Il virus corre, il green pass spinge i vaccini: record di prenotazioni

Il virus è ufficialmente ripartito. La speranza è che, grazie alla campagna vaccinale (ieri risultavano aver ricevuto 2 dosi oltre 29 milioni di italiani, il 54% circa della popolazione), le conseguenze siano lievi. Il consueto monitoraggio settimanale dell’Iss ha certificato, di fatto, l’inizio di una quarta ondata, con un deciso peggioramento della curva epidemiologica e una forte ripresa del contagio. L’indice di diffusione Rt – per lungo tempo il parametro principale per l’assegnazione dei colori – balza in 7 giorni da 0,91 a 1,21 (con punte dell’1,55), mentre l’incidenza ogni 100 mila abitanti addirittura raddoppia, da 19 casi a 41 (vicino alla soglia considerata critica per il tracciamento dei 50 casi ogni 100 mila abitanti). Ma il tracciamento è già (di nuovo) saltato, dal momento che raddoppiano (da circa 2.408 a 4.997) i casi non associati a catene di trasmissione nota, dunque non tracciabili. Tutta colpa della variante Delta ormai prevalente: “Sta aumentando la quota Delta – ha spiegato il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro – la crescita è concentrata soprattutto nelle fasce 10-19 anni e 20-29 anni. L’età media dell’infezione è 25 anni, quella del ricovero in terapia intensiva 55”.

Non ci sarà però alcun cambio di colore, almeno a breve. Il parametro dell’ospedalizzazione è infatti ovunque lontano dalle soglie critiche indicate dal decreto approvato giovedì dal Consiglio dei ministri, il 10% di occupazione dei posti letto in terapia intensiva e il 15% area medica (15%). Il tasso di occupazione nazionale dei reparti di rianimazione è stabile al 2%, con un lieve aumento nel numero di persone ricoverate che passa dalle 157 del 13 luglio alle 165 del 20 luglio. Al 2,1% anche il tasso di occupazione in area medica a livello nazionale, con il numero di ricoverati in lieve aumento: erano 1.128 il 13 luglio, sono saliti a 1.194 il 20. In alcune regioni, però, il tasso è già oltre il 5% in area medica: 5,7% in Calabria, 5,2% in Sicilia. Seguono la Campania con il 4,8% e la Basilicata con 4,7%. Sopra la media di occupazione nelle terapie intensive sono invece la Toscana (3,4%), la Sicilia (3,3%) e il Lazio (3%). L’incidenza più alta è invece in Sardegna, con 82,8 casi ogni 100 mila abitanti. Altre tre Regioni superano la soglia dei 50: Veneto (68,9); Lazio (68,8); Sicilia (64,9). Le regioni a rischio moderato sono 19, mentre due (Valle d’Aosta e Basilicata) restano a rischio basso.

Ieri il bollettino registrava 5.143 nuovi casi (tasso di positività sul totale dei tamponi). Aumentano ancora i ricoveri in area medica (+70) ma diminuisce il saldo delle terapie intensive (-3): “A fronte di un aumento dei casi che ci aspettiamo – ha dichiarato il direttore generale della prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza –, perché la curva da alcune settimane ha ricominciato a crescere, ci auguriamo che grazie all’efficacia dei vaccini, che è stata ampiamente dimostrata, questo aumento non corrisponda a una congestione delle strutture ospedaliere. Questa dovrebbe essere la differenza rispetto allo scorso anno. Ci sono dati che mostrano una buona efficacia protettiva del ciclo completo vaccinale per la variante Delta che è molto più contagiosa delle altre, almeno il doppio Può capitare – ha ricordato – che una persona vaccinata risulti positiva al test, ma i sintomi sono molto blandi. L’unico modo per difendersi è correre a vaccinarsi”.

E di corsa pare trattarsi. Dopo l’annuncio dell’obbligatorietà del green pass, è boom di richieste di vaccino un po’ in tutta Italia. Nel Lazio la media giornaliera delle nuove prenotazioni si attestava sulle 6-7 mila al giorno, ieri sono state 55 mila. In Lombardia 50 mila appuntamenti sulla piattaforma di Poste Italiane lombardi, 30 mila in più rispetto a mercoledì 21 luglio. Media doppia anche in Piemonte, triplicata in Friuli-Venezia Giulia, 5.000 prenotazioni in due ore in Liguria, 150 mila in tutta Italia

La recrudescenza della pandemia, infine, rischia di creare non pochi problemi alle ferie degli italiani, almeno quelli che hanno deciso di viaggiare oltreconfine: “La situazione si sta complicando – ancora il direttore della Prevenzione, Gianni Rezza – ci sono Paesi in Europa con incidenza molto elevata. Gli italiani che vanno in vacanza all’estero, rischiano di rimanere bloccati”.

5G, rinviato l’assalto di Iv Ue: “Effetti cancerogeni ”

C’è chi è certo che la questione è soltanto rinviata a un prossimo decreto. Perché in fondo – è la chiave di lettura di autorevoli parlamentari – “il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, della Lega, ha solo voluto rivendicare le sue prerogative in materia di 5G, pur essendo in realtà più che favorevole all’innalzamento dei limiti sull’elettrosmog tra i migliori d’Europa. E così, dovendo presidiare la materia e i rapporti con i giganti delle Tlc, ha finito per mandare fuori gioco i ministri della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e quello dell’Innovazione, Vittorio Colao”. Entrambi favorevolissimi ad adeguare immediatamente le norme italiane ai valori meno restrittivi adottati in sede europea, come chiesto da Italia Viva con un emendamento al decreto Recovery fatto invece finire su un binario morto. Alla fine di una maratona interminabile durata tutta la giornata, lunedì notte la proposta dei renziani che avrebbe innalzato le soglie da 6 Volt per metro fino a moltiplicarle per 10 fino a ben 61 volt/metro (limite fissato dall’Europa, che considera solo il rischio termico e non quello biologico come quello di alcuni tipo di cancro) è stata bocciata insieme al pacchetto di modifiche su cui non era nel frattempo arrivato un parere formale del governo.

