A 20 anni dal G8 di Genova: la Diaz, le torture e il favore delle tenebre

E per la serie “Testi lacrimogeni”, la posta della settimana.

Caro Daniele, ricordi qualcosa del G8 a Genova? (Arianna Palumbo, Campobasso)

Ricordo tutto. Luglio 2001. Si era insediato da un mese il nuovo governo Berlusconi, e stavo girando l’Italia col monologo Satyricon. Gli otto maggiori leader internazionali avrebbero discusso a Genova su come sconfiggere la povertà causata dalle loro politiche economico-sociali liberiste (tuttora in atto). In Italia, il movimento no global, che protestava contro quelle politiche reazionarie, creò il Genoa Social Forum e preparò una piattaforma di rivendicazioni per il G8. I servizi segreti allertarono il governo sull’arrivo dei Black bloc, estremisti misteriosi che si univano ai cortei e a un certo punto spaccavano tutto, offrendo il pretesto perfetto alle cariche della polizia: arrivarono e spaccarono, come da copione, e non ne fu arrestato nessuno. Col favore delle tenebre, le forze dell’ordine si vendicarono sui manifestanti pacifici che dormivano nella scuola Diaz, massacrandoli a manganellate (ascoltai il reportage della scena cilena in diretta su Radio Gap: bit.ly/3hYhnAI ) e deportandoli alla caserma Bolzaneto per ulteriori sevizie. Nei giorni seguenti aggiorno il monologo: “Un mio amico dei centri sociali era nella scuola Diaz quando è scattato il famigerato blitz, la tonnara. È il classico tipo con i capelli rasta che si fa le canne. Stava dormendo nel sacco a pelo. Lo svegliano a manganellate, lo trascinano giù per le scale, botte calci sputi calci botte. A un certo punto finge di essere morto come ha visto fare nei film di John Wayne. Un agente gli sente il polso: ‘Uhei, è ancora vivo!’ Botte botte botte. Arriva a Bolzaneto col volto tumefatto, l’arcata inferiore sfondata, tre costole incrinate, il piede fratturato. Gli strappano il piercing al capezzolo: ‘Perché non provi a chiamare Manu Chao?’ . Lo tengono 24 ore in una stanza con altre 12 persone, in piedi, gambe larghe, faccia al muro, braccia in alto. Se provi a girarti sono botte. Ogni tanto spruzzano dentro un po’ di lacrimogeno. Gli dicono di urlare viva il duce; se non lo fa, gli sbattono la testa contro il muro. Entra un agente corpulento e inizia a massacrarlo perché ‘l’ho visto in piazza che mi insultava’. Entra la polizia penitenziaria. Il mio amico dice: ‘Fermatelo. Questo delinquente mi sta massacrando’. Quelli si infilano i guanti imbottiti e giù botte per un’ora a tutti quanti. Il mio amico non ce la fa più, si piscia addosso dallo sfinimento e collassa. Si sveglia due giorni dopo in ospedale, tutto fasciato dalla testa ai piedi. Io sono accanto al letto con Laura, la sua ragazza, aspettiamo che si svegli. Lui apre gli occhi, si guarda intorno, ci vede e fa: ‘Laura! Ma che cazzo di pasticca mi hai dato?’”. E poi: “Il ministro Scajola è stato talmente impressionato dalla violenza dei Black bloc che sta pensando per loro misure drastiche: li assumerà in polizia. Nessuno vuole criminalizzare i poliziotti, però in polizia ci sono delle teste calde che vanno isolate. E invece c’è chi fa demagogia, come il Giornale di Paolo Berlusconi che ha spinto per portare in piazza le proteste dei poliziotti. Una mossa sbagliata. Anche perché se i poliziotti scendono in piazza a protestare, chi li mena? La colpa è del governo. Se ci metti degli ex-picchiatori, questo è il minimo che possa capitare. Ma anche il movimento no global ha fatto degli errori. Per esempio, vestirsi con le tute bianche. Un errore grave. Bisognava andare a Genova vestiti da vescovi. Adesso avremmo ore e ore di filmati di poliziotti che manganellano vescovi! Che come messaggio antiglobalizzazione è anche più forte, dato che, come si sa, la Chiesa è la prima vera multinazionale”.

 

Per ognuno la regola è “F.U.P.C.C.V.P.”

