Manette per tutti, anche i logopedisti sono nemici

La polizia di Hong Kong ha arrestato ieri mattina cinque logopedisti con l’accusa di sedizione. La colpa? Secondo fonti di polizia avrebbero ‘cospirato’ per diffondere tre libri per bambini prodotti dalla General Association of Hong Kong Speech Therapists, il sindacato dei logopedisti di Hong Kong, in cui gli attivisti pro-democrazia sono raffigurati come pecore che si uniscono per proteggere i loro villaggio dall’attacco di un branco di lupi. Il primo, scrive il Guardian, è intitolato I guardiani del villaggio delle pecore ed è una metafora delle manifestazioni pro-democrazia del 2019.

Nel secondo, intitolato I bidelli del Villaggio delle Pecore, gli addetti alle pulizie (che rappresentano i medici di Hong Kong) vanno in sciopero per costringere i lupi (il governo fantoccio pro Cina) a lasciare il paese. Infine l’ultimo, I 12 Coraggiosi, descrive il tentativo di alcune pecore di lasciare il villaggio su barconi per sfuggire ai lupi. I cinque, due uomini e tre donne fra i 25 e i 28 anni, membri del sindacato, sono stati portati via dalla neonata unità di sicurezza nazionale della polizia del governo fantoccio di Hong Kong perché sospettati, così recita il comunicato ufficiale, “di aver cospirato per pubblicare, distribuire, metter in vetrina e copiare pubblicazioni sediziose […] con lo scopo di provocare odio, istigare violenza e spingere il pubblico, i bambini in particolare, a violare la legge contro il governo centrale e la magistratura”. È la sezione n° 10 di una nuova ordinanza che riscrive il codice penale: violarla può costare una sanzione di 5.000 dollari locali (circa 650 dollari Usa) e fino a due anni di carcere. Contemporaneamente le autorità hanno congelato l’equivalente locale di 20 mila dollari in beni del sindacato. È uno dei risultati, finora forse il più paradossale, della paranoia che da due anni, cioè dall’approvazione della legge di sicurezza nazionale, ha di fatto consegnato la libera e cosmopolita Hong Kong al controllo totale di Pechino.

Un controllo che si esercita in ogni aspetto della vita dei cittadini di Hong Kong, dalla repressione fisica e giudiziaria di ogni accenno di dissenso o solidarietà con le proteste, alla rieducazione culturale con la riforma dei programmi scolastici, alla chiusura degli ultimi organi di stampa liberi e alla detenzione di intellettuali, politici pro democrazia, dissidenti, giornalisti giudicati da una magistratura asservita al regime. Mercoledì l’arresto di Lam Man-chun, l’ex direttore del quotidiano Apple Daily, che a sua volta è stato costretto dalla pressione del governo a chiudere i battenti il 24 giugno. Il suo proprietario, il tycoon e uomo d’affari Jimmy Lai, ha pagato la sua battaglia per la democrazia con una sentenza a 14 mesi di carcere, in cui è rinchiuso da aprile 2021, e la distruzione del suo impero mediatico.

Intanto arrivano nel Regno Unito i primi emigrati della dolorosa diaspora da una Hong Kong ormai irriconoscibile. Lo scorso gennaio, Londra ha lanciato un visto speciale per i cittadini della sua ex colonia: una opportunità colta finora da circa 35mila persone, secondo dati della fine di marzo scorso. Ma è un percorso in salita. Per accoglierli e assisterli nella transizione alla loro vita britannica sono nate diverse associazioni, che raccontano casi di adolescenti vittime di sindrome post traumatica per le violenze cui hanno assistito prima della partenza, mentre sono frequenti gli esempi di choc culturale, carenza di garanzie finanziarie per ottenere affitti o lavoro e mancata corrispondenza di qualifiche professionali.

Israele alla guerra del gelato

Alcuni giorni fa, nel nostro canale di famiglia, dove scambiamo i messaggi e le comunicazioni, è arrivata la ‘notizia-bomba’: “Da oggi in poi non si compra più il gelato Ben & Jerry’s!”.

L’amara sorpresa ha colpito tutti i componenti del nostro gruppo che non si sono però demoralizzati e sono patriotticamente corsi a comprarsi coni di gelato al gusto di beigel e panna che è la specialità della gelateria “Golda” (il nome è stato scelto come tributo a Golda Meir, mitica quarta primo ministro di Israele). Ben & Jerry’s avevano dichiarato di ritenere incoerente con i propri valori che il loro gelato venisse venduto nei territori della Cisgiordania, visto che sono “occupati” (l’esercito vi entrò nel 1967 durante la guerra dei 6 giorni). Che poi sarebbe a dire, in Israele il nostro gelato lo potete vendere solo dove ve lo permettiamo noi.