Insomma, in Commissione Affari costituzionali, la questione dell’elettrosmog non è stata messa neppure ai voti, complice l’input dato dal ministro dei Rapporti con il Parlamento, il pentastellato Federico D’Incà, che a un certo punto ha chiesto di esaminare solo gli emendamenti che avevano ricevuto il via libera dal governo. L’emendamento di Italia Viva non era tra questi. Anzi, il ministero della Salute aveva formulato l’invito al ritiro “essendo in corso un tavolo politico e tecnico” sulla questione, su cui evidentemente non è stata ancora trovata la quadra in seno all’esecutivo. Che pure ha accordato un contentino ai renziani: è stato accolto un loro ordine del giorno con l’impegno di ritoccare al rialzo le soglie per i campi magnetici. Ma per ora i limiti in Italia restano invariati e dal Parlamento europeo arriva un alert in vista dell’implementazione del 5G: un rapporto di quasi 200 pagine afferma che sopra i 5 V/m c’è evidenza di deterioramento dello sperma, che viene sia da studi sugli animali sia sull’uomo, mentre sul cancro a carico di cellule nervose non si può stabilire una chiara correlazione, ma esistono forti indizi che impongono di restare sotto la soglia italiana. Ad affermarlo è l’Istituto Ramazzini di Bologna a cui lo Stoa, l’unità di previsione scientifica del Parlamento europeo (che definisce le valutazioni su scienza e nuove tecnologie), ha commissionato un report per valutare eventuali effetti avversi delle emissioni dei campi di energia delle antenne per il 5G, ma anche di quelle già in uso per 4G, 3G, 2G.

“È la prima revisione di tutta la letteratura fin qui disponibile dall’introduzione della telefonia mobile, circa 8 mila studi tra quelli su animali e studi epidemiologici ove disponibili”, spiega al Fatto Fiorella Belpoggi del Ramazzini, tra i principali autori del rapporto. Né lo Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) né altre istituzioni scientifiche di riferimento internazionali si erano preoccupate di valutare tutte le evidenze scientifiche fin qui disponibili sulla materia. “Le reti 5G lavoreranno in diverse bande di frequenza. Molte di queste frequenze sono state o sono attualmente utilizzate per le precedenti generazioni di comunicazione mobile”, si legge nel rapporto. “Ci sono piani per utilizzare frequenze radio molto più alte nelle fasi successive dell’evoluzione del 5G. Le nuove bande sono ben al di sopra della gamma di frequenza ultra alta (Uhf), avendo lunghezze d’onda nel centimetro (3-30 GHz) o millimetro (Mmw) a 30-300 GHz, bande utilizzate per radar e collegamenti a microonde e molto poco studiate per il loro impatto sulla salute umana”. Utilizzare le frequenze più basse del 5G – spiega il rapporto – e adottare limiti di esposizione precauzionali come quelli in vigore in Italia, Svizzera, Cina e Russia, o in singole città come Parigi, può aiutare a raggiungere questi obiettivi anche in Europa. Il punto non è la frequenza, ma il campo di emissione dell’antenna, ovvero l’intensità dell’energia emessa, che non deve superare secondo gli studi scientifici fin qui condotti nel mondo i 5 V/m. Ergo, l’Europa ha il dovere di rivedere il limite di 61 V/m, 10 volte superiore a quello indicato dalla scienza, e l’Italia di continuare a tenersi quello che già esiste (6 V/m), senza innalzarlo come vorrebbero Colao e Renzi con un regalo alle compagnie Tlc che risparmierebbero 4 miliardi sul costo d’installazione delle antenne. Livelli che neanche l’Europa è più disposta ad accettare passivamente.

In Toscana Pd e 5S contro Iv (che farà lo sgarbo a Letta?)

A vederla con gli occhi dei renziani, quello di giovedì è stato un uno-due studiato ad arte per mandare in frantumi la coalizione proprio nel giorno in cui Italia Viva avrebbe dovuto decidere se appoggiare o meno la candidatura di Enrico Letta nel collegio di Siena. “Dopo quello che è successo è evidente che il Pd vuole rompere”, dice il giorno dopo un big renziano. Quello che è successo è presto detto: giovedì, mentre Italia Viva riuniva il direttivo a Rignano sull’Arno (città natale di Matteo Renzi) per decidere sulle Suppletive di Siena, il Pd ha provocato due fratture nella coalizione sia in consiglio regionale che in consiglio comunale a Firenze. La botta più pesante è stata quest’ultima perché a Palazzo Vecchio, per la prima volta, è stato deciso che il sindaco dem Dario Nardella dovrà trovare “un’alternativa” all’ampliamento dell’aeroporto di Firenze voluto fortemente da Matteo Renzi e da Marco Carrai.

Il progetto della seconda pista di Peretola ormai era già su un binario morto dopo la bocciatura del Consiglio di Stato della Valutazione di impatto ambientale ma giovedì, per la prima volta, il Pd ha deciso di cambiare linea sposando la proposta del segretario Letta che vorrebbe una “metropolitana leggera che colleghi Pisa e Firenze” senza bisogno di ampliare l’aeroporto esistente e dando ancora più spinta allo scalo pisano. Così giovedì, nella commissione Urbanistica di Palazzo Vecchio, il Pd ha appoggiato una mozione del M5S che chiedeva di impegnare il sindaco Nardella a trovare una alternativa alla seconda pista: approvata con grande scorno dei renziani. Che subito dopo sono stati battuti a poche centinaia di metri di distanza: in consiglio regionale, dove dem e renziani governano insieme sostenendo il presidente Eugenio Giani. Il Pd (con l’aiuto delle opposizioni) ha deciso di portare la modifica dello statuto regionale direttamente in aula la prossima settimana senza passare dalle commissioni per evitare il “no” di dei consiglieri di Italia Viva. Questi ultimi infatti sono stati tagliati fuori dalle 5 nomine in più previste dal nuovo statuto tra cui tre consiglieri della giunta e due membri dell’ufficio di presidenza del consiglio regionale. Per questo si sono sempre opposti facendo già presagire a dicembre una “verifica di maggioranza” se Giani fosse andato diritto per la sua strada.

