regatanti. “Sono anni che l’associazione chiede al Comune la parificazione dei premi, in segreteria ho almeno 5 anni di email inviate e ricevute”. Sulla stessa linea anche Anna Mao, Romina Ardit e Luisella Schiavon, che hanno vinto cinque regate consecutive. Giulia Tagliapietra ha postato: “Che vi piaccia o no, anche le donne sono regatanti e nel 2021 siamo ancora fermi a queste discriminazioni. La cosa che mi ha fatto arrabbiare è stato sentire la consigliera Francesca Rogliani (lista Brugnaro, ndr) dire che la sorella Gloria (è stata una campionessa del remo, ndr) non vogava per i soldi. Ah, davvero? Perché gli altri vogano per i soldi? Io ho ricominciato a vogare a due mesi dal parto per i soldi? Mi alzo alle 5 del mattino per i soldi? Ma qui si parla di una questione di civiltà”.

L’annuncio del consigliere delegato Giusto sembra ora aprire uno spiraglio “Il caso è stato strumentalizzato dalle opposizioni”. Poi invita a verificare le simpatie politiche delle donne che vanno in barca. “Non potevamo decidere l’argomento dei premi con un semplice emendamento alla legge di bilancio. Adesso con gli stanziamenti per i 1600 anni di Venezia avremo le risorse per integrare il montepremi e livellarlo”. Cioè? “Pareggeremo i premi”. E in serata anche il sindaco Brugnaro conferma: “Non saranno più i regatanti a quantificarne il valore. Sarà il Comune a definirli partendo dalla parità tra uomini e donne”.

“Un bluff le garanzie degli Usa per Assange Va liberato subito”

È un’esperta eminente di sicurezza nazionale e diritti umani che lavora per Amnesty International. Ha passato gli ultimi venti anni a occuparsi di extraordinary rendition, prigioni segrete della Cia, Guantanamo, diventando anche una profonda conoscitrice dell’impatto delle garanzie diplomatiche che i governi offrono pur di estradare detenuti a rischio maltrattamenti e torture.

Due settimane fa, l’Amministrazione Biden ha offerto questo tipo di garanzie alle autorità britanniche che, nel processo di primo grado, hanno bloccato l’estradizione di Julian Assange per le sue gravi condizioni fisiche e mentali. Gli Stati Uniti hanno appellato questa decisione, “garantendo” che, se estradato, il fondatore di WikiLeaks non verrà imprigionato nel carcere americano più estremo, l’Adx Florence, dove si trova il re del narcotraffico Joaquin “El Chapo” Guzman, e non sarà soggetto al regime speciale che va sotto il nome di “Special Administrative Measures” (SAMs). Il Fatto Quotidiano ha chiesto a un’analisi a Julia Hall.

Amnesty International ha chiesto che le accuse contro Assange vengano ritirate. Lo ritiene probabile?

Avevamo qualche speranza all’inizio, quando la nuova presidenza si è insediata. Biden era il vice di Obama che, chiaramente, decise di non perseguire Assange. Poi, però (gli Stati Uniti, ndr) di Biden hanno fatto appello. A questo punto, credo che andranno avanti e la cosa inquietante, in aggiunta a questa decisione, è la durata del procedimento, che continuerà a danneggiare Assange per via delle condizioni in cui è detenuto, specialmente in tempi di Covid. Questo è parte di una strategia di tenerlo in carcere il più a lungo possibile, una morte lenta.

Può spiegarci l’analisi di Amnesty International, secondo cui le garanzie diplomatiche non funzioneranno?

Gli Stati Uniti ci hanno reso facile capire perché dobbiamo opporci all’estradizione: con una mano danno e con l’altra tolgono. Dicono: noi garantiamo che non verrà detenuto in una prigione di massima sicurezza, non sarà soggetto alle misure speciali SAMs e riceverà le cure mediche, ma se Assange farà qualcosa che non ci piace, ci riserviamo il diritto di non garantire tali condizioni. Queste non sono affatto garanzie. Il giudice (che ha negato l’estradizione in primo grado, ndr) ha stabilito che sarebbe una misura oppressiva mandarlo negli Usa, dove può essere soggetto a condizioni di detenzione che potrebbero portarlo al suicidio. Per le leggi internazionali, il divieto di tortura è assoluto, non può essere condizionato dal comportamento che lui terrà.

