Parametri e pass nei locali, Regioni e Lega fanno muro

La mina vagante, come avviene spesso nel governo quando c’è da prendere decisioni sulla pandemia, è Matteo Salvini. Se non ci fossero le rimostranze leghiste, infatti, Mario Draghi avrebbe chiuso già ieri la questione del decreto “salva-estate”, da approvare per provare a fermare la risalita dei contagi, ma anche per evitare nuove chiusure. Ma il muro di Lega e Regioni sui temi più divisivi – obbligo vaccinale per il personale scolastico, green pass per i trasporti e nuovi parametri – ha fatto posticipare di 24 ore il nuovo decreto e rinviare le scelte su scuola e trasporti di un mese. Ancora ieri sera non era stata convocata la cabina di regia prevista per oggi: a ogni modo non ci dovrebbero essere ulteriori slittamenti e oggi il Cdm varerà il nuovo decreto.

Dando per quasi certa la proroga dello stato d’emergenza fino al 31 dicembre, il vero nodo da sciogliere sarà quello del green pass, le cui regole scatteranno già da lunedì.

In cabina di regia si scontrerà la linea rigorista del premier, del ministro della Salute Roberto Speranza e Pd, contro la Lega che da giorni manifesta la contrarietà ai vaccini per gli under 40 e soprattutto non vuole un green pass duro. “Tutelare la salute sì, ma escludere dalla vita sociale per decreto 30 milioni di italiani assolutamente no – ha detto ieri Salvini – significherebbe impedire il diritto al lavoro, alla salute, allo studio, allo spostamento e alla vita a metà della popolazione italiana”. Salvini sposa la linea delle Regioni, guidate dal leghista Massimiliano Fedriga, che ieri hanno proposto l’utilizzo del certificato solo per i grandi eventi sportivi e di spettacolo (congressi, concerti, fiere) che farebbe da volano alla riapertura delle discoteche, ma anche a quella degli stadi al pubblico da settembre, quando ripartirà il campionato di calcio.

Draghi condivide l’idea del green pass più “soft” nelle zone bianche per i grandi eventi più navi, treni e aerei a lunga percorrenza ma, su spinta di Speranza, vorrebbe estenderlo anche ai ristoranti e bar al chiuso. L’ipotesi sarebbe quella di obbligare il certificato nei bar per chi ordina e si siede all’interno ma non per chi consuma al bancone. Sui ristoranti e bar però la Lega è contraria e in questa battaglia è spalleggiata anche dal M5S, contrario a “penalizzare le attività produttive”. Il certificato prevederà almeno due step: uno valido per agosto con una sola dose, uno più stringente a settembre con due dosi per dare tempo a chi deve vaccinarsi ad agosto. L’idea del governo è quello di approvare per settembre una versione più restrittiva che comprenda anche i trasporti ma la decisione sarà rinviata di un mese quando il governo dovrà decidere anche sull’obbligo vaccinale per il personale scolastico chiesto ieri dai presidi. Questi il 27 incontreranno il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Nel decreto non entrerà l’obbligo, chiesto da Confindustria, del pass nei posti di lavoro anche per le proteste dei sindacati. Ieri anche il presidente della Camera Roberto Fico si è detto contrario. L’altra questione dirimente della cabina di regia di oggi riguarderà i nuovi parametri per le fasce bianche e gialle.

L’obiettivo è quello di non chiudere fino a Ferragosto ed evitare che domani 5 regioni (Lazio, Veneto, Sardegna, Sicilia e Campania) passino in zona gialla. Per farlo non conterà più l’incidenza (sopra i 50 contagi ogni 100 mila abitanti) ma le ospedalizzazioni. Resta da capire quale sarà la soglia per passare da zona bianca a gialla: ieri le Regioni hanno chiesto che sia sopra il 20% dei posti occupati in terapia intensiva e del 30% dei letti ordinari, ma Speranza considera queste soglie troppo alte e anche gli anestesisti parlano di “follia”. “Si arriverà a una mediazione” confida un ministro. Il Cts infatti proponeva le soglie del 5% e del 10%. Il punto di caduta potrebbe essere del 10% per le terapie intensive e il 15% per i posti in area medica.