La questione era stata rinviata per la campagna vaccinale ma la prossima settimana il nuovo statuto arriverà in aula. Così nel direttivo di Italia Viva di giovedì sera – a cui hanno preso parte la vicepresidente della giunta Stefania Saccardi, il vicepresidente del consiglio regionale Stefano Scaramelli (dominus renziano a Siena) e l’europarlamentare Nicola Danti – i due strappi hanno avuto un riflesso sul sostegno a Letta a Siena. la decisione sarà presa la prossima settimana a Roma da Renzi ma già ieri sera gli esponenti di Iv hanno dato un’idea della situazione: sulla candidatura di Letta “c’è profondo malessere” ha detto Danti che poi ha spiegato che in consiglio regionale si va verso “una rottura politica molto forte” con il Pd che potrebbe materializzarsi la prossima settimana. I renziani potrebbero decidere di correre da soli a Siena candidando Paola Piomboni o Eleonora Contucci (o appoggiare il candidato leghista) provando a fare lo sgambetto a Letta come succederà già alle comunali a Grosseto e Sesto Fiorentino dove correranno insieme Pd e M5S contro i renziani.

Solinas, maxi-paga all’uomo del Tar che “salvò” la Lega

Da mercoledì 21 luglio, il presidente della Sardegna, Christian Solinas, ha il suo super manager da 240 mila euro l’anno. Cioè l’uomo che, in base ai dettami della nuova legge “poltronificio” (che ha moltiplicato le cariche in Regione, per 6 milioni di euro l’anno in più) sarà il responsabile dell’attuazione degli indirizzi politici impartiti dal governatore sardista-leghista, gerarchicamente superiore a chiunque nell’ente. E per tale ruolo, Solinas ha chiamato un tecnico: Francesco Scano, 69 anni, fino a pochi giorni fa presidente della Seconda sezione del Tar della Sardegna. Una nomina che i giornali dell’isola hanno liquidato in poche righe, quando invece da scrivere ce ne sarebbe stato molto, visto che la seconda sezione del Tar, presieduta da Scano, negli ultimi due anni ha deciso su tutti i ricorsi elettorali riguardanti le ultime elezioni regionali (14, tutti vinti da Lega e Solinas), le Comunali di Cagliari (due, vinte da Paolo Truzzu, il candidato di Solinas) e sulle nomine fatte dalla giunta (da Solinas, sulle quali la procura ha aperto un’inchiesta).

La seconda sezione, presieduta da Scano, relatore Marco Lensi, ha deliberato per esempio sul ricorso presentato da Antonio Gaia e Pierfranco Zanchetta dei Cristiano Popolari socialisti e da Marzia Cilloccu del Campo Progressista. Se fosse stato accolto, avrebbe escluso ben otto consiglieri regionali della Lega Nord, modificando profondamente la composizione del Consiglio e quindi l’attuale maggioranza sardista-leghista.

I ricorrenti sottolineavano come gli eletti dalle Lega (detti “i patrocinatori”), prima delle elezioni del 24 febbraio 2019, avessero aderito a sette partiti solo per non dover raccogliere le firme necessarie alla candidatura, per poi però presentarsi con le rispettive forze politiche e non con le liste “patrocinate”. Una tesi non accolta dalla Seconda Sezione, che così salvò la maggioranza di Solinas. Così come abbracciò le tesi della Lega anche il 23 novembre 2019 bocciando tre ricorsi sempre contro gli otto consiglieri del Carroccio. In quel caso si contestava il potere dell’amministratore federale di Lega Salvini premier, Giulio Centemero, di disporre la sottoscrizione delle liste elettorali e quindi di delegare il deputato Eugenio Zoffili alla presentazione delle liste.

Ma la seconda sezione (presieduta da Lensi) aveva ritenuto inammissibile anche la richiesta di annullamento delle elezioni comunali di Cagliari presentata il 16 giugno 2019 da alcuni candidati non eletti del centrosinistra. Allora venivano contestati l’esonero per la raccolta delle firme a favore della lista Lega Salvini Sardegna e il ritardo nella consegna delle cartoline agli elettori all’estero.

La Seconda Sezione si era occupata inoltre delle nomine di Silvia Curto e Antonio Pasquale Belloi, rispettivamente a dg della Presidenza e della Protezione civile, effettuate dal governatore (come raccontato dal Fatto), in seguito al ricorso presentato dal sindacato dirigenti regionali. In quel caso, il collegio presieduto da Scano stabilì l’inammissibilità del ricorso, rimandando la materia al giudice del lavoro. Intanto la Procura di Cagliari per quelle stesse nomine indagava Solinas per abuso d’ufficio, la sua capo di gabinetto (anch’essa magistrato del Tar), Maria Grazia Vivarelli, per induzione indebita a dare e promettere utilità e l’assessora agli Affari generali, Valeria Satta per tentata concussione.