È tutto molto chiaro, lineare e soprattutto condiviso. Grande armonia nel mondo della scuola dove a parere dell’Associazione nazionale dei presidi occorre obbligare alla vaccinazione il personale scolastico e gli studenti. Alcune sigle autonome sono invece apertamente contrarie e minacciano ricorsi a pioggia (attualmente i non vaccinati della categoria sono 221.534 su quasi un milione e mezzo). Senza contare le famiglie No-Vax, già sul piede di guerra, che alle demoniache fiale preferiscono di gran lunga le lezioni in Dad. Quelle che secondo i test Invalsi stanno generando tra i ragazzi forme pandemiche di analfabetismo di ritorno. Anche nel mondo imprenditoriale e tra le parti sociali sul tema vaccini la concordia regna sovrana. Alla direttrice di Confindustria che chiede alle imprese la sospensione dal lavoro per chi è sprovvisto di Green pass

risponde pacatamente la leader Fiom-Cigl che definisce la proposta “vergognosa”. Mentre invece la Cisl Emilia “non si scandalizza”. Il presidente della Camera, Roberto Fico, parla di “idea sui generis” pur senza sbottonarsi. Tuttavia sul Green pass

non sente ragioni: “impossibile chiedere agli eletti se sono stati immunizzati col farmaco”. Impossibile. Agli eletti. Per fortuna a indicare la retta via c’è il decisionista ministro del Lavoro Orlando che dice “no alle proposte unilaterali”, e però invita “a un confronto costante”, qualunque cosa significhi. Non resta che affidarsi alla mediazione. Quella del presidente di Confindustria Bergamo: “Premiamo chi si vaccina” (AstraZ e vinci). Quella di Brunello Cucinelli: “A chi non si vaccina dirò ti pago, ma non lavori e stai a casa” (cioè, due danni al posto di uno). Visto che perfino nella Lega il presidente del Veneto, Luca Zaia, favorevole alla vaccinazione di massa, non sembra sulla stessa linea di Matteo Salvini (candidato al Nobel della Medicina per aver scoperto che sotto i 40 anni il virus non attacca) non ci resta che ricorrere all’algoritmo FUPCCVP. Esso si ottiene incrociando i Sì Vax ai No Vax, ai Ni Vax, ai Boh Vax, ai luoghi dove il Green pass

sarà obbligatorio, alle regioni che cambiano colore con le terapie intensive al 10% e i reparti Covid al 15, e soprattutto agli studi di laboratorio dell’onorevole Lollobrigida (Per chi non lo sapesse FUPCCVP è l’acronimo di Fate Un Po’ Come Cz Vi Pare).

Mattarella ottuagenario si trasformerà in re Sergio?

Sergio Mattarella festeggia oggi 80 anni, a ridosso di quel semestre bianco che rende scarica la pistola delle elezioni anticipate in caso di crisi. Ne aveva quindi 73 al momento della sua elezione nel 2015, quando venne scelto dal Pd renziano, che così ruppe il patto del Nazareno con B. il Pregiudicato. È la foto di un’altra èra. Il neo ottuagenario presidente affronta l’abbrivio finale del suo settennato da protettore di un esecutivo di unità nazionale guidato dall’italiano più invocato nella storia repubblicana, Mario Draghi.

Cattolico della sinistra dc, dal passato intenso e tragico (l’omicidio mafioso del fratello Piersanti), Mattarella si presentò come il classico “arbitro” della Carta. Di fatto una cesura netta con la monarchia interventista di Giorgio Napolitano. Durante le crisi del suo mandato il capo dello Stato ha esercitato socraticamente l’arte della maieutica, aiutando a partorire ciò che era possibile. È stato così con i due governi Conte. E dal suo punto di vista è stato così finanche con Draghi, nonostante ombre e sospetti sul Conticidio. Come che sia, l’epilogo del suo settennato rischia un paradosso clamoroso per la sua figura di arbitro. Realizzare in modo stabile quel disegno consociativo che non era riuscito a Re Giorgio. La maggioranza di Draghi sta infatti scomponendo le forze politiche (si pensi all’emarginazione di FdI, primo partito della destra) ed è evidente la tentazione di perpetuare questo clima anche dopo le Politiche del 2023. E se poi l’anno prossimo, il premier decidesse di rimanere a Palazzo Chigi, l’ipotesi di un Mattarella bis potrebbe essere concreta. Lo chiameremo re Sergio?

