Miliardari alla Bezos: rovinano il pianeta e volano nello spazio

Gloria e giubilo sui giornali, oltre alla bonaria invidia che si riserva ai “visionari rimasti un po’ bambini”, per il giro di 4 minuti nello spazio, a 100 km da terra, del padrone di Amazon Jeff Bezos (patrimonio stimato: 205 miliardi di dollari), a 9 giorni dal volo di Richard Branson (4,3 miliardi di dollari), che con la sua Virgin Galactic s’è fermato a 85 km. Che sia merito di Draghi anche questo? Non direttamente, ma è innegabile che lo Spirito del Tempo premia chi detiene i denari e sogna in grande per tutti noi, lasciando sgocciolare verso il basso il liquame santo dei suoi trastulli spaziali. Stanchi dell’angusta attualità terrestre, rincorsi dal virus che falcidia i noiosi “fragili” e impoverisce i poveri, evadiamo dal green pass e dall’inquinamento (prodotto dagli Stati estrattori e costruttori, dalle fabbriche, dai trasporti, dai consumi dissennati, in una parola: dal capitalismo) e riscopriamo questa Terra “bella e fragile”, secondo un Bezos appena riatterrato. “Ringrazio tutti gli impiegati di Amazon. E i clienti. Siete voi che avete pagato per questo”, e vorremmo vedere – peraltro pagano gli Stati e dunque i cittadini anche per andare a recuperare i rottami dei loro razzi quando si schiantano in qualche deserto dello Utah. Bezos paga zero dollari di tasse perché ha spostato la residenza in uno degli Stati americani in cui si può, e in Europa paga pochissimo perché le imposte sono sui profitti e non sui ricavi (basta investire molto); esattamente come Elon Musk (160 miliardi di dollari), padrone della Tesla, che ad aprile, con la navicella della sua SpaceX, ha raggiunto la Iss (grazie ai soldi e alle basi della Nasa) e progetta viaggi orbitali per il turismo spaziale di altri umani della sua fascia di reddito. (Musk, negazionista del Covid, è quello che vuole bombardare Marte con le atomiche per renderla abitabile). A 60 anni dal primo volo nello spazio della Vostok 1 con a bordo Jurij Gagarin, eroe dell’Unione Sovietica, metalmeccanico, figlio di una contadina e di un falegname, e a 52 anni esatti dall’allunaggio dell’Apollo 11, ecco “il sogno da bambino di Bezos”, partito insieme al fratello, a un’astronauta 82enne e al figlio 18enne di un finanziere olandese a cui l’Erasmus dev’esser sembrato noioso per il rampollo, preso a bordo al posto di un miliardario anonimo che dopo essersi aggiudicato il biglietto per 28 milioni ha disdetto adducendo “un altro impegno” (succede sempre così: il giorno fissato per un giro nello spazio da 28 milioni di dollari ti chiamano perché si è liberato un posto dal dentista). Nessuno scandalo, i ricchi si trastullano da sempre come vogliono, anche se sarebbe interessante interpellare uno psichiatra per capire se c’entri l’invidia del pene (altrui) in questo impennarsi dal suolo (nei bar della Silicon Valley: “Branson si è fermato a 85 km, che pippa galattica!”); ma ti pareva che da noi non c’era chi tirava fuori il Rinascimento, che quando si parla di miliardari pazzoidi e/o segaossa va via come il pane? Bezos, Musk, Branson: come i “facoltosi di San Gimignano che costruivano le torri” (Corriere). Bezos vuole creare “basi spaziali orbitanti” nelle quali parte dell’umanità andrà a vivere “dopo aver spremuto le risorse naturali del nostro pianeta”: che pensiero gentile per i suoi operai controllati elettronicamente e costretti a pisciare nelle bottiglie per non perdere nemmeno un minuto nella corsa alla crescita infinita! Sviluppo senza progresso, sogno senza mistero: il sogno di bambini viziati che giocano con le navicelle per consentire ad altri ricchi, un domani, di abbandonare il pianeta distrutto. Pare di ricordare che la soluzione in questi casi sia socializzare i mezzi di produzione, ma siccome non sapremmo che farcene della capsula di un Dragon 2, auspichiamo una stretta legale che costringa i megamiliardari spaziali a pagare le tasse sulla Terra e a trattar meglio i loro dipendenti; e rendiamo onore alla memoria del compagno Jurij.