La società di gelati era stata fondata nel 1978 da due eccentrici ragazzi ebrei del Vermont, Ben Cohen e Jerry Greenfield, noti per i gusti strampalati dei prodotti e le loro lotte sociali Ora il marchio appartiene alla multinazionale Unilever. Il premier israeliano Naftaly Bennett ha definito la loro scelta un boicottaggio di Israele: “Ben & Jerry’s ha deciso di etichettarsi come ‘gelato anti-israeliano’”, ha affermato, aggiungendo: “Il boicottaggio non funziona e non funzionerà, e lo combatteremo con tutte le forze”.

Anche il neo presidente dello Stato ebraico, Isaac Herzog, ha attaccato la decisione di Ben & Jerry’s di cessare la distribuzione dei propri prodotti “nei territori palestinesi occupati”, e così cessare dall’anno prossimo le vendite a centinaia di migliaia di israeliani che risiedono in Cisgiordania.

“Il boicottaggio – ha detto Herzog – contro Israele è una forma nuova di terrorismo. Un terrorismo economico, un terrorismo che mira a colpire Israele e i nostri cittadini. Dobbiamo opporci al boicottaggio e a questa forma di terrorismo”,

L’amministratore delegato di Ben & Jerry’s Israele ha dichiarato che combatterà fino all’ultimo contro la decisione dell’azienda madre, mentre il ministro degli Esteri Yair Lapid ha asserito che si tratta di “una vergognosa resa al BDS e che la decisione presa da Ben & Jerry’s non solo non promuove la pace e la risoluzione dei conflitti, ma rafforza gli oppositori della riconciliazione tra i popoli”. Il boicottaggio del BDS – è la sigla del movimento Boycott, Divestment and Sanctions che promuove campagne internazionali per disinvestire in Cisgiordania e colpire l’economia di Israele – e dei suoi sostenitori tocca davvero un nervo scoperto. Il primo boicottaggio in assoluto di cui si ha notizia è del 1925, da parte degli arabi locali nei confronti degli ebrei che allora già si trovavano qui. Nel 1949 con la nascita dello Stato di Israele nasce la lista nera del boicottaggio arabo che continuerà a esistere ancora a lungo. Solo nel 1966 la Coca Cola arrivò per esempio in Israele, temendo di finire nella lista nera. E se nel ’67 nello Stato si vendevano solo automobili giapponesi Subaru è perché Nissan e Honda temevano il boicottaggio. Per la stessa ragione anche le catene McDonald’s e Pizza Hut trovarono il coraggio di aprire i loro fast food solo negli anni 90. La lista nera sarebbe quasi definitivamente sparita con gli accordi di pace con la Giordania, gli accordi di Oslo e ultimamente con gli accordi di Abraham che, al contrario, promuovono la collaborazione economica. Nel tempo i più famosi prodotti israeliani che soffrirono di ostruzionismo da parte del BDS e simili furono invece l’arancio e il pompelmo di Jaffa , il cui brand è stato però venduto da tempo: chi compra o boicotta Jaffa oggi aiuta o boicotta anche il frutto del Sud Africa e del Perù. Poi si parla di avocado, mango, i melograni, datteri. E Sodastream, gasatore per l’acqua frizzante, Ahava, azienda israeliana di cosmetici del Mar Morto, e anche i vini Golan e Barkan. E molti altri prodotti ancora.

Gli appassionati del boicottaggio dovrebbero però aggiungere anche tutte le invenzioni israeliane, queste le prime che vengono in mente: la chiavetta Usb, l’app di viaggio Waze, il sistema di irrigazione che ha rivoluzionato l’agricoltura del mondo, il processore 8088 (il cervello del primo pc), lo stent medico, il Mobileye (sistemi di assistenza alla guida). Da non dimenticare le serie da non seguire, anche se di successo, come Shtisel e Fauda. Chi vincerà alla fine nell’ardua lotta tra i proprietari del Ben & Jerry’s e il BDS da una parte e lo Stato di Israele e l’affiliato locale dall’altra? Quest’ultimo fabbrica qui da anni il famoso gelato al sapore di crema e biscotti o al dolce di formaggio, dando lavoro a 160 operai, tra cui molti cittadini arabi, uomini e donne. Che sia per solidarietà nei loro confronti che la vendita dei gelati del Vermont è aumentata in Israele in questi giorni del ben 21 per cento?