I Dragaràn

L’ayatollah Khomeini aveva i Pasdaràn, i Guardiani della Rivoluzione. Draghi ha i Guardiani della Restaurazione. Sono i presunti giornalisti che scambiano la Fornero per “esperta di pensioni” (infatti le sfuggì il trascurabile dettaglio di 390mila esodati). Spacciano le critiche di merito al Salvaladri&mafiosi Cartabia alle “bandierine di partito” del M5S e, per farlo, nascondono i gravissimi allarmi del procuratore nazionale antimafia De Raho e del procuratore Gratteri (zero tituli su tutti i giornaloni). Quelli che gabellano la Cartabia per un’esperta di diritto penale, anche se non distingue un tribunale da un phon e dice bestialità (ieri, tentando di smentire i veri esperti, è arrivata a dire che l’improcedibilità non tocca i processi di mafia perché esclude “i reati da ergastolo”: come se la prima attività dei mafiosi fosse uccidere; ma il grosso dei processi di mafia è per associazione mafiosa, concorso esterno, estorsione, corruzione, voto di scambio, riciclaggio, turbativa d’asta, traffico di rifiuti: nessuno punito con l’ergastolo). Quelli che raccontano inesistenti “smentite del Colle” sui timori – confermatici dai portavoce – per il Parlamento che decide i reati da perseguire e da ignorare in barba alla Costituzione.

Quelli che danno del bugiardo a Conte perché ha detto che anche il processo per il ponte Morandi rischia l’improcedibilità (la norma che esclude i reati pre-2020 salterà al ricorso del primo avvocato: il favor rei, cioè la retroattività delle norme più favorevoli all’imputato, che in teoria vale solo per le norme penali sostanziali, è già stato esteso dalla Consulta e da molti tribunali di sorveglianza alle regole dell’esecuzione penale, come quella di Bonafede che negava le pene alternative ai condannati per tangenti: figurarsi se non varrà per una norma processuale che trasforma un condannato in primo grado in un improcedibile in appello; infatti gli avvocati si son già detti pronti a invocarla anche per il ponte Morandi). Quelli che, su due quotidiani di centrodestra come Repubblica, Sole 24 Ore e Giornale, si inventano che la Ue fa “sponda al progetto Cartabia”, lo “loda” e lo “blinda”, citando un documento che sollecita il “ddl del marzo 2020 per migliorare l’efficienza dei processi penali”, senza dire che parla del ddl Bonafede, non il testo Cartabia che lo demolisce. Quelli che riempiono paginate sul boom di contagi per i folli assembramenti per le vittorie azzurre e il bus scoperto della Nazionale, ma si scordano di collegarli all’inerzia del governo Draghi e all’inaudita deroga concessa da Draghi al dl Draghi. Tutto ciò che dà ombra al governo non esiste. Come scriveva Indro Montanelli nel 1977, “ma da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano!”.

Miracoli, leggende e fagotti: il viaggio per Santiago resta senza tempo

“È in viaggio che sperimentiamo quella che i padri del deserto chiamavano la xeniteia, l’essere xenos, straniero”. Il pellegrinaggio come “metafora della nostra stessa vita: un cammino aperto verso un futuro altro”. Ce lo spiega il monaco saggista Enzo Bianchi nella nota introduttiva al libro Il cammino del mondo – Vita avventurosa e meravigliosa dei pellegrini di Santiago di Compostela (edizioni Libreria Pienogiorno) scritto da Pierre Barret e Jean-Noël Gurgand. I due autori, entrambi giornalisti e scrittori, il primo già direttore del settimanale francese L’Express e direttore generale di radio Europe 1, non raccontano soltanto della loro personale esperienza lungo il cammino di Santiago, ma si avvalgono anche di altri cinque particolarissimi compagni di viaggio. Il primo è Amery Picaud, un monaco del Poitou, la storica provincia centro-occidentale della Francia, che ha intrapreso il viaggio nel XII secolo col suo modo di essere “perentorio, sciovinista, diffidente e pieno di verve”. Non manca il camminatore di Fiandra, Jean de Tournai: “tranquillo e fiducioso, sicuro di sé e del valore del fiorino, grande amatore della buona tavola e dei letti di piume, un tipo deciso e tosto”. Poi c’è il sacerdote italiano, Domenico Laffi, che parte da Bologna con l’amico pittore Domenico Codici. “L’idea di dover camminare per cinquecento leghe lo inquieta assai meno del fatto di dover trovare ogni giorno un altare ove celebrare la messa e un luogo dove alloggiare. È un tipo fervente e prudente”, ci dicono gli autori. C’è pure Guillaume Manier, 22 anni, orfano, sarto di Carlepont, in Piccardia. E il piccolo Bonnecaze che, nonostante sia osteggiato dai genitori, programma il viaggio con tre suoi compagni e nasconde il “fagotto con qualche camicia e dei libri” in un campo di grano. Lui, fragile di salute, povero e dalle scarpe malandate, è l’esempio di chi non si ferma mai. Sei secoli intercorrono tra i compagni di viaggio scelti da Barret e Gurgand, eppure “i venti e le miserie dei sentieri, le grandi fatiche della sera, le meraviglie dei miracoli, delle leggende e dei gloriosi sagrati” restano senza tempo, cristallizzati nell’altrove verso cui il pellegrinaggio conduce. Che sia “un voto, uno slancio o, semplicemente, la voce degli orizzonti”, non resta che mettersi in marcia e lasciarsi condurre per mano lungo le orme di milioni di uomini e donne in cammino per il mondo.