 

Il voltagabbana Salvini, dalla Giustizia ai vaccini

“Le rivoluzioni nascono da scintille. Se per sani principi c’è bisogno di finire in galera, qua dentro tanta gente lo farà mettendo a rischio la sua libertà personale. Chi tocca uno dei nostri deve cominciare ad aver paura, chi arresta uno dei nostri senza motivo lo andiamo a prendere a casa ovunque sia, chi attacca la nostra gente deve avere paura. Non è una minaccia, ma un impegno. Il boia sa che se ci togliamo il cappio il primo a rimetterci le penne è lui”. Potrebbe essere il comizio di qualche testa calda di Forza Nuova o dell’ultrà di una curva e invece, a parlare così solo sette anni fa, era il promotore del referendum sulla Giustizia, Matteo Salvini. Ripeto, quel tizio al governo che invoca la giustizia giusta, il garantismo, la presunzione d’innocenza e così via. Quel tizio che dai gazebo grida “firmate per la giustizia” credendosi Pannella e che fino a poco tempo fa suggeriva di organizzare squadroni credendosi Maduro. Uno che al congresso della Lega suggeriva di andare a prelevare i giudici a casa, invitava gli elettori a commettere reati in nome della rivoluzione contro i boia di Bruxelles (tipo Draghi), che parlava di qualcuno che avrebbe dovuto “rimetterci le penne”. Perché in questi anni sull’incoerenza di Matteo Salvini si sono consumati fiumi di inchiostro e pure numerosi affluenti, ma il periodo che attraversiamo ne condensa l’ipocrisia nel suo succo più concentrato di sempre. Del suo credibile sforzo per una giustizia giusta abbiamo appena detto, e basterebbe anche solo quello, se non si aggiungesse l’esilarante arringa di ieri in difesa dell’assessore alla sicurezza di Voghera, che ha sparato a un cittadino straniero in seguito a una discussione. Ora, a parte l’episodio in sé, per cui è un po’ come se l’assessore al turismo a Pisa riempisse la torre di cariche esplosive e ci costruisse sopra un lavaggio auto, secondo Salvini “si tratterebbe di legittima difesa visto che accidentalmente è partito un colpo”. In pratica, secondo il promotore del referendum sulla Giustizia, l’assessore si è difeso sparando a sua insaputa. L’imputato eventuale dunque è la pistola. O, al massimo, la mano dell’assessore, che però vivrebbe di vita propria tipo Mano della Famiglia Addams. Mi raccomando, andate a firmare il referendum. Pure con una mano non vostra, alla Lega va bene lo stesso. Anche sul ddl Zan, nell’ultimo mese, l’ipocrisia di Salvini ha compiuto le sue acrobazie migliori. Sorvolando su tutte le sue false interpretazioni della proposta di legge, l’idea che la sua avversione al ddl si basi soprattutto sullo spauracchio “reati d’opinione” fa parecchio ridere. Salvini che ha paura di vedere se stesso o uno dei raffinati pensatori del suo partito imputati per un reato d’opinione. Lui, che ai reati d’opinione s’appella compulsivamente per zittire non solo i suoi nemici, ma anche semplici cittadini, vittime dello Stato, vignettisti, giornalisti, perfino sacerdoti. Lui che querela la Cucchi perché gli dà dello sciacallo. De Benedetti perché gli dà dello xenofobo. Vauro per una vignetta. Il Fatto per “cazzaro verde”. Saviano. E perfino il povero Don Alberto, 80 anni, che aveva detto: “O si è cristiani o si è con Salvini”. I reati d’opinione, insomma, gli piacciono parecchio, purché evidentemente qualcuno non voglia impedire ai suoi colleghi di partito o ai suoi elettori di dire, che so, che i gay vanno bruciati a novembre assieme alle foglie secche. E infine, l’ipocrisia acrobatica più spettacolare: la sua limpida, cristallina posizione sui vaccini. Basta domandargli se si è vaccinato per leggere nei suoi occhi la serenità di Totti quando gli chiedono di Spalletti. Ben attento a non scontentare i no-vax, non solo non si è vaccinato nonostante usi la mascherina per asciugarsi la fronte e faccia selfie pure con la spugnetta cattura-sporco, ma alla domanda “è favorevole alla vaccinazione?”, risponde: “Io non vado in giro a inseguire la gente con la siringa!”. Che voglio dire, è una risposta di per sé piuttosto curiosa. È tipo chiedere a qualcuno: “Le piace il mare?”. “Be’, non vado mica in giro con un ombrellone nel sedere!”. O: “È favorevole all’eutanasia?”. “Be’ non vado mica in giro a mettere in faccia cuscini alla gente!”. “Scusi Salvini, condivide le battaglie di Greta Thunberg?”. “Sì, ma non chiedo mica a Claudio Borghi di farsi le trecce!”. Boh. Roba che uno alla fine non sa mai dove collocarlo, quest’uomo. Salvini risponde a ogni offerta possibile, asseconda qualunque idea, ammicca a qualunque corrente. Giustizialista, garantista, pro-vax, no-vax, pistolero texano, fine giurista, euro-nemico, euro-scodinzolante. Tutto. Lui non cambia idea. Non cambia palco. Cambia platea. E chi dice che è un buon venditore di tappeti, sbaglia. Lui vende tutto, dai tappeti alle ciabatte elettriche. Solo che se torni a cambiare qualcosa di tarocco o non funzionante, scopri che il negozio è sparito: ha già aperto una pizzeria. Ogni volta che parla in una piazza gli andrebbe ricordato. Magari alzando una mano. E se non gli piace la domanda, ricordatevi: potete sempre dire che la mano non era la vostra.

