“Colpo partito per sbaglio”. Salvini: “È legittima difesa”

Il giorno dopo in piazza Meardi a Voghera pochi parlano. Un assessore leghista ha sparato e ucciso uno straniero pregiudicato e irregolare. Matteo Salvini si appella alla “legittima difesa”. Eppure molto va capito. La piazza non è lontana dal centro. E però è molto frequentata da chi in queste sere d’estate si attarda ai tavolini dei due locali. Il più conosciuto è il bar Ligure gestito da cinesi. È qui davanti che alle 22.15, Youns El Boussetaoui, marocchino di 39 anni, è stato ucciso con un colpo di calibro 22 (non 21) sparato dal 47enne Massimo Adriatici, assessore leghista alla Sicurezza nel Comune di Voghera eletto con il partito di Salvini. Ex poliziotto, e ora politico, fautore del “daspo urbano” e promotore di un’ordinanza anti-alcol, avvocato penalista e docente di diritto processuale penale, Adriatici, fermato martedì sera, si trova agli arresti domiciliari con una prima accusa per omicidio volontario poi rimodulata dalla Procura di Pavia in eccesso colposo di difesa con pena commisurata a quella dell’omicidio colposo.

Fatti e ricostruzioni lasciano aperti dubbi sul come sia partito lo sparo. Secondo quanto testimoniato ai carabinieri da Adriatici, martedì sera mentre passeggiava sarebbe stato richiamato dal marocchino che stava molestando alcuni avventori del bar. In che modo? Secondo gli inquirenti, aggredendo una coppia e scagliando una sedia. Dopo averlo redarguito, l’assessore ha chiamato il commissariato per far intervenire una volante. In quel momento la vittima avrebbe reagito. Come? Secondo Adriatici, ma anche secondo alcune testimonianze raccolte dai carabinieri, l’uomo lo avrebbe aggredito. Cadendo, il leghista che secondo gli investigatori già impugnava la pistola, ha sparato. Colpo partito accidentalmente, sostiene Adriatici. Una modalità che non pare convincere del tutto la Procura. L’arma è una semiautomatica che spara proiettili di ridotta dimensione, ma, spiega al Fatto un ex poliziotto, “in grado di uccidere”. Non vi è dubbio, secondo la Procura, che l’assessore della Lega, sul quale sono in corso accertamenti, prima di essere spintonato già impugnasse la pistola. Difficile, confermano al Fatto fonti vicine alle indagini, che cadendo possa partire un colpo. Una cosa del genere, viene spiegato, potrebbe accadere nel caso l’assessore stesse girando con una pistola già con il colpo in canna. Di più: la 22 semiautomatica non è provvista di sicura. Le ipotesi investigative: il politico ha avuto il tempo di caricare l’arma, il che dilaterebbe i tempi del diverbio, supportando, viene spiegato in Procura, l’accusa di omicidio volontario (al momento esclusa), o l’arma, secondo gli investigatori, era già carica e cadendo l’assessore ha tirato inconsapevolmente il grilletto. Se dovesse essere confermata questa seconda ipotesi, come farebbe capire il reato meno grave contestato, il politico dovrà chiarire come mai andava a passaggio armato e con il colpo in canna. Dopodiché, davanti a un omicidio serve poco spiegare che il marocchino era pluripregiudicato e irregolare. I suoi precedenti: reati contro il patrimonio e spaccio. El Boussetaoui era persona conosciuta. “Un rompiscatole”, spiegano gli inquirenti. La dinamica è da capire. Oggi la Procura chiederà la conferma dell’arresto.

A nulla, poi, serviranno le telecamere del comune installate per volere di Adriatici. Si tratta di telecamere che ruotano a 360°. Nel momento dello sparo inquadravano un’altra zona. Sarà poi disposta una perizia balistica per capire direzione, inclinazione, distanza dello sparo. Il proiettile ha colpito la vittima vicino al cuore. L’autopsia chiarirà molte cose: anche se El Boussetaoui era ubriaco o avesse assunto droga.