Insomma, ce n’è abbastanza per farsi qualche domanda sull’opportunità della scelta, ma, come sottolinea Mario Guerrini, giornalista esperto di cose sarde, “nella nostra regione siamo come nella Repubblica delle banane. Il vero scandalo sardo, oltre alla commistione di interessi, è la sottomissione della stampa. La Regione la sponsorizza, per questo tutti zitti. I colleghi sono ridotti al silenzio. E il potere politico è così sempre più arrogante”.

Stampa a parte, c’è da dire che Scano ha lavorato fino all’ultimo. Ne giorno della sua nomina, il 21 luglio, il Tar si è pronunciato nella causa che riguardava un presunto abuso nella villa di Golfo Aranci del sindaco di Olbia, Settimo Nizzi (forzista, dalla settimana scorsa ufficialmente indagato per corruzione aggravata, abuso d’ufficio, turbativa d’asta e falso in un’inchiesta su una serie di appalti nel Comune). La sentenza ha sostenuto che il titolo paesaggistico vantato da Nizzi fosse valido e la vicenda sarà sanata con oblazione. A svolgere l’udienza, facendo le domande alle parti, il dottor Scano.

Danni del clima, Europa Verde: “Il Pnrr è di fatto occasione persa”

Una “campagna di paura”, secondo Luana Zanella e Filiberto Zaratti della direzione nazionale di Europa Verde: è quella lanciata sui media dai ministri Giorgetti e Cingolani sui costi economici e sociali delle politiche contro la crisi climatica. Campagna alla quale Europa Verde contrappone un rapporto sui costi che gli italiani già stanno pagando per la crisi climatica. Il solo costo delle calamità naturali fino al 2018 è stato di 308 miliardi. Ma la crisi ambientale causa 56mila decessi l’anno nelle città italiane, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Nel 2018 sono stati calcolati danni per 166 miliardi: solo Roma, Milano e Torino ne hanno subiti per 9,3. A questi dati vanno aggiunti i costi legati all’erosione costiera, al consumo di suolo, alla desertificazione e alla perdita di biodiversità.

Per Europa Verde non v’è dubbio che la conversione ecologica debba essere socialmente desiderabile e giusta, ma il governo ha tutti gli strumenti per aiutare industrie e famiglie. Purtroppo il Piano nazionale di ripresa e resilienza blocca gli investimenti su trasporto pubblico, mobilità elettrica, dispersione idrica ed energie rinnovabili e punta ancora sulle fonti fossili attraverso l’idrogeno “blu”. Il Pnrr poteva rappresentare una grande opportunità per trasformare l’Italia, ma secondo Europa Verde così non sarà perché lo si è costruito per non indebolire asset strategici industriali quali Eni. Eppure il Green Deal europeo mette a disposizione risorse importanti, oltre a quelle del Fondo sociale europeo (Fse), di Horizon 2020, Just Transition Fund, Innovation Fund, del programma Life, della nuova programmazione Ue 2021-27. Per Europa Verde la transizione ecologica è un’opportunità per costruire una nuova economia con più occupazione, duratura e non precaria, ad esempio nell’economia circolare, nel recupero edilizio, nell’agricoltura biologica, nella protezione dell’ambiente: fino a 500 mila nuovi posti di lavoro.

“Il decreto Semplificazioni appena approvato alla Camera col voto di fiducia non garantisce la sostenibilità ambientale che dovrebbe guidare l’attuazione del Pnrr il quale, nelle risorse stanziate, non affronta la sfida della transizione ecologica. Dispiace constatare che gli ambientalisti presenti in Parlamento non abbiano ritenuto necessario essere presenti in aula per votare contro questo scempio e questo governo del greenwashing e della paura” concludono Zanella e Zaratti.

Al G20 arriva un “accordino”: la crisi climatica può attendere

I grandi del mondo, o almeno alcuni di essi, hanno un problema con la decarbonizzazione. La vogliono, ma a patto che non sia in conflitto con lo sviluppo dei loro Paesi che, come dimostrato dalla storia dell’occidente fino ad oggi, va praticamente a base di petrolio e carbone. Ieri il Palazzo Reale di Napoli ha ospitato il secondo e ultimo giorno del G20 sull’ambiente, con i ministri “di settore”. Energia e clima (per la prima volta messi insieme) si sono dimostrati temi molto più divisivi rispetto a quelli – sulla tutela degli ecosistemi e della sostenibilità – affrontati nelle ore precedenti. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, lo aveva detto: sarà una giornata difficile, non tutti vogliono raggiungere gli stessi obiettivi. È inutile, era il sottotesto anche abbastanza esplicito, affannarsi a ridurre la Co2 se il resto del mondo non lo fa. E così è stato.

L’accordo raggiunto dal G20 è monco, nonostante l’approvazione di 58 dei 60 articoli previsti. I due articoli sono fondamentali sia per il contenuto che per le entità coinvolte. La prima disfatta è sul tentativo di mettere nero su bianco che il limite per l’aumento della temperatura nel mondo nel prossimo decennio rimanga sotto 1,5 gradi. La seconda riguarda invece la decarbonizzazione: due Paesi su venti non hanno approvato la chiusura delle centrali a carbone entro il 2025. India e Cina, in pratica, hanno preferito rimanere su quanto già previsto dall’accordo di Parigi. Non una tacchetta in più. La palla passa quindi ai capi di Stato. “Abbiamo preso atto che oltre un certo livello non si potesse andare – ha detto Cingolani – e abbiamo per questo rimandato la discussione al prossimo G20 con i capi di Stato. Ci sono Paesi che hanno un’economia fortemente basata sul carbone e prevedere un face-out al 2025 per loro è estremamente difficile”. L’accordo viene quindi vissuto come straordinario. “Se due anni fa vi avessi detto che tutti i Paesi erano d’accordo a rispettare gli accordi di Parigi – ha poi commentato a margine – sarebbe stata una vittoria. Ora dico che 18 Paese vanno anche oltre e che due si attengono a quanto previsto: non può essere vista come una disfatta”.