“Love is a losing game”: il gioco al massacro tra Amy e il suo Blake

C’è una lunga ed estenuante rivalsa nel sentimento che chiosa ogni vicenda umana e la avvince nella deprecabile inanità o altrimenti detta: vita. Lo chiamano amore. La rivalsa è la stessa autodeterminazione. L’amore. Alla sua condanna, defettibile, perché del mondo, si sgrana, una dietro l’altra, l’abnegata devozione di taluni sparuti eletti. Nella ricorsività delle cose che tornano e perdono ancora (ed è sempre l’amore, ricordate), precipita Amy, nel suggello aperto come una rosa: è l’anima assetata, l’errante che smarrisce il sentiero, il fuoco che brucia senza rivelazione, la fonte sbagliata, l’acqua che non disseta; non la Via, la Verità, la Vita.

Amy Winehouse. Amy e il suo amore infelice, Blake Fielder Civil. Dietro di loro si annoda incespicando, nella spirale in verticale, il fumo di uno chilom. Ed è già il destino che conficca chiodi, annunciando, nei segni, segreti e nebulosi, la fine. O la calamità. Perché ci sono sortite del caso e poi affinità che si oppongono tra le sortite del caso e una nobilissima epica; tra Amy e Blake è andata all’incirca così. È il 2005. Amy è illuminata, ha appena esordito con Frank, l’album che la presenta al grande pubblico. Ha già comprato casa a Camden Square. Una casa da ricchi, vittoriana. Lei in fondo è solo una ragazza della media borghesia. E invece è la voce nera di una bianca di origini ebree a farne una creatura avulsa, estrema. Blake Fielder Civil ha un cappello di feltro. La sua virilità è una specie di oltraggio, una personale rivendicazione, il bambino orfano di padre, il bambino suicida che però si salva, a nove anni. E da allora non smette di riprovarci, in fondo. Considerato che la madre Georgette aveva sempre qualcosa da fare in luogo di lui. Morire era anche sniffare coca da adolescente o giù di lì, nella Londra della disco luccicante e sepolcrale, il Trash, locale di culto. Come molti sfavillanti lucori nefasti nella Square della City, la Square del punk londinese.

L’oltraggio e la deregolamentazione. Vecchie regole molto snob, la tradizione del maledettismo, niente di nuovo se non fosse che c’era già pronto il cliché del club dei 27, apposta per Amy. E la ragione ultima, Blake. Finiscono a letto, il tempo di una sera. Ma funziona così, l’ineluttabile eppure oscena prevedibilità dei destini apocalittici, quando si incontrano sapete. È solo sesso. A Amy, pare, piaccia così, si diverte, come un uomo. Il sesso per il sesso. E invece era amore. La dannazione. La defettibilità mondana che lo rende malato sempre, perché è l’amore, una lunga malattia, da cui non guarire, se fosse possibile. Ma poi si guarisce. O al limite, si muore.

Lei è una creatura avulsa, vi dicevo. La voce di una nera nel corpo di una ebrea, ebrea ashkenazita bielorussa. Era troppo portarsi dietro molteplici destini, contenerli in un solo minuscolo cuore. Ma non era un cuore e basta. Era la placenta millenaria, un feto immortale, l’ignorante elezione della parola risonante di tutte le anime antiche e tormentate, covavano nell’unico modesto piccolo cuore. Non è già la fine? Amy lo ha capito bene, pensa a Blake ogni momento, è una fame che non smette, è spaventoso: “Sento in un certo senso che l’amore mi sta uccidendo”.

