“Questa riforma è una follia. Nei fatti sarà un’amnistia”

L’ennesima bocciatura della riforma Cartabia arriva da Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (corrente Autonomia e Indipendenza), ex pm antimafia e direttore generale dell’ufficio detenuti, tra i responsabile dell’attuazione del regime carcerario più duro, il “41 bis”.

Ardita, qual è la criticità principale della riforma?

C’è un equivoco di fondo: gli obiettivi sono importanti e condivisibili, ma i mezzi sono inadeguati, addirittura contraddittori rispetto agli scopi. Partiamo dalla lunghezza dei processi, tema legato alla prescrizione. Non basta dichiarare l’intenzione di accorciare i tempi, perché i tempi sono legati agli adempimenti e, se non si riducono gli adempimenti, è impensabile che i tempi si accorcino.

La riforma prevede – salvo proroghe di un anno o di 6 mesi per processi complessi e reati gravi – la durata massima di due anni per l’appello e un anno per la Cassazione. Cosa non va?

Poiché la tempistica non è legata allo snellimento degli adempimenti ed è dettata dall’alto, pena l’improcedibilità dall’appello in poi, e poiché già sappiamo che non potrà essere rispettata, nei fatti diventa un’amnistia. È una follia. Manderemmo in fumo il lavoro giudiziario a caso, senza alcun criterio razionale, slegato sia dalla gravità sia dalla vetustà dei processi. Un processo per un piccolo spacciatore che dura 10 anni in primo grado e 2 anni in appello (in totale 12) non verrebbe colpito da nessuna sanzione. Quello per un grosso trafficante di droga che dura 3 anni, di cui sei mesi in primo grado e 2 e mezzo in appello, diventa improcedibile. Qual è il significato strategico di questa amnistia random?

Lei intravede un’incidenza negativa su reati di mafia e corruzione?

Qualunque forma criminale organizzata ottiene un beneficio da un sistema processuale inefficiente. Se non bastasse, quando la giustizia dello Stato non funziona, è proprio quella della mafia ad attivarsi. Anche i fenomeni di corruzione sono più difficili da contrastare, se bisogna fare i conti col pallottoliere delle improcedibilità.

C’è comunque necessità di una riforma? In quale direzione? E perché?

C’è bisogno di una riforma radicale della giustizia penale. Una riforma che renda il rito penale non semplice, ma semplicissimo. Un processo allo stato degli atti, raccolti dal pm e dalla difesa, con pari dignità di prova. Una motivazione semplificata delle sentenze. Un regime di sanzioni diversificato, rispetto al quale il carcere sia una soluzione minoritaria, da adottare obbligatoriamente per soggetti pericolosi. Chi vuole un rito ordinario, lungo, orale, se viene condannato andrà incontro a un altro registro di sanzioni, molto più gravi. Allo stesso trattamento – al rischio di un aggravamento – dev’essere sottoposto chi appella una sentenza. I processi diminuirebbero. E sarebbero più agili. Ne sono certo.

Della riforma cosa salva?

Le pene alternative, la messa alla prova e la giustizia riparativa per i condannati. Ma senza nessuna esperienza, formazione e cultura di controllo delle pene alternative al carcere, non possono funzionare. Anzi, completerebbero il disastro di un sistema penale inefficiente. Ritengo assurdo che non esista un progetto sulle carceri, che investa sugli operatori e comprenda le ragioni del disagio dei detenuti, dell’indisciplina interna, delle rivolte del marzo scorso e del modo illegale con cui è stato riportato l’ordine interno. Ma vedo solo parole. Nessun fatto concreto.

La fiducia degli italiani nella magistratura è ai minimi storici. Perché?

È bassa perché, a dispetto dell’operato onesto e proficuo dei singoli, la magistratura appare come una struttura di potere organizzata e gelosa delle sue prerogative. La sua rappresentanza, che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza, s’è trasformata nel potere che gestisce l’autonomia. La crisi delle altre istituzioni l’ha reso il più stabile e duraturo dei poteri, il governo più strutturato e meno disponibile al cambiamento.

Il rimedio?

Nessun sistema di potere si sopprime da sé: l’unica speranza è una modifica legislativa che mantenga (o restituisca) indipendenza e autonomia ai magistrati e spazzi via questo modello reazionario di autogoverno. Basterebbe introdurre anche una tantum il sorteggio dei componenti del Csm. Ma gli altri poteri non ci pensano neanche. O le altre istituzioni ritengono questo potere così forte da temerne le reazioni, oppure pensano a una riforma radicale che porti via sia il potere dell’élite sia l’autonomia dei magistrati. Prospettive entrambe preoccupanti.