Regioni a rilento: solo l’8% di assunti nei centri-impiego

Mentre prosegue senza sosta il fuoco incrociato contro il Reddito di cittadinanza, accusato di essere “un disincentivo al lavoro”, ieri è emerso un aspetto che dovrebbe suggerire con più precisione dove sia il vero problema: le Regioni stanno procedendo con il passo della lumaca nell’assumere i nuovi operatori dei centri per l’impiego. Il monitoraggio aggiornato al 31 marzo 2021 dice che ne sono stati arruolati meno di mille a fronte di un piano che prevede 11.600 ingressi. Sono ben dieci quelle ancora a zero; le altre sono comunque in ritardo. L’attenzione di tutti è concentrata sulla (presunta) inefficienza dei 3 mila navigator assunti a settembre 2019 dall’Anpal Servizi, ma la vera macchina delle politiche attive per i percettori del Reddito doveva stare nei centri per l’impiego regionali. A essi, infatti, contestualmente alla legge che ha istituito il sussidio anti-povertà sono state destinate risorse tali da raddoppiare gli organici. Un intervento preteso proprio dalle Regioni.

Per capire il quadro serve fare un passo indietro, alla primavera 2019. L’allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio voleva assumere 6 mila navigator, ma i 21 assessori al Lavoro si opposero rivendicando la competenza – riconosciuta dalla Costituzione – in materia di politiche attive. La Toscana minacciò anche un ricorso alla Consulta. Poi si trovò la quadra: navigator dimezzati e assunti solo per assicurare forze fresche in fase di avvio del Reddito; 11.600 assunzioni nei Centri per l’impiego regionali, da perfezionare nel triennio. Le Regioni hanno quindi chiesto e ottenuto un ruolo centrale nell’assistenza dei beneficiari del Rdc alla ricerca del lavoro. A quasi due anni e mezzo dall’accordo, però, non hanno completato nemmeno un decimo di quanto stabilito e sono ferme a 950 assunzioni. I numeri sono emersi dalla risposta della sottosegretaria al Lavoro Tiziana Nisini (Lega) all’interrogazione di Valentina Barzotti (deputata M5S). Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lombardia, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia e Umbria sono a quota zero. “L’emergenza rende ancora più urgente la piena attuazione di questa riforma – spiega Barzotti –. Ma per farlo, tutti, a tutti i livelli, devono collaborare”.

Il fatto che tra le Regioni ferme vi sia la Campania merita una riflessione a parte, considerando le frequenti uscite del presidente Vincenzo De Luca sulla carenza di manodopera lamentata dalle imprese turistiche e agricole. Il governatore ha più volte sostenuto la necessità di togliere il Reddito a chi rifiuta offerte di lavoro. In realtà, se c’è un motivo per cui i centri per l’impiego fanno fatica, non è la tendenza al divano dei percettori, ma la lentezza con cui si sta dando seguito al piano di potenziamento. In Campania si stanno tenendo le prove orali del concorso, così come in Lombardia. Nel Lazio, spiegano dalla Regione, al momento ne hanno assunti 124 dei primi 350 previsti (su un totale di 1.130); altri 200 sono in attesa del via libera del casellario giudiziario. Il problema, dicono, è la pandemia che ha rallentato le procedure selettive.

In questi due anni spesso è stato sottolineato che non esistono dati su quanti beneficiari del Rdc abbiano trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego. Di questo sono stati incolpati solo i 3 mila navigator che però dovevano servire solo per la fase di avvio, per poi cedere il passo ai nuovi operatori regionali. In questi giorni il ministro del Lavoro Andrea Orlando scriverà una lettera alle Regioni per segnalare che in gran parte di esse i Piani per i centri per l’impiego non risultano ancora in linea con il Recovery Plan, e in alcuni casi non sono stati nemmeno presentati. Il Pnrr investe 6,6 miliardi nelle politiche attive del lavoro, sui quali hanno messo gli occhi le agenzie private che da sempre puntano ad aggredire proprio le sacche di inefficienza prodotte da un settore pubblico vittima delle risorse scarse.

Il rdc si può cambiare: ecco come va potenziato

Mentre i media continuano a confondere le idee sul Reddito di cittadinanza, studiosi attenti e studi accurati si sforzano di fare chiarezza. Il risultato più recente di questi sforzi è offerto dalle 487 pagine del rapporto Lotta alla povertà. Imparare dall’esperienza, migliorare le risposte. Un monitoraggio plurale del Reddito di cittadinanza, appena pubblicato dalla Caritas, organismo pastorale della Conferenza Episcopale. Con dovizia di dati, offre un aiuto prezioso a coloro che intendono informarsi su chi ha ricevuto il Rdc, come è stata organizzata la rete del welfare locale, quali sono stati i percorsi di inclusione sociale e lavorativa, quali nodi di attuazione sono stati messi in luce dalla sua applicazione. Due capitoli sono dedicati al rapporto tra il Rdc e i beneficiari dei servizi della Caritas; altri due al reddito minimo così come adottato nei Paesi Ocse e al Rdc in una prospettiva comparata. Tre capitoli sono dedicati alle misure emergenziali attuate per fronteggiare il Covid. I due capitoli finali sono dedicati alle proposte per il riordino del Rdc e all’impegno della Caritas in questo senso.

