Èoltre due anni che urlano “Napoli non molla” e infatti, pure ieri, i lavoratori della Whirlpool hanno manifestato contro la chiusura. Hanno prima invaso i binari dell’alta velocità – costringendo Trenitalia a sospendere la circolazione – e poi si sono spostati in piazza Garibaldi per un blocco stradale. Domani saranno a Roma per un nuovo presidio. Non si sono arresi nemmeno dopo che, mercoledì al ministero dello Sviluppo economico, la proprietà americana ha lasciato partire l’ennesimo schiaffo: ha rifiutato la richiesta del governo di usare le 13 settimane di cassa integrazione disponibili e ribadito la volontà di licenziare subito i 327 operai del sito campano. In questi giorni è in corso una raffica di scioperi dei metalmeccanici contro le procedure di licenziamento aperte subito dopo lo sblocco del primo luglio. L’accordo tra sindacati e Confindustria dovrebbe “raccomandare” l’uso di ammortizzatori sociali per evitare o almeno rimandare i tagli di personale ma da tre settimane si moltiplicano i boicottaggi di quello che comunque resta un avviso comune non vincolante. La segretaria Fiom Francesca Re David ha annunciato che non si fermeranno: “Vogliamo risposte – ha detto – che il governo lo sappia”. Il leader Uilm Rocco Palombella teme che questo sia solo l’inizio e che il peggio arrivi in autunno. Per ora, sono già oltre mille i posti di lavoro già (quasi) persi solo contando le crisi industriali al centro dell’attenzione mediatica, due terzi dei quali fanno parte del settore automotive. Gkn, Gianetti Ruote e Timken sono spuntate inaspettatamente una dietro l’altra. Il caso Whirlpool, invece, si trascina da maggio 2019, ma a partire da marzo 2020 era stato congelato grazie alla norma del decreto Cura Italia che vietava di licenziare per motivi economici. Caduta la moratoria, la multinazionale americana ha confermato la scelta. Ieri, tra l’altro, l’amministratore delegato Luigi La Morgia ha rilasciato dichiarazioni che hanno infastidito i lavoratori: “La produzione nello stabilimento di Napoli non ha futuro” ha detto al Corriere della Sera. Gli ha risposto a distanza Barbara Tibaldi, responsabile settore elettrodomestici della Fiom: “Nel 2018 si è firmato un piano industriale che prevedeva, proprio perché era redditizio anche Napoli, di portare nuove produzioni. L’anno scorso Whirlpool ha fatto dividendi, Napoli ha lavorato a pieno regime”.
Mail Box
Grandi navi: quello che gli altri non dicono
Caro Tomaso Montanari, grazie per il pezzo su le Grandi Navi. Ma possibile che queste cose le dica solo tu e il Fatto? Baci.
Ottavia Piccolo
Studenti a Dubai: un viaggio “distruzione”
Cara Selvaggia, sulla questione Dubai e viaggi d’istruzione (ormai da me definiti distruzione) o viaggi che premiano (perché premiare chi compie il suo dovere?) i migliori studenti: sputano, diffondono il virus e sono i migliori? Si dirà a scuola!
Bene per le famigliole e, in particolare, per le madri premurose, attente e protettrici, meglio dei santi.
Seguo la Sua intervista premettendo: ma chi sono quegli idioti o forse imbecilli che in un momento come questo lasciano andare minorenni in Paesi a rischio? D’accordo, da quelle parti ci passa anche un nostro senatore, ma vi pare sia persona “affidabile”?
Pare che “i ragazzi sono quasi tutti con prima dose fatta”; ok, ma mio figlio non lo metterei a rischio. “Se fosse successo in Italia la quarantena l’avrebbero fatta lo stesso”; “con l’occasione della vacanza si studia”; vacanza dunque, non certo viaggio d’istruzione! Dire che siamo messi male è un eufemismo.
Marino Ferrari
Salvini, referendum e paradossi radicali
Matteo Salvini è felice per l’eventuale referendum sulla giustizia: “superata quota 300.000 firme! Possibile arrivare a 500.000 già a inizio agosto”. Gli eredi politici di Marco Pannella sono fieri di questa strana alleanza con il segretario leghista? Chissà se i Radicali apprezzeranno la cultura ipersecuritaria di Matteo, la sua concezione propagandisticamente confessionale su questioni eticamente sensibili? I Radicali, da sempre sono aperti alla multietnicità e multiculturalità. Quale considerazione hanno della lotta di Salvini contro i clandestini? Chissà cosa pensano poi delle sue visioni proibizionistiche sulle droghe e come vedono l’ostentazione demagogica che il leghista fa impropriamente di Vangeli, rosari, e altro?