L’Ocse ci osserva (e nel 2010 stangò il “processo breve”)

L’Italia che sta per varare la riforma Cartabia sulla Giustizia è sotto osservazione dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. È infatti sottoposta, proprio in questi mesi, alle verifiche periodiche realizzate dall’Ocse-Working Group on Bribery, il gruppo di lavoro sulla corruzione che ha il compito di controllare l’attuazione e l’applicazione nei vari Paesi della Convenzione Ocse contro la corruzione e la Raccomandazione del 2009 sulla lotta alla corruzione internazionale nelle operazioni economiche internazionali.

Il Gruppo lavora realizzando periodicamente controlli sulla situazione nei Paesi membri. Le ultime verifiche hanno riguardato la Slovenia, la Nuova Zelanda e la Bulgaria. Ora tocca a Francia e Italia. I controlli in corso – rallentati dalla pandemia – cominceranno a essere valutati nel prossimo incontro di lavoro del Gruppo, che sarà a ottobre.

Interpellato dal Fatto, il presidente del Working Group on Bribery, Drago Kos, ha detto di non conoscere i contenuti della riforma proposta dalla ministra italiana della Giustizia, che molti magistrati e giuristi hanno criticato perché rende “improcedibili” (dunque morti) i processi che in Appello durino più di due anni. Kos è però pronto, in proposito, a “invitare le autorità italiane a riferire su tale iniziativa durante il nostro primo incontro in ottobre. Successivamente, il Gruppo deciderà su ulteriori misure, se necessario”.

C’è un precedente: un intervento molto netto nel 2010, in relazione a una proposta sulla prescrizione simile a quella della riforma Cartabia (era il cosiddetto “Processo breve” tentato allora dal governo Berlusconi, che faceva morire i processi che durassero più di sei anni: due in primo grado, due in Appello e due in Cassazione). Il predecessore di Kos, Mark Pieth, aveva inviato a nome del Working Group on Bribery dell’Ocse una lettera molto dura all’allora ministro italiano della Giustizia, Angelino Alfano. Il copione potrebbe ripetersi ora, nel caso il Gruppo dell’Ocse si convincesse che le modifiche di legge introdotte da Cartabia rendono più difficile il contrasto alla corruzione: “Se sarà così, proporrò una forte reazione da parte del Working Group”, dice al Fatto il presidente Kos.

Fondato nel 1994, il Gruppo di lavoro dell’Ocse sulla corruzione nelle operazioni economiche internazionali ha messo a punto un sistema di controlli incrociati (peer-review) a cui vengono via via sottoposti tutti i Paesi membri. È arrivato alla quarta fase operativa ed è considerato da Transparency International il “gold standard” di verifica sul rispetto da parte dei Paesi delle convenzioni internazionali sulla corruzione. L’Italia è stata già oggetto di verifica nel 2004 (fase 2) e nel 2011 (fase 3). La fase 4 dovrebbe concludersi nel dicembre 2021.

L’ultimo rapporto del gruppo Ocse sull’Italia, datato dicembre 2011, contiene una parte consistente dedicata proprio alla prescrizione (“Statute of limitation”) responsabile in Italia della morte di migliaia di processi. Nelle raccomandazioni finali del rapporto, si chiedeva all’Italia, tra l’altro, di “adottare le misure necessarie per estendere la durata del termine di prescrizione definitivo (vale a dire il periodo di completamento dei procedimenti giudiziari compresi tutti i ricorsi) per il reato di corruzione internazionale (come chiesto dalla Convenzione Ocse, articolo 6)”.

Ora la proposta legislativa della ministra Cartabia riguarda di nuovo (anche) la prescrizione e di nuovo potrebbe portare all’impossibilità di giudicare gli imputati di reati di corruzione. Il Gruppo Ocse è al lavoro.

Ecco l’ultima furbata: Cartabia frena il Csm che la vuole criticare

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, subissata di critiche degli addetti ai lavori per la riforma penale che garantirebbe l’impunità a mafiosi e corrotti (e non solo), ha fatto una mossa last minute ed è riuscita così a far saltare un dibattito di fuoco al plenum del Csm di mercoledì prossimo. Un appuntamento che l’avrebbe messa in grave difficoltà, dato che si sarebbe dovuto discutere e votare il parere-stroncatura licenziato due giorni fa dalla Sesta commissione del Consiglio. Proprio l’altroieri, il giorno in cui la Sesta ha deliberato la bocciatura della norma sulla prescrizione-improcedibilità, Cartabia ha sentito la necessità improvvisa di chiedere il parere del Consiglio “sull’intera” riforma penale: così, il presidente Sergio Mattarella ha deciso che, di fronte alla richiesta della Guardasigilli, non sarebbe stato istituzionalmente corretto inserire nell’ordine del giorno quel parere stilato solo sulla prescrizione-improcedibilità e non sull’intera riforma.