Schiforma penale. Il Colle bifronte e la finta smentita “sussurrata” a “La Stampa”

Il livello dello zelo filodraghiano dei quotidiani dell’Ancien Régime si alza sempre di più. Ieri La Stampa ha pubblicato un articolo mistificatorio basato su una presunta smentita del Quirinale al nostro pezzo dell’altro giorno circa i timori del capo dello Stato sull’attuazione – all’interno del Salvaladri di Cartabia – della norma berlusconiana sulle priorità ai pm in merito ai reati da perseguire. Presunta ché, nonostante il titolo del quotidiano, dal Colle non è giunta alcuna smentita ufficiale. Ma siamo uomini di mondo e sappiamo che il premuroso quirinalista de La Stampa ha sentito i “sussurri” ufficiosi del Quirinale così come li abbiamo sentiti noi in precedenza. Quello che è scorretto e fuorviante, come ha fatto La Stampa, è accostare a Mattarella i rumors sul parere (duro?) che darà il Csm sulla riforma: nell’articolo del Fatto i timori del presidente sulla priorità dei reati erano ben distinti dalla situazione nel Csm. Non solo. È altrettanto scorretto e anche puerile incolpare Conte di quelle voci da noi riportate. Le preoccupazioni registrate esclusivamente sui reati da perseguire arrivano dal Colle. E lo conferma un dettaglio: il termine “fari accesi” non l’avremmo usato neanche sotto tortura.

Morandi, i legali pronti al ricorso alla Consulta

L’allarme è stato lanciato anche dall’ex premier Giuseppe Conte: l’inchiesta sulle responsabilità del crollo del Ponte Morandi rischia di essere travolta dalla riforma Cartabia. Un processo che, per complessità e numero di indagati, rischia di diventare una vittima predestinata della tagliola che calerebbe sull’appello, nullo se non si concludesse entro due anni, e sulla Cassazione, obbligata ad arrivare a sentenza entro un anno.

Dal ministero della Giustizia, nei giorni scorsi, sono subito corsi ai ripari: la nuova riforma – è il messaggio diffuso – si applica solo a reati commessi a partire dal primo gennaio del 2020 (data scelta per cancellare gli effetti della legge Bonafede, che bloccava la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, in caso di condanna). Un’affermazione ripresa ieri dal Corriere della Sera: “Cosa può indurre l’ex premier come Conte a paventare la morte del processo sul Ponte Morandi se venisse modificata una legge del suo governo quando quel processo non c’entra niente perché i fatti sono precedenti?”. Ma è davvero così? “Per noi no – spiega un avvocato che difende uno degli imputati per i morti di Genova – la riforma in questione introduce una modifica procedurale, che ha però effetti sostanziali. Per questo crediamo di avere armi per far valere le nostre ragioni”.

Insomma, basta una breve ricognizione fra i legali che assistono gli imputati per capire che l’esito della partita è tutt’altro che scontato. Gli avvocati, se il testo resterà quello licenziato in Consiglio dei ministri, sono pronti a dare battaglia davanti alla Corte costituzionale. E potrebbero non avere tutti i torti. Lo strumento per inserire il Ponte Morandi nella nuova riforma potrebbe essere quello del favor rei, principio generale che ispira l’ordinamento penale italiano: un imputato ha diritto a essere giudicato con la norma per lui più favorevole, anche se questo impone la retroattività; mentre, come prevede la Costituzione, le leggi non possono avere valore retroattivo se gli effetti sugli individui sono peggiorativi. “È chiaro che se il processo d’appello o in Cassazione si prolungasse oltre i termini della nuova riforma e un imputato avesse riportato una condanna – premette un altro avvocato impegnato nella vicenda del Ponte – nel ricorso si potrebbe chiedere un’eccezione di costituzionalità: si potrebbe cioè chiedere alla Consulta se, come noi pensiamo, anche gli imputati per un reato commesso prima di quel termine ha diritto che il suo processo si concluda negli stessi termini”.

La questione di fondo è la distinzione tra norma procedurale – che riguarda cioè una modifica del processo (e non richiede la retroattività) – e sostanziale, che ha cioè effetti sostanziali. Il problema della riforma Cartabia, così come è stata pensata, è che rischia di avere effetti sostanziali: “Cosa c’è di più sostanziale della pena, di essere condannati oppure no?”, si chiede un altro avvocato. “Ne stiamo discutendo molto e mi pare che non ci sia niente di scontato – spiega Enrico Scopesi, presidente della camera penale di Genova –. La prescrizione procedurale che verrebbe introdotta apre scenari inediti, mai conosciuti finora. Si parla di una prescrizione di tipo procedurale, ma gli effetti sono certamente sostanziali”.

