Green pass e campagna vaccini, dal governo uno schiaffo a Salvini

Proroga dello stato di emergenza fino al 31 dicembre, modifica dei parametri per il cambio di zona delle Regioni (vale il tasso di ospedalizzazione e non il numero dei contagi), estensione dell’obbligo del Green pass. Secondo l’assunto che “l’economia va bene, ma davanti alla variante Delta dobbiamo reagire”, Mario Draghi sceglie di mettere la faccia sul decreto che rende il vaccino obbligatorio di fatto, approvato ieri pomeriggio dal Cdm. “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”, dice in una conferenza stampa con i ministri Roberto Speranza (Salute) e Marta Cartabia (Giustizia) convocata da una parte per annunciare la fiducia sulla riforma della Giustizia, dall’altra per chiarire che “il green pass è la condizione per tenere aperte le attività economiche”. Il riferimento non casuale dell’affondo è a Matteo Salvini, che in questi giorni ha parlato di inutilità dei vaccini per gli under 40 e ha cercato fino all’ultimo di limitare l’uso del certificato. Ma dopo settimane alla ricerca di una quadra e giornate di mediazione, il premier è andato diritto all’obiettivo. Soddisfatto anche il rigorista Speranza, che pure avrebbe voluto di più.

Va detto che le questioni più spinose, con conflitto aperto tra rigoristi e non, vengono rimandate: l’obbligo del green pass per scuola, trasporto e lavoro (nonostante la richiesta di Confindustria). Dei primi due settori, il governo si occuperà nelle prossime due settimane, il lavoro richiederà ulteriori approfondimenti. Alla Salute si dicono praticamente certi che per la scuola verrà introdotto l’obbligo vaccinale e che il pass da metà settembre sarà obbligatorio anche per salire sui trasporti pubblici, almeno quelli a lunga percorrenza.

Intanto, in Cdm la discussione va abbastanza liscia. La tensione è tutta sulla giustizia, ma le ultime mediazioni avvengono nella cabina di regia.

La Lega, rappresentata da Massimo Garavaglia (Turismo), protesta sulla proroga dello stato di emergenza. Un intervento più di forma che di sostanza però: tra il premier e Salvini c’era già stato un accordo di massima (sì alla proroga, ma garanzia di non richiudere). Certo, lo stato di emergenza arriva al 31 dicembre e non al 31 ottobre: ma nessuno fa le barricate, come ai tempi del governo gialloverde.

Dal 6 agosto, dunque, il Green pass sarà valido per chi abbia avuto almeno una dose di vaccino (ma dovrà fare la seconda nei tempi previsti), abbia fatto un tampone negativo nelle 48 ore precedenti o sia guarito dal Covid nei sei mesi precedenti. L’obbligo varrà per tutti i vaccinabili: dunque dai 12 anni in su.

L’illustrazione dell’estensione dell’obbligo del certificato spetta al ministro della Salute, Roberto Speranza: “Noi abbiamo usato questo certificato per alcune fattispecie particolari: matrimoni, entrare in Rsa e visitare un caro”. E poi ne annuncia l’estensione alla ristorazione svolta da qualsiasi esercizio al chiuso, gli spettacoli aperti al pubblico, le competizioni sportivi, i musei, le piscine e i centri benessere, le fiere, le sagre, i convegni e i congressi, i centri termali, i parchi tematici e di divertimento, i centri culturali, i centri sociali e ricreativi, le attività di sale gioco, sale bingo e sale scommesse, casinò e le procedure concorsuali.

Nella cabina di regia era stato Garavaglia a lamentarsi per la chiusura delle discoteche. “C’è accordo pieno a risarcirle”, chiarisce Draghi. La Lega ci tiene a rivendicare qualche bandierina, come la possibilità di assistere agli eventi sportivi con il 50% della capienza. E il muro sui trasporti. Sempre la Lega avrebbe voluto rimandare l’entrata in vigore dell’obbligo del Green pass tra un mese. Alla fine ha ottenuto pochi giorni. Mentre è Stefano Patuanelli, M5S (Agricoltura) a chiedere tamponi gratuiti per under 18 e calmierati per quelli che non possono vaccinarsi (che poi il decreto prevede).

Per capire davvero, quello che cambierà per locali ed eventi (dalla capienza consentita in poi) bisognerà aspettare i protocolli: a questo servono anche le prossime due settimane di tempo. Intanto, ci sono le multe: da 400 a 1.000 euro sia a carico dell’esercente sia dell’utente. Con la violazione ripetuta per 3 volte, l’esercizio potrebbe essere chiuso da 1 a 10 giorni.

E poi, c’è la questione dei parametri. Il limite tra la zona bianca e la zona gialla sarà stabilito dalla percentuale di occupazione dei posti letto disponibili. L’indicazione della cabina di regia è fissare il limite al 10% per le terapie intensive e al 15% per i reparti ordinari. Speranza avrebbe voluto il 5% e il 10%. Le Regioni e la Lega avevano chiesto il 20% di terapie intensive, il Cts aveva dato orientamento per una soglia del 5%. Per passare in zona arancione le soglie sono state fissate al 20% di occupazione dei posti disponibili per le terapie intensive e al 30% per le aree mediche. Si entrerà in zona rossa quando le terapie intensive saranno piene più del 30% e i reparti ordinari più del 40%.