L’India spiava il Dalai Lama con Pegasus

MentreIl governo israeliano forma una commissione per tamponare il caso Pegasus – lo spyware della Nso usato da molti Stati per spiare politici e giornalisti – il Guardian rivela che anche il Dalai Lama è stato sotto sorveglianza da parte dell’India attraverso
i cellulari di una cerchia ristretta di suoi consiglieri

Dante Alighieri, un Italiano vero

Era dai tempi di Toto Cutugno che non si registrava tanto ardore nell’esaltare un italiano vero. Nel caso di Cutugno l’italiano vero era sempre Cutugno, mentre stavolta la celebrazione è per procura. L’italiano vero è Dante Alighieri; il suo abnegato aedo, complice il centenario, è Aldo Cazzullo. Dopo il volume best-seller A riveder le stelle, la vulcanica firma del Corriere della Sera ne ha ricavato uno spettacolo itinerante per le piazze d’Italia, approdato anche in tv (A riveder le stelle, domenica notte, Rai3).

Tesi incontestabile; Dante è stato il primo italiano vero, né poteva essere diversamente: ha inventato l’Italia, l’italiano, gli italiani, e naturalmente ha inventato anche Cazzullo, che a sua volta si è inventato Piero Pelù come lettore di passi della Commedia. Difficile capire le ragioni di questa scelta, forse l’idea che “Dante è rock” (direbbe Celentano), o forse perché Cazzullo vuol farci ascoltare Dante come fosse la prima volta. In effetti, è quello che accade non appena il fondatore dei Litfiba parte in quarta: Pelù ce la mette tutta, forse nelle intenzioni vorrebbe ispirarsi a Iggy Pop e a Carmelo Bene, ma gli esiti fanno pensare piuttosto a Mangiafuoco, a Ciccio Formaggio, se non a “Pedro Pedro Pe, praticamente il meglio di Santa Fe” cantato da Raffaella Carrà (“Mi ha portato tante volte a veder le stelle/ ma non ho visto niente di Santa Fe”).

Addio endecasillabo, addio terzine incatenate, addio terza rima… credevamo che Dante potesse resistere a tutto, ma dopo il trattamento Pelù non ne siamo più così certi. Ma non facciamone una colpa all’attempato rocker che vuol farci riveder le stelle, forse la colpa è dei centenari, che vanno bene per ricordare qualche grande dimenticato, mentre Dante è eterno di suo, lettori all’altezza non gli sono mai mancati, dunque dai centenari si dovrebbe guardare, e noi con lui. Come diceva uno che si è inventato tutto, “non ti curar di lor, ma guarda e passa”.

L’evoluzione green, i signori del fossile e le scorie inquinate dell’idrogeno blu

In Europa ci han preso a pesci in faccia per l’idrogeno blu presentato quale fonte rinnovabile. E per fortuna, perché il cosiddetto ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che pure è uno scienziato, ma a quanto risulta dai fatti molto legato ai signori degli idrocarburi, Eni e Snam in prima fila, ha ricevuto Descalzi e Scaroni una ventina di volte e certo non per parlare di Milan o Inter.

Ma perché l’idrogeno blu non va bene? Perché per renderlo quasi innocuo (non innocuo come quello verde) bisogna liberarlo della debordante anidride carbonica, Co2, che porta in sé e sotterrarla. Dove? per esempio, fra crescenti proteste di associazioni e cittadini, sotto la spiaggia di Ravenna. Un pericolo costante, uno snaturamento di quel sito che è pure balneare. Tutto ciò avviene nel completo silenzio di una stampa italiana (sostiene Luciano Canfora) “in stato comatoso”. Con l’eccezione del Fatto.

Il braccio di ferro comincia ad aprile dopo che l’industria fossile ha ottenuto – documentano i ricercatori di Re Common – i continui incontri già citati. Solo per l’impianto di Ravenna la prima versione del piano italiano stanzia 2,7 miliardi. A fine aprile il governo Draghi trasmette il Pnrr alla commissione europea per l’idrogeno dalla quale viene bocciato, non passa la balla di Cingolani che l’idrogeno blu è solo una tappa intermedia verso il sospirato idrogeno verde (che si ottiene in tutt’altro modo, non coi materiali fossili di cui sono signori invece Eni e Snam). Pronta ritirata del governo Draghi. Ma, secondo Re Common (che si batte contro lo strapotere dell’industria fossile) non basta: “Il piano non indica alcuna via d’uscita dalla crisi climatica, ma anzi rischia di accelerarne l’avanzata”. Per ora la lobby del fossile trova nel ministro Cingolani un ascoltatore sensibile e decisamente influenzabile. Insensibile invece alla protesta popolare che innalza cartelli come “ENI NON MI NASCONDERAI LA TUA CO2 SOTTO IL MARE”.