Sono stato così puntiglioso sui contenuti del Rapporto per sottolineare quante cose si dovrebbero sapere prima di chiedere un referendum per abolire una misura che – secondo le parole del responsabile delle politiche sociali della Caritas – “punta a favorire l’autonomia e lo sviluppo integrale delle persone sostenendole dal punto di vista sociale e lavorativo”. È una misura che coinvolge problemi complessi, molto difficili da analizzare e risolvere perché intersecano la politica, l’economia e la sociologia, ma che vanno affrontati scientificamente se si vogliono evitare conseguenze sociali ancora più irreparabili. Mi limito qui solo a un paio tra i tanti argomenti affrontati dal Rapporto Caritas. Premessa: si parla di Rdc includendovi la Pensione di cittadinanza (Pdc).

Il Paese più avaro
Un capitolo compara il nostro Rdc con il reddito minimo in vigore nei Paesi Ocse. Obiettivo del reddito minimo è la target efficiency, la capacità di raggiungere le fasce più deboli di popolazione. In media, nei 37 Paesi Ocse, l’11% della popolazione in età lavorativa è a rischio povertà mentre in Italia è il 15%. Se si considerano i soli disoccupati, sale al 30% nell’Ocse e al 59% in Italia. Come si cautelano i cittadini contro questo rischio? Quelli che lavorano e guadagnano a sufficienza pagano contributi sociali che, in caso di perdita del lavoro, permettono loro di ricevere aiuti (pensione, Cig, indennità di malattia, ecc.). Agli altri, lo Stato assicura sussidi assistenziali come il reddito minimo a cui spesso ne vengono affiancati altri per i figli piccoli, l’affitto, la disabilità, ecc.

Tutti i 37 Paesi dell’Ocse prevedevano già molto prima dell’Italia trasferimenti simili al nostro Reddito di cittadinanza. Oggi i trasferimenti sociali di tipo non contributivo, rispetto al totale dei trasferimenti, rappresentano l’82% in Danimarca, il 71% in Irlanda, il 60% in Germania e il 51% in Francia. In Italia non superano il 38%. Insieme al Portogallo siamo il Paese più ingiusto sulla ripartizione dei trasferimenti: nel 2018, mentre il 43% di tutti i sussidi erogati alla popolazione in età lavorativa è andato al 20% più agiato sotto forma di cassa integrazione, pensioni anticipate, pre-pensionamenti, ecc., solo l’8% è arrivato al quintile di reddito più basso.

Fin quando c’era il Rei, l’Italia era al 37° posto (cioè all’ultimo) tra tutti i Paesi dell’Ocse per ammontare di sussidi erogati ai suoi poveri; con il Rdc siamo passati al 33° posto. Questo piazzamento è vergognoso se si considera da una parte l’annoso ritardo con cui è stato attivato il Rdc e l’esiguità dell’importo, dall’altra che il nostro è l’ottavo Paese al mondo per Pil e che, nell’ultimo decennio, i 6 milioni di italiani più ricchi, nonostante la crisi, hanno visto aumentare del 72% il loro patrimonio. Eppure, quando si discuteva se introdurre il Rdc, un coro che andava da Salvini al cardinale Bassetti, presidente della Cei, piagnucolò che non si sapeva dove prendere i soldi.

Un bilancio
Il Rdc ha poco più di due anni. Nel 2020 vi erano in Italia 26 milioni di nuclei familiari di cui il 91,4% non pativa povertà (dati Istat e Inps). Il resto versava in uno stato di povertà assoluta (2 milioni, il 7,7%) o povertà relativa (5,5 milioni). Le famiglie che hanno ricevuto il Rdc sono state 1,58 milioni, il 4,7%, con oscillazioni che vanno dallo 0,2% a Bolzano al 12,2% in Campania. Nel 17% dei nuclei percettori vi sono disabili; nel 29% ci sono minori.