Nel frattempo sul processo del Ponte Morandi incombe anche la prescrizione tradizionale, quella cioè sostanziale (legata alla data di commissione dei reati): i primi falsi e omissioni di atti di ufficio, si prescriveranno già nel 2023 e nel 2024. Mentre nel 2026 si prescriveranno alcuni degli omicidi colposi e le violazioni sulle norme sulla sicurezza del lavoro. In ogni caso, il maxi-processo sul Ponte Morandi, una sessantina di persone coinvolte, si annuncia lungo e difficile. E dopo il filone principale, la Procura di Genova sta lavorando a un processo bis che raggruppa la gestione di viadotti e gallerie e la generale carenza nelle spese di manutenzione.

Nella piazza della base 5S si presenta solo Ferraresi

“Crippaaaa… dove vai? Vieni qui, non scappareee..!”. Inizia così un’altra lunga giornata sulla giustizia, con gli attivisti del M5S ieri mattina davanti a Montecitorio a inveire contro se stessi, o quello che sono diventati. Un ritorno alla piazza, per ritrovarsi comunità, ora che i meet up non ci sono più e il Palazzo sta mandando in soffitta una bandiera come la riforma Bonafede.

Così, quando vedono passare il capogruppo Davide Crippa, lo invitano a fermarsi, ma lui tira dritto, in evidente imbarazzo, a segnare una plastica distanza tra i pentastellati di oggi, di governo, e di ieri, di piazza. Due spezzoni sempre più distanti, attorcigliati a un dialogo muto. Sul palco, ad attaccare la riforma Cartabia, si alternano gli ex pentastellati di Alternativa c’è – espulsi per non aver votato la fiducia a Draghi – e “Parola agli attivisti”, la corrente di Francesca De Vito, consigliera regionale alla Pisana, sorella di Marcello (da poco berlusconiano). Ci sono Antonio Ingroia, Pino Cabras, Andrea Colletti. “Questa è una controriforma eversiva!”, si sgola l’ex pm. “Non è il momento delle ambiguità o delle mezze misure!”, ulula Francesco Forciniti. Parlano pure semplici militanti. “Ma se mediazione doveva essere, si doveva mediare sulla Bonafede..!”, dice un attivista. Citatissimi i magistrati antimafia. Nicola Gratteri e Federico Cafiero de Raho proprio qui, in commissione, due giorni fa hanno fatto a pezzi la riforma Cartabia. “Vorrei aver fiducia nella mediazione di Conte, ma non ne ho”, sostiene Mattia Crucioli. Parla anche Nicola Morra. Gianluigi Paragone osserva tra il pubblico, sornione. Alcuni lo contestano, molti lo accolgono. Alla fine dal Palazzo “scende” solo Vittorio Ferraresi. “La trattativa è in corso, non è chiusa”, dice. “Ma se Draghi mette la fiducia, che fate?”, chiedono. “Senza modifiche, non me la sentirei di dire sì…”, sussurra, con un filo di voce.

Salvaladri: Donne&Minori le vittime dimenticate

Non solo prescrizione. Le proposte della ministra Marta Cartabia riguardano (e stravolgono) anche tanti altri ambiti della giustizia penale. A proposito dei reati contro la Pubblica amministrazione, ma perfino dei reati sessuali o contro le donne.

Patteggiamento large. Oggi l’imputato, nei casi previsti dalla legge, può patteggiare e ricevere sconti di pena. Con la riforma Cartabia, potrà patteggiare non solo la pena, ma anche le sanzioni disciplinari, accessorie e relative alla confisca facoltativa. Erano le uniche pene effettive, poiché chi patteggia ottiene una pena detentiva bassa che non si sconta in carcere. Con la riforma, possono sparire anche le pene disciplinari e accessorie: la sospensione per un impiegato pubblico, il licenziamento per un poliziotto accusato di violenze o per una guardia carceraria di Santa Maria Capua Vetere, l’interdizione dalla professione per un riciclatore, l’interdizione dai concorsi pubblici per chi ha provato a truccare le gare pubbliche. Si potrà patteggiare anche le confische facoltative, cercando di tenere almeno una parte del malloppo che prima il giudice poteva decidere di sequestrare.