La mossa della ministra arriva nel momento in cui è ormai lampante che, non solo i togati, ma pure la maggioranza dei laici al Csm ritenga che la riforma sia dannosa. Diversi consiglieri in conversazioni fuori registrazione, bollano la richiesta di Cartabia come “evidentemente strumentale”, data la tempistica, avanzata solo per evitare critiche del Consiglio in giorni politicamente difficili.

Un fatto è certo, fino a giovedì la ministra aveva ignorato il Csm e dal ministero non era neppure arrivato il testo della riforma all’ufficio studi del Consiglio. Della richiesta della ministra, il presidente della Sesta, Fulvio Gigliotti, laico M5S, è stato informato quando ormai il parere era stato votato dalla commissione ed era già stato inoltrato, come da regolamento, al vicepresidente David Ermini, per chiedere al presidente Mattarella, l’unico titolato a firmare gli ordini del giorno (come capo del Csm), di inserirlo in quello di mercoledì.

Ed è Ermini, con una nota, a riportare la decisione di Mattarella e la sua motivazione, dopo la mossa della ministra che spera, nel frattempo, in un accordo politico: “È necessario – motiva il rinvio Mattarella – che il Consiglio non ometta di esprimersi su tutti gli aspetti della proposta del governo, circostanza che potrebbe assumere il significato di valutazione di ridotta importanza o di implicito consenso su tutti gli altri temi non trattati nel parere sull’improcedibilità” e quindi, riferisce sempre Ermini, il presidente ha ritenuto opportuno che “sia posticipata, anche solo di pochi giorni” la discussione in plenum.

In realtà, nel parere della Sesta si specificava che i consiglieri, per motivi di tempo (data la stretta agenda parlamentare) si erano concentrati sulla questione più urgente, la norma che mette a rischio migliaia di processi: sul resto della riforma ci sarebbero tornati. Inoltre – spiegano dal Csm – in plenum ci sarebbero stati consiglieri che avrebbero presentato emendamenti su altri punti critici, come le linee generali ai pm dettate dal Parlamento.

Sul rinvio del plenum interviene Eugenio Albamonte, segretario di Area, la corrente progressista delle toghe: “Trovo singolare che proprio nel momento nel quale il ministro annuncia che la riforma del processo penale verrà votata con la fiducia e sostanzialmente l’Aula sarà privata della possibilità di fare emendamenti, si impedisca o comunque si ritardi un parere del Csm che era già pronto e poteva essere votato velocemente offrendo il contributo che il Csm istituzionalmente è tenuto a rendere al governo e al Parlamento su riforme che riguardano il funzionamento della giustizia”. I consiglieri, comunque, sono tutti d’accordo che ora più che mai questo plenum “s’ha da fare”, anche a costo di fissarne uno straordinario ai primi di agosto. Ma chissà se ormai sarà fuori tempo massimo.

In ogni caso, martedì pomeriggio c’è un plenum straordinario sul parere che riguarda la riforma civile: in quell’occasione non è detto che alcuni consiglieri non vogliano dire la loro anche sulle norme del processo penale su cui sono stati “imbavagliati”.

Conte resiste: modifiche per convincere Draghi e tenere compatto il M5S

L’avvocato che diventerà capo ha una montagna da scalare e si sapeva, quel monte si chiama Mario Draghi. Eppure Giuseppe Conte vuole insistere sulle sue proposte per sminare la controriforma Cartabia. Anche se Palazzo Chigi ha eretto un primo muro, quello del voto di fiducia, l’ex premier proverà a tenere il punto, “perché i nostri sono correttivi di buon senso” come ha spiegato in alcuni colloqui. Tradotto, chiederà ancora l’aumento di tutti i termini processuali per Appello e Cassazione, con tre anni per il secondo grado, aumentabili a quattro su richiesta dei giudici in caso di processi complessi. E insisterà per applicare a tutti i processi per mafia le norme sulla prescrizione della riforma Bonafede.