L’importo medio è stato di 584 euro. Basta per uscire dalla povertà assoluta? Secondo il Rapporto, “malgrado un tasso di copertura non molto elevato, il Rdc ha avuto un effetto significativo sulla povertà e sulla diseguaglianza”. La percentuale delle famiglie in povertà assoluta è diminuita di 1,7 punti e quella delle famiglie in povertà relativa di 1,3 punti, mentre l’Indice di Gini è migliorato dallo 0.334 allo 0.326. Il 57% di quanti hanno ricevuto il Rdc sono usciti dalla povertà. Non è poco.

Il welfare
Come ho detto, la povertà è un capitolo socio-economico molto complesso. Chi denunzia con livore o si scandalizza dei difetti riscontrati in questi due anni o gioca una sua partita elettorale sulla pelle dei poveri o dimostra la propria ignoranza della materia. Il welfare, di cui il Rdc fa parte, non è un’invenzione di comunisti o socialdemocratici. Lo impose il “cancelliere di ferro” Otto von Bismarck, odiato dai socialisti, come astuta risposta alle sfide della società industriale e alle istanze religiose per arginare le rivendicazioni sindacali, la lotta di classe e le spinte rivoluzionarie. Avversare il welfare da parte dei ricchi significa essere imprudenti; sostenere che nei Paesi capitalisti la povertà si combatte con la crescita significa non aver capito come mai in ricche nazioni come gli Usa crescano sia la ricchezza che il numero degli indigenti.

L’adozione del Rei prima e del Rdc dopo va considerata come un test per individuare i problemi e risolverli. Due di questi, prevedibili ma solo ora quantificabili, consistono nel fatto che un certo numero di poveri non lo ha percepito mentre un certo numero di percettori del sussidio non lo meritava. Questa anomalia, presente in tutti i Paesi, è scontata ma va circoscritta il più possibile.

Gli ingenui
Su 100 famiglie, 6,9 sono povere. Di queste, 3,9 (il 56%) non hanno percepito il Rdc perché non ne conoscevano l’esistenza o non sono riuscite a sbrigare le pratiche necessarie, o perché non hanno saputo calcolare bene il loro grado di povertà, soprattutto se possessori di mobili e immobili. Ma come mai è così difficile raggiungere i poveri meritevoli del sussidio? Prendiamo il caso limite: i barboni. Nei 158 Comuni dove si è cercato di individuarli, sono risultati in circa 60.000 quindi è probabile che in tutto il Paese siano almeno il quadruplo (negli Stati Uniti sono 532.000 e in Germania 337.000). Il Rapporto riferisce che il 45% dei nuclei assistiti dalla Caritas non ha percepito il Rdc perché neppure sapeva che esistesse, o credeva di non averne i requisiti, o aveva difficoltà nel presentare la domanda, o mancava di un sufficiente supporto e orientamento. Se tutte le forze di sinistra, tutti i sindacati e tutti gli uomini di buona volontà che dicono di battersi per la giustizia sociale, se tutte le associazioni caritatevoli e filantropiche che procurano minestre calde ai barboni, avessero accompagnato i poveri di loro conoscenza nell’itinerario burocratico che conduce al sussidio statale, molte decine di migliaia di senzatetto avrebbero sostituito la dipendenza poco dignitosa dalla carità aleatoria con il diritto civile alla sopravvivenza riconosciuta e assicurata dallo Stato.

Comunque la difficoltà di intercettare si riscontra in tutti i Paesi. In Germania il sussidio Alg II ha impiegato 15 anni per raggiungere 15 milioni di poveri, il 60% dei potenziali destinatari. Tutto sommato l’Italia è in una situazione migliore, nonostante abbia Centri per l’Impiego di gran lunga più sgangherati. Già nel primo mese di erogazione, da noi si contava più di mezzo milione di nuclei beneficiari, diventati 1,13 milioni nel marzo 2021.

I “furbi”
Il caso opposto è quello dei percettori del sussidio che non lo meritano. Anche questo fenomeno si riscontra in tutti i Paesi Ocse, ma in Italia rappresenta il grande cavallo di battaglia dei nemici del Rdc. Se si usasse lo stesso criterio anche per il sistema fiscale, si dovrebbe passare all’abolizione delle tasse dal momento che ci sono i furboni che le evadono. La caccia a questi furbetti del Rdc è diventato il piatto forte dei talk show. Come abbiamo visto, su 100 nuclei, 4,7 hanno percepito il Rdc. Di questi, l’1,7% non possedeva i requisiti per meritarlo. Questo 1,7 equivale al 36% di tutti i nuclei che hanno percepito il reddito. La percentuale aumenta nei nuclei di piccole dimensioni; nel Nord si ferma al 29% ma nel Mezzogiorno arriva al 40%.