I pm: “L’assessore resti ai domiciliari. Se esce di casa, può sparare ancora”

Martedì sera, prima del colpo di pistola in piazza Meardi a Voghera, l’assessore comunale leghista alla Sicurezza Massimo Adriatici (47 anni), secondo la ricostruzione della Procura di Pavia, scambia due parole con il titolare di un bar lì vicino. Il giorno precedente, gli viene detto, una persona ha disturbato gli avventori. È, secondo gli atti dei pm, Youns El Boussettaoui, il 39enne marocchino poi colpito a morte davanti al bar Ligure dalla pistola del leghista. Scambiate quelle frasi, Adriatici lo vede. Spiegano i pm: “Forse lo segue, ma nel perimetro della piazza”. Poi, dopo la lite, parte il colpo. Youns, pregiudicato per diversi reati (ma nel momento dello sparo privo di armi), viene colpito. Morirà. Adriatici andrà ai domiciliari. Ieri la Procura ha chiesto al giudice la conferma della misura cautelare per il politico della Lega. Perché può “reiterare il reato”. Tradotto: può sparare ancora.

Adriatici, secondo l’accusa, se liberato potrebbe di nuovo premere il grilletto. Il pm Bruno Valli, ieri, ha scritto la sua richiesta che ora dovrà essere valutata dal giudice dopo che oggi Adriatici sarà sentito dal gip. L’accusa per l’uomo del partito di Matteo Salvini è eccesso colposo di difesa. Titolo di reato meno grave rispetto al primo, omicidio volontario, con cui i carabinieri lo avevano arrestato quattro giorni fa. Un dato da valutare. La richiesta firmata dal pm, dieci pagine, contiene la ricostruzione dei fatti e tre testimonianze convergenti nel dire che il colpo partito dalla Beretta H 21 calibro 22 Long Rifle, regolarmente detenuta da Adriatici, è stato sparato quando il politico della Lega era a terra o stava cadendo. Dato che dovrà essere confermato dai risultati dell’autopsia e dalla perizia balistica. Agli atti dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Mario Venditti, vi è un video “decisivo” pubblicato ieri dal Fatto.it. È un filmato di 29 secondi. Riprende il marocchino avvicinarsi all’assessore che è al telefono e starebbe parlando con il commissariato per far intervenire una volante. Quando i due sono a circa un metro, Adriatici estrae dalla tasca quella che sembra un’arma e la mostra alla vittima, che avanza tirandogli un pugno in volto. Il politico cade. Che succede poi? Si vede il marocchino muoversi normalmente per due secondi e raccogliere qualcosa da terra. È stato già colpito e, vista l’adrenalina non se ne accorge? Per questo si aspettano i risultati dei periti.

Dal video, Adriatici pare già caduto e scompare dietro l’angolo. Dopodiché parte il colpo. In che modo? Il dato è incerto. Accidentalmente, come detto da Adriatici o inconsapevolmente? “L’arma ha già il colpo in canna”. Dato questo sul quale la Procura ha pochi dubbi. Il resto avviene in un flash. Il video se pur chiaro in una prima dinamica, non svela del tutto come sia partito il colpo. Di certo, Adriatici, secondo i pm, se libero dai domiciliari potrebbe sparare di nuovo. A prevalere, per l’accusa, è stata la reiterazione del reato. Il pm ha approfondito, senza allegarlo alla richiesta, il particolare del colpo in canna. Adriatici poteva averlo? La risposta è sì. Secondo il regolamento del porto d’armi per difesa personale, il colpo in canna è consentito. Mentre non lo è per le forze dell’ordine. Ieri a Voghera ha parlato Debora Piazza, avvocato della famiglia della vittima. Ha spiegato che “Youns stava male e i familiari, preoccupati, (…) lo avevano fatto ricoverare in ospedale, dal quale era scappato. Lui voleva stare in piazza Meardi. Aveva qualche problema, ma dovevano intervenire le istituzioni. Andava curato, non ucciso”. Ha concluso l’avvocato Piazza: “Bisogna dire le cose come stanno: Youns è stato ammazzato senza motivo”. E se da un lato si aspettano i dati dell’autopsia anche per capire se la vittima avesse assunto droghe, dall’altro la Procura attende i test tossicologici fatti sull’assessore, nella cui abitazione di Voghera i carabinieri hanno trovato un’altra pistola, anche questa in regola.