Giornalisti ed esperti che hanno seguito il caso per dieci anni tendono a credere che quello a cui gli Usa puntano è che Assange si suicidi o esca di prigione completamente annientato. È anche la sua conclusione?

Non sono un medico esperto di torture, quello che posso dirle è che gli standard internazionali saranno violati se verrà trasferito negli Usa e abbiamo serie preoccupazioni per il procedimento di estradizione che va avanti da oltre due anni, mentre lui è detenuto a Belmarsh in tempi di Covid, in condizioni che aggravano le sue condizioni mentali. Visto che l’Amministrazione non ritira le accuse, e quindi la procedura va avanti, lui deve essere rilasciato (in attesa della decisione finale, ndr). Non è possibile avere una sentenza che dice: questa persona è a rischio, perché le sue condizioni mentali sono veramente fragili, ma poi lo tengono incarcerato continuando a farle degenerare.

Questa settimana Amnesty ha dato un contributo deciso nel rivelare lo scandalo Pegasus: migliaia di giornalisti, attivisti, leader politici obiettivi di spionaggio attraverso la cyber-arma dell’azienda israeliana Nso Group. È tempo di una messa al bando di queste armi?

Sì, noi chiediamo una moratoria globale fino a che non sarà in funzione un quadro normativo forte ed efficace.

Talebani: ricatti e uccisioni “La pace? Via il presidente”

Giungono dall’Afghanistan storie di straordinario terrore, mentre governo centrale e talebani litigano sulle porzioni di territorio controllate. Il portavoce dei talebani nega che gli ‘studenti’ vogliano gestire il potere da soli, perché – spiega alla Ap – “i tentativi del passato di realizzare un monopolio del potere in Afghanistan non hanno avuto successo. Ma Suhail Shahin aggiunge: Nel Paese lasciato dalle truppe occidentale – il ritiro è stato fatto al 95%, ndr –, non vi sarà pace finché non ci sarà un nuovo governo frutto di un negoziato e il presidente Ashraf Ghani non sarà stato rimosso”.

Nei giorni scorsi, un nuovo round di trattative tra governo e insorti s’è svolto a Doha, senza però approdare a risultati definitivi. Ma i talebani fanno dell’uscita di scena di Ghani un punto fermo. Il clima di terrore che si respira in Afghanistan trova riscontro in un reportage della Cnn, che ricostruisce l’uccisione di uno dei traduttori afghani che hanno lavorato per gli americani. L’episodio, che risale a maggio, conferma la situazione drammatica che si profila per tutti coloro che hanno collaborato con le forze occupanti – si stima circa 35 mila persone – e che non sono riusciti o non hanno voluto trasferirsi all’estero o fare domanda di asilo negli Usa: li attendono ritorsioni e vendette.

Il 12 maggio, Sohail Pardis stava guidando da Kabul verso la provincia di Khost: voleva celebrare con la sorella la fine del Ramadan. In un tratto di strada desertico, il traduttore, 32 anni, fu fermato a un check-point dai talebani, che lo avevano già minacciato di morte. “Dicevano che era una spia degli americani, che era un infedele, che avrebbero ucciso lui e la sua famiglia”, ha riferito alla Cnn il suo amico e collega Abdulhaq Ayoubi. Avvicinandosi al checkpoint, Pardis pigiò sull’acceleratore. Abitanti di un villaggio nei pressi, che videro la scena, hanno raccontato alla Mezzaluna Rossa che i talebani spararono sul’auto; quando loro s’avvicinarono per prestare soccorso, trovarono Pardis decapitato.

I talebani, nelle ultime settimane, hanno accelerato le operazioni militari e si sono rapidamente impadroniti di larghe fette dell’Afghanistan: secondo la stampa russa, controllano il 90% del territorio. Una “bugia assoluta” secondo il ministro della Difesa di Kabul Fawad Aman: “È propaganda infondata”. Ma il capo di Stato Maggiore Usa, Mark Milley, riconosce che “gli ‘studenti’ hanno “un vantaggio strategico” e potrebbero prendere il controllo del Paese, anche se “la partita non è ancora finita”.