Mazzette di tutti i colori

Settimana col fiato sospeso a Criminopoli. Zero indagati per corruzione fino a ieri mattina. Poi l’insperato colpo di scena: 5 indagati dalla Procura di Napoli che portano il totale del 2021 a quota 365. Sono 29 invece i nuovi indagati per mafia per un totale di 1.431. Il Premio mazzetta della settimana va a Enrico Spina e Maurizio Russo, funzionari del provveditorato per l’amministrazione penitenziaria, Marco Pelosi, commissario della direzione generale del Dap e Gerardo Barbato, candidato al concorso in polizia penitenziaria. Motivazione del premio (agli unici concorrenti): i vincitori hanno dimostrato che a Criminopoli se ne vedono di tutti i colori. Anche da daltonici. Bianco è ritenuto il mediatore mentre i pubblici ufficiali, secondo l’accusa, per 8mila euro avrebbero consentito a Barbato di superare le prove psicoattitudinali nonostante fosse daltonico. Il premio, per quanto simbolico, sarà revocato se i vincitori saranno archiviati o assolti. Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.188 giorni.

365 indagati per corruzione

1.431 accusati di mafia

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Il marchese del Grillo e la sfida di Conte

Ho appena concluso la lettura del libro I segreti del conticidio e mi ha fatto molto piacere trovare nella parte finale del testo un riferimento a Luciano Gallino, il quale, qualche anno fa, aveva scritto La lotta di classe dopo la lotta di classe, la cui lettura potrebbe risultare utile per rendere ancora più evidente la direzione che una larga fetta della nostra politica sta prendendo, o meglio, riprendendo. La mia sensazione, magari sbaglio, è che si cerchi semplicemente di attuare una logica un po’ agée, oltretutto patetica e noiosa, come quella del marchese del Grillo il quale sosteneva “io so’ io e voi non siete un cazzo”. Auspico veramente che Giuseppe Conte possa contribuire ad arginare questa deriva, per far tornare la politica strumento principale per il conseguimento del bene comune e non solo per il raggiungimento delle finalità dei padroni del vapore. Ovviamente, in tutto questo, la partecipazione attiva dei cittadini è un aspetto di fondamentale importanza.

Diego Merigo

 

Sulla “schiforma” penale Zalone ci ha visto lungo

Egregio direttore, la riforma salvaladri Cartabia mi fa venire in mente una scena di un film di Zalone. In Quo Vado Checco Zalone, alla proposta della dirigente (Sonia Bergamasco) che offre 50 mila euro per le sue dimissioni, rivolgendosi al segretario chiede: “Ma è laureata questa? qualche politico eh?! Noi abbiamo bisogno di gente valida. Altrimenti il Paese non lo risani”. Le chiedo un aiuto a capire perché una come la ministra Cartabia (con Draghi) senta il bisogno di riformare la giustizia mettendo a punto una riforma così vantaggiosa per i colpevoli senza minimamente preoccuparsi delle vittime. Berlusconi lo capisco. Ma loro proprio no. Sono troppo ingenuo?

Michele Troccoli

 

Voghera, il folle omicida in nome della sicurezza

In Lombardia, un assessore comunale della Lega, ha sparato, uccidendolo, un uomo di origine marocchina in seguito a una lite. Attualmente l’assessore (alla Sicurezza!) è stato posto agli arresti domiciliari. Ora, sorge spontanea una domanda: ma se le cose fossero andate a ruoli invertiti, cioè il “marocchino” avesse sparato e ucciso l’assessore, anche lui adesso sarebbe agli arresti domiciliari? O, molto più probabilmente sarebbe rinchiuso in una cella, con i colleghi di partito dell’assessore pronti a chiedere che venisse immediatamente buttata la chiave? Cos’è scritto nelle aule giudiziarie? “La legge è uguale per tutti”, certo! Come no!?