Cristiano Gori, responsabile scientifico del Rapporto, riconosce “l’importanza di avere una misura di contrasto della povertà ben finanziata nel nostro Paese. Un obiettivo per il quale Caritas Italiana si è sempre impegnata e che – per decenni – è sembrato irraggiungibile”. Dopo 70 anni di incuria, questi due anni di sperimentazione erano indispensabili, altrimenti oggi i tempi non sarebbero maturi per un riordino della materia, finalmente capace di saldare il debito tra lo Stato e i suoi cittadini meno fortunati.

Al G20 prima intesa sulla transizione verde: “Ma va tutelato anche il sistema industriale”

Anche quando ospita nel suo Paese il G20 sull’ambiente, che ieri si è tenuto a Napoli e che oggi proseguirà con i ministri di tutto il mondo concentrati a discutere di clima ed energia, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani mantiene la sua ormai tradizionale cautela: “La transizione energetica è come un transatlantico che cerca di muoversi in un piccolo porto circondato di barche”, dice a fine giornata, mentre davanti ai cancelli di Palazzo Reale i manifestanti tirano palloni d’acqua alla polizia dopo 12 ore di cortei e blocchi stradali. Ciò che discende da questa visione della missione ambientale ha spesso il sapore di una battaglia nata già persa. Gli incontri della giornata sono a porte chiuse. In conferenza stampa affronta tutti i temi dell’accordo raggiunto sulle linee guida da seguire per la transizione che, a quanto pare, sono cucite sul modello del Pnrr Italiano. Spiega che le trattative sono andate avanti fino a dieci minuti prima dell’accordo, dove si pone molta attenzione alla tutela del suolo. Viene stabilito di dare una forte impronta alla finanza sostenibile ma anche agli squilibri tra paesi più e meno sviluppati. È tutto ambizioso, raccontato con una zona d’ombra di chiari compromessi. Sull’asse Italia-Usa l’intesa nata nella bicamerale con l’inviato speciale per l’Ambiente Usa, John Kerry, e basata sull’accelerazione sulle fonti rinnovabili, precisa ad esempio che “decarbonizzare è certo improcrastinabile” ma va fatto “con geopolitica favorevole a livello internazionale”. Il ragionamento è già sentito da decenni: “Ci sono Paesi che non vedono di buon occhio la data del 2030 o del 2050. Bastano due-tre grandi che continuano a inquinare” e gli obiettivi saltano. E noi, è il sottotesto, ci saremo sacrificati per nulla. E ancora, la complessità prevede, che si discuta ancora, che si programmi, che si continui a mediare. “In Ue facciamo grande fatica a decarbonizzare – spiega il ministro – ma abbiamo anche un sistema industriale internazionale che va tutelato”. Insomma, la transizione può funzionare solo se tutti si convertiranno, ad esempio, all’industria green. Altrimenti ci sarà sempre la concorrenza sleale di chi produrrà a minor costo. A pagarlo, sarebbero i consumatori che andrebbero tutelati. L’unico esempio che gli viene in mente, però, riguarda lo stop al rincaro delle bollette sul quale erano stati dirottati i soldi per i Parchi.

Pivetti, sequestro da 1,2 mln di Ffp2 alla sua società

Nuovo sequestro di mascherine per la società dell’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, titolare della Only Italy Logistic Scarl, importatrice di dispositivi di protezione individuale dalla Cina. A metà giugno scorso, le Fiamme gialle di Savona hanno bloccato 1 milione e 200 mila Ffp2 nei magazzini di Segrate e destinate alla Protezione civile. Il secondo stock invece, 147 mila mascherine modello Kn95, si trovava a Pisa nel deposito dell’Ente di supporto tecnico amministrativo della Toscana (Estar). L’ex deputata leghista è indagata dalla Procura di Busto Arsizio per frode nell’esercizio del commercio, e la stima del sequestro è di 3,2 milioni di euro. “Le mascherine fornite sono significativamente diverse da quelle pattuite”, scrive la gip Luisa Bovitutti nel decreto, spiegando che hanno un “potere filtrante molto inferiore rispetto allo standard promesso, e non possono essere neppure commercializzate in assenza di certificazione”. La società della Pivetti avrebbe usato un espediente “per far apparire fungibili” le mascherine