Csm, la riforma non passa: votano contro 4 toghe su 6

Bocciatura secca, senza se e senza ma, della norma della ministra della Giustizia Marta Cartabia sulla prescrizione-improcedibilità. L’ha decretata la competente sesta commissione del Csm, deliberando un parere negativo, tutto incentrato su questo punto della riforma penale, con 4 voti su su 6: quelli del presidente Fulvio Gigliotti, laico M5S e dei togati Sebastiano Ardita, AeI, Elisabetta Chinaglia e Ciccio Zaccaro, Area. Astenuti Loredana Micciché, togata di MI e Alessio Lanzi, laico di FI. Il parere, una ventina di pagine, dovrebbe essere votato mercoledì dal plenum.

Il presidente Gigliotti ne spiega la sostanza: “Riteniamo negativo l’impatto della norma, dato che comporta l’impossibilità di chiudere un gran numero di processi”. Il riferimento è ai paletti temporali che causeranno la morte di migliaia di processi anche per mafia e corruzione: 2 anni per l’Appello e 1 anno per la Cassazione. Questa tempistica, prosegue Gigliotti, “non è sostenibile in termini fattuali, in una serie di realtà territoriali, dove il dato medio è ben superiore ai 2 anni, e arriva sino a 4-5 anni”. Ma la stroncatura riguarda anche profili di incostituzionalità: “La disciplina non si coordina con alcuni principi dell’ordinamento come l’obbligatorietà dell’azione penale e la ragionevole durata del processo”. Quello del Csm è un parere, facoltativo, previsto per legge ma che la ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha chiesto. Un comportamento che, da diversi consiglieri, è stato vissuto come uno sgarbo istituzionale. E in plenum si annunciano interventi durissimi anche su altri punti della riforma, a cominciare dalle direttive ai procuratori che dovrebbe dare il Parlamento.

A palazzo dei Marescialli, invece, smentita a più voci una presunta moral suasion, riportata da organi di stampa, da parte del presidente Mattarella per evitare il parere o anche solo per scriverlo con “toni bassi”. Le differenze sui modi di esternare le criticità sono in seno al Csm e si vedranno in plenum. Intanto, ieri, c’è stata una divisione trasversale sulla Commissione per la Giustizia al Sud istituita dalle ministre Cartabia e Mara Carfagna: sì del plenum per i 6 magistrati designati, ma solo 11 sì, tra cui quello del vicepresidente Ermini, 8 contrari e 5 astenuti. Contrari, i togati Ardita, Di Matteo, Marra e Zaccaro, Lanzi, FI e i 3 di M5S, con i professori Benedetti e Donati che hanno invocato la Costituzione. “La Commissione – ha detto Benedetti – tratta prerogative del Consiglio, che dobbiamo difendere”.

“Il processo Trattativa con queste regole sarebbe già morto”

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, lo ha ripetuto anche ieri, nella conferenza stampa a fianco del presidente del Consiglio, Mario Draghi: la riforma della prescrizione per rendere i processi penali più rapidi del 25 per cento ce la chiede l’Europa, e se non la facciamo sono a rischio i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non è d’accordo Vittorio Teresi, già pubblico ministero a Palermo, dove ha rappresentato l’accusa, tra l’altro, nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

Una riforma necessaria, dunque, che ci viene chiesta dall’Europa?

No. Non quella che è uscita dal Consiglio dei ministri. L’Europa ci ha chiesto di rendere più celeri i processi, ma non ci ha fatto una richiesta giugulatoria di abrogare migliaia di processi. Per ridurre i tempi, si può e si deve realizzare sostanziose depenalizzazioni, incentivare i riti alternativi, aumentare gli organici di magistrati e personale dei palazzi di giustizia. Non far cadere la mannaia su tanti processi, solo perché durano più di due anni in Appello e più di un anno in Cassazione.

Che fine farebbe il processo sulla trattativa Stato-mafia, se fosse già in vigore la riforma Cartabia?

Del processo sulla Trattativa stiamo aspettando proprio la sentenza d’Appello, e sono passati già più di tre anni. Con questa riforma, sarebbe già morto: improcedibile. Ma poi: che cos’è l’improcedibilità, che è addirittura peggio della prescrizione? Qual è il suo regime giuridico?

La riforma avrà effetti anche sui procedimenti per mafia? La ministra ha detto che i reati che prevedono l’ergastolo non potranno diventare “improcedibili”.

Mi piacerebbe capire quale sarà la sorte del grado di Appello dei procedimenti per delitti puniti con l’ergastolo. Quale sarà la ratio giuridica di questo regime differenziato? Come tutti sanno bene, i processi con imputati mafiosi non si celebrano sempre e solo per reati da ergastolo. Si procede per associazione a delinquere di stampo mafioso e per tanti reati satelliti, estorsioni, traffico di stupefacenti, armi, e anche corruzione, turbativa d’asta… Come si farà a concludere processi spesso complessi, con molti reati e tanti imputati?

Un altro punto della riforma Cartabia è quello di far decidere al Parlamento le priorità sui reati che le Procure devono perseguire.

Questo punto ha già di per sé evidenti elementi di incostituzionalità. L’articolo 112 della nostra Costituzione garantisce l’obbligatorietà dell’azione penale, quindi come si potrà accettare una deroga a tale principio? Questo è un vulnus per la giurisdizione, che garantisce non privilegi per i magistrati, ma principi di giustizia per tutti i cittadini.