Marcello Buttazzo
I giornali si mantengano da soli, come il “Fatto”
Non sono d’accordo nel dare i soldi dello Stato, quindi nostri, ai giornali. Come fa il Fatto che non riceve nessuna sovvenzione, così dovrebbero fare tutti gli altri giornali. Come voi, prima o poi dovranno fare così anche loro: mi sembra, tra le altre cose, una questione di equità.
Ciullo Milano
Cartabia: al macero migliaia di processi
Questo è un Paese dove devono ancora avere giustizia i morti di piazza Fontana, della stazione di Bologna, dell’Italicus, di Ustica, ma si trova il tempo per una riforma come quella del ministro Cartabia, che manda al macero migliaia di processi in appello. L’ultima di oggi è l’indagine di una persona perbene come Davigo.
Mi e vi domando domando, ma questo è il Paese dell’incontrario? La gente ha ancora la forza e la speranza che qualcosa cambi in questo benedetto Paese? Siamo bombardati dalla controinformazione di regime, privati del minimo potere critico. Ecco perché, tante volte, cadono le braccia e viene voglia di arrendersi.
Stefano Strano
Riforma Giustizia: richiesta di chiarimento
Premesso che è una porcata (credo si possa dire anche in tv) e che i 5S mai avrebbero dovuto votarla, vi chiedo, se possibile, un chiarimento. Avevo capito che a seguito dei mal di pancia di alcuni, i 2 anni in appello fossero diventati 3 e 1 in Cassazione, 18 mesi. Invece continuo a leggere in vari articoli che trattano l’argomento sempre 2 e 1, vorrei capirne di più. Grazie comunque.
Medri Giovanni Russi
Caro Giovanni, è una possibilità offerta al giudice per certi reati a certe condizioni. E comunque, non risolverà nulla finché oggi molte Corti d’appello trattano sentenze impugnate nel 2015-2016, cioè – in base al Salvaladri Cartabia – morti e sepolti da tempo.
M.Trav.
Protezione civile: prevenire i disastri
Le frequenti alluvioni – esempio Belgio e Germania – inducono a ripensare il ruolo del Meccanismo comunitario di Protezione civile. Una struttura che da 20 anni aiuta le popolazioni colpite da eventi naturali. Fa quello che può sugli effetti, ma non indica la lezione appresa dalla catastrofe ai decisori politici, per evitare si ripeta.
Invece, gli esperti europei del Mcpc dovrebbero redigere dopo ogni disastro un “Rapporto di valutazione e prevenzione” nella zona d’intervento, dove mappare i fattori ambientali rilevati (eccessivo indice di asfalto delle superfici, canali tombati, ecc) e far proposte per ridurre la probabilità del ripetersi dei disastri. La ricostruzione deve essere un’occasione per adottare un nuovo “Piano europeo di Riconciliazione ambientale” utile al territorio.
Massimo Marnetto
Quando la politica rinuncia al buonsenso
Nella riforma della Giustizia tutti hanno rinunciato a qualcosa, dice Cartabia. Al buonsenso che vorrebbe i processi terminare con una sentenza.
Francesco Pediconi
Green: “I nostri politici non hanno alcuna sensibilità ambientalista”
Gentile redazione, martedì scorso ho sentito in tv – a In onda su La7 – il candidato sindaco di Roma, Enrico Michetti. Sosteneva che “le piste ciclabili vanno fatte dove si possono fare… dove invece intralciano il traffico diventano pericolose”. Ho volutamente estratto la frase dal contesto, ma comunque denota solo una presunta buona volontà, non certo programmi precisi, e svela la vera mentalità di certi politici: il traffico viene prima, meglio l’asfalto, il petrolio e l’inquinamento che quei quattro babbei che vogliono andare in bici. E chissenefrega se le città di tutta Europa fanno esattamente il contrario, privilegiando il trasporto ecologico e quello pubblico e disincentivando l’automobile.