Mauro Chiostri

 

Riesumare la Fornero è una pessima scelta

Dal suo insediamento, questo governo sta dispensando una buona dose di schiaffi a una buona parte degli italiani. Ultimamente come se non bastasse, dopo una controriforma della giustizia letteralmente penosa (neanche l’Innominato sarebbe riuscito a tanto), il presidente del Consiglio ha pensato bene di riesumare la signora Fornero, il cui incarico a una delle massime cariche della nostra Repubblica era durato pochi mesi, il tempo sufficiente ad asfaltare circa 350 mila italiani, che uniti alle rispettive famiglie fanno più di un milione di persone coinvolte in una tragedia. Non riesco a immaginare quali consulenze possa fornire la signora Fornero che non possano essere fornite da altri esperti del medesimo settore. Era proprio necessario dare l’ennesimo schiaffo agli esodati e alle loro famiglie? Riaprire vecchie ferite? O forse il premier Draghi ha voluto mandarci un messaggio, un monito a stare zitti e allineati a lui, pena lacrime e sangue?

Roldano Spampinati

 

Le pericolose panzane della destra sul Covid

A luglio dell’anno scorso Salvini strepitava: “Emergenza? No, chi lo dice è in malafede, io la mascherina non ce l’ho e non la metto. Manderò mia figlia a scuola senza mascherina”. Alla luce delle successive ondate avrà fatto autocritica? Manco per sogno. Le destre continuano a sparare sentenze senza cognizione di causa. Ora dicono che non bisogna vaccinare i più giovani. Quei poveretti non sanno che tutti i virus sono soggetti a mutazione e obbediscono alla darwiniana legge della selezione naturale: dal virus della Spagnola al Covid. In California è stata identificata la variante Epsilon del Covid che si è dimostrata resistente agli anticorpi prodotti dal vaccino. Se durante una pandemia si lascia circolare liberamente il virus, questo ha più probabilità di mutare producendo varianti in grado di resistere ai vaccini. Vanno adottate misure di contrasto al virus fino a che non si raggiunge l’immunità di gregge. Vedi Macron. Infine, stendiamo un velo pietoso sul consiglio del capogruppo di Fdi, Lollobrigida: “Non consiglierei a nessuno sotto i 40 anni di fare il vaccino perché la letalità è inesistente”. Sembra la sagra delle panzane.

Maurizio Burattini

Malagiustizia. La riforma Cartabia penalizza persino le vittime di reati

Ho letto le seguenti dichiarazioni:

Alfonso Sabella – Magistrato (mio collega, o meglio ex collega visto che sono in pensione, dopo 40 anni di servizio trascorsi in Procura prima, poi nella Dda, infine 20 anni in Procura generale e quindi occupandomi di processi in Corte d’appello): “Questa giustizia sembra scritta da chi non ha messo piede in un’aula di Tribunale”.

Ministro della Giustizia Marta Cartabia: “Abbiamo stabilito tempi certi per la conclusione dei giudizi di appello e Cassazione. Giudizi lunghi recano un duplice danno: frustrano la domanda di giustizia delle vittime e ledono le garanzie degli imputati”.

Non condivido le dichiarazioni di Sabella e concordo con quella della Cartabia. Alfonso, hai sbagliato, non sei stato preciso. Dovevi scrivere: “Questa giustizia sembra scritta da chi non ha mai messo piede in un’aula di Corte d’appello” perché è lì che va a dispiegare i suoi effetti catastrofici la riforma che si vorrebbe approvare (o forse, per non far torto ad alcuno, si potrebbe dire che questa giustizia sembra scritta da chi non ha mai messo piede in un palazzo di… Giustizia).