 

Artisti, giornalisti, conformisti e altre bugie sul razzismo

Non si arresta la caccia a Elseid Hysaj, colpevole, secondo la Curva, di aver cantato in ritiro “Bella Ciao”. Su un ponte di Roma, ieri sera, ecco lo striscione contro il terzino: “Hysaj verme, la Lazio è fascista”, con tanto di firma degli ultras della Nord. (Il Messaggero, 20 luglio)

Giornalisti di rara idiozia e politici con la testa di cemento attaccarono l’inginocchiarsi antirazzista dei calciatori agli Europei usando frasi proterve per dare torto al gesto nobile: neanche due settimane dopo, tre giocatori della Nazionale inglese furono bersagliati da insulti razzisti, a dimostrazione che di quell’atto simbolico, specie da parte di celebrità, c’è più bisogno che mai. Concludo, a futura memoria, con un florilegio degli opinionisti più turpi. Leggetelo: vi sentirete come deve sentirsi una escort annoiata che un branco di piazzisti, nel bar di un hotel di Milano, cerchi di convincere a salire nella suite, dolcezza.

“Lasciamo che i giocatori di pallone giochino a pallone. Il razzismo si combatte con i fatti, non è con i giocatori inginocchiati che si combatte il razzismo” (Matteo Salvini a Quarta Repubblica, Rete 4).

“Tutti inginocchiati equivale a nessuno inginocchiato” (Filippo Facci, Libero).

“I 6 calciatori che non hanno convenuto di inginocchiarsi sono ora sotto processo da parte dei radical chic per aver osato andare contro il pensiero unico, non piegandosi a una pratica che al di là del simbolismo non ha nessun valore” (Francesca Galici, il Giornale).

“È tutta una buffonata, una deprimente buffonata. Non c’è da stupirsi che alcuni tratti della personalità masochistica tornino utili per capire la nostra epoca incentrata sul culto della vittima, convinta che i rapporti di potere dominante-dominato, privilegiato-oppresso, siano la chiave universale per decifrare i fenomeni sociali” (Guido Vitiello, il Foglio).

“Come tutte le cose che non costano niente, inginocchiarsi non fa danno, specialmente a sé: è una facilissima autodichiarazione di irreprensibilità” (Mattia Feltri, La Stampa).