Oltretutto, i bravi presentatori e i bravi giornalisti che discutevano con lui hanno avuto ben poco da dire, solo una breve risposta: “In tutte le città d’Europa ci sono le piste ciclabili”. Tutto qui? A Zurigo e in Svizzera ci sono moltissime persone che l’auto proprio non ce l’hanno, pur avendo la patente (me compreso). A Copenaghen hanno rivoluzionato le strutture per fare esattamente il contrario: il traffico delle auto non deve intralciare e disturbare pedoni e ciclisti!
Non è tutto, il bravo giornalista collegato poco prima aveva consigliato al candidato di non fare come l’attuale sindaco: “Non si dice: no ai climatizzatori (voleva dire inceneritori, ndr) e facciamo la raccolta differenziata”. Cioè, per questi individui, proporre la raccolta differenziata non è una soluzione. Quindi noi poveri mortali, che abbiamo sperimentato nelle nostre case come funzioni bene la raccolta differenziata, ci sbagliamo! Perché, quando si parla di impianti per il trattamento di rifiuti, si parla solo di discariche e inceneritori e non sento mai parlare di impianti di compostaggio per l’organico, che produrrebbero gas e fertilizzanti e sottrarrebbero una frazione del 50-70 per cento al volume dei rifiuti indifferenziati?
Abbiamo una classe politica e giornalistica non vecchia, morta!
Giancarlo Stasi
Il povero Hysaj, i fasci della Lazio e Sarri, comunista alla Bombacci
Che storia! Fantozziana ma anche tragicamente amara, a pochi giorni dai fasti retorici degli Europei vinti dall’Italia di Mancini, Draghi, Cartabia, Cingolani e così via, secondo le faconde interpretazioni del mainstream mediatico. Breve riassunto: Elseid Hysaj è un onesto terzino (destro) albanese. Ha giocato sei stagioni nel Napoli e in quest’estate è passato alla Lazio. In ritiro con la squadra, ad Auronzo di Cadore, si è sottoposto a una sorta di iniziazione: cantare. E lui ha scelto Bella Ciao, l’inno dei partigiani e di tutti gli antifascisti. Il video è finito sui social e a quel punto si è scatenata la reazione dei soliti ultrà mussoliniani della Lazio, culminata in uno striscione apparso a Roma l’altra notte: “Hysaj verme, la Lazio è fascista”. Il giocatore ha provato a giustificarsi: “L’ho scelta perché è la colonna sonora della Casa di carta (serie tv di Netflix, ndr)”. Ma i tifosi non gli hanno creduto. Tale Franchino, intervistato dall’Adnkronos (tutto vero, sul serio!), ha detto: “Non poteva non sapere il senso di quella canzone. È straniero ma ci siamo informati, il padre era un operaio vissuto qui e lui qui è cresciuto”.
In evidente imbarazzo, la società alla fine l’ha difeso, ma senza entrare nel merito della polemica politica (non sia mai, peraltro Lotito si è pure avvicinato a Giorgia Meloni). In tutto questo c’è però un silenzio che rimbomba sordamente: quello di Sarri, l’allenatore che B. non volle al Milan ché “comunista” e che a Napoli è diventato un santino tipo il Che, invocato come il Comandante all’assalto del Palazzo d’Inverno (lo scudetto, per capirci). Quando Sarri chiama qualcuno “democristiano” lo fa per insultarlo con ignominia massima, figuriamoci i fascisti. Sulla sua fede di sinistra il Comandante ha costruito un’immagine quasi leggendaria che adesso rischia di frantumarsi. A meno che, come ha scritto il quotidiano online Il Napolista, il sarrismo non sia diventato “fascio e martello” alla Bombacci.
Nell’attesa del boom di Bonomi, nutriamoci con bacche e radici
Mannaggia, che disdetta, il boom economico non arriva. Eppure ce l’avevano promesso in tanti, e alcuni con lo sguardo ieratico del profeta. Tipo Carlo Bononi, il boss di Confindustria: “Credo ci siano le condizioni per un piccolo miracolo economico, ma neanche troppo piccolo”, ha detto il 7 giugno scorso a Manduria (titolo del convegno “Forum in masseria”, ahahah). L’equazione era semplice: licenziamo, così potremo assumere, che è un po’ come quando buttate la macchina nel burrone così poi potrete comprarne un’altra, salvo accorgervi, guardando la carcassa, che per la macchina nuova non avete i soldi.
Intanto impariamo la geografia sulle pagine economiche dei giornali: la Timken è a Brescia (106 licenziati), la Giannetti Ruote in Brianza (152), la Gkn a Campi Bisenzio (422), la Whirlpool a Napoli (327), e non passerà giorno senza che si aggiunga alla lista qualche ridente località. Se va avanti di questo passo il miracolo economico dovrà essere strepitoso.