La ministra garantisce che con questa riforma avremo processi più celeri.

Sento molto parlare, nel nostro Paese, di garanzie per gli imputati, ma non vedo attenzione alle garanzie per le vittime. Le parti offese non avranno giustizia in tutti i casi in cui i processi saranno bloccati.

Potranno però fare comunque richiesta di risarcimento in sede civile.

Già, dopo aver aspettato anni per il processo penale, dovranno ricominciare tutto da capo con un nuovo giudizio civile. Così si otterrà il bel risultato di moltiplicare e rendere più lunghi anche i processi civili, che sono proprio quelli che più l’Europa ci spinge ad accelerare. No, è una riforma che proprio si fatica a comprendere.

“Sui reati di genere, viola gli accordi di Istanbul”

Il concordato in Appello, ovvero l’accordo tra imputato e pm – così come vuole modificarlo la riforma Cartabia – è contrario alla Convenzione di Istanbul. È su questa linea che si muove la Commissione d’inchiesta sul femminicidio, pronta a presentare alcuni emendamenti alla riforma della Giustizia che divide la maggioranza. Proprio ieri Il Fatto ha raccontato come nel testo votato in Consiglio dei ministri della riforma ci siano alcune modifiche del codice di procedura penale che indeboliscono la tutela nei confronti delle donne. Parliamo del concordato in appello. L’istituto giuridico che permette di trovare un accordo tra imputato e pubblica accusa sulla pena da comminare è, a oggi, escluso per i procedimenti che riguardavano reati gravi come prostituzione minorile, pornografia minorile, ma anche violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo e così via.

L’elenco dei procedimenti per i quali non è possibile il concordato in Appello è indicato nell’articolo 599-bis del codice di procedura penale. Lo stesso che ora la riforma Cartabia vuole eliminare, allargando quindi a tutti i reati – anche quelli di cui sono per lo più vittime donne e minori – la possibilità di accedere a questo istituto giuridico. È anche su questo aspetto che la commissione d’inchiesta sul femminicidio invierà emendamenti. Lo conferma al Fatto Valeria Valente (Pd) che presiede la commissione. Nonostante non sia contraria alla riforma, per la Valente la modifica che si vuole apportare sul concordato in Appello “è vietata dalla Convenzione di Istanbul, non ci si può mettere d’accordo in nessun modo”. Il riferimento è appunto alla Convenzione del Consiglio d’Europa, ratificata anche dall’Italia, sulla prevenzione e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Il concordato in Appello, così come lo si vuole modificare, “per noi non è possibile – spiega Valente –. Non avremo problemi a dire alla Cartabia che non siamo d’accordo”. E aggiunge: “Ritengo che la riforma in generale si muova nella direzione giusta, però sulla questione dei reati di genere come Commissione solleciteremo diversi emendamenti che riguardano appunto i reati di violenza. Su questo vi è la necessità di fare un approfondimento”.

Ma non è tutto. C’è un ulteriore aspetto della riforma che potrebbe riguardare i reati contro le donne. Oggi il giudice può assolvere un imputato che ritenga abbia commesso un reato tenue, per delitti che prevedono una pena massima fino a 5 anni. Con la riforma, si allargano i confini: sarà “tenue” il reato con pena minima fino a 2 anni. E tra questi rientrano molti reati contro le donne, come il revenge porn. Anche su questo si sta ragionando in Commissione d’inchiesta al Senato. Di certo, la riforma non rappresenta un passo in avanti per la lotta alla violenza contro le donne.

Salvaladri, accordo lontano Draghi ricatta con la fiducia

Ora sulla Giustizia è partita vera, è trattativa che confina con il duello. Un misurarsi tra due uomini, Giuseppe Conte e Mario Draghi, e tra due diverse visioni delle cose, del potere. Da una parte il capo prossimo venturo del M5S, che chiede di far slittare al 2024 l’entrata in vigore della controriforma Cartabia, e nel contempo prova a sminarla: con l’aumento dei termini per completare i processi in Appello e Cassazione, e soprattutto sottraendo alle nuove norme i procedimenti per mafia, tutti. Ma sull’altro fronte c’è Draghi, il presidente del Consiglio, che va di fretta.

Aperto, anzi “molto aperto a miglioramenti tecnici, ma non a stravolgimenti” della riforma, come ripeterà allo sfinimento in conferenza stampa. Per questo dopo una giornata di telefonate incrociate respinge le richieste di Conte come troppo esose. E fa la faccia cattiva, calando sul tavolo il voto di fiducia sul testo di partenza, su quegli emendamenti indigeribili per Conte e il M5S. Lo fa approvare già ieri pomeriggio, in Cdm, con il sì anche dei quattro ministri grillini. “La fiducia vuole essere un punto fermo” ammette il premier. Che però promette un nuovo voto di fiducia su un nuovo testo, quello della mediazione che ancora non c’è.