Proposte inviate tra mercoledì e giovedì alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Con cui le distanze restano soprattutto su due punti, raccontano. Ossia sulla lista di reati a cui non applicare la sua riforma, troppo lunga secondo la ministra. E sul calcolo dei tempi per il secondo grado. Cartabia vorrebbe farli decorrere dal deposito della richiesta di appello, mentre Conte vorrebbe farli scattare dalla prima udienza. Differenze non di poco conto. “Ma per tenere assieme i parlamentari Conte deve ottenere modifiche evidenti” conferma un big. E d’altronde che il M5S sia sfarinato si è visto anche nelle ultime ore. Con una ministra, Fabiana Dadone, che ventila le dimissioni proprio per lo scontro sulla prescrizione (per poi pentirsi); un deputato, Giovanni Vianello, che nega la fiducia al governo sul dl Semplificazioni e quindi dovrebbe essere espulso, e tanti parlamentari che marcano visita alla Camera per implicita ribellione o voglia impellente di mare. E d’altronde a seminare buche sulla strada dell’avvocato c’è il centrodestra, che non vuole lasciarlo solo al tavolo con il premier. Così ecco che Forza Italia, sostenuta da Lega e Fratelli d’Italia, fa sapere di voler “allargare il perimetro” del ddl di riforma del processo penale alla riforma dell’abuso di ufficio e degli altri reati contro la Pubblica amministrazione.

Se ne discuterà nell’ufficio di presidenza della commissione Giustizia, lunedì, ma nell’attesa il governo accoglie l’ordine del giorno al decreto Recovery di Enrico Costa (Azione) che invita l’esecutivo a modificare la legge Severino nella norma in cui prevede la sospensione degli amministratori locali dopo la condanna in primo grado per abuso di ufficio. Dalle parti di Palazzo Chigi colgono i segnali. Ma la priorità è tenere aperto il filo con Conte. Giovedì in Cdm Draghi ha giocato la carta ruvida del voto di fiducia, ma non bisogna drammatizzare, fanno capire. Perché è vero, come aveva anticipato il Fatto a detta di Draghi Conte nelle scorse ore ha chiesto troppe modifiche alla controriforma Cartabia. “Ma si può trattare, andando oltre la norma transitoria” ossia oltre allo slittamento della riforma alla fine del 2024, ormai assodato. E poi, sostengono, “il Pd non ha fatto mica controproposte concrete, quelle le aspettiamo da Conte”. Traduzione, Palazzo Chigi comprende che il capo del M5S ha bisogno di intestarsi tutte le novità. Però il percorso quello è, stretto. Lo sanno bene i quattro ministri del M5S con cui Conte ha fatto un punto veloce giovedì sera via Zoom, dopo il Cdm. Poche ore dopo, ad Agorà, la ministra Dadone inciampa o magari dice solo la verità: “Dimissioni dei ministri se non c’è accordo sulla giustizia? È un’ipotesi che dovremo valutare insieme a Conte”.

Pochi attimi, ed è ovvio trambusto. Così la ministra deve fare dietro-front su Facebook: “Non è nel mio stile minacciare ma è nel nostro stile dialogare e confrontarci. Lo stanno facendo Draghi e Conte e sono certa troveranno punti di incontro”. Nel frattempo l’ex premier arriva alla Camera e sale agli uffici del M5S. È lì per girare un audio per la votazione sullo Statuto, fissata per il 2 e 3 agosto. Ma ne approfitta per incontrare e tastare il polso a diversi eletti. Poi esce e dice un pugno di sillabe: “La mediazione sulla giustizia? Ci stiamo lavorando”. A margine alcuni 5Stelle, nervosi: “Draghi possiamo anche sostenerlo, ma i nostri al governo hanno stancato”. Torna a sibilare una formula che è maledizione, appoggio esterno. Pare schiuma da malessere. Ma in Aula gli assenti sono tanti. Un altro avviso, anche per Conte.

Pronti a tutto

Nel vedere Conte e i 5Stelle dibattersi fra le opposte tentazioni di uscire dal governo e di restarvi, e intanto arrabattarsi per “migliorare” con ritocchini tecnici il Salvaladri&mafiosi della Cartabia, sorge il dubbio che non abbiano ancora colto il punto: questo governo non è nato per portare i migliori al posto dei peggiori, ma per far fuori Conte e i 5Stelle, per giunta coi loro voti (senza, non sarebbe mai nato); e la “riforma della Giustizia” non è nata per abbreviarne i tempi come chiede l’Ue, ma per piegarli nell’ultima genuflessione (dopo quelle su Figliuolo, salario minimo, licenziamenti, transizione antiecologica, cashback ecc.). Il disegno è spappolarli e annettersi la parte “governista”: cioè Grillo che li ha cacciati in questo cul de sac e Di Maio&C. che ci han subito preso gusto. Il tutto in vista della prosecuzione del regimetto di larghe imprese anche nella prossima legislatura, per potare le due ali non allineate al Sistema: da una parte la Meloni, dall’altra Conte e quei 5Stelle che ancora ricordano perché sono nati, stanno in Parlamento e al governo.