Capri, bus va fuori strada: 1 morto e 23 feriti. L’infarto dell’autista 33enne e il volo sul lido

Il minibus sbanda, sfonda una ringhiera di protezione della carreggiata e precipita nel vuoto finendo nello stabilimento balneare Le Ondine di Capri. Forse la causa dell’incidente è stata un malore accusato dall’autista 33enne Emanuele Melillo, che ha perso la vita nell’impatto. Sono invece 23 i feriti, tra cui alcuni bambini. I più gravi sono stati trasferiti in elisoccorso a Napoli. Emanuele o “Manueloccio”, come lo chiamavano affettuosamente gli amici, era ausiliario della Croce Rossa Italiana, e presto sarebbe diventato papà. Da diversi anni lavorava nell’azienda trasporti caprese (Atc) con contratti a tempo determinato, facendo il pendolare tra Napoli e l’isola. “Era un lavoratore esperto che conosceva le strade dell’isola”, spiega all’Ansa Franco Chierchia, delegato Usb in Atc, che a nome del sindacato ha espresso anche “vicinanza e cordoglio ai parenti e familiari” dell’autista.

Nel tratto in cui si è verificato l’incidente la carreggiata è rettilinea, per questo motivo molti colleghi, che stimavano Emanuele sul lavoro, ipotizzano che l’autista potrebbe aver accusato un malore, che ha provocato la sterzata improvvisa, la perdita del controllo del mezzo, fino alla rovinosa caduta nel dirupo. Bisognerà attendere l’esame autoptico per accertare la causa del decesso. Al momento, gli investigatori non escludono nessuna ipotesi nella ricostruzione della dinamica dell’incidente. Ieri la polizia scientifica di Napoli è stata per ore a compiere rilievi sul tratto stradale per raccogliere elementi utili che possano ricostruire la traiettoria del minibus. “È un brutto momento per l’intera comunità isolana, siamo profondamente addolorati e davvero scioccati per quanto accaduto. Ad accertare i fatti ci saranno le indagini e le verifiche tecniche. Ora è il momento del dolore”, ha detto il sindaco Marino Lembo. “È qualcosa che difficilmente dimenticherò – racconta un giovane testimone – specialmente la scena di un ragazzino che urlava dal dolore mentre lo fissavano sulla barella dopo averlo estratto dal pulmino. Un’immagine che mi ha messo ko”. Il testimone ha ricostruito anche i momenti dell’incidente, avvenuto alle 11:30 di ieri: “Il pullman è rotolato fino ad andare a impattare contro le cabine doccia dello stabilimento, in quella cunetta che fa da spartiacque tra la spiaggia libera e il vicino stabilimento privato. Ancora un metro è il bilancio sarebbe stato ancora più pesante. C’era tanta gente a farsi il bagno”.

La mappa No Vax: Calabria, Bolzano e Sicilia maglia nera

Per il commissario Francesco Paolo Figliuolo la campagna vaccinale ora ha come priorità la scuola. Per questo ha scritto a Regioni e Province autonome invitandole “a dare priorità alle somministrazioni agli studenti di età uguale o superiore ai 12 anni”. L’obiettivo – per la verità assai ambizioso – è vaccinare “il 60% degli studenti entro settembre”. Ma c’è un’altra questione sul tavolo. Riguarda il personale scolastico, docenti, impiegati, tecnici e ausiliari, non ancora vaccinati. Ritardatari o renitenti non sono pochi. Figliuolo ha chiesto alle Regioni “entro il 20 agosto” il numero di coloro che non possono o non vogliono vaccinarsi: “Nessun elenco – ha specificato il commissario – ma una generica quantificazione delle mancate adesioni a fini statistici.

Una mappa insomma, di tutti quelli che sono contrari al vaccino o che non possono farlo per motivi di salute. Ma quanti sono gli insegnanti e gli altri addetti della scuola che finora non hanno nemmeno avuto la prima dose? A livello nazionale il 15,2% (dati aggiornati a mercoledì scorso). Ed è difficile credere che siano perlopiù persone distratte, visto che – insieme a personale sanitario, over 80, ospiti delle Rsa – fanno parte delle cosiddette categorie a rischio per le quali la campagna vaccinale è iniziata in inverno. Molto più probabile che tra di loro ci siano tanti irriducibili. Concentrati, peraltro, in alcune aree come la Sicilia, che ha la più alta percentuale di personale scolastico no vax (43,2%), seguita dalla provincia di Bolzano (39,2%) e dalla Liguria (34,8%). La totalità (o quasi) degli insegnanti è stata raggiunta solo in Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Molise e Abruzzo. Tra le categorie a rischio non mancano i ricalcitranti nemmeno tra medici, infermieri e operatori sociosanitari, anche se con numeri decisamente più piccoli. I camici bianchi che rifiutano il vaccino (2,1% a livello nazionale) sono concentrati in Emilia-Romagna (7,5%), nel Trentino (10,3%) e soprattutto in Friuli-Venezia Giulia (11,3%).

