L’ennesima bocciatura della riforma Cartabia arriva da Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (corrente Autonomia e Indipendenza), ex pm antimafia e direttore generale dell’ufficio detenuti, tra i responsabile dell’attuazione del regime carcerario più duro, il “41 bis”.
Ardita, qual è la criticità principale della riforma?
C’è un equivoco di fondo: gli obiettivi sono importanti e condivisibili, ma i mezzi sono inadeguati, addirittura contraddittori rispetto agli scopi. Partiamo dalla lunghezza dei processi, tema legato alla prescrizione. Non basta dichiarare l’intenzione di accorciare i tempi, perché i tempi sono legati agli adempimenti e, se non si riducono gli adempimenti, è impensabile che i tempi si accorcino.
La riforma prevede – salvo proroghe di un anno o di 6 mesi per processi complessi e reati gravi – la durata massima di due anni per l’appello e un anno per la Cassazione. Cosa non va?
Poiché la tempistica non è legata allo snellimento degli adempimenti ed è dettata dall’alto, pena l’improcedibilità dall’appello in poi, e poiché già sappiamo che non potrà essere rispettata, nei fatti diventa un’amnistia. È una follia. Manderemmo in fumo il lavoro giudiziario a caso, senza alcun criterio razionale, slegato sia dalla gravità sia dalla vetustà dei processi. Un processo per un piccolo spacciatore che dura 10 anni in primo grado e 2 anni in appello (in totale 12) non verrebbe colpito da nessuna sanzione. Quello per un grosso trafficante di droga che dura 3 anni, di cui sei mesi in primo grado e 2 e mezzo in appello, diventa improcedibile. Qual è il significato strategico di questa amnistia random?
Lei intravede un’incidenza negativa su reati di mafia e corruzione?
Qualunque forma criminale organizzata ottiene un beneficio da un sistema processuale inefficiente. Se non bastasse, quando la giustizia dello Stato non funziona, è proprio quella della mafia ad attivarsi. Anche i fenomeni di corruzione sono più difficili da contrastare, se bisogna fare i conti col pallottoliere delle improcedibilità.
C’è comunque necessità di una riforma? In quale direzione? E perché?
C’è bisogno di una riforma radicale della giustizia penale. Una riforma che renda il rito penale non semplice, ma semplicissimo. Un processo allo stato degli atti, raccolti dal pm e dalla difesa, con pari dignità di prova. Una motivazione semplificata delle sentenze. Un regime di sanzioni diversificato, rispetto al quale il carcere sia una soluzione minoritaria, da adottare obbligatoriamente per soggetti pericolosi. Chi vuole un rito ordinario, lungo, orale, se viene condannato andrà incontro a un altro registro di sanzioni, molto più gravi. Allo stesso trattamento – al rischio di un aggravamento – dev’essere sottoposto chi appella una sentenza. I processi diminuirebbero. E sarebbero più agili. Ne sono certo.
Della riforma cosa salva?
Le pene alternative, la messa alla prova e la giustizia riparativa per i condannati. Ma senza nessuna esperienza, formazione e cultura di controllo delle pene alternative al carcere, non possono funzionare. Anzi, completerebbero il disastro di un sistema penale inefficiente. Ritengo assurdo che non esista un progetto sulle carceri, che investa sugli operatori e comprenda le ragioni del disagio dei detenuti, dell’indisciplina interna, delle rivolte del marzo scorso e del modo illegale con cui è stato riportato l’ordine interno. Ma vedo solo parole. Nessun fatto concreto.
La fiducia degli italiani nella magistratura è ai minimi storici. Perché?
È bassa perché, a dispetto dell’operato onesto e proficuo dei singoli, la magistratura appare come una struttura di potere organizzata e gelosa delle sue prerogative. La sua rappresentanza, che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza, s’è trasformata nel potere che gestisce l’autonomia. La crisi delle altre istituzioni l’ha reso il più stabile e duraturo dei poteri, il governo più strutturato e meno disponibile al cambiamento.
Il rimedio?
Nessun sistema di potere si sopprime da sé: l’unica speranza è una modifica legislativa che mantenga (o restituisca) indipendenza e autonomia ai magistrati e spazzi via questo modello reazionario di autogoverno. Basterebbe introdurre anche una tantum il sorteggio dei componenti del Csm. Ma gli altri poteri non ci pensano neanche. O le altre istituzioni ritengono questo potere così forte da temerne le reazioni, oppure pensano a una riforma radicale che porti via sia il potere dell’élite sia l’autonomia dei magistrati. Prospettive entrambe preoccupanti.