“Inginocchiarsi è il contrario della posizione eretta, ferma, dignitosa” (Francesco Storace, il Tempo).

“Adesso la moda è inginocchiarsi, ma qualche decennio fa il trend era fare il saluto romano. Lo sanno bene gli inglesi che nel 1938, quindi con Hitler già a pieno regime, furono costretti dallo stesso governo britannico a celebrare il Führer col classico ‘Heil Hitler’, braccio teso e via. Perché? Perché era la moda del momento e nessuno voleva disturbare il movimento più in voga per paura di ritorsioni” (Giuliano Zulin, Libero).

“Viene subito da chiedersi a quale titolo gli squilibri razziali negli Stati Uniti e i ‘diritti sociali Lgbt’ meritino la propaganda rispettivamente di calciatori inginocchiati e del capitano della Germania con una fascia arcobaleno al braccio, e altri drammi internazionali dei nostri giorni no” (Rodolfo Casadei, Tempi).

“Lo sport deve restare fuori da queste robe, così come noi artisti” (Luca Barbareschi, Italpress, Speciale Euro2020 di Claudio Brachino).

“Quando le celebrity milionarie dello sport o del cinema o della pop-music abbracciano le cause progressiste, fanno più male che bene. E smettiamola di dire che sono gesti coraggiosi quando l’establishment li sostiene: da quando in qua è coraggioso il conformismo? Cristiano Ronaldo avrà mille volte più seguaci su Twitter del sottoscritto, ma questo non ne fa un maestro di valori. Enrico Berlinguer non affidava ai calciatori la costruzione di un consenso tra le masse, e arrivò al 35%” (Federico Rampini, Repubblica, intervistato dal Giornale). (3. Fine)

 

Talk, manuale per giornalisti cripto-no vax

Prontuario per giornalisti sovranisti costretti, causa dittatura sanitaria, a fare nei talk televisivi i pesci in barile sull’odioso green pass. 1. Purtroppo, il grande fratello orwelliano controlla la totalità delle emittenti nazionali. Persino Mediaset, ormai sottomessa all’imperante draghismo, è scivolata dal format Sgarbi mascherina No alla tolleranza Ni Vax, comunque sospetta. Si consiglia perciò di assumere la posizione Boh Vax esprimendo, con il linguaggio del corpo, e del viso, un atteggiamento di compunta attesa. Mentre i manganellatori Sì Vax somministrano l’olio di ricino della propaganda vaccinale. 2. Il finto Boh Vax – in realtà informatissimo su tutte le mutazioni genetiche provocate da siero letale (sembra più di 227) – propone al virologo di turno, ma sempre in forma innocente tipo Vispa Teresa, ficcanti interrogativi, per esempio, sull’inefficacia della doppia puntura registrata in alcune tribù del Burkina Faso. Se lo scienziato, messo di fronte a tale mucchio di minchiate, darà in escandescenze, il No Vax camuffato passerà alla seconda fase della guerra di Resistenza. E dunque, dopo avere mostrato dolente sorpresa per essere stato ingiustamente insolentito, sgancerà l’arma segreta a doppia testata: a) sono soltanto un giornalista; b) non sono certo uno scienziato. Lo farà in sincrono con la più vasta opinione popolare e populista, naturalmente diffidente con i capoccioni di turno (fanno come gli pare, non ci fanno capire più niente) e data una bella piallata ai vari Galli o Bassetti, il presunto Boh Vax potrà scegliere se accontentarsi o affondare il colpo. 3. In questo caso si tratta di infiltrare il fronte nemico con una classica strategia di Intelligence che consiste nel farsi credere uno di loro, sia pure animato da qualche legittimo dubbio. La frase preventiva: “Sia ben chiaro io mi sono vaccinato” manifesta apprezzabile sincerità e disorienta l’avversario anche perché se qualcuno chiedesse di esibire la prova documentale di quanto affermato, si può sempre ricorrere al metodo Cacciari: sono cazzi miei. Sull’obbligo di green pass non dimenticare un’appassionata perorazione dei valori di libertà tutelati dalla Costituzione e stracciati dallo stalinista Speranza. 4. Infine, la ciliegina sulla torta: l’aforisma di Voltaire che si porta su tutto. Ovvero: io sono favorevole alla vaccinazione, ma per difendere il tuo diritto a non vaccinarti sono disposto a farmi impiccare (ma anche a farmi torcere il dito mignolo, nei casi meno gravi).