Di certo è contrario allo smantellamento della riforma Cartabia, la ministra che accanto a lui in conferenza stampa non riesce a dissimulare l’imbarazzo. C’è una battaglia politica in corso che potrebbe finire con la pace, certo, con un punto di caduta che serve a tutti. “Ma a oggi la quadra non è vicina” riassume un big grillino. L’analisi di un giovedì in cui la trattativa entra nel vivo, sulla spinta di opposte esigenze. Quella di Draghi, che vuole far approvare prima possibile la riforma della giustizia e che non ha gradito affatto il dilatarsi dei tempi alla Camera sul testo, così come la pioggia di emendamenti arrivata dal M5S. Ma anche Conte deve dare segnali ai tanti 5Stelle inquieti, con in prima fila i suoi, i contiani. Però il malessere è diffuso e trasversale tra i grillini, tanto che si parla di diversi deputati pronti a non votare la fiducia oggi al Decreto sostegni bis. In questo quadro ieri Conte e Draghi si sentono al telefono, più volte.

E l’avvocato spiega la sua proposta, che parte dall’allungamento a tre anni del tetto massimo per svolgere i processi di appello, dilatabili a quattro a richiesta dei giudici nel caso di processi particolarmente complessi. Soprattutto, chiede che a tutti i processi per mafia si continui ad applicare la riforma Bonafede. È tanto, troppo per Draghi. Però l’avvocato deve alzare l’asticella. “Per tenere i gruppi parlamentari non basteranno due modifiche di facciata” ricordano dal M5S. Ma Draghi e non vuole passare per cedevole, figurarsi. “E poi forse si aspettava di chiudere già l’accordo” azzarda un grillino di rango. Così ecco il voto di fiducia in Cdm. Non è quello che si aspettava l’avvocato. Ma Conte non vuole lo scontro aperto. Così i ministri grillini in Consiglio votano tutti sì alla fiducia. E uno dei quattro pochi minuti dopo giura: “Ci siamo mossi in pieno coordinamento con Conte”. Ma nel giro contiano la mossa della fiducia non viene apprezzata, per nulla. “Una riforma come quella della giustizia deve essere condivisa, ma non è giusto minacciare la consultazione elettorale se non la si approva” assicura nel frattempo Draghi. E d’altronde “chiedere la fiducia cinque o sei giorni prima del semestre bianco (in cui non si possono sciogliere le Camere, ndr) è come chiederla durante, perché i tempi per organizzare il voto non ci sarebbero comunque”.

Cartabia è cautissima: “Le preoccupazioni sulle improcedibilità sono da prendere in considerazione. Ma quando gli citano il timore di Conte di “sacche di impunità”, Draghi scatta: “Nessuno le vuole, vogliamo un processo rapido e i colpevoli puniti”. In serata invece Conte fa trapelare di “considerare positivamente che il governo abbia preso atto delle difficoltà tecniche della riforma”. Conferma di essere “in costante contatto con Draghi e Cartabia” e che il M5S “sta offrendo specifiche soluzioni tecniche alle criticità registrate”. Traduzione di un contiano doc, “la fiducia è un problema, ma uno spiraglio c’è e bisogna sfruttarlo”. Ammesso che basti.

Io so che tu sai che non so

Il dibattito se i 5Stelle debbano restare al governo o uscirne è surreale, perché ci sono entrati con l’impegno a “non andare oltre” l’“accordo raggiunto con Pd e LeU” sulla blocca-prescrizione di Bonafede. Quindi, prima di andare oltre, devono chiedere agli iscritti che senso abbia restare in un governo che non va solo oltre, ma proprio agli antipodi. In ogni caso, in un Paese serio, il problema nemmeno si porrebbe perché dal governo sarebbe già uscita la ministra Cartabia. Da due giorni scriviamo che è una bugiarda, perché chiunque sa di giustizia (pm, giudici, avvocati, Dna, Csm) non fa che smentire le sue menzogne al Paese e financo al Parlamento. Ma forse, così, le facciamo un favore, presupponendo che sappia di cosa sta parlando ed escludendo che non ne abbia la più pallida idea. Ipotesi molto concreta, a leggere il Salvaladri&mafiosi e le parole usate per giustificarlo: “Si è detto che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo, ma non è così, perché per i reati puniti con l’ergastolo si esclude l’improcedibilità”.