Via la Norma Viareggio. Salta la previsione di dare la “priorità assoluta ai processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo”: era la “Norma Viareggio”, pensata dal ministro Alfonso Bonafede per far celebrare più celermente possibile processi come quelli per la strage di Viareggio, il disastro ferroviario del 2009 in cui morirono 32 persone. Cancellata con un tratto di penna.

Appello proibito. Le sentenze di proscioglimento per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa non potranno essere appellate dal pubblico ministero. Bonafede aveva previsto un elenco di reati per cui l’appello si potesse invece fare: per lesioni colpose gravi e gravissime, lesioni commesse violando le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario, propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa. Tutto cancellato. Così chi ora resterà vittima per esempio di lesioni colpose da parte di un chirurgo non potrà fare ricorso contro la sentenza che ha prosciolto il medico.

Giudice monocratico. Per aumentare la produttività dei giudici e rendere più veloci i procedimenti, il ministro Bonafede aveva previsto che, per alcuni reati, anche il processo d’Appello potesse essere celebrato da un giudice monocratico (uno solo, invece del collegio composto da tre giudici). Proposta soppressa.

Concordato per tutti. In Appello è possibile per l’imputato chiedere il Concordato, un istituto giuridico che permette di trovare un accordo tra imputato e pubblica accusa sulla pena da comminare. Il Concordato finora era escluso per i procedimenti di prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di (ingente) materiale pornografico, pornografia virtuale, ma anche violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo e così via. Con le nuove norme, il Concordato in Appello sarà previsto anche per questi procedimenti in cui le vittime sono soprattutto donne e minori.

Zero carcere. Finora è il Tribunale di sorveglianza a decidere, dopo la condanna definitiva, l’eventuale misura alternativa al carcere: l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare, la semilibertà (ovvero il lavoro fuori dal carcere). Le misure alternative si ottengono dopo aver scontato parte della pena, o negli ultimi due anni di pena, o dopo 20 anni per chi è condannato all’ergastolo. Con la riforma, sarà già il giudice di merito a decidere le pene alternative, che saranno applicate subito dopo la condanna definitiva, anche per reati gravissimi (non c’è limite di pena massima). E in più: come farà il giudice a prevedere la situazione futura dell’imputato (che potrebbe arrivare alla condanna definitiva mesi o anni dopo)? E come potrà sapere se ha un lavoro, necessario per concedere la semilibertà? Il lavoro di pubblica utilità potrà servire a sostituire la confisca facoltativa che oggi il giudice può disporre, valutando un giorno di lavoro di pubblica utilità fino alla cifra record di 2.500 euro.

Reato tenue. Oggi il giudice può assolvere un imputato che ritenga abbia commesso un reato tenue, per delitti che prevedono una pena massima fino a 5 anni. Con la riforma, si allargano i confini: sarà “tenue” il reato con pena minima fino a 2 anni. Tra questi, rientrano molti reati contro le donne, come il revenge porn e la costrizione al matrimonio, oppure la truffa, reati contro la pubblica amministrazione o anche il traffico di sostanze stupefacenti.

No querela, no party. Oggi per alcuni reati il processo inizia soltanto se c’è una querela: è la “procedibilità a querela di parte”. Per i delitti gravi, invece, il procedimento si avvia anche senza querela. La riforma Cartabia introduce la necessità della querela anche per alcuni reati contro il patrimonio o contro la persona. Come la minaccia grave: e il minacciato potrebbe non querelare proprio perché minacciato.

Messa in prova. Oggi il giudice può decidere di sospendere il processo con la “messa in prova” dell’imputato, che al termine della prova vedrà il suo reato estinto. Oggi lo si può fare per reati con pena massima di 4 anni. La riforma alza questa soglia a 6 anni.

Il rito abbreviato. Nella bozza della riforma si prevede che “la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione”. Chi deciderà di farsi giudicare con rito abbreviato e rinuncerà a impugnare la sentenza in Appello avrà diritto a un ulteriore sconto di pena.