Intanto ferve (?) la discussione sui “nuovi ammortizzatori sociali”, il che conferma la passione della classe dirigente del Paese per l’azione coordinata in due fasi. Funziona così: prima fase, stringete la cinghia, restate senza lavoro, restate senza reddito, stringete i denti perché poi arriverà la seconda fase fatta di ammortizzatori sociali e aiuti per tutti. Bello. Solo che la prima fase viene attuata senza problemi e per la seconda fase, ehm… vediamo… pensiamoci bene… aspettiamo un po’… bisogna mettere tutti d’accordo… Insomma, mai che venga in mente di fare quel che farebbe chiunque nella sua vita: prima predisporre dei sistemi di sicurezza e poi, nel caso, procedere. È come se si montasse la rete sotto il tendone del circo dopo che il trapezista è caduto.
A proposito di caduti, i morti sul lavoro nel 2020 (anno in cui si è lavorato meno causa pandemia, peraltro) sono stati 799 contro i 705 del 2019 (più 13 per cento). L’Inail, che vigila o dovrebbe sulla sicurezza di chi lavora, ha controllato l’anno scorso 7.486 imprese, una goccia nel mare, perché ha pochi ispettori. Di queste sono risultate irregolari (tenetevi forte) l’86,57 per cento, praticamente nove su dieci. Non male, dài!
In sostanza, mettendo insieme i dati, aggiungendo le cifre sull’aumento delle situazioni di forte disagio economico, e rincarando la dose con l’ininterrotto attacco dei soliti noti al Reddito di cittadinanza, si ha come risultato che oggi in Italia c’è almeno una cosa che ha un discreto successo: la guerra ai poveri. Guerra non solo economica, ma anche fisica (le grate di protezione rimosse dai macchinari per non rallentare la produzione, i lavoratori in sciopero investiti dai camion…), perché c’è questa convinzione che morto un lavoratore ne arriva un altro, e pazienza. Ora che sul Paese (meglio, sulle aziende) pioveranno soldi, uno si aspetterebbe che vadano soltanto a chi è in regola con le norme sulla sicurezza, ma l’argomento non pare all’ordine del giorno, non se ne parla, nessuno lo solleva, sacrilegio. Naturalmente siamo qui ad aspettare a piè fermo il “piccolo miracolo economico, nemmeno troppo piccolo” che ci hanno promesso in cambio di qualche centinaio di migliaia di sacrifici umani: famiglie senza più reddito che non sanno dove sbattere la testa ma si immolano per tutti noi, che presto brinderemo a champagne per il nuovo boom. Tutti, anche a sinistra, fanno finta di crederci, rapiti dell’ideologia dominante che se aiuti i ricchi mangeranno qualcosa anche i poveri. Non funziona, mannaggia, che disdetta!
Nomine di Draghi in Rai: la democrazia non sta molto bene
Le lodi al premier per la scelta di Fuortes e Soldi sono state unanimi, l’opinione pubblica ha esaltato la qualità delle due scelte fatte con spiazzante anticipo rispetto a quelle dei partiti. Non vorremmo allora stonare in questa messa cantata, né mettere in dubbio i curricula dei prescelti, se diciamo che nessuno si è preoccupato di sottolineare l’enormità di un presidente del Consiglio che sceglie il presidente e l’amministratore delegato della televisione pubblica. Non proprio un sintomo di buona salute per una democrazia. Certo non per colpa di Draghi. Abbiamo visto di peggio, direte, ed è vero. Ma vivaddio la contraddizione esiste e fare finta di nulla significa soltanto che il veleno dell’anomalia nazionale, somministrato a piccole dosi così a lungo, nel tempo ha mitridatizzato anche gli organismi più reattivi. Perché il punto è proprio questo, che poi è quello della riforma da sempre mancata: non solo il cda della tv pubblica è direttamente espressione della maggioranza di governo, ma le sue principali figure sono indicate direttamente dal premier e dal ministro. Uno stato di cose, per giunta, che confligge clamorosamente con la storica sentenza della Corte del 1974 che sancì la rescissione di qualsiasi legame tra la direzione dell’ente e il governo, il quale non potrebbe esservi rappresentato, in maniera diretta o indiretta, in maggioranza.