Concordo, invece, con le affermazioni della Cartabia. Con la riforma avremo effettivamente stabilito tempi certi per la conclusione dei giudizi di appello… con un giudizio di improcedibilità. I magistrati in Cassazione potranno gioire per la protrazione a dismisura dei giorni di ferie forzate e gli avvocati cassazionisti gioiranno molto meno perché non potranno più percepire gli onorari per i processi in Cassazione che saranno una specie in via di estinzione. Ma le dolenti note che continueranno vieppiù a farsi sentire saranno quelle delle parti lese. Già oggi troppo spesso dimenticate nei processi che si concludono sempre più numerosi con la declaratoria di prescrizione, ma almeno con la conferma delle statuizione civili in loro favore. Domani, invece, simili a dantesche anime dannate, saranno travolte dalla bufera dell’improcedibilità al punto che non varrà neppure la pena presentare denunce. Tenuto conto che proprio le parti lese sono i soggetti più colpiti da questa riforma, ci si potrebbe chiedere chi ne sia l’artefice. Draghi? No. Cartabia? No. Un altro politico a scelta? Neppure. La risposta esatta è: Dante Alighieri. Il suo poema è sempre di attualità anche a 700 anni dalla morte e le parti lese ne sono perfettamente consapevoli perché, pur non essendo destinate al girone degli ignavi bensì a quello delle vittime delle condotte criminose altrui, anche per loro vale la nota terzina: “Fama di loro il mondo esser non lassa/ misericordia e GIUSTIZIA li sdegna:/ non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Purtroppo gli ignavi danteschi sono collocati nel terzo canto dell’Inferno. Quanto tempo dovremo ancora attendere perché siano letti tutti gli altri canti, arrivare all’ultimo verso del 34° canto e poter finalmente dire: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”?

Pio Macchiavello

Legge sulla Giustizia: colleghi e politici, imparate a leggere

Napoleone era solito ripetere che non bisogna “mai attribuire alla malizia ciò che spiega adeguatamente con l’incompetenza”. In questi giorni, sfogliando i giornali e assistendo in tv al dibattito sulla riforma Cartabia, abbiamo avuto la prova di quanto l’imperatore dei francesi avesse ragione. Come sempre accade quando si discute di giustizia la vis polemica ha preso il sopravvento. In ben pochi si sono così addentrati negli aspetti tecnici del disegno di legge e chi lo ha fatto ha spesso dimostrato di non aver letto la norma o di averla letta senza però capirla. In questo senso la palma d’oro spetta alla politica. Ieri, ad esempio, Matteo Salvini, intervistato da Il Giornale, ha definito “un’osservazione singolare” la constatazione del procuratore nazionale antimafia, Cafiero de Raho, che aveva sottolineato come la riforma, se approvata senza correzioni, avrebbe indebolito la lotta a Cosa Nostra e ’Ndrangheta. “Nella riforma Cartabia”, ha affermato sicuro Salvini, “quel tipo di reato viene escluso dalla norma sulla prescrizione. Sono stato ministro dell’Interno: con la Lega al governo non ci saranno mai passi indietro su questo tema”. Purtroppo per Salvini, e purtroppo per i cittadini, è vero il contrario. Il disegno di legge prevede semplicemente che i processi per mafia e terrorismo, se particolarmente complessi, evaporino in appello in tre anni, al posto di due e in Cassazione in 18 mesi, al posto di 12. Per i dibattimenti di questo tipo non esiste insomma nessuna esclusione dalla riforma. Salvini però ha almeno un’attenuante: la ministra Marta Cartabia che in Parlamento gli ha confuso le idee. Alla Camera la ministra ha sostenuto che quel tipo di processi “non andranno in fumo” perché “nei procedimenti per mafia e terrorismo le contestazioni spesso riguardano reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo. Quindi si esclude ogni tipo di improcedibilità”. Un’affermazione falsa visto che i reati che non si prescrivono, come l’omicidio o la strage, vengono contestati solo a una piccola parte dei presunti mafiosi o loro fiancheggiatori.

Peggio però di chi siede in Parlamento o al governo fanno i mass media. Negli ultimi giorni, ad esempio, Repubblica e Il Messaggero se la sono presa con Giuseppe Conte perché ha detto: “Non accetteremo mai che il processo per il crollo del ponte Morandi possa rischiare l’estinzione”. Per i due quotidiani quella di Conte è una bugia, perché la legge ha una data di entrata in vigore successiva al disastro di Genova. Chi lo scrive però dimostra solo di non sapere che in tribunale si applica sempre la norma più favorevole all’imputato. Difficile sostenere, come fanno alcuni consulenti di Cartabia, che qui ci si trovi davanti a una semplice norma di natura processuale per la quale il cosiddetto favor rei non scatta. Le conseguenze della nuova legge sono infatti sostanziali. Se ho commesso una rapina con la vecchia prescrizione c’erano 15 anni di tempo per arrivare a sentenza definitiva. Ora ce ne sono solo due per celebrare l’appello e uno per la Cassazione. Poi scatta l’improcedibilità. Nei dibattimenti si annunciano perciò pioggia di ricorsi alla Consulta, con relativo rischio di impunità anche sul ponte Morandi. Per questo noi che alle balle dei politici e dei governanti di ogni colore siamo ormai rassegnati (nel recente passato, sia chiaro, ne ha detta qualcuna pure Conte), ci sentiamo di rivolgere un appello ai nostri colleghi. Cari giornalisti, per fare il nostro lavoro non serve una laurea. Serve però l’impegno e lo studio degli argomenti di cui ci si occupa. Se non ve la sentite cambiate mestiere.