L’esito è arrivato dopo una giornata di trattative: il ministro ha cancellato la programmazione e gli interventi previsti nel pomeriggio e ha riunito tutti i ministri per ammorbidire – facendo asse con l’inviato da Joe Biden per gli Usa sui temi ambientali e climatici, John Kerry – un fronte inizialmente più ampio e che comprendeva anche Russia e Arabia Saudita. Sono stati approvati due documenti della presidenza italiana, cari a Cingolani: uno sulle città intelligenti e resilienti al cambiamento climatico e l’altro per lo sviluppo di sorgenti di energia rinnovabile offshore. “Le economie pronte al cambiamento oggi – spiega il ministro – sono Ue, Usa, Giappone (verso cui la Cina pare si sia abbastanza risentita, ndr) e Canada. Altri Paesi sono più restii”. Cita poi l’Arabia Saudita che “ha una economia basata sul petrolio” e ha affermato “di credere in un modello di circolarità avanzata” dal momento che “stanno investendo molto sul fotovoltaico ma anche sulla circolarità della CO2 per arrivare al saldo zero di emissioni. Ci sono tecnologie a cui bisognerà guardare”.

Neanche a dirlo, tra queste tecnologie – ricerca e innovazione è uno dei punti dell’accordo – ci saranno i Ccs, i sistemi di Carbon Capture Storage, che di fatto catturano la CO2 emessa dal gas utilizzato per l’idrogeno e la stoccano nei pozzi esausti di estrazione di idrocarburi. Un modo facile e veloce per le aziende e i paesi di portare la conta delle emissioni vicina allo zero.

Se sul carbone quindi non si arriva a un accordo, ancora meno netta è la presa di posizione sul gas, al quale Cingolani riserva anche un passaggio di commento al Pitesai (il piano che stabilisce dove sia ancora possibile trivellare in futuro) e che, di fatto, non solo lascia invariata la situazione attuale ma tutela anche la produzione del gas. “Confermo che non è stato fatto nulla di nuovo – spiega il ministro – ma il fatto è che se dobbiamo decarbonizzare, dobbiamo stabilizzare l’energia da rinnovabili.

Ora, se per farlo dovesse servire altro petrolio, col Pitesai non sarà possibile continuare a estrarlo. Di contro, la domanda di energia richiede gas almeno fino a che le rinnovabili non riusciranno a garantire adeguata copertura. Quindi se oggi mi si chiede ‘tu vuoi il gas?’ la risposta è ‘non lo so’”. Il problema, ribadisce, è sempre della burocrazia che deve essere semplificata per spingere le rinnovabili e in generale le opere green del Pnrr. E se gli si chiede se semplificare troppo – senza adeguato controllo – possa generare un far west di appalti senza regole, risponde che allora “bisogna avere il coraggio di dire che in alternativa si vuole uscire dagli accordi di Parigi”. La complessità, evidentemente, è un tema che può essere affrontato un aspetto alla volta.

Le parole sbagliate del Migliore. Draghi su vaccini e giustizia

È improbabile che il presidente del Consiglio sia privo di proprie idee, ma sta di fatto che pur dovendo tener conto di una maggioranza sconnessa, egli le esprime in maniera spesso confusa e non sempre competente. È confuso quello che ha detto giovedì sui green pass obbligatori, ed è anche poco chiaro l’annuncio di un voto di fiducia che blinderà la riforma giudiziaria eliminando ogni emendamento al testo Cartabia. Ripetendo quasi testualmente l’accusa che Biden lanciò il 16 luglio a Facebook (divulgando disinformazioni vaccinali i social “uccidono gente”) Draghi ha lanciato il suo anatema: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”. Frase piuttosto sgangherata, non informativa e solo in parte efficace. Qualsiasi incoraggiamento alla vaccinazione è auspicabile, ma toni così genericamente minatori potrebbero confortare le posizioni dei contrari e soprattutto irrigidire gli esitanti. Inoltre il green pass italiano che garantisce tutte le libertà dopo una sola dose di vaccino è tutt’altro che rassicurante, visto che secondo uno studio britannico la prima dose di Pfizer proteggerebbe da infezioni sintomatiche solo il 33 per cento (sarebbe efficace all’88 per cento dopo la seconda dose). Non meno insicuro il tampone con esito negativo effettuato 48 ore prima per beneficiare degli stessi privilegi offerti dalla vaccinazione incompleta.

Se lo scopo è quello di aumentare le somministrazioni, la scommessa del pass ha un suo senso. Non ne ha ed è anzi nefasta se non si comincia a fornire qualche dato agli scettici del vaccino, invece di bollarli indistintamente come branco di assassini. Se non si ricomincia a prendere sul serio il principio di precauzione (malauguratamente abbandonato in gran parte d’Europa da oltre un decennio: era incompatibile con i tagli alla spesa pubblica e alla ricerca) e se non si dice come stanno davvero le cose a proposito di un vaccino che evita fortunatamente forme gravi e decessi, ma che funziona in modo meno efficace per quanto riguarda la circolazione, specie a fronte della contagiosissima variante Delta oggi prevalente. L’obiettivo insomma non dovrebbe essere solo vaccinare, ma bloccare le contaminazioni con strumenti tuttora irrinunciabili come il distanziamento, l’uso delle mascherine e anche eventuali chiusure selettive. Biden si è scusato per le accuse di omicidio lanciate ai social. Sarebbe opportuno che anche Draghi ritirasse l’anatema e parlasse in maniera più razionale con chi non si fida dei vaccini. È quanto consigliato dal presidente del Consiglio superiore di sanità e del Cts Franco Locatelli (“Alla paura della cura si risponde con la cura della paura”).