Una frase agghiacciante già in sé: le vittime di tutti i reati che non siano l’omicidio apprendono che la ministra della Giustizia trova normale mandare i loro processi “in fumo”. Ma soprattutto una menzogna: la stragrande maggioranza dei processi di mafia e terrorismo non contemplano omicidi (puniti con l’ergastolo) e la ministra della Giustizia trova normale mandarli “in fumo”. La pena massima per associazione mafiosa e terroristica è 30 anni: se dalla sentenza di primo grado a quella d’appello passano 3 anni e un giorno, il processo muore stecchito. Quello per la trattativa Stato-mafia (minaccia a corpo politico) dura da oltre 3 anni: con la Cartabia, sarebbe già improcedibile (e non è escluso che lo diventi, se gli avvocati riusciranno a ottenere l’applicazione retroattiva, visti gli effetti penali sostanziali che comporta). Quelli ai forzisti D’Alì e Cosentino, condannati l’altroieri a 6 e a 10 anni in appello per concorso esterno, duravano da 6 e da 5 anni: con la Cartabia sarebbero finiti in fumo. Che queste cose la Guardasigilli le sappia o le ignori, poco cambia. Basterebbe un governo non dei migliori, ma dei discreti, per accompagnarla ipso facto alla porta. A prescindere. Se manda consapevolmente al macero decine di migliaia di processi perché sa quel che fa e poi mente sapendo di mentire, se ne deve andare per palese malafede. Se manda inconsapevolmente al macero decine di migliaia di processi perché non sa quel che fa (ma lo sa chi le scrive le leggi) e poi mente a sua insaputa, se ne deve andare per palese incompetenza. La nota giurista (per mancanza di prove) prestata alla politica va immediatamente restituita, prima che faccia altri danni.

Nemico pubblico numero 1: la zanzara sterminatrice

Cosa accomuna il fallimento delle Crociate, la resa della Scozia all’Inghilterra, il successo di Starbucks sul mercato, la rivoluzione americana e il gin tonic? La risposta è racchiusa nel titolo del libro pubblicato dallo storico canadese Timothy C. Winegard per HarperCollins Zanzare – Il più micidiale predatore della storia dell’umanità. Il professore della Mesa University di Grand Junction, in Colorado, ha ripercorso la storia dell’umanità dagli ominidi ad oggi raccogliendo le fonti che attestano un ruolo tutt’altro che secondario di questo insetto nelle vicende umane. Non si tratta unicamente del fastidioso ronzio, delle notti insonni trascorse a girovagare col cuscino in mano in lungo e in largo per la stanza, né del prurito post-puntura, quello che Winegard attesta è lo strapotere della zanzara, in grado “di plasmare il destino dell’uomo”. Verrebbe da storcere il naso se non fosse provato che le economie, gli imperi, le guerre sono state segnate dalla presenza delle zanzare che ha ingenerato importanti mutamenti.

Il primo dato a riprova della portata del fenomeno è il numero dei morti per puntura: 52 miliardi di persone, “quasi metà di tutti gli esseri umani mai vissuti sulla Terra”. Capace di diffondere malattie letali come la malaria e la febbre del Nilo, di trasmettere il virus Zika, la dengue e la febbre gialla, non c’è porzione del globo – a parte l’Antartide, l’Islanda, le isole Seychelles e una parte della Polinesia francese – a non essere interessato da questo predatore. Le femmine dispongono di circa 15 armi biologiche in grado di compromettere la salute di 7, 7 miliardi di esseri umani. E non sono affatto sufficienti i repellenti in uso, sebbene trainino un fatturato di 11 miliardi di dollari. A causa delle punture muoiono circa 800mila persone l’anno. Winegard coglie come aspetti determinanti per la diffusione dei nostri fastidiosissimi sterminatori il commercio, i viaggi, le guerre, lo sfruttamento del territorio e i cambiamenti climatici. Non ha di certo bisogno di munirsi di un passaporto per oltrepassare i confini nazionali e, in molti casi, nel corso della storia siamo stati noi ad averne facilitato lo spostamento. Ci siamo ritrovati così a convivere con 110 bilioni di predatori. Dopotutto – come sottolinea lo stesso Winegard – “la zanzara non è molto diversa da me o da voi. Anche lei cerca soltanto di sopravvivere”.

Bene, mai stato così male

Ammalato di troppi specchi, di troppo whisky e navigando sempre controcorrente, approdò a Venezia. Era l’anno 1989. Sontuoso ufficio di presidenza della Biennale. Nel silenzio Carmelo Bene, 52 anni, parlò: “Sono l’equivoco. Il disguido. Sono il capolavoro senza prezzo”. Davanti all’attonito consiglio di amministrazione, si apprestava alla sua migliore interpretazione di sempre. Inspirò l’aria, roteò gli occhi bistrati da spettro elisabettiano, disse: “La vita non è comprensibile, perché dovrebbe esserlo il mio Teatro?”. Masticò la pausa, deglutì l’incanto, galleggiò nel silenzio dove battevano i cuoricini dei consiglieri e del presidente Paolo Portoghesi, che avevano tutti vite standard imbottite di bambagia, carriere da pettinare, e un certo languorino per le seppie coi piselli che li attendevano, in conto spese, al tavolo dell’Harry’s Bar. Stregati dalla voce del Maestro e dalla stellare idiozia della proposta, intravidero per una volta il vuoto. Ci cascarono dentro: persero la testa all’unanimità.

Dall’alto del suo Ego lui li guardava, mostrando il canino. Sul palcoscenico era stato Ubu Re, Amleto, Otello, Macbeth. Ora era Carmelo Bene da Campi Salentina, Lecce, “il qui presente assente”, che incoronato dall’applauso dei piccoli burocrati era appena stato nominato direttore della Sezione Teatro della Biennale, con un tesoro di spiccioli pubblici a sua disposizione, 2,5 miliardi di lire mal contate da spendere, anzi da bruciare in pubblico, meglio ancora “senza pubblico”.