La ministra offre la sua mediazione: resta tutto così, ma si parte dal 2025

È parecchio sotto pressione il ministro della Giustizia, Marta Cartabia. La sua riforma viene attaccata non solo da parte della politica, ma da larghissime fette della magistratura. Tanto che l’opinione corrente è che si sia giocata anche le chance di essere eletta presidente della Repubblica. Sarà anche per questo che ieri, durante il Question Time alla Camera, ha fatto una certa confusione, svelando l’oggetto della mediazione. In difesa, ci tiene a passare il messaggio che non è vero che molti processi andranno in fumo. Sostiene che “i procedimenti puniti con l’ergastolo non sono soggetti ai termini dell’improcedibilità e per i reati più gravi si prevede, una possibilità di proroga”. E poi chiarisce: “La riforma prevede un ingresso graduale, c’è una norma transitoria per consentire agli uffici che sono in maggiore difficoltà di attrezzarsi”. Il Pd, con la capogruppo alla Camera, Debora Serracchiani e il capogruppo in Commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, a stretto giro di posta, incassa queste parole: “Ci fa piacere che il ministro abbia annunciato una norma transitoria” sulla prescrizione. In realtà non era esattamente un annuncio, ma forse un lapsus: la norma ancora non c’è. Anche se effettivamente in via Arenula stanno lavorando all’ipotesi di far slittare la riforma alla fine del 2024. Il ministro non vuole cambiare l’impianto della sua riforma, ma ha capito che così non è sostenibile. E Pd e M5S stanno lavorando proprio per arrivare a una norma transitoria come ipotesi di mediazione. Enrico Costa, deputato di Azione sminuisce: “La Guardasigilli ha fatto riferimento alla norma transitoria che già è contenuta negli emendamenti del Governo (articolo 14 bis che prevede che la riforma si applichi ai fatti commessi post 1 gennaio 2020)”.

Intanto, Giuseppe Conte ha fatto sapere a Palazzo Chigi che la norma può essere un inizio, ma che non basta. I gruppi non la reggono. E nel frattempo cerca di “alzare il prezzo” con i dem: M5s chiede di far scattare l’ improcedibilità dopo 3 anni in Appello e 2 in Cassazione (nel testo sono 2 in Appello e 1 in Cassazione). Una mediazione che pare impossibile. Il centrodestra e Iv hanno fatto arrivare a Draghi le loro richieste, già nel caso si arrivi alla norma transitoria: FI vuole degli aggiustamenti sull’abuso d’ufficio, la Lega diminuire le pene alternative, Iv reclama interventi sulle intercettazioni. La fiducia è quasi certa. Senza accordo, per far passare la legge. Con l’accordo, per blindarlo.

“Per i reati di mafia non vale”. Cartabia ignora la sua riforma

Ci sono le parole, ci sono i fatti. E a proposito della riforma della Giustizia, parole e fatti non combaciano. Ci sono le parole al question time del ministro Marta Cartabia che dice di stare tranquilli, “spesso si è detto in questi giorni che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo. Non è così: i procedimenti puniti con l’ergastolo non sono soggetti ai termini dell’improcedibilità”. E poi ci sono i fatti che la smentiscono, e ci mettono poco a farlo: la Guardasigilli parlava alla Camera alle 15 circa, un’ora dopo arrivava la doppietta da Napoli e Palermo, con due condanne in Appello per reati mafiosi che, se le regole del gioco fossero state quelle della sua riforma, sarebbero state impossibili. Anzi, “improcedibili”.

Sorprende che un Guardasigilli non sappia che ci sono una sfilza di reati di mafia che non sono puniti con l’ergastolo, ma andiamo con ordine.

A Napoli la Corte d’appello ha inasprito a 10 anni la condanna per concorso esterno in associazione camorristica a Nicola Cosentino, ex sottosegretario Pdl di Berlusconi, accusato di essere stato il dominus di una gestione politico- mafiosa del consorzio dei rifiuti casertano, l’Eco4. La sentenza di primo grado, 9 anni, risaliva al novembre 2016, l’aumento di pena è dipeso dal fatto che sono stati contestati reati successivi al 2005.

Dunque, se la riforma Cartabia ieri fosse stata già in vigore, sarebbe scattata la tagliola della “improcedibilità”, i quattro anni e otto mesi intercorsi tra primo e secondo grado sono più dei due previsti dal testo in discussione, tre in caso di processi complicati e per reati gravi. E forse, insieme all’improcedibilità, sarebbero arrivate persino le scuse: l’improcedibilità non è come la prescrizione, che almeno nelle motivazioni spiega le ragioni di una pronuncia di colpevolezza arrivata fuori tempo massimo.