Cipro, l’ultima spiaggia di Erdogan

L’offensiva turca contro Cipro si sposta dal mare alla spiaggia. Dopo mesi di tensioni con le autorità greco-cipriote a causa delle esplorazioni dei fondali attorno all’isola effettuate da navi-trivella turche alla ricerca di idrocarburi, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dato il via libera al ritorno nelle proprie abitazioni dei ciprioti di etnia turca nel sobborgo fantasma di Famagosta dove si trova la lunga e bianca spiaggia di Varosha.

Durante la visita all’autoproclamata Repubblica turca di Cipro del Nord – nata nel 1974 in seguito all’invasione turca allo scopo di contrastare il colpo di Stato orchestrato dall’allora regime greco dei Colonnelli – riconosciuta solo da Ankara, il “Sultano” ha incitato la folla annunciando la riapertura parziale del sobborgo marittimo.

Meta Vip negli anni Sessanta quando nelle sue acque blu si immergevano Brigitte Bardot, Liz Taylor e altre star internazionali, Varosha e i suoi hotel lussuosi sono rimasti abbandonati perché finiti all’interno di un’area militare a cui nessun civile poteva accedere. Dal 1984, Varosha è protetta da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in cui si è stabilito che il quartiere potrà essere ripopolato solo dai suoi abitanti originari, circa 39 mila persone che vennero sfrattate dalle proprie case.

Lo status quo è stato mantenuto fino all’ottobre dello scorso anno quando, in vista delle elezioni nell’enclave turca, il premier uscente, Ersin Tatar, aveva aperto una parte molto circoscritta per visite giornaliere. Tatar era ben conscio della pericolosità di questa decisione che va contro la richiesta dell’Onu di mantenere inalterata la decisione di lasciarla inaccessibile, ma questa mossa provocatoria si è rivelata proficua vista la sua rielezione.

Con l’appoggio incondizionato di Erdogan, ora il leader turco-cipriota ha fatto un passo ancora più audace dichiarando che una parte di Varosha verrà convertita a uso civile con un meccanismo vigente per consentire alle persone di rivendicare potenzialmente le proprietà.

“A Maras (nome turco di Varosha, ndr) inizierà una nuova era che andrà a beneficio di tutti. Non abbiamo altro mezzo secolo da perdere”, ha sottolineato Erdogan durante la parata per celebrare il 47° anniversario della guerra che ha portato alla divisione dell’isola.

Le decine di negoziati promossi dalle Nazioni Unite per riunire Cipro sono naufragati in questo mare da cui sono emerse invece le ipocrisie e le contraddizioni di una Comunità internazionale e della Nato (cui Grecia e Turchia appartengono) che non sono in grado di mettere d’accordo i propri membri pressoché su nulla, né tantomeno di fare pressioni sulla Turchia a causa della sua posizione geostrategica. Così Erdogan ne approfitta.

“Non si possono fare progressi nei negoziati senza accettare che ci sono due popoli e due nazioni con pari status”, ha affermato il capo dello Stato turco. Il presidente greco-cipriota, Nikos Anastasiades e il ministro degli Esteri greco hanno definito la decisione “inaccettabile”. Anastasiades ha affermato che se la “reale preoccupazione della Turchia fosse la restituzione delle case ai legittimi proprietari… avrebbe dovuto adottare le risoluzioni e consegnare Varosha alle Nazioni Unite, consentendo in questo modo ai proprietari di tornare nelle proprie abitazioni in condizioni di sicurezza”. Anche gli Stati Uniti sono contrariati. “Questa decisione è chiaramente incompatibile con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiedono esplicitamente che Varosha sia amministrata dalle Nazioni Unite. Noi consideriamo le azioni turco-cipriote a Varosha, con il sostegno della Turchia, provocatorie, inaccettabili e incompatibili con i loro impegni presi in passato”, ha sottolineato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken.

Anche l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, ha espresso la propria preoccupazione via Twitter: “La decisione unilaterale annunciata oggi dal presidente Erdogan e da Tatar rischia di aumentare le tensioni sull’isola e compromettere il ritorno ai colloqui su una soluzione globale della questione di Cipro”.