Il 37,7% della popolazione non ha ancora ricevuto nemmeno la prima dose. Il che non significa certo che siamo di fronte a una grande defezione, le prenotazioni della prima somministrazione continuano ad arrivare negli hub vaccinali. Considerazione che però vale molto meno per le classi di età più anziane, le più esposte al rischio di contrarre la malattia in forma grave e per le quali le somministrazioni sono iniziate in febbraio. Tra gli over 90 non ha fatto nemmeno una dose il 18,9% in Calabria, il 16,6% in Sicilia, il 15,8% in Campania, l’11% a Bolzano: 100% solo in otto regioni, quasi tutte del Centro Nord tranne la Puglia. Stesso discorso per la fascia 80-89, dove manca all’appello il 6,3% a livello nazionale, con punte che arrivano al 16,7 e al 16,9 in Sicilia e Calabria. Ma la questione riguarda anche i settantenni, con l’11,2% di refrattari come media nazionale e con la Sicilia che batte il record (19,2%), seguita da Bolzano (18,3) e dal Friuli-Venezia Giulia (17,5%). La situazione peggiora ancora tra i 60 e i 69 anni: a livello nazionale non ha fatto la prima dose il 16,5%, con il primato ancora una volta della Sicilia (24,4%), del Friuli-Venezia Giulia (24,2%) e della provincia di Bolzano, con il 22,3%. E tenuto conto della tabella di marcia della campagna vaccinale per operatori a rischio e fasce d’età, è in questa categoria di persone che si concentra maggiormente quella fetta di popolazione che ancora rifiuta il vaccino.

Casi oltre quota 5 mila. In aumento anche i ricoveri in ospedale

Il contagio è tornato a correre e ora spaventa. Nelle ultime 24 ore i positivi sono passati da 4.259 a 5.057, e il tasso di positività è salito al 2,3%, dall’1,8% di ieri. Quindici i morti, in netto aumento i ricoverati con sintomi: il saldo ingressi-uscite fa segnare 38 posti letto in più occupati rispetto a mercoledì. Stabili invece a 158 le terapie intensive (12 ingressi).

Le regioni che soffrono di più, secondo i dati della Fondazione Gimbe, sono la Calabria, con il 6% dei posti letto occupati in area medica e il 3% in intensiva; la Campania con il 5 e il 2%; la Sicilia con il 5 e il 3%; la Basilicata con il 5% in area medica e 0% in terapia intensiva; la Sardegna con il 4% e l’1%. Ma si tratta di percentuali che, almeno per il momento, non portano a un cambiamento del colore.

Secondo la fotografia dell’andamento epidemiologico di Gimbe, la settimana 14-20 luglio, rispetto alla precedente, mostra un incremento del 115,7% di nuove infezioni, cioè 19.390 rispetto a 8.989. Questa impennata di nuovi casi va di pari passo con un’inversione di tendenza sul fronte ospedaliero: i ricoveri con sintomi sono stati 1.194 rispetto a 1.128, pari a +5,9, e le terapie intensive 165 rispetto a 157, pari a +5,1%. Crescono dopo mesi di decremento i casi positivi (49.310 rispetto a 40.649) mentre sono ancora in calo i decessi (76 rispetto a 104, pari a -26,9%).

Da Bruxelles intanto l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) pubblica le mappe aggiornate sull’incidenza del contagio e inserisce Lazio, Veneto, Sicilia e Sardegna in giallo. Tra gli scienziati c’è chi avverte, come l’epidemiologa Stefania Salmaso, che “se raddoppiano i casi, dopo 4 o 8 settimane vediamo anche il raddoppio dei ricoveri. Ma a quel punto è troppo tardi per intervenire, perché ci sono già troppi infettati in giro”. E c’è chi invece spiega che la situazione è completamente cambiata perché il 52% degli italiani è già vaccinato.