A Palermo, invece, la Corte d’appello ha ribaltato un’assoluzione di primo grado e ha condannato a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa Antonio D’Alì, per 24 anni senatore azzurro, ma anche sottosegretario dell’Interno del governo di Berlusconi e presidente della Provincia di Trapani. Un “politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, aveva detto durante la requisitoria la Pg di Palermo, Rita Fulantelli, che di anni ne aveva chiesti 7 e 4 mesi, contestando una pluralità di favori agli uomini d’onore che, ricostruiti tra atti e dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia, iniziano dai tentativi di allontanare da Trapani dell’ex prefetto Fulvio Sodano e del cacciatore di latitanti e capo della squadra mobile Giuseppe Linares. Il senatore, secondo i pentiti, si sarebbe anche interessato ad alcuni appalti pubblici di Trapani per la realizzazione della Louis Vuitton Cup di vela del 2007. Si trattava di un appello bis, celebrato dopo che la Corte di Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza di secondo grado che, a settembre 2016, mandò assolto l’ex politico per le contestazioni successive al 1994 e dichiarato prescritti i reati precedenti. Attenzione alle date: D’Alì era stato assolto in primo grado nel 2013 e in Appello nel 2016. Processo iniziato nel 2011 e con navigazione perigliosa, fino alla decisione della Cassazione, risalente al gennaio 2018, di rifare il secondo grado. Sarebbe stato “improcedibile” anche il suo dibattimento.

Cosentino è innocente fino a sentenza definitiva e ovviamente ricorrerà in Cassazione, il suo legale, Agostino De Caro, che lo difende insieme agli avvocati Stefano Montone ed Elena Lepre, ritiene “la sentenza profondamente sbagliata, sono convinto che sia assolutamente innocente, aspettiamo di leggere le motivazioni per impugnarle”. Il suo secondo grado è iniziato nel 2019 e la sentenza è di ieri, pareva imminente a marzo ma i giudici hanno voluto sentire il pentito Nicola Schiavone – e c’è stata feroce battaglia tra accusa e difesa sull’attendibilità delle sue parole – e inevitabilmente i tempi sono slittati.

La presunzione di innocenza vale anche per D’Alì, il cui avvocato Arianna Rosaria Rallo dice: “Desta profonda sorpresa la riforma della sentenza di primo grado di assoluzione”. Ma forse andrebbero ascoltati con maggiore attenzione gli allarmi in Commissione Antimafia del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e del capo della Procura nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che hanno parlato “del 50% dei processi che finirà sotto la scure della riforma” e “di conseguenze sulla democrazia del nostro Paese”. E bisognerebbe ricordare il compianto prefetto Sodano, che con questa “salva-ladri” non avrebbe avuto giustizia. Al processo a D’Alì testimoniò con un filo di voce, era già gravemente malato.

La trattativa Stato-Bonucci per i giornali non è esistita

Per i giornaloni la trattativa Stato-Bonucci non è mai esistita. Dopo otto giorni, viene dimenticato il braccio di ferro tra il vicecapitano della Nazionale e il governo sull’opportunità di sfilare nel centro di Roma con un bus scoperto creando assembramenti. Peccato che a Roma i contagi siano quintuplicati proprio per quello che l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, chiama “l’effetto Gravina” con riferimento al presidente della Figc. Solo che ieri, sui giornali, questa notizia non c’era, o quasi. Veniva artificiosamente inserita tra le righe degli articoli sulla preoccupante situazione dei contagi a Roma. Non sia mai toccare il governo dei “migliori” e legare l’aumento dei contagi alle scelte sbagliate del premier Mario Draghi. La Stampa dedica alla notizia solo un box, Il Corriere pubblica un’intera pagina della virologa Ilaria Capua contro i no vax, ma nasconde la notizia delle “notti tragiche” in dieci righe dentro un articolo sui dati giornalieri. Il titolo è un esercizio di equilibrismo: “A Roma contagi quintuplicati dopo la finale dell’Italia”. Perché, non è dato saperlo.