Il governo della Repubblica di Cipro, sostenuto dall’Unione europea, rifiuta un accordo per il riconoscimento di due Stati nell’isola dato che verrebbe concessa la sovranità nazionale all’enclave turca di Cipro del Nord. Varosha è una delle zone che dovrebbero essere restituite all’amministrazione greco-cipriota nel caso si arrivi, prima o poi, a un accordo. La mossa turco-cipriota ha reso tuttavia questa ipotesi più incerta. Tutte le risoluzioni dell’Onu chiedono che Varosha sia consegnata all’amministrazione delle Nazioni Unite e che si permetta alle persone di tornare nelle proprie case.

Margherita Agnelli, eroina del socialismo

Ormai va detto:Margherita Agnelli – figlia di Gianni e Marella, madre di John, Lapo e Ginevra Elkann, oggi sposata De Pahlen – va annoverata tra le eroine del socialismo italiano tipo Anna Kuliscioff o Maria Goia. A differenza delle madrine del movimento, Margherita lavora però – per così dire – dietro le linee nemiche, dove, con incisive azioni di sabotaggio, prova a mostrare al proletariato di che lacrime grondi e di che sangue il potere che lo opprime e quali siano i sentimenti e la moralità di cui si nutrono le belle famiglie del capitalismo italiano. Riassunto: alla morte del padre e seguendo le sue indicazioni, Margherita rinunciò all’asse ereditario in cambio di 110 milioni e spicci e proprietà varie stimate in un miliardo abbondante. Tre anni dopo, però, nel 2007, chiese in tribunale l’annullamento di quell’accordo: sostenne d’essere stata turlupinata perché l’Avvocato aveva all’estero dei bei soldarelli (tra 1 e 2,5 miliardi, si disse) sconosciuti a lei e al Fisco. “Vi sono molteplici indizi che portano a ritenere come verosimile l’esistenza di un patrimonio immenso in capo al defunto Gianni Agnelli, le cui dimensioni e la cui dislocazione territoriale non sono mai stati definiti”, scrissero i pm di Milano. Alla fine si scoprì pure che l’impero degli Agnelli fa capo a una sigla sconosciuta, la “Dicembre Società Semplice”, oggi al 60% di John Elkann, che controlla la holding olandese Giovanni Agnelli Bv, che controlla la Exor, eccetera. “Pur essendo nata nel 1984 e al vertice di un gruppo quotato, né la famiglia né la Camera di Commercio si sono preoccupate di segnalarne l’esistenza in un registro pubblico, obbligatorio dal ’96 per questo tipo di società, fino al 2012. Cioè quando lo ordinò un giudice…”, ha scritto ieri il CorSera raccontando che Margherita è tornata in tribunale, il 15 luglio, per sostenere che gli atti finalmente depositati dalla Dicembre sono in vari modi irregolari… Come scrisse Brecht, “ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi; altri che lottano un anno e sono più bravi; ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi; però ci sono quelli che lottano tutta la vita: sono gli indispensabili”. E tra loro metteremo la compagna contessa Margherita Agnelli de Pahlen: hasta la victoria.

Che errore fermare Reithera

Il mese di luglio è colmo di ricorrenze scientifiche, tra compleanni di ricercatori e tappe storiche. Il 24 è ricordato perché nel 1956 è stato concesso a Ernst Brandl e Hans Margreiter il brevetto statunitense di una forma orale di penicillina. La data ci invita a una riflessione ancora attuale. Infatti quella della penicillina è l’ennesima storia del mancato riconoscimento della nostra Italia ai suoi ricercatori, spesso esaltata da un’innata esterofilia. Pochi forse conoscono la verità sull’origine della molecola che avrebbe rivoluzionato il mondo. Non è stato Alexander Fleming a scoprire la penicillina, che le ha guadagnato un Nobel, ma l’italiano Vincenzo Tiberio (1869-1915) che nel 1895 pubblicava su Annali di Igiene Sperimentale dati molto puntuali sul potere battericida delle muffe, provenienti dall’intuizione che le acque del pozzo di casa sua provocavano malattie intestinali quando venivano ripulite dalle muffe. Completò le sue prove in vivo, infettando sperimentalmente cavie che, quando venivano inoculate con un siero (primordiale) ricavato dalle muffe, guarivano. Perché fu ignorato? Semplicemente perché nessuno credette in lui. Mai più calzante il detto nemo propheta in patria sua est. Dopo 35 anni dagli studi ignorati del nostro ricercatore napoletano, nel 1929, Alexander Fleming, durante una conferenza al Medical Research Club di Londra, annunciava la “sua scoperta”. Mi scorrono alla mente quanti ricercatori durante la mia carriera, non degni in Italia di un riconoscimento, ho indirizzato verso sedi internazionali, dove adesso ricoprono incarichi di primissimo piano. E non possiamo non parlare dell’ultima delusione italiana. Mentre siamo pronti a pagare milioni per i vaccini che arrivano (anche con qualche disagio) dall’estero, è stata stoppata la ricerca italiana su Reithera, la cui sperimentazione aveva dato promettenti risultati e l’approvazione di Aifa per la fase 3. Doveva essere pagata con 81 milioni di euro provenienti dalle casse dello Stato, ma la Corte dei conti ha deciso di negare l’approvazione al decreto che avrebbe sbloccato i fondi statali indirizzati all’azienda. La ricerca era stata voluta da Arcuri, allo scopo di avere un’autarchia vaccinale. È stata sospesa quando è stato destituito dalla guida di Invitalia. Omnia munda mundis.

*direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Ma all’Europa interessa di più la giustizia civile

“La lentezza della giustizia italiana è uno dei principali fattori che scoraggiano gli investitori stranieri e sgretolano il tessuto sociale, oltre che la coscienza civica”

(da “Dieci lezioni sulla giustizia” di Francesco Caringella – Mondadori, 2017 – pag. 70)

Apri i giornali e leggi che la riforma della Giustizia partorita dalla ministra Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale, “si pone in contrasto con l’articolo 112 della Costituzione” perché estinguerebbe di fatto l’obbligatorietà dell’azione penale (Antonio Esposito sul Fatto Quotidiano). E su una posizione critica si schierano il Csm e l’Associazione nazionale magistrati, in particolare quelli antimafia.

Apri la televisione e vedi che la stessa Guardasigilli, spalleggiata dal premier Draghi, sostiene che ormai la riforma è stata approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri, compresi i quattro del M5S, e quindi sono ammessi soltanto piccoli ritocchi: come se la Costituzione medesima non prevedesse che il Parlamento è sovrano ed esercita il potere legislativo, mentre al governo spetta quello “esecutivo” proprio perché di norma esegue la volontà delle due Camere (articolo 70).

Apri infine la radio e senti al telefono il primo ascoltatore che decreta l’incostituzionalità del vaccino e/o del Green Pass, perché contrasta con l’articolo 32 della Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”: quasi che il primo comma non stabilisse che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e il secondo comma non contemplasse espressamente l’eccezione “se non per disposizione di legge”.

Povera Costituzione, repubblicana e antifascista, tirata come una coperta troppo corta da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi elettorali e le convenienze di partito. Bistrattata o invocata, di volta in volta, anche dagli eredi politici e morali di chi a suo tempo non l’ha sottoscritta. Nel carnevale mediatico quotidiano, tutti parlano della Carta come se fosse carta straccia, con la stessa disinvoltura e superficialità con cui si parla di calcio al Bar dello Sport.

In tutto questo bailamme fa specie, francamente, che il “Governo dei Migliori” si arroghi il diritto di varare una riforma fondamentale come quella della Giustizia, trincerandosi dietro l’opportunità di un trade-off per compiacere l’Europa e incassare così i primi 25 miliardi su 209 del Recovery Fund procacciati dall’ex premier Giuseppe Conte. È vero: il Piano nazionale di ripresa e resilienza recita che l’Ue ha posto come condizione che venga approvata. Ma lo chiede soprattutto per combattere la piaga della corruzione che altera la concorrenza e inquina il mercato, sollecitando processi più veloci e trasparenti non per amputarli o renderli “improcedibili”. E ancor più lo chiede per la giustizia civile, in modo da assicurare tempi rapidi e certezza del diritto agli imprenditori e agli investitori, italiani e stranieri, in funzione della ripresa economica e sociale.

Questa, come avverte la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina (M5S), “è la vera sfida, la vera rivoluzione”. In Italia, si aspettano mediamente 1120 giorni per concludere una causa civile, più del doppio della media Ocse dei Paesi sviluppati (583 giorni). Prima che venga emessa una sentenza di bancarotta si arriva fino a 12 anni e ne occorrono in media sette perché un istituto di credito possa recuperare le garanzie reali in caso di fallimento. “La riforma del civile è decisiva per l’accesso ai fondi europei”, conclude dunque la sottosegretaria, con l’obiettivo dichiarato di ridurre del 40% i tempi dei processi.