Non capirlo è indice di una preoccupante auto-sotto valutazione. Altrimenti tutti i “grillini” capirebbero che, nel Paese dell’Illegalità, la blocca-prescrizione di Bonafede non è UNA riforma fra le tante, ma LA riforma: la quintessenza del principio di legalità – la legge è uguale per tutti – che Flaiano definì l’unica vera rivoluzione italiana. E sui principi fondamentali non si tratta in nome della riduzione del danno o del male minore. O, se si tratta, bisogna farlo da posizioni di forza. Cioè essere pronti a tutte le opzioni: anche a uscire dal governo. Il che non vuol dire andarsene subito, ma essere disposti a farlo. Se la controparte – Draghi, massimo garante della Restaurazione – ha anche solo il sentore che non usciranno mai qualunque cosa faccia, continuerà a fare qualunque cosa, minacciando dimissioni che non darà mai, per metterli (anzi lasciarli) genuflessi. Si può capire che Conte non voglia debuttare uscendo dal governo, vista anche l’informazione da Terzo mondo che lo dipinge come un vedovo del potere, anziché come un giurista che – come tutti i giuristi degni di questo nome – conosce gli effetti catastrofici del Salvaladri&mafiosi. Ma, se la trattativa non dovesse eliminarli tutti – e sono tanti –, Conte dovrebbe tornare a interpellare gli iscritti sulle tre opzioni possibili: restare al governo, ritirare i ministri e dare l’appoggio esterno solo sui provvedimenti condivisibili, passare all’opposizione e rovesciarlo. La “fiducia” è una cosa importante e ogni governo deve meritarsela coi fatti. Tantopiù se è il governo Draghi ad aver bisogno del M5S e non il M5S ad aver bisogno del governo Draghi.

Tovaglia a scacchi e cestino pronto: c’è il “Giro d’Italia in 70 picnic”

Gite fuoriporta e scampagnate, con o senza barbecue. Un cestino di vimini ricolmo di ghiottonerie, e una tovaglia a quadretti. Una stuoia stesa sull’erba fresca e all’ombra di un albero in fiore. Vino in damigiana per brindare alla vita che rinasce sempre. D’estate, o in primavera. Ed è subito un racconto di Maupassant, o un tuffo nelle atmosfere perenni de Le déjeuner sur l’herbe di Manet. Un Giro d’Italia in 70 picnic: è questo il titolo, la promessa mantenuta di un volume da poco uscito per Edizioni Betti/I Libri di Mompracem, a cura della travel blogger Silvia Ceriegi. La prima guida tricolore a questo passatempo che ha trovato nuova linfa e cultori dopo un anno e mezzo di Covid. E che affonda le sue radici soprattutto nella storia moderna. Molto amato in Francia e in Inghilterra, il picnic si impose dal 1600 come diletto da aristocratici: un pasto in mezzo ai campi o lungo i fiumi era, per loro, una maniera di trasgredire alle etichette e ai banchetti ufficiali (o di intervallare una battuta di caccia). La leggenda vuole che anche teste coronate come Maria Antonietta ne andassero matte. Nella nostra penisola cominciò invece a diffondersi nella Sicilia di fine ‘800; con il termine “a picchi nicchi” si intendeva il condurre il cibo in giro “a borsa a borsa”. Poi il fenomeno si è esteso a tutte le classi sociali, specie tra i ceti popolari. Dalla Calabria al Trentino, dalla Toscana alle Marche alla Puglia: il libro è una preziosa bussola analogica per i picniker, rituali o estemporanei che siano. Scopriamo che ogni regione cova set perfetti per qualche boccone in compagnia, e all’aria aperta. Decine di luoghi del cuore; un Belpaese forse meno mainstream, eppure ricco di natura, arte, enogastronomia. Le schede sono redatte da esperti o semplici innamorati della romanticissima materia e sono costellate di tradizioni, miti, aneddoti, usi e costumi locali. Non mancano le coordinate geografiche e i consigli sul cosa portare. La prefazione è di Antonietta Acampora, fondatrice di Picnic Chic, il “Booking del picnic” e delle esperienze en plen air. Ricordi che persistono per tutta un’esistenza, sdraiati sull’erba della nostra anima. Quei momenti davvero spensierati e di minuta, potente felicità. La nonna che tagliava il cocomero. La zia che affettava il formaggio. Gli amici con la frittata con i peperoni. Il picnic è una madeleine proustiana, ma con più gusti.