Un tema, anche questo, da molto tempo poco frequentato. Ora ci si accorge che, fatte le nomine, bisogna ratificarle in Vigilanza e che per farlo ci vogliono numeri e maggioranza, quella maggioranza che i partiti e i loro rappresentanti potrebbero non assicurare. Se dovesse accadere immaginiamo un day after di indignate invettive contro la piaga della lottizzazione: ahi la Rai in mano ai partiti! ahi la politica soffocante! D’accordo, a patto che si dica che la colpa è anche di chi in questi anni, leader, governi, ministri, non si è preoccupato, pur avendone la possibilità, di fare uno straccio di riforma che mettesse in sicurezza la Rai. Nemmeno Draghi è esente da responsabilità: più volte sollecitato a mettere in agenda un atto riformatore che allontanasse l’azienda dalle ubbie di governo e partiti (cosa che del resto tutti in Parlamento dicono di volere) non solo non ci ha mai provato, come fece Ciampi nel ’93, ma non ha speso in questi mesi una sola delle sue autorevoli parole. Fatto il nuovo cda, insediati nuovo presidente e ad, se in futuro non vorremo ripetere la solita stucchevole sceneggiata tra l’indignazione e la lottizzazione, andrà fatta con urgenza la riforma, non diciamo del sistema, ma almeno del servizio pubblico. Ancor di più se per sciagurata ipotesi le cose in Vigilanza si mettessero male per il premier.
La Rai va difesa perché è ancora il più forte servizio pubblico europeo e svolge una irrinunciabile funzione di collante nel Paese, ultimo baluardo di fronte alla frammentazione sociale indotta dai nuovi media. Ma ha bisogno di cambiare. Qualità e capacità produttiva sono i due nodi. Entrambi non possono prescindere dalla piena disponibilità del canone più basso d’Europa, magari da ritoccare verso l’alto per poter tagliare quote di una pubblicità in certi momenti intollerabile. È urgente ripensare sia l’intrattenimento che l’informazione. Quest’ultima, quasi scomparsa negli ultimi anni, necessita di un taglio ai troppi tg inutili e di qualche importante programma in più. Mentre per il primo ci vuole il coraggio di sperimentare in qualità andando oltre format usurati. Anche gli appalti all’esterno vanno rivisti se possiedi, e paghi, personale e maestranze in abbondanza. Per fare tutto ciò, e molto altro, la Rai dovrà mutare governance al più presto, prima che scompaia con essa un altro pezzo dell’Italia del miracolo. Perché fuori dalla Rai, con qualche eccezione, la situazione non è eccellente.
Caro Cingolani, scelga tra il pil e la catastrofe
Mi hanno molto colpito le interviste al ministro della Transizione ecologica Cingolani e al presidente di Federacciai Alessandro Banzato su Repubblica del 17 luglio. Il primo in relazione al nuovo pacchetto di misure verdi della Commissione Europea appare più preoccupato per la chiusura di “Motor Valley” che dell’ambiente, il secondo, pur ammettendo l’importanza del tema ambientale, chiede più tempo e gradualità, ritenendo che “la velocità di attuazione delle misure forse è troppo alta”. Ma il problema è che di tempo per fare queste scelte ne abbiamo avuto molto e l’abbiamo sprecato in indugi, chiacchiere, opposizioni e negazionismi. La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici è del 1992. Quasi trent’anni fa. Si poteva iniziare allora e non si è fatto. Ora che siamo in emergenza ambientale e climatica, condizione certificata dalla miglior scienza mondiale (vedi raccolta di articoli scientifici prodotta dalla Alliance of World Scientists) e ribadita dal Segretario generale Onu António Guterres, allorché finalmente in Europa si prendono tardivi provvedimenti concreti per limitare le emissioni fossili ecco che si levano alti lai proprio da coloro che per decenni hanno rallentato la transizione. Chiedere ancora altro tempo oggi equivale ad arrivare all’obiettivo a catastrofe già conclamata. Se l’intervista fosse stata fatta invece che al padrone delle ferriere al Segretario generale dell’Organizzazione meteorologica mondiale, o a un rappresentante del mondo assicurativo che sta subendo un drastico aumento dei danni da eventi meteo estremi, la risposta sarebbe stata che “la velocità di attuazione delle misure è troppo bassa”.