Perché questa era l’idea sua rapinosa. La trovata del Nulla con cui avrebbe riempito le pagine dei giornali, nutrito la tonteria dei critici, fomentato lo scandalo dei benpensanti. E cioè allestire, in laboratorio, due tragedie da trasformare in farsa contabile – Il Tamerlano di Marlowe e il Bafometto di Klossowski – con tutte le spese di produzione ben allineate: la regia, prima di tutto, gli attori, i costumi, le scene, le prove, ma rigorosamente senza mai il debutto in pubblico, perché “da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa”. E dove c’è teatro, “il mio Teatro”, non c’è spettacolo. Semmai rivelazione. Talmente segreta, talmente incomunicabile, da non aver bisogno di alcuna scena.

Un “Teatro depensato”, argomentò. Un teatro “detto per essere disdetto”. Un “divenire verso il Vuoto”. Che lui era capace come nessun altro di riempire di paradossi, polemiche, litigi, fanfaronate quasi sempre irresistibili, come preannunciava la sua notevole autobiografia: Sono apparso alla Madonna.

Mirabili inni al teatro di parola aveva interpretato fino a quel giorno. Il suo Dante letto in cima alla Torre degli Asinelli fu prossimo al capolavoro. Come lo fu il suo Quattro modi di morire in versi, dove Majakovskij, Esenin, Pasternak e Block risuonavano dentro la sua voce tra le fiamme della Rivoluzione in rovina. E ammirazione aveva suscitato il suo Pinocchio che “s’era rifiutato alla crescita”, bimbo per sempre ribelle, proprio come lui che sul palcoscenico lo reinventava.

Nato con le avanguardie, Carmelo crebbe mangiandosele a colazione. E facendo del suo teatro antiborghese, antiretorico, straniante, cantilenante, un unicum: imitato da tanti, ma inimitabile, col quale perseguiva “lo smarrimento delle genti” per “comunicare l’indicibile” che è del vivere “in questo Pianeta così poco attrezzato per la felicità”.

Detestava quasi tutto, spesso ricambiato: “L’equivoco italiota degli italiani”, la stampa dei gazzettieri, il canagliume dei critici e dei politici, le “mummie foruncolose degli studenti che nidificano nell’autoconservazione”, le donne “irreversibilmente depresse”, le “casalinghe transitate dal bordello domestico a quello televisivo”.

Fu quel giorno a Venezia l’inizio del suo declino. Nel quale da genio dell’alta prosa (“Ah la prosa! Quale orrore!”) Carmelo Bene decise, per dispetto di sé e amore del successo, di recitarsi in perpetuo nei panni dell’istrione nereggiante, meglio se televisivo. Lasciandosi inscatolare e poi liofilizzare nel Costanzo Show che per anni lo incoronò torero delle sue corride nichiliste, a uso e consumo delle plebi che il Maestro fintamente aborriva, guastando, negli anni a venire, la sua straordinaria ricerca teatrale, fino a degradarla in cliché. E ridurre il suo geniaccio in una variante estetica che andrà degradandosi fino alle trippe verbali dei Platinette e dei Vittorio Sgarbi.

La sua Biennale finì anzitempo, come doveva. Urla e scenate, prima dell’addio reciproco. E poi la miseria delle querele e controquerele. Con i disegni originali di Klossowski ideati per non andare in scena, spariti e poi ritrovati nella casa del Maestro a Otranto: “Sono miei, non vostri!”. Con un videotape, un libro e qualche appunto costati, in fin dei conti, 1,7 miliardi di lirette. E immaginiamo con le matte risate per il suo gioco di prestigio ben riuscito.

Da allora si ammalò di catastrofe, poiché “solo la catastrofe contiene la promessa del ritorno”. Ma tornò sempre più raramente. Visse coi suoi fantasmi e le tende abbuiate contro il giorno, nel suo appartamento nero dell’Aventino. Se ne andò anzitempo per cirrosi a 64 anni: “Meglio morir di vodka che di tedio”. Ma lasciandoci (per sempre e per fortuna) il diamante solitario che era stato.

“Gli ostacoli sono alti per chi non ha ambizioni: si vince solo con il ‘Noi’”

Del tutto inconsapevole di somigliare a Michael Stipe dei Rem, Stefano Pioli parla subito di Ivan Gazidis, l’ad del Milan colpito da un tumore alla gola. “Tutto il Milan fa il tifo per lui. La sua forza è la nostra, siamo orgogliosi di far parte della sua famiglia. Guarirà e non vediamo l’ora di riaverlo con noi”. Colto e pensoso, Pioli è uno strano ufo nella galassia del calcio.

Obiettivo della stagione?