Lui fuma crack, eroina, coca. Sono troppo avanti, sono sulla chiglia del Titanic. Lei si fa di speed, non apre nemmeno gli occhi la mattina che è ubriaca. L’amore. La costante rivalsa nel negarsi, altrimenti una qualche espiazione o sarebbe meglio l’eresia. Quando lei muore per davvero (dopo tutto sommato averne provato l’ingaggio, in un simbolico soundcheck perenne) lui è dentro. Esce dal carcere e trova i messaggi di Amy, ancora registrati in segreteria; ma è passato un anno, la voce di Amy è la voce di una donna viva. Così si fa una spada di ero e va in overdose. Vuole morire di nuovo, come sempre. E invece non muore. Il destino dei dannati, con una specifica dannazione: sopravvivere. Lui è un mostro planetario. La morte di Amy lo ha consacrato in quanto mostro universale. L’iniziazione a ogni empietà, è Blake, è Blake. La madre Georgette a Claypole non se la passa meglio, perché è la madre di Blake, del mostro. Blake studiava letteratura al Birkbeck College. “A che serve?” replica alla domanda di un giornalista, dopo la morte di Amy. Blake è un fatto che esiste solo dopo la morte di Amy. La sua identità è: Amy. Che è morta. L’amava. Semplicemente. Il suo nome è tatuato dietro l’orecchio. “L’amavo” dice in un’intervista. E non c’è molto altro da aggiungere. Nemmeno il vituperio di vederlo ripreso in ginocchio, nel documentario concordato, davanti la tomba di lei, nel cimitero di Edgwarebury. Amy, firmato da Asif Kapadia. Blake ne esce malissimo. “Ma chi vuole uscirne bene?” bercia al parterre di curiosi, sfrontato e violento. Un pallido ricordo è la sua virilità. Un pallido ricordo quella volta, quella sera, il sesso per il sesso. Era amore. Era una stagione, la sola, la migliore. Si chiama giovinezza, sì? Ma non erano trapassati, di già? I pochi denti, scuriti dal fumo, la pelle ingrigita. Blake, Blake. Un viatico verso la morte, si annuncia, ma non promette. Quando arriva? Quando finisce? Quando giungere alla sponda e cedere l’armentario e ammettere: è solo un massacro. Ed è questo l’amore?

G8 a fumetti: la memoria non ha perso le impronte

“Duttile” significa che un materiale – sottoposto a pressione – può essere alterato, plasmato o deformato. La memoria, ad esempio, è duttile: col tempo alcuni ricordi si modificano e altri si cancellano, ma ce ne sono alcuni che rimangono precisi e – anzi – diventano più lucidi col passare degli anni. Non un frammento di ricordo è andato perduto dei fatti del G8 di Genova, nonostante siano trascorsi venti anni. Venti anni da quando, durante il vertice dei capi di governo dei maggiori Paesi industrializzati, nelle piazze e nelle strade genovesi esplosero tumulti e proteste e un manifestante di ventitré anni – Carlo Giuliani – venne ucciso dai carabinieri. Venti anni da quei giorni in cui le forze dell’ordine pestarono, abusarono, torturarono e massacrarono. La memoria di quei giorni non ha perso un pixel grazie a film, documentari, libri, interviste, saggi e mostre che non smettono di raccontare – in quella forma di racconto che diventa denuncia – quanto accaduto.

Pure il fumetto è duttile e lo dimostrano le riedizioni di due volumi arrivate in libreria in occasione del ventennale di Genova 2001. La casa editrice BeccoGiallo, in linea con la sua tradizione d’inchiesta e denuncia civile, pubblica una nuova edizione (la prima è del 2008) di Dossier Genova G8, con Gloria Bardi ai testi e Gabriele Gamberini ai disegni. Non è un fumetto ma un vero e proprio documentario a fumetti: le tavole acquerellate con colori desaturati sono precise come fotografie; le didascalie e i dialoghi sono asettici come fascicoli d’indagine. Alcune strisce sono incorniciate dai dentelli di una pellicola, come se fossimo in tribunale e ci stesse scorrendo davanti agli occhi una pellicola, il video di un delitto. D’altronde il titolo del volume ne mette bene in chiaro le intenzioni: un “Dossier” sul G8 di Genova, un fumetto che serve a conoscere, a “capire” la portata degli eventi del 2001. Ma il fumetto è un mezzo duttile, lo abbiamo detto, e può illustrare la stessa memoria e gli stessi tragici fatti con una veste del tutto diversa, come dimostra l’altro volume arrivato (anzi, tornato) in libreria in questi giorni. Non un libro per “capire”, ma per “sentire”: si intitola Nessun Rimorso, edito da Coconino-Fandango, e raccoglie le voci e le testimonianze dirette di fumettisti che in quei giorni a Genova c’erano oppure li hanno vissuti in via mediata. Sono pagine militanti, che grondano sangue, rabbia e lacrimogeni. Anche questo volume è una riedizione di un libro uscito per la prima volta nel 2006 con il titolo GevsG8: Genova a fumetti contro il G8 per iniziativa di “Supporto legale”, progetto collettivo nato nel 2004 per sostenere il Genoa Legal Forum e al quale è devoluto il ricavato delle vendite. Nella prima edizione il volume contava solo diciotto autori, nella nuova edizione ne troviamo trentasei: alcuni nomi di rilievo scompaiono, ad esempio Gipi, ma altri se ne aggiungono come Reviati, Martoz e Prenzy. Ogni autore porta la sua voce: la parte del leone la fa Zerocalcare che regala al volume almeno una cinquantina di tavole oltre alla copertina e alla quarta di copertina. C’è chi racconta che non c’era, come Rita Petruccioli; c’è chi riesce a far ridere, come Claudio Calia, che racconta l’unica cosa divertente capitatagli nei giorni del G8 (e riesce a essere divertente e al tempo stesso, in pochissime pagine, a chiudere con un finale atroce) e chi la butta sulla filosofia bislacca come quel genio di Maicol&Mirko (la domanda del bambino ai genitori “reduci” di Genova – “Mamma, i buoni soffrono?” – racchiude il senso del libro, e forse della vicenda). Ecco, l’ordine in cui andrebbero letti questi due fumetti è questo: prima Dossier G8 in cui gli autori si eclissano mettendo in pagina il fatto nudo e freddo come un corpo dissezionato in obitorio, poi Nessun rimorso che è il gesto di un corpo vivo che si alza la maglia e mostra le cicatrici per ricordarci, ancora oggi come negli ultimi venti anni, che Genova non si dimentica.