Anche sulla riforma Cartabia, che sarà blindata con un voto di fiducia, regna la confusione. In un primo momento Draghi ha taciuto, anche se l’8 luglio fece capire ai ministri 5Stelle che il governo sarebbe saltato senza il loro assenso. La riforma sarà forse modificata, ma per ora il presidente del Consiglio sembra ignorare le critiche durissime espresse dal Consiglio superiore della magistratura, oltre che da singoli magistrati, costituzionalisti e avvocati (Nicola Gratteri, Cafiero De Raho capo dell’Antimafia, Massimo Villone, Pier Camillo Davigo, Gian Carlo Caselli, Alessandra Dolci, Giuseppe De Carolis, Franco Coppi).

Queste le forme che sta assumendo la Restaurazione inaugurata da Draghi: tornano in auge personaggi che hanno ispirato politiche e analisi fallimentari durante e dopo la crisi del 2007-2008 e che nulla hanno saputo dire sulla pandemia, sul clima, sulla rovina di una mondializzazione interamente affidata all’arbitrio dei mercati. È stata estromessa come consigliere di Palazzo Chigi un’economista innovativa come Mariana Mazzucato, ma in compenso sono rientrati nelle stanze del potere neoliberisti in parte screditati come Franco Bernabè, Francesco Giavazzi, e perfino Elsa Fornero che fallì la riforma delle pensioni.

Per rendere ineluttabile quello che è evitabile si insiste sul fatto che “è l’Europa a chiedercelo”, in cambio del Recovery Plan: a volere questa riforma giudiziaria che potrebbe mandare al macero il 50% dei processi dopo averne allungata la durata in modo che dopo 2/3 anni, in appello, scatti la prescrizione chiamata nel frattempo improcedibilità. E sarebbe ancora una volta l’Europa a imporre che sia il Parlamento, cioè la politica, a fissare le azioni penali prioritarie (una “piccola e micidiale novità” che viola l’articolo 112 della Costituzione e mina l’indipendenza della giustizia, afferma il costituzionalista Villone in sintonia con il Csm).

L’Europa non chiede nulla di tutto questo. Siamo in presenza di fake news allo stato puro, diffuse da giornalisti e politici sempre così pronti a insultare i social. L’Ue chiede processi più rapidi, ma da anni critica le prescrizioni facili e nel febbraio 2020 la Commissione europea promosse la riforma Bonafede.

C’è ancora chi si dice convinto che le fake news nascano solo nei social. Ma che dire degli editoriali giornalistici e televisivi osannanti la Restaurazione di Draghi e che propinano contro-verità? Che dire quando gli stessi giornalisti incensano gli oracolari silenzi o le sprezzature del presidente del Consiglio continuando a trattare con sufficienza i frequenti discorsi tenuti da Conte fin dall’inizio della pandemia? Varrebbe invece la pena ricordare meglio quell’inizio 2020. Conte fu il primo in occidente a scegliere di fronteggiare con metodi coercitivi una pandemia colossale: impresa non scontata nelle democrazie costituzionali.

Questo sarebbe il momento di trovare parole appropriate e persuasive: sulla giustizia, sul Covid, sul clima. Sembra che quelle parole Draghi non riesca a trovarle.

Per avviare un dialogo vero con tutti gli italiani anziché dividerli, occorre avere conoscenza, idee che si affinano nel contraddittorio, audacia nel fornire dati affidabili. Si potrebbe ricordare che più circola il virus, anche se non letale tra i giovanissimi, più si sviluppano nuove mutazioni fino al giorno in cui apparirà la variante che sfuggirà ai vaccini esistenti. Oppure si potrebbe spiegare che il “Covid lungo” non è una passeggiata, per un giovane non vaccinato che si infetti anche leggermente.

Dicono che Draghi è disinteressato al consenso. Ne dubitiamo. Le sue parole sono somministrate come ostie, anche se vuote. Se il consenso gli fosse indifferente non si presenterebbe e non sarebbe percepito come l’onnisciente che non è.

“L’élite lo ha chiamato per gestire il tesoretto”

“C’è Draghi perchè la politica ha fatto fallimento. Questa frase che risuona di bocca in bocca nel concerto dei commentatori supini, cantori di regime, è falsa e pericolosissima. Chiunque abbia memoria ricorderà che quella stessa frase precedette la marcia su Roma”.

Professor Luciano Canfora, è indubitabile che i partiti siano infragiliti, ridotti a pura testimonianza, e incapaci di esprimere un governo.

Ripeto che è una frase non solo pericolosa ma dal sapore schiettamente qualunquista, da respingere, e pure contraria alla verità dei fatti, alla cronaca di questi ultimi mesi che hanno preceduto l’avvento del governo Draghi.

Anche lei ha la testa rivolta all’indietro? Anche lei non si rassegna?

Dico che Mario Draghi è l’uomo di cui l’élite dirigente europea si fidava per gestire tutti i quattrini in arrivo. Era una condizione imprescindibile per rendere disponibile questo tesoretto. Renzi ha avuto il ruolo dello scassinatore, ma altri erano i registi dell’operazione. E ci sono elementi curiosi che riflettono questa anomalia. L’anno scorso, esattamente il 20 luglio, Mario Monti sul Corriere avvertiva che avremmo avuto bisogno, per godere dei finanziamenti europei, della ratifica finale di tutti i ventisette Parlamenti nazionali. Avremmo dunque dovuto superare la prova dei Paesi cosiddetti frugali, innanzitutto l’Olanda di quel Rutte, il premier che avversò fieramente il Recovery. E invece abbiamo scoperto con Draghi che la pratica si è chiusa in un battibaleno. Altro che Parlamenti, è bastata la controfirma della Von der Leyen, giunta fulmineamente. Stranezze, vero?