Vado, per Cingolani è “un successo”

Convegno sulla “reindustrializzazione”. Al centro dell’incontro, organizzato dal gruppo Tirreno Power, c’è la presentazione dello studio “Uscita dal carbone e reindustrializzazione. Il caso di successo di Vado Ligure”. Ad aprire l’evento è un ospite d’eccezione: il ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani.

Il “caso di successo” è una centrale a carbone che, negli anni scorsi, è stata chiusa con sequestro della magistratura, unico caso di impianto a carbone in Italia. Oggi quello stesso impianto, costruito in una zona densamente popolata, è al centro di un processo per disastro ambientale: secondo i consulenti della Procura di Savona l’impatto delle emissioni ha provocato 3 mila morti in più in quell’area. Una perizia, discussa recentemente durante il dibattimento, ha dimostrato come, contrariamente a quanto sostenuto dalle misurazioni dell’ente regionale di controllo Arpal, la cessazione dell’attività della centrale ha avuto un impatto determinante nel miglioramento dell’aria.

Il convivio è stato organizzato online, con la formula del digital talk. E Cingolani, impegnato nel vertice del G20, ha inviato un video messaggio sul tema generale della transizione: l’importanza dei prossimi dieci anni e la necessità di affrontare i temi ambientali “in modo non ideologico”. In ogni caso è bastata la sua adesione per provocare la reazione degli ambientalisti che da anni combattono contro la centrale: “Signor Cingolani – si legge in una lettera aperta indirizzata al ministro e firmata dai comitati – secondo lei è un caso di “successo” andare a processo per disastro colposo? Lo sa che il Cnr ha rilevato il 49% di mortalità imputabile alla centrale? Lo sa che solo qualche anno fa, nel momento del sequestro della centrale, l’azienda non solo non voleva reindustrializzare, ma addirittura raddoppiare gli impianti per altri 30 anni?”.

Si era tornato a parlare di un possibile raddoppio della centrale alcuni mesi fa, con una riconversione dell’impianto da carbone a gas. Un progetto, anche questo, avversato dai comitati cittadini, che hanno denunciato come tra i firmatari ci fosse proprio uno degli imputati nel processo per disastro ambientale. “Perché si presta a questa passerella? – chiedono ancora gli ambientalisti a Cingolani -, perché con il ruolo che ricopre non mette distanza con un’azienda tuttora legata a un processo per inquinamento?”.

Trivelle, il piano nazionale: nessuna stretta ai petrolieri

Avranno un bel da fare, fino a metà settembre, società civile e associazioni per leggere e fare osservazioni sul PiTesai, il piano che stabilisce in quali aree d’Italia si possa trivellare per gli idrocarburi. Pitesai sta per Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee: previsto per la prima volta nel decreto Semplificazioni del 2019, con relativa moratoria di 24 mesi dei permessi di ricerca e prospezione già rilasciati, ha visto l’esordio slittare grazie al dl Milleproroghe con scadenza il 13 febbraio e il 13 agosto 2021 rispettivamente per la redazione del Piano e lo stop ai permessi. A febbraio, l’ultima data: moratoria e piano entro il 30 settembre, altrimenti liberi tutti. Ed eccoci qui. A una prima occhiata, la proposta di Pitesai, pubblicata online, sembra fotografare esattamente l’esistente. Traccia una mappa grossolana delle aree italiane dove si potrà trivellare, fornisce per lo più coordinate per individuarle, esclude le zone già escluse da leggi decennali e in pratica stabilisce che dove si sta già trivellando si potrà continuare a farlo, esclusi specifici e casi ragionevoli pure senza piano ad hoc.