Repubblica invece lega la crescita dei contagi alle 48 ore di follia, cioè “lo tsunami di tifosi che il giorno dopo la vittoria azzurra si sono riversati per le strade della città” tutti a “inseguire Chiellini e i suoi portati in giro in processione da un pullman scoperto”. Da chi sia stato autorizzato il corteo è un mistero: zero riferimenti al governo. E proprio nel giorno in cui l’informazione politica fornisce questo spettacolo, il premio Spadolini dell’omonima fondazione viene assegnato al direttore di Repubblica Maurizio Molinari (sarà premiato dall’editorialista di Rep Stefano Folli, entrambi provenienti dalla Voce Repubblicana). Motivazione? “Molinari e Folli sono i due protagonisti del giornalismo politico italiano di oggi”.

Allarme anestesisti: “La quarta ondata ormai è già iniziata”

“Nella quarta ondata ci siamo”. Il premier francese Jean Castex non usa perifrasi e va dritto al punto. Se nell’estate 2020 il caldo era stato più forte del Covid, nell’estate 2021 la musica è cambiata: “Questa variante c’è – dichiara Castex – è prevalente ed è molto più contagiosa”. Ieri in Francia si sono registrati 21 mila nuovi contagi, anche se “il 96% dei contagiati – ancora il premier – non erano vaccinati”. Ma in una sola settimana i contagi sono aumentai del 140%.

Non va meglio in Gran Bretagna, dove ieri si sono registrati 44.104 nuovi casi e 73 morti. L’aumento dei contagi nell’ultima settimana è pari al 35,8%, 59,8 quello dei decessi. Nel Regno Unito le misure anticontagio sono state revocate lunedì 19 luglio, ma secondo gli esperti dello Scientific Advisory Group for Emergencies (Sage) il premier Boris Johnson dovrebbe prepararsi a reintrodurre delle restrizioni, tra cui mascherine obbligatorie e lavoro da casa, all’inizio di agosto, se la situazione peggiorerà ulteriormente.

E in Italia? Difficile nascondersi. La curva dell’estate 2020 fu piatta fino a settembre, ora, dalla metà di luglio, l’impennata è evidente. Ieri 4.259 nuovi casi (dati simili a quelli di due mesi fa) e 21 morti. Tasso di positività sul totale dei tamponi effettuati all’1,9%: “Quello che è successo nel Regno Unito – ha detto Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di di medicina molecolare dell’Università di Padova – secondo me è un’anticipazione di quanto succederà in Italia, considerando anche il fatto che il tasso di protezione della popolazione italiana è più basso di quello inglese, non ci vuole un’arte divinatoria per capire quello che succederà in Italia. Sta scritto nel grafico dell’Inghilterra, che nel giro di 40 giorni da mille casi a 50 mila”.

Preoccupazioni condivise da Alessandro Vergallo, presidente dell’Associazione nazionale medici rianimatori: “Ci troviamo anche in Italia – ha detto all’AdnKronos – di fronte al piede iniziale di una quarta ondata. Oggi, grazie ai vaccini, in terapia intensiva c’è un drastico calo delle fasce di età più anziane. Infatti oltre l’85% di chi sviluppa una malattia grave e rischia di andare in rianimazione è non vaccinato o ha fatto una sola dose a breve distanza dal contagio”.

La campagna vaccinale, dunque (ieri toccata quota 28.261.081 persone vaccinate completamente, il 47,7% della popolazione e 34.661.223 prime dosi) dovrebbe frenare non di poco le conseguenze di questa probabile quarta ondata. Anche in questo caso, tuttavia, Crisanti invita alla cautela: “È solo parzialmente vero – avverte – che non ci siano ripercussioni su ospedalizzazioni e decessi. Il Regno Unito è passato da 2-3 a 50 morti al giorno e da 500 ricoveri a 2.500. Quindi attenzione a una narrativa falsa. Con questo numero di casi – conclude – senza vaccino, ci sarebbero almeno 700-800 morti al giorno. E se i casi aumenteranno ancora, come probabilmente accadrà, nel Regno Unito avranno 100 morti al giorno”.

Il rischio di una recrudescenza della pandemia, comunque, è una questione mondiale, a partire dal Giappone, dove domani è in programma la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Ieri a Tokyo nuovo record di infezioni giornaliere, 1.832 casi, il massimo da metà gennaio. Nella Capitale e nelle tre prefetture circostanti è attualmente in vigore il “quasi” stato di emergenza, con durata fino al 22 agosto.