Gogna, alberi e moscerini. La vita giusta degli indios

“Vogliamo l’elettricità, ma non vogliamo la strada”. Ha le idee chiare il Corregidor di Asunción del Quiquibey, una comunità indigena dove vivono famiglie di mosetenes e chimanes e che si trova nel Territorio di Origine di Pilón Lajas, una riserva dell’Amazzonia boliviana. Hermindo è la massima autorità e ha molte responsabilità. Risolve le controversie della comunità, s’interfaccia con il governo boliviano per chiedere programmi di sviluppo e per combattere contro progetti – per esempio le dighe idroelettriche – che con lo sviluppo, perlomeno quello che intendono loro, hanno poco a che fare. Il Corregidor, inoltre, amministra la giustizia indigena. Un ladro viene frustato davanti a tutta la comunità. Per chi viola una donna, la pena è peggiore. Il colpevole viene legato a un albero dove vivono le “formiche rosse”. Pare che i loro morsi provochino lo svenimento in pochi minuti. Hermindo pensa che per i ladri le frustate comunitarie (ogni famiglia ha diritto a una fustigazione) funzionino, ma ritiene che gli stupratori vadano consegnati alle forze dell’ordine. Ad Asunción del Quiquibey vi fu un caso di stupro. C’era chi voleva bruciare vivo il colpevole, ma Hermindo lo consegnò alla polizia. “Non credo alla pena di morte, come posso educare la comunità se mi macchio della stessa violenza di chi intendo punire?”. La gogna (el cepo), utilizzata nelle comunità takana che vivono al di là del Rio Beni, la trova, al contrario, efficace. “El cepo funciona” insiste. La gogna è un collare di legno dove incastrare collo e mani del malfattore e poi stringere. La Costituzione, oltre a definire la Bolivia uno Stato plurinazionale per valorizzare la diversità culturale, garantisce diritti agli indigeni. I nativi hanno diritto all’autodeterminazione, alla proprietà collettiva della terra (il concetto di proprietà privata arrivò con gli spagnoli), al mantenimento di usi e costumi, all’amministrazione della giustizia parallela, alla lingua, alla valorizzazione di pratiche antiche, a cominciare dalla medicina tradizionale che a queste latitudini salva molte più vite di quanto si immagini. I nativi hanno diritto allo sfruttamento delle risorse naturali necessarie al sostentamento. E, a differenza dell’uomo “civilizzato”, sanno rispettare quel che la natura concede.

Non c’è la corrente ad Asunción del Quiquibey, ma tutti vorrebbero l’elettricità. Hermindo teme la contaminazione, non le comodità, per questo vuole la corrente e non la strada. “La strada è pericolosa, cosa porta la strada? Macchine, un mucchio di plastica, l’alcol, la droga. Meglio di no”. Hermindo ha visto gli effetti dell’abuso di alcol sull’equilibrio di altre comunità. Ad Asunción del Quiquibey ci si arriva solo in barca. Ci vogliono tre ore da Rurrenabaque. Si deve risalire il Rio Beni e poi prendere il Quiquibey, un fiume affascinante, pescoso e traditore. Una piena si è portata via una decina di case e il campo da calcio, subito spostato in un luogo sicuro. Sì perché el fútbol è pura devozione anche in Amazzonia. “Il calcio è l’unica religione che non ha atei”, scrisse Galeano. La corrente gli permetterebbe qualche partitella notturna, luce in casa per evitare di cucinare a lume di candela e soprattutto una falegnameria dove realizzare mobili con la legna degli alberi che sono costretti ad abbattere per coltivare. “Gli alberi sono vita e ci dispiace doverli sprecare dopo che li tiriamo giù. Se avessimo la falegnameria”, dice Hermindo. Il rapporto con la natura è simbiotico. “Il bosco ci dà tutto” sostiene José, l’anziano del villaggio. “Cibo, tetto, legna per cucinare e medicine”. Qui non si sa se il Covid sia arrivato.