 

“Noi musicisti senza un lavoro da un anno e nessuno ne parla”

Sono un privilegiato, faccio il lavoro che amo e in questo periodo – nonostante il Covid e anche se in modalità remota – ho sempre avuto qualcosa da fare. Ma la quasi totalità delle persone indipendenti che si occupano di musica è ferma dalla prima settimana di marzo 2020.

La cosa incredibile è che nessuno o quasi parla mai di questa situazione, forse perché non è un argomento popolare, forse perché siamo una minoranza o forse perché vale sempre la vecchia battuta: “Che fai nella vita?”. “Suono”. “Ah bello, e di lavoro?”.

Vedo e sento in ogni talk-show praticamente tutte le categorie con uno spazio adeguato per dire la loro: tutti che si lamentano delle elemosine governative perché col lockdown perdono un sacco di soldi ogni mese. Poi però si scopre che comunque hanno approfittato della cassa integrazione, magari in ritardo ma è arrivata, e che hanno ricevuto denari dallo Stato, magari pochi ma li hanno ricevuti.

La cosa bizzarra è che non ho mai visto né sentito un musicista invitato a parlare di questo. Mai un addetto ai lavori nei vari talk-show in prime time a spiegare cosa sta succedendo nel mondo dei musicisti indipendenti della musica leggera e/o classica. Mai due righe in uno dei tanti Dpcm nonostante i concerti siano morti e i teatri chiusi. I 600 euro di “ristoro” personalmente non li ho chiesti perché avendo appena finito un tour nel 2020 mi vergognavo di farlo, ma in realtà, anche se l’avessi chiesti, con 600 euro io musicista discretamente stagionato – libretto Enpals dal 1975, partita Iva dal 1982 con casa, compagna, gatto, auto moto – posso pagarci al massimo le bollette e l’amministrazione di un mese. E poi?

Giusto per capire come funziona: i musicisti professionisti sono in regime di partita Iva o in cooperativa. Se ci ammaliamo si lavora lo stesso perché The show must go on; ferie pagate, stipendio e tredicesime non esistono; contratti a progetto da sempre; attrezzatura indispensabile per lavorare a spese proprie; non possiamo scaricare seriamente le spese, per esempio, di auto e carburante nonostante la media di ognuno di noi viaggi intorno ai 20-30.000 chilometri all’anno. E quindi anche in questo momento Covid ho pensato: “È proprio vero che per questo Paese non esistiamo”.

Poi però il commercialista mi ha fatto cambiare idea, chiamandomi a novembre per ricordarmi gli anticipi Iva e Irpef da versare, e la settimana scorsa per le tasse, quindi ho capito che esistiamo. E allora perché siamo completamente fuori dai radar?

Com’è che a nessuno frega un tubo di tutto questo? Come mai nessuno ne parla? Eppure la gente è andata ai concerti, le ha viste le strutture e i palchi montati dove si esibiscono i propri beniamini. Affianco alle star ci sono musicisti, crew, back-liner, produzione, fonici, autisti, cuochi, camalli… C’è un mondo di persone che hanno famiglia, mutui e vivono di questo.

Insomma, considerato che ristoratori e baristi (giustamente) si strappano le vesti un giorno sì e l’altro pure, come si può solo immaginare che musicisti e addetti ai lavori riescano a sopravvivere rimanendo per più di un anno e mezzo senza lavorare e senza nessun introito?

 

I flop di Draghi in Europa: un “banchiere” impolitico

Nel suo primo semestre da premier, Mario Draghi ha deluso le aspettative di forte impatto in Europa, cioè in un territorio dove vanta grande competenza e autorevolezza. Non è riuscito nemmeno a ottenere l’introduzione della Garanzia Ue sui depositi bancari, che – quando era presidente della Banca centrale europea (Bce) – aveva insistentemente sollecitato ai 27 capi di Stato e di governo e all’Europarlamento.