Siamo il Milan e non ci dobbiamo porre limiti. Sarà difficilissimo perché sette squadre lotteranno per quattro posti. Ma gli ostacoli sono troppo alti solo per chi non ha ambizioni abbastanza forti.

Come sboccia il tuo Milan?

Stranamente la scintilla tra di noi è nata nelle riunioni su Zoom durante il primo lockdown. Ci siamo dati il tempo di conoscerci, abbiamo parlato delle nostre vite. Non solo di calcio. Ed è nato il gruppo.

Amici?

No, amici no. Non siamo amici: siamo appartenenti a un’idea di valori comune.

Hai visto Berrettini a Wimbledon?

Certo. Di lui mi è piaciuto tantissimo lo sguardo da ragazzo determinato, sereno, positivo e voglioso. Una bella faccia.

E la Nazionale?

La chiave del trionfo sono gli occhi dei giocatori che guardavano Mancini e si guardavano tra loro: lo stesso sguardo di Berrettini. È in quel modo che hanno vinto. Hanno rappresentato al meglio l’Italia. E abbiamo esultato tutti, perché ci siamo sentiti partecipi di una cosa bella.

Ci rivedi il tuo Milan?

In piccolo sì. Sento che c’è empatia, forse addirittura un po’ di magia tra noi.

Kjaer ha salvato la vita a Eriksen.

Io lo conoscevo già il valore di Simon. È un uomo di intelligenza e sensibilità rare, e ha usato quelle qualità per salvare un amico. È stato lucido e “preciso” anche in un frangente così drammatico.

Anche tu hai vissuto una scena simile nel 1998.

Ebbi un arresto cardiaco dopo uno scontro di gioco. Non mi ricordo niente e quelle immagini ho avuto il coraggio di rivederle solo molti mesi dopo.

4 marzo 2018. La tua vita cambia.

La morte di Davide (Astori, ndr)… Sono un allenatore che impronta tutta la sua gestione sul confronto e sul dialogo con i giocatori. Quella tragedia mi ha fatto capire che i calciatori sono anzitutto uomini. Sono dovuto entrare nelle loro teste. A uno a uno ho dovuto raccontargli che il medico, alle 9 del mattino, mi aveva detto che Davide non c’era più. Ho passato tutti i mesi successivi ad aiutarli a elaborare quella scomparsa. In certi momenti devi andare in profondità. Conta la tecnica, conta la tattica, ma è ancora più importante la componente mentale.

Un tasto su cui batti spesso.

Passa tutto da lì. L’Italia ha vinto gli Europei per quegli occhi: per quello spirito di gruppo. Non vinci con la tattica. Vinci mettendo da parte l’“io” e anteponendo a tutto il “noi”.

Quanto ti ha aiutato Ibra?

Tanto. Ibra è un esempio in tutto quello che fa. Non ci sta a sbagliare neanche un passaggio nel torello. Pretende il massimo da se stesso e dagli altri. Zlatan e Simon (Kjaer, ndr) hanno cambiato la squadra non solo in senso tecnico, ma anche e soprattutto in senso morale.

Da calciatore hai giocato con Platini e Baggio.

Con Michel ero un ragazzino, avevo 18 anni e venivo dal Parma in Serie C. Mi sentivo più tifoso che compagno. Un campione incredibile, che ha avuto l’unica sfortuna di capitare nel decennio di Maradona. Ne ha sempre sofferto.

E Baggio?

Il Roberto che ha giocato con me, stagione ’89/’90, valeva Maradona. Il nostro schema, da difensori, era facilissimo: recuperavamo palla, la passavamo a Dunga che la passava a Roberto e poi andavamo tutti ad abbracciarlo dopo il gol.

Eravate amici?

Amici no, Roberto abitava a Sesto Fiorentino e io avevo già figli. Vite diverse. Roberto era un ottimo compagno di squadra e un ragazzo sensibile, che sentiva tutto l’affetto della città e della squadra.

Con la Juve hai vinto l’Intercontinentale, subentrando a Scirea.

L’avversario era l’Argentinos Juniors. Tokyo, eravamo lì da una settimana per smaltire il fuso orario. Tutto lo stadio pieno di quelle trombette. Non si sentiva niente. Partita difficile, gol annullato a Platini. Vincemmo al quinto rigore. Trapattoni mi aveva detto che avrei tirato il sesto, per fortuna non ci siamo arrivati.

Eri anche all’Heysel.

Avevo il piede ingessato, ero in tribuna e vidi i primi scontri sugli spalti. A quel punto ci portarono negli spogliatoi. Ho seguito la partita a fianco della panchina. Le notizie non arrivavano. Credevamo che avrebbero interrotto tutto a fine primo tempo. Alla fine ci dissero di fare il giro d’onore e, quando rientrammo in hotel, pensavamo davvero che quella partita non contasse. Fu una tragedia enorme, di cui non fummo pienamente consapevoli.

Da giocatore aderiresti al Black Lives Matters?

Sì, mi inginocchierei.

Cosa vorresti che dicessero di te a fine carriera?

Che ho migliorato molti dei giocatori che ho avuto a mia disposizione.