Ci sono state febbri, ma le hanno tenute a bada con rimedi antichi. L’unghia di gatto è una liana piena di spine. La sua polpa è un rimedio contro la febbre. Chi ha mal di stomaco beve un decotto ottenuto con la corteccia di un albero chiamato cuchi, mentre per la tosse si prepara un infuso di paja cedron, la citronella che cresce spontaneamente. Quando a Rurrenabaque c’è stato il lockdown gli indigeni sono rimasti più isolati che mai. Un paio di volte al mese dalla comunità parte un’imbarcazione che scende il fiume carica di quel che producono e coltivano: pasta di cacao, yuca, platanos, pesce, artigianato. Vendono tutto a Rurrenabaque e con i guadagni comprano sale, zucchero, olio, sapone e benzina. Nei mesi di lockdown sono tornati a produrre zucchero sfruttando le canne. Per il resto la vita è scivolata placida come il fiume.

Ad Asunción del Quiquibey c’è povertà, ma non c’è solitudine. La vita è dura. Niente luce, per mangiare ci si spacca la schiena nei campi e gli insetti danno il tormento. Le zanzare sono animali da compagnia in confronto ai marawi, moscerini tanto piccoli quanto aggressivi per i quali il repellente altro non è che una salsa che rende il pasto più saporito. Tuttavia vivono una vita densa di relazioni e libertà. I bambini sprizzano gioia. Sono liberi di pescare, di correre a piedi nudi nella foresta, di inventarsi giochi infiniti con tutto quel che il bosco gli dà. E poi stanno sempre insieme. Non esiste l’emarginazione, la depressione. Come non esiste l’idea dell’accumulazione. Si lavora sodo, ma si lavora lo stretto indispensabile. Una volta rimediata la cena si pensa a stare insieme, a fumare sigarette senza filtro, a bere chicha, una bevanda che si ottiene dalla fermentazione della yuca, a bolear, ovvero riempirsi la bocca di foglie di coca che arrivano dagli Yungas, le valli ai piedi delle Ande. La relazione viene prima di tutto e l’isolamento non ha nulla a che fare con la solitudine.

Mesi fa parlai con il Professor Vicari del Bambin Gesù il quale mi disse di non aver mai affrontato così tanti tentativi di suicidio ed episodi di autolesionismo dovuti, spesso, alla mancanza di relazioni valide e positive. L’occidente è sempre più vittima del mal di vivere. La paura detta legge. Sì, ad Asunción del Quiquibey mancano molte cose, ma manca anche la paura. La paura si ciba della solitudine, dell’invidia sociale, della sempre più oscena disparità economica occidentale. Io non vorrei vivere ad Asunción del Quiquibey e se anche volessi i marawi non me lo permetterebbero. I popoli amazzonici hanno tanto da insegnare. Custodiscono le foreste come nessun altro e nell’era dei cambiamenti climatici è come se ci stessero salvando la vita. Inoltre hanno sviluppato una medicina indispensabile ancor di più in tempo di Covid: lo spirito comunitario. Una medicina che non salva la vita, ma salva senz’altro l’esistenza.

(3. continua)

“Caso Pegaso, Orbán racconta all’Ungheria che è colpa di Soros”

Szabolcs Panyi, reporter ungherese con fonti tra le alte cariche del governo Orbán, dice di aver cominciato “a collegare, uno dopo l’altro, i pezzi” quando i giornalisti tedeschi della Süddeutsche Zeitung, già impegnati nel rivelare i contenuti dello scandalo dei Panama Papers, per contattarlo hanno usato un canale di comunicazione criptato. In seguito, una analisi del suo cellulare, effettuata nei laboratori di sicurezza di Amnesty, ha confermato che lo spyware Pegasus, prodotto dall’israeliana Nso, era stato infiltrato nel 2017. “A oggi non riesco a capire quando hanno iniziato a registrare i miei incontri, nel complesso hanno estratto dal mio telefono centinaia di megabyte”.