Prendiamo ad esempio le aree marine: il piano sostiene che in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050 non sono previste aperture di nuove zone minerarie oltre le attuali. Se poi queste dovessero ricadere tra le aree inadatte, a quel punto si interverrà su ogni singolo iter con un’analisi costi-benefici che dovrà tenere conto anche dell’impatto economico che la sospensione avrebbe sull’intera economia italiana, nonché i vantaggi ambientali e sociali.

Se ci si aspettava un piano che facesse male ai petrolieri, non è quindi questo. Dà loro il tempo di adattarsi, considera il gas strategico nell’ottica della transizione ambientale e dunque ne tutela il ruolo. Più volte viene citato l’aumento dei canoni concessori di 25 volte “nell’ottica della valorizzazione dei beni pubblici e della redditività dello Stato”, ma con il sottotesto che forse ai petrolieri è già stato dato un duro colpo e sarebbe meglio non insistere troppo.

Ci sono addirittura diverse pagine – nel comparto che si occupa di approfondire la dismissione delle infrastrutture in mare – che riguarda il Ccs, il sistema di cattura dell’anidride carbonica che tanto piace al ministro Roberto Cingolani e all’Eni perché potrebbe essere utilizzato (ma di fatto ancora no) per abbattere le emissioni generate dalla produzione di idrogeno dal gas. Ma non solo. “In deroga a quanto sopra – si legge – può essere autorizzato da parte dell’amministrazione competente il riutilizzo alternativo, quando siano accertati requisiti e garanzie”. E nonostante Bruxelles abbia rispedito al mittente le proposte sul Ccs nel Pnrr, nel Pitesai si legge: “In particolare, nell’ambito della componente 2 del Pnrr sono previste specifiche misure e interventi di incentivazione per promuovere la produzione, la distribuzione e gli usi finali dell’idrogeno incluso anche lo stoccaggio, utilizzando per la produzione aree/siti industriali dismessi, tra cui è possibile considerare i siti delle ex concessioni di coltivazione di idrocarburi a fine vita”.

“Diversi aspetti non tornano – spiega Enzo Di Salvatore, coordinatore del movimento No Triv e promotore del referendum del 2016 (di cui oggi potrete leggere una intervista integrale sulla nostra newsletter Giustizia di Fatto) – Il Parlamento aveva chiesto una pianificazione e il governo risponde con dei criteri, lasciando così assoluta discrezionalità ai dirigenti del Mite, un domani, di stabilire dove trivellare o meno”. Tutto discenderebbe poi da meri criteri economici, mancherebbero le mappe specifiche e si escluderebbero semplicemente aree già escluse “che sono tali proprio perché non hanno interesse minerario. Tutto ciò che si poteva avviare è già stato avviato”, dice Di Salvatore. Ora la palla passa alle Regioni, che potrebbero non prevedere le complicazioni di questa cambiale in bianco. “Quelle che non hanno aree interessate dal Pitesai diranno sì – spiega Di Salvatore –, ma se poi si dovesse decidere di trivellare, perché le leggi lo permettono e il piano può essere aggiornato, sarà difficile per loro opporsi”. E i ricorsi? “Se qualcuno dovesse farne, si troverà dall’altra parte una legge discrezionale a cui avrà pure dato l’ok”.

G8, agente condannato infiltrato al forum: “Inviato dalla Questura”. Poi la retromarcia