È stato Beppe Grillo a dire che Giuseppe Conte non ha nulla del rivoluzionario, non è altro che un “avvocato democristiano”.

Ma lui non capisce niente, è un sensitivo.

Risponda all’accusa di democristianità.

Perché Draghi cos’è? Abbiamo un bouquet talmente ricco di figure iscritte di diritto nel registro della Dc che fa sorridere questo giudizio. A me Conte sembrava abbastanza capace.

Adesso abbiamo Draghi.

Con una concentrazione di poteri che neanche Stalin… Tra un po’ sceglierà se fare solo il presidente del Consiglio o anche quello della Repubblica. Come De Gasperi prima dell’elezione di De Nicola a capo provvisorio dello Stato. Magari, se dovesse optare per il Quirinale, un Ainis qualunque scoprirà poteri presidenziali finora sconosciuti a noi tutti. Ma ci sono tante possibili varianti che non muteranno l’affidamento a lui di un potere assoluto, monarchico. E questo è pericoloso.

Per esempio?

Beh, potrebbe pensare di sistemare la Cartabia al Quirinale e tenersi palazzo Chigi. O fare l’inverso. Oppure puntare, come credo, a Bruxelles, il luogo dei suoi desideri. Sceglierà in completa autonomia, sottraendosi al confronto, al controllo e anche al conflitto politico, come si usa nelle democrazie.

Lei pensa che questo Parlamento sarebbe in grado?

Io penso che se Renzi non avesse scassinato, con una pura operazione di appoggio a uno schema estraneo al naturale conflitto parlamentare, il governo Conte, il centro-sinistra avrebbe potuto contendere al centrodestra il governo del Paese alle prossime politiche. E penso che si sarebbe dovuto votare se fosse risultata chiara l’impossibilità di proseguire. Ma Mattarella ha ritenuto diversamente. Lui pensa – chissà – al 2088 come prima data utile. E adesso tutto è nelle mani di Draghi.

Il sovrano.

È così. D’altronde a lui sono permesse cose che prima facevano inorridire. Si pensi solo al prolungamento dello stato d’emergenza. Il buon Cassese, il sofo dei sofi, censurava inorridito. Era il peggio del peggio. Eppure la pandemia correva forte. Adesso è silente, distratto.

Draghi è Draghi.

Ah sì, come ho sentito in tv da una signora entusiasta, credo si chiami Boralevi: lui non è un uomo, è un curriculum.

Rieccoli, è arrivata La restaurazione

Il cancelliere von Metternich, artefice del Congresso di Vienna, fu campione di diplomazia e di aforismi. “Gli abusi del potere – disse una volta – generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli”. Oggi Vienna non c’entra, eppure la restaurazione – se ci è concesso di restare nell’800 – è un venticello, un’auretta assai gentile che leggermente, dolcemente, incomincia a sussurrar.

Così ci è parso che abbia agito il governo Draghi finora, invertendo la rotta rispetto all’era Conte, spesso liquidata come populista senza dar peso al fatto che gli elettori, nel 2018, avessero chiesto un netto cambiamento rispetto alla vecchia politica. Ora l’idea è quella di una retromarcia: spazio ai camaleonti a là Talleyrand, a loro agio col Re, la Rivoluzione e l’Impero, tanti saluti a chi si era illuso di aver sradicato decennali centri di potere.

processicartabia come b.

L’ultimo caso, forse il più emblematico, è quello della riforma Cartabia, una tagliola sui tempi del processo penale (2 anni per l’Appello, uno per la Cassazione, altrimenti scatta l’improcedibilità) che spazza via lo stop alla prescrizione voluto da Alfonso Bonafede. Già bocciata da illustri magistrati (ma non dai ministri 5 Stelle e dall’ex capo Luigi Di Maio, a proposito di Talleyrand) la riforma Cartabia nasconde il più impresentabile dei padrini, ovvero quel Silvio Berlusconi a cui Luigi XVI invidierebbe l’eterna capacità di resistere a ogni sommossa. Fu Silvio, nel 2009, a promuovere il cosiddetto “processo breve”, un ddl i cui contenuti erano praticamente identici a quelli adesso riciclati dalla Guardasigilli. Con una differenza: allora la sinistra, nelle sue varie forme, denunciò la vergogna berlusconiana, mentre oggi l’indignazione è un lusso per pochi.

nominemontiani di ritorno

Le sue lacrime furono l’immagine del governo Monti, identificato – anche per colpe non sue – con la stagione dei tagli lacrime e sangue. Ora Elsa Fornero torna a Palazzo Chigi, appena chiamata come consulente del consiglio d’indirizzo per la politica economica. Un chiaro segnale di quale sia l’orientamento del governo sulle pensioni, proprio nell’anno in cui scadrà quota 100. Dopo dieci anni, la Fornero dovrà riscattare il pasticcio con gli esodati: la sua riforma lasciò 350 mila persone senza lavoro né pensione.

A Palazzo Chigi la Fornero troverà pure Anna Maria Tarantola, altra protagonista delbiennio di Monti (che la nominò presidente della Rai). Di lei si ricorda soprattutto il lungo periodo ai vertici della Banca d’Italia (con Draghi governatore), durante il quale fu autorizzata la disastrosa acquisizione di Antonveneta da parte di Mps, che spese 17 miliardi per una banca che ne era costati poco più di 6 qualche mese prima. Tutto perdonato, in un governo che già non si era fatto problemi a riesumare ministri da ancien règime, vedi Maria Stella Gelmini agli Affari Regionali e Renato Brunetta, tornato alla Pubblica amministrazione.