Szabolcs, lo spyware Pegasus è stato utilizzato dal governo Orbán per spiarla.

Pegasus è uno strumento per formare alleanze. Anche se l’azienda Nso nega di essere strumento della diplomazia israeliana, io sostengo che è sotto controllo governativo: Pegasus non può essere venduto senza approvazione del ministero della Difesa. L’uso dello spyware da parte del governo di Budapest coincide sempre con visite tra i vertici israeliani e ungheresi. Orbán e Netanyau si sono incontrati nel giugno 2017 e a Budapest si comincia ad usare il software spia nel 2018, quando la nostra intelligence è andata in Israele. Medesimi parallelismi li abbiamo riscontrati in Messico e India, tutti Paesi che hanno al governo leader populisti in linea con l’ex premier Netanyahu. Queste alleanze sono nate anche grazie a Pegasus.

Si può dire che lei ha attirato l’attenzione quando ha cominciato a scrivere della IIB, la International Investment Bank?

È una banca per ex paesi socialisti, che secondo alcune indagini, serve a finanziare le operazioni dell’intelligence russa non solo in Ungheria. La sede che prima era a Mosca, ha riaperto a Budapest nel 2019 dopo una forte insistenza del premier Orbán per ospitarla. Anche l’assistente ungherese di un giornalista americano che ne ha scritto era nella lista delle persone hackerate.

Lei si occupa di inchieste, corruzione e crimini che spesso coinvolgono il partito Fidezs, quello del capo di Stato…

Alcuni miei contatti governativi cancellavano gli appuntamenti perché mi dicevano che ero sotto sorveglianza e non volevano compromettersi, ma pensavo fossero paranoici. Pure io ho iniziato a pensare di essere seguito, ma mi davo del matto. Se non altro, questa storia ha dimostrato che non lo ero. Credo che sia il motivo principale dell’hackeraggio nei miei confronti: volevano sapere chi incontravo e cosa mi veniva detto.

C’è un’opposizione intestina nella squadra di Orbán?

L’Ungheria è un Paese ex-comunista: nell’era sovietica tutti servivano lo stesso sistema per i loro diversi interessi. Lo stesso è nell’Ungheria di Orbán: ci sono circoli al potere che si odiano. Ma ci sono anche tanti funzionari statali disgustati, che denunciano casi di corruzione e abusi, tanti agenti dell’intelligence che non hanno scelto di fare questa professione per spiare giornalisti.

Orbán ha chiuso o comprato tutti i giornali indipendenti del Paese, eppure ci sono squadre di giornalisti tenaci che continuano a fare il loro mestiere.

Io lavoro per un’organizzazione investigativa non profit, la Direkt36, fondata dai giornalisti di Origo; era giornale indipendente trasformato in un organo di propaganda dal premier. La nostra redazione è formata solo da nove colleghi e ad essere spiati eravamo in due. Il destino di Origo è stato lo stesso del sito di notizie Index, dove chi non si è piegato alla propaganda, è stato licenziato. La stampa libera in Ungheria sopravvive con piccoli, minuscoli siti nati dalle grandi testate, ora gestite dal governo.

Senza stampa libera, chi ha informato gli ungheresi che le autorità spiavano giornalisti, politici e dissidenti?

La propaganda governativa ha riferito che lo scandalo Pegasus è frutto di una “campagna anti-ungherese” e che si tratta di una falsa notizia diffusa da media controllati dal magnate George Soros.

Allora in Ungheria chi indagherà su questo hackeraggio?

Nessuno. Il procuratore generale è amico personale di Orbán e membro del partito, proprio come il ministro dell’Interno che è al comando delle forze inquirenti. Chi dovrebbe investigare riceve ordini politici. Perfino il presidente dell’albo degli avvocati era nella lista dei numeri spiati. Chi potrebbe fare giustizia è vicino al governo oppure da esso controllato e spiato, probabilmente ricattato.

E l’Unione europea?

Non farà proprio niente, come non ha fatto niente in Bulgaria, Slovenia, Polonia. Come polacchi, bulgari e sloveni, anche noi ungheresi siamo soli.

Ci può dire a cosa sta lavorando adesso?

A come continuare il mio mestiere senza essere spiato.