“Le dichiarazioni del ministro della Transizione ecologica sono anch’esse stridenti: intanto la pianura padana, un tempo conosciuta come culla mondiale della produzione agricola d’eccellenza viene ora chiamata senza mezzi termini “Motor Valley”, una piattaforma cementizia per la logistica e l’industria. Frutto di una trasformazione per nulla ecologica contro la quale a nulla sono serviti decenni di avvisi ufficiali (rapporto Ispra) che mettevano in guardia verso l’eccessiva e irreversibile cementificazione del suolo. Ma poi perché mai dovremmo difendere i motori a scoppio di lusso di fronte all’emergenza climatica? Se i grandi produttori di supercar capiranno la sfida che l’umanità ha di fronte, accelereranno come sono capaci a fare ma in un’altra direzione: invece che continuare a cavalcare il mito ormai obsoleto dell’auto grossa e potente si impegneranno a fondarne un altro, quello dell’auto piccola, elettrica e ad altissima efficienza ed autonomia grazie a migliori batterie e celle solari montate sulla carrozzeria. Se non ci riusciranno, pazienza, le supercar non sono indispensabili. Invece ravviso una sudditanza eccessiva alla crescita economica. Cingolani dice giustamente che la transizione avrà un prezzo, e automaticamente riduce la cura per limitarlo il più possibile, per mantenere un’accettazione sociale elevata delle scelte verdi. Ma potrebbe osare ben di più e giustificare il pagamento di un modesto prezzo economico oggi per evitare di pagare un prezzo estremamente più elevato domani sotto forma di disastri ambientali, prezzo non solo in denaro, ma pure in sofferenza. Vogliamo provare a chiedere ai tedeschi alluvionati se pensano che sia meglio salvare le auto ruggenti o la loro incolumità? Uno studio di Kahraman e colleghi dell’Università di Newcastle apparso su Geophysical Research Letters segnala che senza limitazioni delle emissioni a fine secolo alluvioni come quelle tedesche potrebbero essere 14 volte più frequenti. Di che rendere immensi territori abitati completamente invivibili.
La crisi ambientale che stiamo vivendo è epocale e come tale richiede misure inedite e prioritarie, altro che sudditanza all’economia. Manca la visione della complessità dei fenomeni naturali e dell’enorme prezzo che ci faranno pagare se non ne rispetteremo i limiti. Che erano già stati riconosciuti quasi 50 anni fa dal nostro Aurelio Peccei e dal Mit con il rapporto sui limiti alla crescita. Inascoltato e deriso, ma ancora una volta verificato come corretto da Gaya Herrington, dirigente della società di consulenza Kpmg, che ha pubblicato i risultati dell’aggiornamento sullo Yale Journal of Industrial Ecology: se l’umanità continua a seguire la crescita economica infinita in un pianeta finito, il collasso a breve termine della società globale appare inevitabile e la finestra utile per schivarlo si sta rapidamente chiudendo, restano pochi anni. Roba grossa. Se saltano i processi naturali che ci sostengono non ci saranno più nemmeno l’economia e il Pil, l’importante sarà solo salvare la pelle. Non sarebbe meglio parlare di queste cose che difendere gli interessi di “Motor Valley”?
Il razzismo, i giornalisti, i leader e quella retorica (merdosa)
Europei: Uefa, disgustoso il razzismo contro i giocatori inglesi (Ansa, 13 luglio)
La retorica merdosa con cui giornalisti e politici di destra attaccarono i calciatori inginocchiati agli Europei fu un assist spudorato al razzismo (la fogna da cui le destre occidentali, sull’esempio di Trump, pescano voti). Nella carognata furono coadiuvati da terzisti e renziani, cioè quelli di destra che si fingono di sinistra, tutti azzeccagarbugli immaginifici: propalarono di quelle cazzate che a noi non verrebbero in testa a pensarci un anno, per esempio quella secondo cui “chi non rischia qualcosa non sta protestando davvero”. Si sa, la protesta può stroncarti la carriera (è successo agli atleti Colin Kaepernick e Craig Hodges), ma protesti perché ti è intollerabile un andazzo, senza preventivo di spese; il valore del gesto è nella sua motivazione (l’antirazzismo), non nella mole di eventuali conseguenze nefaste, che peraltro non puoi prevedere. Quel gesto di testimonianza, inoltre, ha un carattere di contrasto culturale: dice, a chi non sopporta discriminazioni e pregiudizi, “non sei il solo a pensarla così”, che è il primo passo perché un movimento di opinione si formi, diventi popolare, crei un costume condiviso, trasformi in tabù certe infamie. È l’utopia, e il modo, di Imagine, la canzone pacifista che continua a dare forza e speranza a chiunque la ascolti e la canti. E allora le destre sfottono il Vip impegnato e persuasivo rinfacciandogli di essere un milionario (come hanno fatto di recente con Fedez quando s’è dichiarato pro-ddl Zan), quasi che avere soldi