Quando Agnelli beccò la Ekberg con l’amante: “Ah, mi fa piacere… ”

Definirla “bella” non rende l’idea. Anita Ekberg era esagerata, quando passava era come ricevere uno schiaffo in faccia, della serie “sveglia, sono qui!”. E lo sapeva, ci rideva, ci giocava, dominava la scena, qualunque fosse: dalla passeggiata di via Veneto ai continui party dell’epoca, una festa perenne dove nasceva il generone romano in totale libertà. Tutti a guardarla. Lei c’era, ovunque invitata, con i suoi balli, i suoi tanti, a volte troppi drink in mano, il suo togliersi i sandali e passeggiare a piedi nudi per strada. Il suo sedurre.
Gli uomini impazzivano. Il potere la pretendeva.
Tra questi Gianni Agnelli per lungo tempo suo compagno, più volte pizzicati dentro i migliori hotel di Roma, fino a quando, stanco dei sotterfugi, decise di prenderle una villa in via Cortina d’Ampezzo, zona residenziale di Roma. Insomma, una forma di stabilizzazione, fino all’errore degli errori. Una sera l’Avvocato non avvertì del suo arrivo e trovò Anita a letto con Rik Van Nutter, attore statunitense, tempo dopo diventato il marito: era un ragazzo possente e dai modi irruenti. La mole di quest’ultimo e il leggendario aplomb di Agnelli generò una reazione moderata del proprietario di casa: “Ah, mi fa piacere”.
Tra i due finì e Anita riprese la sua quotidianità. Era una reale star.
A Roma i turisti iniziarono ad arrivare per vivere l’eco della Dolce vita, per questo dopo il Colosseo le mete più ambite diventarono la Fontana di Trevi e i nightclub intorno a via Veneto. E lei stava lì e quando mi incontrava rideva, si metteva in posa e la frase di rito era “paparazzo stai attento”. Non era una minaccia, piuttosto un avvertimento, una consapevolezza rispetto alla sua esistenza: “Stai attento a tutto questo”. Aveva ragione. È morta povera, lontana dalla Capitale, ogni tanto usciva coperta da una stola leopardata. E soprattutto sola. Al suo funerale non c’era nessuno. Alla fine, con lei, la vita non è stata molto dolce.

C’è musica a Porto Rubino: suona Enea con Moby Dick

Il battesimo dell’acqua fu propizio. “Ero piccolo”, ricorda Renzo Rubino. “Mio nonno Lino mi portò in barca con i suoi amici. Con la fortuna dei neofiti, fui l’unico a prendere pesci. Lì mi innamorai della navigazione. Io vengo da Martinafranca, in collina. Scendere al mare era un regalo. Nonno mi offrì una lezione di vita: andava a pesca al largo, ma quando si faceva il bagno restava a riva. Mi ripeteva: devi avere timore e rispetto, senza rinunciare a nulla, nella vita. Ricorda che al mare non puoi dare del tu, è una divinità instabile”.

Renzo ha fatto tesoro di quelle parole, soprattutto l’anno scorso, quando in un trasferimento sulla sua Tramari ha rischiato di far naufragio. “Non mi serviva quel contrattempo per convincermi ancor di più della crudeltà insensata di certe parti politiche sul tema dei migranti”. Porto Rubino, l’evento itinerante da lui pensato tre anni fa con tappe lungo le coste pugliesi, era nato proprio come un messaggio di accoglienza. Che resta attuale nell’edizione 2021 dove “il pubblico sul molo ci ascolta mentre facciamo musica sul veliero Marasciulo, un 22 metri ormeggiato lì in banchina”.