Depistaggio o protagonismo: il killer Avola è indagato per calunnia a Caltanissetta

Maurizio Avola, killer catanese al servizio dei più alti livelli di Cosa nostra fino alla stagione delle stragi e poi entrato e uscito dal servizio di protezione per collaboratori di giustizia, è ora indagato dalla Procura di Caltanissetta per calunnia nei confronti del boss etneo Aldo Ercolano e, con tutta probabilità, sarà presto iscritto nel registro degli indagati anche per auto-calunnia. Altro che Nient’altro che la verità, il libro scritto da Michele Santoro con Guido Ruotolo, che ha come tesi di fondo la negazione del ruolo di “soggetti esterni” alla mafia, a partire dai servizi segreti deviati, sugli scenari delle stragi; tesi che parrebbe già ampiamente smentita da indizi, prove e conclusioni di ormai trent’anni d’inchieste, processi e sentenze.

Avola, nel libro, sostiene di aver partecipato in prima persona alla strage di via Mariano D’Amelio, domenica 19 luglio 1992, di averla preparata e organizzata sull’asse Catania-Palermo insieme con Aldo Ercolano, numero due della mafia catanese e in quel momento sottoposto a sorveglianza speciale. I pm di Caltanissetta fin da subito hanno contestato all’ex killer le “numerose contraddizioni del suo racconto” e avanzato “elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità” delle sue rivelazioni.

Sul tema è intervenuto anche Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, alla conferenza “Strage di via D’Amelio, 29 anni dopo: continua la ricerca dei mandanti esterni”, organizzata da Antimafia Duemila. “La strage di via D’Amelio è ancora tra noi, non è finita. C’è una filiera che arriva fino a oggi con un depistaggio attualissimo, come per esempio quello di Maurizio Avola, che è stato un importante collaboratore di giustizia, e che dopo tanti anni tira fuori una storia per cui nella strage di via D’Amelio non c’è nessun mistero… chi l’ha mandato Avola? Sarebbe stata la quadratura del cerchio…”. Anche perché, ricorda Scarpinato, fu lo stesso Borsellino a rivelare alla moglie Agnese che “sarà ‘la mafia a farmi uccidere ma quando altri lo decideranno’ e quindi individuò in entità esterne superiori a Cosa nostra coloro che volevano la sua morte”. Per Scarpinato Borsellino andava ucciso “per evitare che potesse fare un danno, non agli interessi mafiosi, ma a interessi superiori alla mafia. Bisognava evitare che andasse a Caltanissetta a raccontare cosa aveva capito sui mandanti esterni delle stragi e sul piano di destabilizzazione politica che c’era alla base delle stragi e sul ruolo dei servizi segreti”.

Derivati a Milano: la Corte dei Conti indaga su Pisapia

La vicenda dei derivati piomba nuovamente come un macigno sulla politica milanese. A 10 anni dalle assoluzioni in Appello del tribunale ordinario, la procura della Corte dei Conti della Lombardia ha messo sotto accusa 64 ex amministratori della Provincia milanese per una vicenda di contratti swap, e con loro due intermediari. Tra questi, l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia – chiamato in causa per il suo anno da sindaco della Città Metropolitana – ma anche consiglieri e assessori delle giunte provinciali di Ombretta Colli e Filippo Penati – deceduto – e due intermediari finanziari (Bank of America e Dexa Prediop spa) per danno erariale “allo stato attuale” superiore ai 70 milioni di euro. La Procura contabile ha notificato loro un invito a dedurre con al centro di tre delibere: una del luglio 2002, una del giugno 2003 e una del giugno 2005 riguardo appunto ai contratti swap. I pm contabili scrivono di “un doloso occultamento delle reali condizioni finanziarie”. Sono stupefatto, risponderò appena mi sarà possibile”, ha replicato Pisapia.

Fuortes pigliatutto. Nominato alla Rai, ma resta all’Opera

“Il mio successore non ha bisogno di consigli. Lascio il teatro in una situazione ottimale. Chi verrà dopo di me potrà lavorare nel migliore dei modi”. Così Carlo Fuortes, ieri mattina, alla presentazione della stagione del Teatro dell’Opera di Roma 2021-2022. Grandi applausi e molta emozione per il suo commiato. Attenzione, però. Perché il neo amministratore delegato della Rai scelto da Mario Draghi non lascerà subito l’Opera di Roma, ma resterà sovrintendente ad interim fino a quando non verrà nominato un successore. La cui ricerca, però, potrebbe essere lunga: si parla di settimane che potrebbero diventare mesi. Si potrebbe andare anche oltre le Comunali di ottobre. “Ci stiamo lavorando”, ha detto Virginia Raggi. E sarebbe stata lei a chiedere a Fuortes di restare pro tempore. Scelta che però ha suscitato più di una perplessità per l’eventuale conflitto d’interessi con il nuovo ruolo, visto che Viale Mazzini spesso acquista e trasmette opere del teatro. Fuortes acquisterà contenuti che lui stesso ha prodotto?