Genova, ventennale del G8. Tema dell’incontro: “Quale verità e giustizia per Genova”. L’evento, una delle tante manifestazioni commemorative svoltesi in questi giorni, è organizzato dal Legal Team Italia, il gruppo di avvocati che hanno portato avanti i processi sulle violenze della polizia contro i manifestanti. In sala ci sono tanti reduci di quei giorni del 2001 e dei successivi processi. Ecco perché non passa inosservata una presenza fra il pubblico: uno dei poliziotti coinvolti in quegli stessi processi. Si tratta di Enzo Raschellà, imputato insieme all’ex vicecapo della Digos genovese, Alessandro Perugini, il poliziotto con la polo gialla immortalato dalle telecamere mentre colpisce con un calcio in faccia un adolescente inerme (poi arrestato illegalmente per resistenza). Raschellà fu condannato in Appello per falso ideologico, mentre la Corte dei Conti ligure gli impose di risarcire 15mila euro all’allora minorenne. Il funzionario non è venuto ad assistere al dibattito come spettatore: sta lavorando ed è stato inviato dalla questura di Genova. L’incidente diplomatico, se così si può definire, viene evitato in extremis: lo sconcerto diffuso tra gli organizzatori viene segnalato e, prima che la notizia diventi tema del dibattito stesso, il poliziotto viene richiamato. Dalla questura di Genova, cui è stata chiesta una replica sul caso, la risposta ufficiale è un no comment. Anche se alcune fonti interne parlano di un cortocircuito: il funzionario avrebbe sostituito un collega (stando a questa versione senza segnalare la possibile inopportunità). La retromarcia dà però l’idea del clima di imbarazzo. La vittima, Marco Mattana, all’epoca del pestaggio aveva 17 anni. Il suo occhio gonfio e la sua richiesta d’aiuto ai giornalisti fece il giro del mondo: “Fate schifo”. Parte delle accuse – calunnia, percosse, minacce e ingiurie – furono prescritte in secondo grado, dove rimasero in piedi le falsificazioni dei verbali d’arresto: un anno a Perugini (coinvolto anche nel processo per le torture a Bolzaneto); otto mesi a Raschellà e ad altri tre colleghi, Antonio Del Giacco, Luca Mantovani e Sebastiano Pinzone. Sul caso, la Procura della Corte dei Conti aveva chiesto mezzo milione di danni d’immagine.

Amara in carcere: no all’affidamento ai servizi sociali

Piero Amara si è costituito ieri nel carcere di Orvieto per scontare una pena residua di 3 anni e 10 mesi di reclusione. L’ex legale esterno di Eni e Ilva, che alla Procura di Milano, nel dicembre 2019, aveva raccontato l’esistenza di una presunta loggia massonica coperta denominata Ungheria, ha infatti patteggiato più di una condanna per corruzione in atti giudiziari. A Roma e Messina ha ammesso di aver corrotto un pm e alcuni giudici del Consiglio di Stato. Amara aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Roma l’affidamento in prova ai servizi sociali, depositando una dichiarazione dei pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari che, proprio sulla base delle dichiarazioni relative alla loggia Ungheria, attestavano la sua collaborazione. Il tribunale non l’ha accordata sia per l’entità della pena, sia per i procedimenti tuttora aperti (potrebbero portare ad altre condanne), sia perché la collaborazione di Amara, piuttosto che da un vero pentimento, potrebbe derivare solo da scelte di “opportunismo” processuale.

Chiesto processo per il capo del San Matteo. La chat: “Pronto il test Diasorin, investi ora”

“Le ho prese ieri ad apertura, non so neanche quante erano, ma sarà una bella erezione”. La mattina del 7 aprile 2020, con l’Italia blindata dal primo drammatico lockdown, Francesco Bombelli, già attivo nel settore sanitario lombardo e nel Cda dell’istituto neurologico Carlo Besta, scrive questo messaggio al leghista Andrea Gambini, ex commissario del partito a Varese nonché presidente dello stesso Besta. I due parlano di un’operazione speculativa fatta sulle azioni della multinazionale Diasorin che proprio il 7 aprile, a Borse chiuse, annuncia di aver validato il primo test sierologico per rilevare anticorpi contro il Covid. I due apprenderanno la notizia tra il 2 e il 3 aprile da Alessandro Venturi presidente dell’ospedale San Matteo di Pavia che con Diasorin ha lavorato alla sperimentazione. Guadagneranno fino a oltre 1.500 euro. Si tratta, chiaramente, di notizie price sensitive, cioè del tutto riservate. Per questo Venturi, professionista vicino alla Lega, è stato indagato con l’accusa di abuso di informazioni privilegiate e due giorni fa il pm di Milano, Stefano Civardi, ne ha chiesto il processo al giudice trasformando la posizione di Venturi da indagato in imputato. Lo stesso vale per Carlo Rosa, amministratore delegato di Diasorin, che ha veicolato le medesime notizie a un’altra persona. Per Gambini, Bombelli e la terza persona, invece, non è contestato il reato penale e potrebbero essere sanzionati dalla Consob. Insomma, nella prima emergenza Covid, con le terapie intensive stracolme e tutti gli ospedali lombardi in affanno, Venturi, stando alle indagini, si preoccupava anche degli amici. Il 2 aprile, in una delle chat messe agli atti, scrive a Gambini: “È pronto il sierologico Diasorin”. Il 3, Gambini scrive a Bombelli: “Se vuoi fare l’investimento, entro le 17.30 (…) lunedì l’annuncio”. Bombelli: “Ho già attivato ieri”. Il 7 aprile, Diasorin dà l’annuncio. Il giorno dopo, il titolo schizza in Borsa (+5,7%). Sempre a Milano, su Diasorin, è incardinata un’inchiesta più ampia rispetto anche all’acquisto da parte della Regione di oltre mezzo milione di test Diasorin senza gara. L’indagine, nonostante sia avviata verso una richiesta di archiviazione, secondo quanto risulta al Fatto, ha fotografato un sistema di potere sotto l’ombrello della Lega molto pervasivo, ma senza rilievo penale.