La kermesse è salpata il 19 da Polignano con Capossela, Micah P. Hinson e Molla per proseguire il 21 a Castro ospiti Edoardo Bennato, Fulminacci, Francesca Michielin e Gigante. Stasera farà tappa a Villanova (dal vivo Michele Bravi e Roy Paci) per approdare dopodomani a Campomarino con Mahmood, Francesco Bianconi, Giovanni Truppi, Margherita Vicario, Motta e Gino Castaldo. Più capitan Rubino che al timone della sua chiatta, emulo del maestro Dalla, ha scritto molte cose per il prossimo album Giocattoli Marevigliosi e non esclude di esportare la rassegna in inverno “con un tre alberi ancorato sulle montagne, o un caicco a Milano, o a Sanremo durante il Festival”. Per ora, si gode illuminanti miraggi: “Nel buio ho notato un mostro sanguinario spuntare sul filo dell’orizzonte. Era la luna. Vista dalla tolda sembrava emergere dai flutti. Non è detto che non sia così. La realtà è questione di prospettiva”. E di magie quasi involontarie. “Il concerto di Capossela accompagnava dolcemente il rollio e il beccheggio dell’imbarcazione”, sottolinea Rubino. Vinicio ha celebrato in modo degno il decennale del suo album Marinai, profeti e balene, ma neppure dopo essere sceso a terra ha rinunciato a connettere miti ed epos letterari. “Dall’Odissea al poema sacro di Melville, passando per la Commedia”, spiega Capossela. “L’Ulisse di Dante è la prefigurazione di Achab. I due fanno la stessa fine, con il mare che si richiude sopra di loro. Però mentre il fiorentino punisce l’eroe omerico per la sua smodata sete di virtù e conoscenza che azzarda un viaggio orizzontale senza alzare gli occhi a Dio, Achab è ossessionato da Moby Dick: per lui è il male assoluto. Sulla sua baleniera, il Pequod, ci siamo tutti noi oggi: come il secondo ufficiale Starbuck non riusciamo a ribellarci a un potere che ci trascinerà negli abissi”. Perciò, suggerisce il cantautore, “salviamoci con Dante, che nel Purgatorio incontra amici. È una cantica di cover, la seconda, tra gli stilnovisti e il musico Casella. Così come faccio io, omaggiando il Battiato de La Torre e il Piero Ciampi de Il Vino. Guai a restare nell’inferno, dove non c’è diritto di parola, se non quando passa il visitatore. L’inferno è una struttura carceraria con fine pena mai. Ed è cronaca dei nostri tempi: la macelleria messicana alla Diaz nel G8 di Genova, Santa Maria Capua Vetere, George Floyd”. Anche per Francesca Michielin Porto Rubino è una finestra spalancata su tempi indicibili che parlano al presente. “Qui a Castro sbarcò Enea, che scappava da una guerra affrontando tempeste e divinità ostili. Cosa è cambiato, in duemila anni?”. A Francesca spiace che la pandemia abbia riportato sullo sfondo temi cruciali. “Per anni mi sono dedicata al volontariato nei campi dei braccianti immigrati, con un’associazione che si prende cura della loro salute, dei diritti legali, del supporto psicologico. Dobbiamo tornare ad avvicinarci. Anche per questo sono felice che la portabandiera alle Olimpiadi sia Paola Egonu: veneta come me, con la pelle più scura. E lesbica. È un bello schiaffo a chi nega l’inclusività, e chi ancora boicotta il ddl Zan. Spero di avere Paola nel mio podcast Maschiacci, dove argomento contro ogni pregiudizio”. La Michielin sarà anche conduttrice di un programma sull’ambiente per Sky Nature: “Il pianeta va preservato in ogni modo. Come feci io a cinque anni, in vacanza qui in Salento”, ride. “Per galanteria un bimbo mi donò una stella marina. La ributtai in acqua, non volevo soffrisse”. Sentenzia il “pirata” Edoardo Bennato: “Una volta il mondo era un sommergibile. Se entrava acqua nei compartimenti stagni continuava a navigare. Oggi è una nave: con una falla aperta coliamo a picco. Tutti insieme”.

“Pago pure il Fatto”: proposta indecente dall’uomo di Renzi

“Voglio finanziare il Fatto Quotidiano”. La proposta irricevibile arriva alla fine dell’intervista all’onorevole Gianfranco Librandi di Italia Viva. Lo chiamiamo perché la sua storia diventerà presto un film che sarà distribuito su Amazon. Dal colloquio ne esce però un altro: quello di un deputato della Repubblica che, oltre ai partiti, si offre di finanziare i giornali per evitarsi cattiva pubblicità. La telefonata è registrata. Potrebbe sembrare solo una battuta, ma Librandi è tanto serio da spiegare come si fa, indicando le possibili “soluzioni“: “Noi facciamo fiere per illuminazioni, eventi importanti e li pubblicizziamo sui giornali. Si può fare anche con voi, no?”.

Il deputato-imprenditore esplicita anche i termini del “patto”: “Se lei non mi frega diventiamo amici, la prossima volta la chiamo io e ci troviamo, parliamo e facciamo tutto. È un consiglio che le do, visto che tutti e due siamo nell’agone politico, giusto?”.

Mica tanto, ma così pare a Gianfranco Librandi da Saronno, classe 1954, onorevole e titolare di un’azienda dei led da 180 milioni di fatturato, parte dei quali finisce regolarmente a partiti e candidati d’ogni colore.

La premessa è che, di questi tempi, il binomio politica-cinema non porta benissimo: il leader del suo partito Matteo Renzi è finito indagato (insieme a Lucio Presta) dalla Procura di Roma che ipotizza l’esistenza di “rapporti contrattuali fittizi” dietro i compensi percepiti dall’ex premier anche per il documentario dedicato a Firenze. Da qui parte l’intervista.