 

“Bene Confindustria sui vaccini, ma non possono fare gli sceriffi”

“È un cambiamento di notevole rilievo, molto interessante rispetto alla posizione originaria che chiedeva di escludere il Covi-19 dai documenti di valutazione del rischio. Le imprese sostenevano che il rischio pandemico non avesse nulla a che fare con l’ambiente di lavoro. Il fatto che ora i facciano carico del problema mi sembra un dato di partenza molto positivo da raccogliere”. Raffaele Guariniello, ex procuratore aggiunto di Torino, che alla sicurezza sul lavoro ha dedicato la propria carriera, così commenta la proposta di Confindustria di poter esigere dai dipendenti il green pass vaccinale sul luogo di lavoro.

Dottor Guariniello, allora ha torto il segretario della Cgil Maurizio Landini che parla di “colpo di sole”?

Mi aspetto che sia da parte delle imprese sia del sindacato si faccia una riflessione comune sul tema. Attenzione però, preoccuparsi non basta. E chiaro che non può essere il datore di lavoro ad aspettare all’ingresso il dipendente e chiedere il certificato di vaccinazione. Bisogna tradurre questo ottimo proposito in termini confacenti alla normativa in tema di sicurezza sicurezza sul lavoro.

Quali sono i problemi principali?

La paternità del controllo non può essere affidata al datore di lavoro. Non sarebbe in linea né con il decreto 81 (il Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, ndr) né con la normativa sulla privacy. Basta leggere il documento del garante privacy del 13 giugno 2021: Il Covid-19 è un rischio che va valutato nel documento di valutazione del rischio, è un rischio su cui deve essere impostata sorveglianza sanitaria ed è compito del medico competente esprimere un giudizio sulla idoneità del lavoratore alle mansioni, che va trasmesso al datore di lavoro che a sua volta deve prendere a norma di legge i necessari provvedimenti. Insomma, il medico competente è l’unico soggetto legittimato a trattare i dati sanitari del lavoratore e verificare idoneità specifica. Il trattamento dei dati sulla vaccinazione deve essere inquadrato nell’ambito della verifica dell’idoneità alla funzione. E il datore di lavoro deve agire di conseguenza.

E se il medico non se ne preoccupa?

Non può. Il datore di lavoro ha l’obbligo di scrivere nel documento di valutazione del rischio tutte le misure di prevenzione comprese quelle affidate al medico competente e poi controllare che le rispetti. C’è scritto chiaramente nel decreto 81, il datore ha l’obbligo di vigilare sull’adempimento dell’obbligo di sorveglianza sanitaria. Il disinteresse del medico non è un argomento valido.

Confindustria sostiene che “l’esibizione di un certificato verde valido dovrebbe rientrare tra gli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede su cui poggia il rapporto di lavoro”. È d’accordo?

Queste sono affermazioni un po’ troppo generiche, un po’ come l’articolo 2087 del codice civile secondo cui l’azienda è tenuta ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare l’integrità fisica dei suoi dipendenti. Preferisco ragionare su norme specifiche, bisogna essere precisi.

La precisione, appunto. Lo schema del decreto 81 che lei ha poco fa spiegato, non introduce di fatto una sorta di obbligo vaccinale, pena il rischio di perdere il lavoro?

Ecco, se fossi il legislatore mi occuperei di questo aspetto. Non esiste nel nostro ordinamento un obbligo di vaccinarsi, c’è l’Articolo 32 della Costituzione, servirebbe una norma di legge ad hoc. Ma è innegabile che, a norma di Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, si instaura una procedura per cui chi decide di non vaccinarsi, incorre nel rischio del giudizio di inidoneità, per il Covid-19 come per qualunque altra patologia. In caso di inidoneità, l’impresa ha il dovere di trovare un altro posto a lavoratore, ma sempre che sia possibile. Altrimenti si rischiano altre conseguenze, fino alla perdita del posto di lavoro È giurisprudenza pacifica. Ecco, il problema sta nella formula “ove possibile”. Sono parole su cui meditare in vista di un’eventuale riforma della legge vigente. Bisogna porsi il problema della sorte del lavoratore inidoneo, non basta nascondersi dietro un “ove possibile”.