Per Matteo è più grave ubriacarsi

Macché condannare il gesto o prendere le distanze. Per Matteo Salvini non c’è imbarazzo che tenga, anzi: “Altro che far west a Voghera, è legittima difesa” irrompe via Facebook alla notizia dell’arresto di uno dei suoi, Massimo Adriatici, assessore alla Sicurezza del Comune dell’Oltrepò pavese. Che l’altra sera in circostanze non ancora chiarite, ha ucciso a pistolettate un cittadino marocchino di 39 anni: Youns Boussetaoui, il curriculum giusto del carnefice, laddove la vittima sarebbe chi ha sparato. Ossia Adriatici, persona “perbene” che nel buon senso declinato in salsa leghista è rappresentato come la casalinga di Voghera di arbasiniana memoria, seppure versione calibro 22: è “docente di Diritto penale, ex funzionario di polizia: è stato vittima di una aggressione e ha risposto accidentalmente”. Insomma a sentir Salvini “gli è partito un colpo che purtroppo ha ucciso un cittadino straniero con precedenti, anche di atti osceni in luogo pubblico”. Ma pure “episodi di ubriachezza e violenze” aggiungono altri nel Carroccio, tra tutti l’eurodeputato Angelo Ciocca, che suggerisce un’altra suggestione mentre le indagini sono ancora in corso: “Se non fosse stato per lui, pronto a intervenire a difesa di una ragazza molestata da un marocchino, probabilmente ora staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente”.

Fatto sta che l’episodio e pure la difesa d’ufficio di Adriatici da parte di Salvini è un caso politico. “È un giorno triste. Saranno inquirenti e autorità giudiziarie a decidere. Nessuno si sostituisca a loro” incalza il segretario dem Enrico Letta che aggiunge: “Una cosa dobbiamo e possiamo farla: stop armi private. In giro con le armi solo poliziotti e carabinieri”. Affonda il colpo il vicepresidente vicario dei senatori dem, Alan Ferrari, pavese doc: “Siamo di fronte a un fatto che testimonia la gravità di una situazione che, continuamente alimentata dalla propaganda, rischia di finire fuori controllo e di farci sconfinare nella barbarie”.

Già, perché l’episodio “è inquietante” secondo Amnesty Italia e per Francesco Laforgia di LeU, “vergognoso” che non siano state pretese le dimissioni dell’assessore: “Salvini dimostra una volta di più la propria indecenza giustificando quanto accaduto e derubricandolo a legittima difesa. Lega non conosce dignità”. Per Valentina Barzotti del M5S “è inaccettabile che un uomo disarmato possa perdere la vita per un colpo d’arma da fuoco partito in pubblica piazza, come se fossimo nel far west”. Aldo Penna, altro deputato pentastellato la mette così: “Se un uomo di origine marocchina avesse sparato a un assessore leghista, oggi nessuno nel partito di Salvini starebbe parlando, a giusta ragione, di legittima difesa”.