tolga il diritto alla libertà di espressione (anche John Lennon era milionario: embè? Non è che può parlare solo Berlusconi). Qualcuno ha addirittura tirato in ballo la foto del podio dei 200 metri all’Olimpiade del 1968, quella con due atleti neri che alzano il pugno chiuso e l’atleta bianco invece no: pare un forte gesto di protesta “anche se non sappiamo ancora quanto il gesto costerà a entrambi” (di nuovo l’argomento reazionario dell’eroismo come misura del gesto. Non è questione di eroismo o di coraggio: è questione di carattere, cioè di educazione). L’atleta bianco porta anche lui la coccarda del movimento che promuoveva la protesta, ma non alza il pugno. Non sappiamo perché non lo alzi, eppure l’opinionista gli attribuisce questa motivazione (fallacia intenzionale): “colse al volo che mostrare i pugni spettava solo ai due colleghi: la loro protesta era giusta, ma era la loro protesta. Un pugno bianco e non guantato l’avrebbe soltanto annacquata”. Per capire quanto sia fessa questa inferenza, che sminuisce chi protesta con altri rifacendo i loro gesti (per cui un europeo non dovrebbe inginocchiarsi come negli Usa), basta ricordare Lilian Thuram, il difensore francese di origine antillana. Un ragazzo gli chiese: “Quando fischiano un giocatore nero, lui dovrebbe uscire per protesta?”. Thuram rispose: “No, devono uscire tutti dal campo, non solo lui”. Confrontate quella risposta con la frase di Chiellini (“Ci inginocchieremo quando ci sarà la richiesta da parte degli avversari, per solidarietà nei loro confronti”) e vedrete subito l’abisso culturale che le separa. Il razzismo ci riguarda tutti, anche perché è funzionale al sistema reazionario di gerarchie sociali che i neo-con Usa (finanziati da imprenditori ultra-reazionari: Mellon Scaife, Koch, Bradley, Smith Richardson, Coors, Olin, Earhart e McKenna) impongono all’Occidente da 50 anni. Uno dei più spregiudicati ha scritto che inginocchiarsi è facile, lo si fa per mettersi a posto la coscienza, è puntare il mirino sulla parte cattiva, è puro fascismo all’italiana (ah, ecco: è fascista chi si inginocchia!). Spero che sua moglie gli sforni dei biscotti durissimi. (2. Continua)
La finta unità nazionale perde i pezzi
Quando dopo l’avvenuto Conticidio, lo scorso 2 febbraio Sergio Mattarella convocò al Quirinale Mario Draghi, indicò come unica soluzione possibile un governo di unità nazionale “per fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria” (l’altra ipotesi era il voto anticipato descritto però come una specie di calamità nazionale). Quando il nuovo premier mise insieme una larga maggioranza (a eccezione di FdI e della Sinistra di Fratoianni) vi furono cori da stadio, tipo Wembley, e nei ditirambi dell’informazione al seguito s’immaginò un Paese finalmente affratellato, per risolvere tutti insieme appassionatamente le “gravi emergenze presenti”. Un luogo incantato tipo quello nel quale il “leone e il vitello giaceranno insieme” (Isaia), “anche se il vitello non dormirà molto” (Woody Allen). Infatti, qualche voce dissonante si era detta perplessa sulla possibilità di tenere insieme Lega e Pd, FI e M5S, vale a dire tutto e il contrario di tutto, a eccezione dei due Matteo, già in “palese fidanzamento” (Bersani). Tranquilli, risposero gli aruspici del Foglio convinti che il governo dei Migliori, sommato alla vittoria dei Måneskin, al trionfo degli Azzurri e alla finale persa da Berrettini, annunciasse il migliore dei mondi possibili. In questo paradiso in terra, nel caso di qualche disputa di sicuro irrilevante, SuperMario avrebbe paternamente ascoltato per poi emettere il suo saggio, autorevole e insindacabile giudizio. Del resto, il compromesso non è forse la sublimazione della politica, che a sua volta è l’arte del possibile, eccetera? Purtroppo, entrata a vele spiegate nell’età dei prodigi, la supposta unità nazionale diede, trascorsi pochi mesi, una formidabile musata contro la dura realtà delle cose. Chi poteva immaginare che uno stravagante leader (leghista) della Santa Alleanza fondasse da un giorno all’altro una nuova branca della virologia, stabilendo che al compimento dei 40 anni si poteva (forse) contrarre la perniciosa variante Delta, ma che sotto i 40 anni (ora più ora meno) il virus sarebbe risultato praticamente innocuo? Oppure, che una prestigiosa giurista, pronosticata al Quirinale, elaborasse una riforma della Giustizia che in due anni, indipendentemente dalla gravità dei reati ne sancisse l’improcedibilità, e oplà, il processo non c’è più? Provocando un tale gigantesco falò nei tribunali che a paragone il famoso rogo delle leggi “inutili” organizzato da quell’altro buontempone di Calderoli, sarebbe sembrato una grigliata. Domanda: è possibile cercare l’unità nazionale nell’insensatezza? O nella malafede?