 

L’eni e cingolani non studiano un piano per ridurre i rifiuti

C’è un altro argomento assai di rilievo per l’Italia, che i giornalisti delle testate più grosse seguono poco e male. La vicenda del trattamento dei rifiuti e dell’azione del ministro Cingolani al riguardo. Il motivo sta nel fatto che da un dozzina di anni il dibattito sull’ambiente nel nostro Paese viene esposto secondo le tesi di Zero Waste Italia, un’associazione ambientalista sostenitrice che si deve arrivare ad avere zero rifiuti. Si tratta del tipico sogno ambientalista irrealizzabile oggi e per moltissimi anni, che con il proprio massimalismo è utile all’Eni (che è di gran lunga la maggior impresa nel settore della trasformazione) per fare scena e non pensare davvero a cambiamenti virtuosi in chiave ambientale. Di fatti, a grandi linee la situazione è questa. I rifiuti urbani sono circa il 70% del complesso dei rifiuti, quelli industriali un 25%, quelli ospedalieri un 5%. Ora come ora, viene riutilizzato circa il 40% dei rifiuti urbani (e il 50% degli industriali) e il restante 60% (l’altro 50% degli industriali) viene immesso in impianti di incenerimento o avviato in discarica. Tutti i rifiuti ospedalieri vanno in impianti di incenerimento. Ovviamente, gli impianti di incenerimento e le discariche producono inquinamento in maniera rilevante, seppure in modo differente. Essendo questi i grandi numeri del settore rifiuti, il problema non può essere quello di avere zero rifiuti inquinanti, bensì di introdurre nel trattamento dei rifiuti urbani una tecnologia di impianti che riduca al massimo la quota di rifiuti da incenerire. Oltretutto la martellante propaganda per i rifiuti zero è utilizzata, come detto prima, dai grossi titolari, che si servono dell’impossibilità di azzerare i rifiuti urbani da incenerire o avviare in discarica, per non studiare il modo di ridurre la loro quantità. Tra l’altro cosa possibile, perché oggi esistono particolari impiantistiche tecnologiche in grado di far scendere la quota di rifiuti urbani da incenerire o inviare in discarica da quel 60% al 15%. A tale proposito va segnalato il dato clamoroso dell’Eni, che in altri Paesi punta su tecnologie a minor impatto ambientale, ma che in Italia persiste nell’uso di inceneritori, limitandosi a dissimulare la propria scelta industriale denominandoli in vari modi. Di fronte ai mezzi di comunicazione che danno grande spazio alle grida rifiuti zero, il ministro Cingolani – il quale è un esperto del settore – pronuncia discorsi più inclini a lisciare il pelo a Zero Waste che a spiegare ai cittadini quale comportamento intenda tenere. Ma il Pnrr e la Commissione Ue stanno facendo venire il nodo al pettine. Perché il problema non è quello di eliminare gli inceneritori, ma è quale tipo di inceneritore sia oggi sostenibile. Vanno rispettati sei parametri Ue che individuano il danno non significativo, tra cui ci sono l’economia circolare e le emissioni di sostanze inquinanti. E i progetti dell’Eni non li rispettano (come trasformare l’impianto di Stagno, Livorno, in cosiddetta bioraffineria, che lascia di fatto immutata la quota del 60%) eppure vorrebbero essere finanziati dal Pnrr. Mentre l’obiettivo dell’economia circolare è agevolmente raggiungibile, adottando il sistema di trattamento meccanico biologico, che innesca una vera e propria fabbrica dei materiali fornendo grandi possibilità di riutilizzo. Il ministro Cingolani, invece che semplificare le procedure di impianti che usano combustibile solido secondario e fanghi, dovrebbe attivarsi senza incertezze per indurre l’Eni – non solo con i fondi Pnrr, ma anche con quelli propri – a seguire una strada che produca quantità ridottissime di CO2 rientranti negli indirizzi Ue. In questi giorni l’Eni ha invece detto che stoccherà la CO2 prodotta in miniere o in aree sottomarine, artifici che non possono rientrare nella politica di transizione ecologica e di economia circolare di cui parla il ministro Cingolani.