Draghi, a nome della Bce, evidenziava la necessità di completare l’Unione bancaria con questo terzo “pilastro” mancante, che è richiesto dall’Italia e bloccato con arroganza dalla Germania e dai suoi alleati nordici nonostante ci sia da anni l’impegno dei 27 governi Ue a realizzarlo. Da eurobanchiere sosteneva molto la Garanzia dei depositi forse anche perché sentiva il “senso di colpa” di avere in precedenza appoggiato la fretta tedesca di far varare i primi due “pilastri” – i sistemi di supervisione e di risoluzione per le banche – proprio come li volevano a Berlino, perfino nella parte Bail-in (rivelatasi un disastro per varie banche italiane). E di aver avallato la promessa della cancelliera tedesca Angela Merkel – di cui dalla Bce è stato un buon alleato – del successivo via libera al terzo “pilastro”. Draghi, da premier, ci ha provato a ricordare l’impegno sui depositi bancari. Ma è stato di fatto rimbalzato.

L’occasione per trattare uno degli scambi da do ut des, abituali in Europa, gli era arrivata con l’urgenza di Merkel di aggiungere – in vista delle elezioni tedesche – altri aiuti miliardari Ue alla Turchia di Recep Tayyp Erdogan, per far continuare a bloccare sul territorio turco le masse di profughi siriani e iracheni diretti principalmente in Germania. Draghi aveva giustamente infranto l’ipocrisia comunitaria definendo Erdogan “dittatore” e poteva quindi frenare nuovi fondi Ue a un regime che viola i diritti umani. Invece ha ceduto a Merkel, dicendo sì ad altri miliardi per Ankara. In cambio cosa ha incassato? Nessun adeguato sostegno dei Paesi Ue per non lasciare sola l’Italia ad affrontare i flussi di migranti in arrivo da Libia e Tunisia. In più il dossier immigrazione dall’Africa, spinto da Draghi, sembra essere stato messo da parte a Bruxelles.

Un’altra mancata compensazione è emersa nel Recovery Fund per rilanciare l’economia colpita dall’emergenza Covid. I circa 200 miliardi Ue per l’Italia sono in gran parte prestiti. Solo una sessantina di miliardi a fondo perduto dovrebbero bilanciare la sospensione delle norme Ue sugli aiuti di Stato, che la Germania ha preteso a super velocità all’inizio della pandemia per riversare una massa di miliardi pubblici nella sua economia: distorcendo la concorrenza nell’Ue e provocando un vantaggio competitivo al suo sistema produttivo, penalizzante soprattutto per l’Italia (principale concorrente dell’industria tedesca in Europa). Merkel, pressando la fidata connazionale a capo della Commissione europea Ursula von der Leyen, si è poi allargata con molte più autorizzazioni Ue del previsto (per oltre 1.500 miliardi di aiuti di Stato, oltre il 50% del totale per i 27 Paesi e con l’Italia al 14%), aprendo la possibilità per Roma di chiedere più contributi a fondo perduto o altre compensazioni. Il premier cosa ha ottenuto?

Certo, è indiscutibile la sua competenza nelle attività Ue economico-finanziarie, sviluppata in otto anni di partecipazioni da numero uno della Bce (quindi limitate a questi specifici settori) ai Summit dei capi di governo, agli Eurogruppo/Ecofin dei ministri finanziari e alla commissione economica dell’Europarlamento. Ma ha adeguata esperienza e sensibilità sui dossier Ue politici? Il premier ha sollevato dubbi quando trapelò dalla riservatezza di un summit Ue che aveva raggelato tanti leader con la richiesta di rinviare il piano Covax di vaccini anti-Covid per i Paesi poveri. Con quella uscita – al di là dell’aspetto discriminatorio e poco lungimirante (se si pensa ai continui arrivi in Italia di migranti dall’Africa colpita dalla pandemia) – fece intuire di non aver capito alcune liturgie politiche dell’Ue. Non a caso restò spiazzato. E dovette recuperare annunciando ingenti fondi italiani per Covax.

Il saper correggere gli errori è molto importante in relazione ai primi “flop” e alle aspettative deluse da Draghi in Europa. Perché possibilità di recupero esistono. Ma il premier non dovrebbe adagiarsi sulle narrazioni celebrative “a priori” di tanti media italiani e produrre risultati importanti. Può essere considerato un “top player” negli affari europei, se si fa il paragone con quando l’Italia mandava ai summit Ue Mario Monti e alla Bce tal Lorenzo Bini Smaghi. Però, se poi sul campo non fa la differenza, delude e sbaglia perfino i rigori, l’Italia può finire ancora più in basso nella “zona retrocessione” dei Paesi Ue più indebitati.