Francia, “impennata mai vista”. Gb, record di morti
La variante Delta in Francia provoca un’impennata di casi di Covid-19 “mai vista” prima, di circa il 150% in una settimana. 18 mila tamponi positivi in 24 ore, record da metà maggio. Nel Regno Unito sale il numero di morti di Covid, 96 in un giorno, mai così tanti dal 24 marzo scorso. L’epidemia torna a crescere in Europa. Proprio oggi il pass sanitaire diventa obbligatorio in Francia nei luoghi di cultura e svago con più di 50 persone, come teatri, cinema o musei, e per partecipare a eventi, concerti, spettacoli. Un’arma per tentare di contenere la “quarta ondata”, alla quale la Francia si sta già confrontando e che va velocissima. Solo il 19 maggio scorso Parigi riapriva bar e ristoranti e il premier Castex affermava che il paese “stava uscendo” dalla crisi sanitaria.
I casi registrati ieri, soprattutto tra i giovani, 18 mila, mentre erano 7 mila appena sette giorni fa, non sono mai così tanti da due mesi. Una tale accelerazione “non si è mai verificata – ha detto ieri il ministro della Salute, Olivier Véran – né con il ceppo iniziale, né con la variante inglese, né con quelle sudafricana e brasiliana”. Sono 43 i dipartimenti ad aver superato la soglia dei 50 casi per 100 mila abitanti. La mascherina è tornata obbligatoria anche all’aperto in alcune città, come nel centro di Nizza e Tolosa. Intanto corre in Parlamento l’iter per adottare al più presto il progetto di legge che estende l’obbligo del pass (dal primo agosto anche a ristoranti, treni e aerei interni), e la vaccinazione del personale sanitario (dal 15 settembre), presentato in Consiglio dei ministri lunedì e dibattuto in Assemblea da ieri. Potrebbe essere già adottato venerdì sera.
La legge prevede anche un isolamento di dieci giorni per tutte le persone trovate positive, per la prima volta dall’inizio dell’epidemia. L’altra arma è la vaccinazione, “un diritto, una chance, ma che può diventare un dovere”, ha detto ancora Véran. Da una settimana i francesi corrono a farsi iniettare il siero. Si fa appello al “gioco di squadra”. Di questo passo, l’obiettivo dei 40 milioni di persone con almeno una dose dovrebbe essere raggiunto entro fine luglio.
Lunedì, invece, malgrado i numeri dell’epidemia, è stato il Freedom day nel Regno Unito, dove, tra le polemiche, sono cadute anche le ultime restrizioni. Ma da settimane tornano a salire i contagi, spinti dalla variante Delta, tanto da mandare anche in tilt l’app del sistema sanitario nazionale: 46.558 nuovi casi positivi ieri. In quarantena dopo una riunione con il suo ministro della Salute, risultato positivo, Boris Johnson ha dovuto ammettere che non può dare la garanzia che non si tornerà a nuove restrizioni. Anche il governo britannico riflette su un pass da settembre per i luoghi a rischio assembramenti, come le discoteche. Proprio la questione dell’isolamento ha sollevato il dibattito. Johnson, che in un primo tempo avevo rifiutato di isolarsi, ha detto che per una persona ammalata è “cruciale” mettersi in auto-isolamento “per frenare la diffusione del virus”. Opinione non condivisa da alcuni dei suoi ministri.