 

Giustizia, così si lasciano impuniti i colletti bianchi

Il progetto della ministra Marta Cartabia di revisione del processo penale ha indotto taluni esponenti della politica e della magistratura a chiedere di associarlo a un’amnistia che liberi gli uffici giudiziari dalla zavorra di un arretrato insostenibile, a pena altrimenti dell’insuccesso della riforma.

Nulla di nuovo né di scandaloso. Anche l’ultima amnistia, risalente al 1990, era stata concessa poco dopo l’entrata in vigore del codice Pisapia del 1989 per fare partire il nuovo rito senza il carico dei procedimenti allora pendenti. La sicumera che da allora in poi tutto sarebbe andato per il meglio e i processi si sarebbero celebrati in tempi ragionevoli aveva poi indotto nel 1992 a modificare la Costituzione, prevedendo che l’amnistia sia deliberata dal Parlamento con la maggioranza qualificata di due terzi dei suoi componenti, per rendere più difficile il ricorso a un istituto che per sua natura dovrebbe essere eccezionale e non finalizzato a svuotare le carceri o gli armadi dai fascicoli arretrati. Oggi, però, con un governo che gode del sostegno di un ampio arco di forze politiche, la maggioranza parlamentare dei due terzi potrebbe essere raggiunta.

Gli appelli levatisi a favore di un’amnistia non mirano a “colpi di spugna” generalizzati che assicurino l’impunità ai grandi criminali, perché essa dovrebbe avere a oggetto i reati con un limite massimo di pena di quattro/cinque anni di reclusione, con l’aggiunta – come è avvenuto anche in passato – di altri reati minori specificamente indicati e l’esclusione di quelli socialmente più invisi. In questo modo, pubblici ministeri e giudici potrebbero ricominciare a concentrarsi nella repressione dei delitti di maggiore spessore, senza disperdere energie inseguendo illeciti destinati a sicura prescrizione. Però, al di là delle buone intenzioni, c’è il rischio che si cancellino, insieme a episodi di microcriminalità datati e che destano poco allarme sociale, fatti di reato gravi che meritano invece di essere perseguiti anche a distanza di tempo. Per evitare che l’amnistia diventi lo strumento per lasciare indenni comportamenti altamente lesivi, occorre infatti una attenta selezione degli illeciti, ma questa operazione appare oggi molto complicata perché il nostro sistema repressivo ha perso ogni razionalità. Per inseguire il consenso popolare, da anni si assiste a inutili duplicazioni di figure criminose, alla introduzione di nuovi reati e, soprattutto, a un continuo rialzo dei minimi e dei massimi edittali che ha interessato sia molti tradizionali delitti dei “colletti bianchi” prima sottostimati, come quelli fiscali e contro la Pubblica amministrazione, sia i reati di strada, rispetto ai quali le sanzioni paiono abnormi. Il risultato è che le pene sono sempre più livellate verso l’alto e che la loro entità spesso non è significativa della obiettiva gravità dell’illecito.

Queste degenerazioni della politica criminale incidono negativamente anche sulla prospettiva di un diverso modello di giustizia penale, non più incentrata sulla reclusione ma maggiormente articolata e orientata al recupero del reo. A fronte di un sistema sanzionatorio squilibrato, un ampliamento del ventaglio e della sfera di applicazione delle misure alternative alle pene detentive, da comminare in caso di condanne contenute entro certi limiti, non farebbe che accentuare le disparità già attualmente esistenti fra le tipologie di delinquenti: coloro per i quali il carcere costituisce l’approdo pressoché obbligato e quelli che in qualche modo se la cavano sempre.

Per decongestionare tribunali e strutture penitenziarie, molto più utile sarebbe allora, oltre a snellire le regole processuali, procedere a una coraggiosa e complessiva opera di revisione che riconduca le pene alla effettiva offensività dei reati, mantenendole alte per chi attenta ai beni collettivi e ridimensionandole per quei fatti che ledono interessi patrimoniali individuali di modico valore. Altrimenti a finire dietro le sbarre, amnistia o meno, saranno i soliti noti.

*Sostituto procuratore
della Repubblica a Torino

Elisa Pazé*