Sicuro di voler intraprendere la stessa strada?

Questo film non c’entra niente dal punto di vista dell’idea e pure del finanziamento. Non ho ricevuto e non ho pagato nulla, dunque il tema di Renzi non c’è.

Eppure il suo nome spunta (anche se da non indagato) nelle carte dell’inchiesta sulla Fondazione Open, quando si scopre che passando dal Pd a Italia Viva ha portato una dote di 800 mila euro a Renzi.

Io finanzio da sempre il centrosinistra, ma le ribadisco che il parallelo con Renzi non c’è. Poi lui chiarisce sempre tutto, è solo accanimento contro di lui.

Un film su Librandi, benché vivente. Come le è venuto in mente?

In realtà non è un’idea mia, ma del regista Luciano Silighini (ndr: già dirigente di Forza Italia a Saronno, autore di cortometraggi come Uno di noi, la risposta berlusconiana al film Loro di Paolo Sorrentino).

Cosa si vedrà?

Non ho letto il copione, ma parlerà di mio padre, partigiano e patriota, e della storia che cinque anni fa ho raccontato nel libro Ce la puoi fare: l’ho scritto per dire che se ce l’ho fatta io che ero poverissimo ce la possono fare tutti. Per dare speranza ai nostri giovani. Le mando la copertina, a dimostrazione che non ce l’ho col Fatto Quotidiano.

Il film parlerà anche di politica?

No, magari un riferimento al fatto che sono anche deputato.

Dell’alterco, davvero da film, con i finanzieri? Li apostrofò peggio del Marchese del Grillo.

La mia azienda è sempre stata collaborativa col Fisco. Quella volta lì abbiamo ricevuto una visita un po’ “aggressiva”, sopra le righe diciamo, ma non ho mai detto “io sono un onorevole, un intoccabile, voi siete morti” e tutte le altre cose riportate dagli agenti e dai giornali.

Ovviamente li avrà querelati per aver riportato il falso…

No.

E com’è finito quell’accertamento?

Hanno trovato degli errori formali e abbiamo già chiuso. La mia è un azienda sana, che paga tante tasse, sempre di più perché cresce, e quindi questo è il nostro orgoglio: pagare le tasse.

E non solo quelle. Negli anni lei ha finanziato anche Tabacci, Parisi, il Pd, Gori, Bonaccini, Renzi, pure Calenda e fino a Fratelli d’Italia. Nel 2016 finanziò sia Sala sia la rivale Gelmini. Insomma, lei finanzia proprio tutti.

Voglio finanziare anche il Fatto Quotidiano.

Scusi, come?

Voglio collaborare, come posso dire… costruire insieme e allora si possono così trovare delle soluzioni. Noi facciamo ad esempio delle fiere per illuminazioni, facciamo degli eventi importanti e li pubblicizziamo sui giornali e si può fare anche con voi, no?

(silenzio imbarazzato…)

Però lei è proprio un bel tipo, io sono cordiale e le sto rispondendo giusto? Se lei non mi frega diventiamo amici, la prossima volta la chiamo io e ci troviamo, parliamo e facciamo tutto. Se mi frega invece siamo fregati; è un consiglio che le do, visto che tutti e due siamo nell’agone politico, giusto?

Giappone. Poveri giochi, tra covid e battute antisemite

Licenziato perché, 23 anni fa, durante uno dei suoi spettacoli, ha fatto una battuta sull’Olocausto: il regista Kentaro Kobayashi, direttore della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, è stato accusato di antisemitismo dal Comitato organizzatore delle competizioni ed eliminato dai Giochi. Seiko Hashimoto, presidente del Consiglio che ha deciso di allontanare il regista, ha riferito: “Abbiamo scoperto che durante una sua esibizione ha usato una frase per ridicolizzare una tragedia storica, ci scusiamo profondamente per aver causato questo problema il giorno prima dell’apertura”. L’artista ha ammesso di aver usato “battute veramente inappropriate” in tv nel 1998: in scena con un altro comico, giocando con delle bambole di carta, ripeteva “Giochiamo all’Olocausto”. Prima il video dello sketch, poi le critiche sono subito diventate virali sui social media: nei campi di sterminio nazisti sono morti milioni di ebrei, ma anche disabili, dunque “si burla delle Paralimpiadi”, hanno riferito furiosi da Tel Aviv. I media nipponici riferiscono che quest’apertura non sarà comunque “una festa”, una parola che l’imperatore Naruhito, a causa della pandemia, ha deciso di non usare nel discorso inaugurale.