Licenziamenti via le tutele

Certo, prima o poi il blocco dei licenziamenti doveva saltare. Ma il termine del 30 giugno, arrivato con un compromesso che ha scontentato più i giallorosa che il centrodestra, ha avuto effetti per migliaia di persone cogliendo impreparato il governo: in Toscana Gkn ha annunciato 422 licenziamenti, in Brianza Gainnetti Ruote lascerà a casa 150 dipendenti, a Brescia la Timken taglierà 106 posti. Con Giancarlo Giorgetti che al Mise cade dalle nuvole: “Uscire dal blocco è inevitabile, ma non in questo modo. Non vogliamo il Far West”. Il quadro, se non altro, dovrebbe mettere in guardia il governo su cosa accadrà al termine dei vincoli ancora in vigore, soprattutto nei settori del tessile e della moda.

altro che “eco”green addio

In pochi mesi il governo ha dato una sterzata alle politiche energetiche e edilizie, facendo eclissare le speranze di una svolta ambientale. Il tutto col placet di Beppe Grillo, moderno Joseph Fouché passato metaforicamente dalla Rivoluzione alla polizia politica in difesa del governo e del ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani, da lui definito “grillino”. Cingolani, dal canto suo, ha fatto di tutto per smentirlo: via libera a nuove trivelle in mare, buone parole per gli inceneritori e il “mini-nucleare”, protezione dei colossi dell’automobile contro l’elettrico. E un Pnrr che destina solo il 37,7% delle risorse alle iniziative green, percentuale tra le più basse in Ue. Dati che fanno rima con le norme sblocca cantieri che tagliano i tempi sulle grandi opere e il tentato blitz sul subappalto, il cui tetto, dopo lunghe trattative, è stato spostato al 50%.

Cashbacksubito sospeso

Lo hanno utilizzato 9 milioni di italiani e ha spinto la app Io, utile anche per alcune interazioni con la Pa. Il cashback, però, nel secondo semestre del 2021 non ci sarà. Il governo ha deciso di sospenderlo perché, secondo Draghi, “ha indirizzato le risorse verso le categorie e le aree del Paese in condizioni economiche migliori”. Una misura che favorirebbe i ricchi, insomma. Si cercherà di combattere la piccola evasione in altro modo e soprattutto si penserà ad altri sistemi per favorire la digitalizzazione nei rapporti tra Stato e cittadini.

PrivilegiCasta in festa

Qui il governo non c’entra, ma il clima generale consente di puntare in alto. Finita l’era anti-casta dei governi M5S, al Senato sono tornati i vitalizi per i condannati per reati contro la pubblica amministrazione e ora Palazzo Madama potrebbe bocciare definitivamente il ricalcolo degli assegni degli ex eletti con il sistema contributivo. Umiliando così la storica battaglia dei “giacobini” 5 Stelle: ormai pronti alla morte, distesi in una vasca da bagno, con in mano la lettera del proprio assassino.

Corruzione, Palamara a processo

Sarà processato il prossimo 15 novembre l’ex magistrato e consigliere del Csm, Luca Palamara, insieme ad Adele Attisani, accusati dalla Procura di Perugia di corruzione per un atto d’ufficio. Lo ha deciso ieri il gup perugino Piercarlo Frabotta, che nella stessa udienza ha prosciolto l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, che rispondeva di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, e accolto la richiesta di patteggiamento per l’imprenditore Fabrizio Centofanti, 1 anno e 6 mesi (pena sospesa) per corruzione. L’inchiesta si sviluppa a cavallo tra il 2013 e il 2019, quando Palamara – ex presidente dell’Anm e consigliere del Csm dal 2014 al 2018 – era sostituto procuratore di Roma dove puntava al ruolo di procuratore aggiunto.

Secondo i pm perugini, Gemma Miliani e Mario Formisano, coordinati dal procuratore capo, Raffaele Cantone, Palamara in quegli anni avrebbe ricevuto “utilità” per sé e per la Attisani, definita “istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria” dei presunti favori corrisposti da Centofanti. Così facendo, Palamara avrebbe permesso all’imprenditore romano di “accrescere il suo ruolo e prestigio di lobbista” facendolo “partecipare ad incontri pubblici o riservati” con numerosi magistrati. In seguito gli avrebbe “dimostrato disponibilità” nel “poter acquisire”, anche tramite colleghi, “informazioni riservate” sulle indagini delle procure di Roma e Messina, che riguardavano proprio Centofanti e gli avvocati siciliani Piero Amara e Giuseppe Calafiore.

Nel lungo elenco di favori contestati a Palamara, risulta un viaggio a Madrid, i soggiorni a Madonna di Campiglio, Favignana, San Casciano dei Bagni (Siena), Londra, Dubai e Ibiza, che il magistrato ha fatto in compagnia dei figli o della Attisani. Alla donna sarebbero stati pagati i trattamenti in un centro estetico della capitale, e gli spostamenti con autisti personali da e per l’aeroporto di Fiumicino. Ma anche alcune ristrutturazioni nell’appartamento romano, come le impermeabilizzazione di terrazze e fioriere (23mila euro), manutenzione dell’impianto elettrico e videosorveglianza, la realizzazione di una veranda (22mila euro), l’acquisto di copri vasi in alluminio e una tapparella (11mila). Il tutto sarebbe stato pagato sempre da Centofanti. “Ero uno sponsor dell’attività politico correntizia di Palamara – ha detto ai magistrati Centofanti, nelle dichiarazioni spontanee rese lo scorso giugno –. Il mio interesse era di avere frequentazioni e organizzare convegni con sponsorizzazioni significative. In quel periodo ho organizzato meno convegni rispetto agli anni precedenti, ma più redditizi”. “Non temiamo affatto l’approfondimento dibattimentale e siamo certi che in quella sede si potranno chiarire a 360 gradi tutti gli aspetti di questa vicenda ed emergerà pienamente l’innocenza del nostro assistito” ha commentato l’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni e Mariano Buratti, difende Palamara.