L’emergenza fino a fine anno. Il “Pass” sarà diversificato

L’accordo ancora non c’è. Sarà risolutiva la cabina di regia convocata oggi dal premier Mario Draghi con i capidelegazione (ma potrebbe slittare a domani) per mettere a punto i dettagli del nuovo decreto “salva-estate” che sarà approvato in Cdm. Quello che da una parte dovrà fermare la recrudescenza dei contagi e allo stesso tempo evitare nuove chiusure. Il primo nodo da sciogliere sarà quello del green pass, il certificato verde, su cui il presidente del consiglio dovrà mediare tra il ministero della Salute che vorrebbe un uso estensivo (quindi anche bar e ristoranti) e la Lega di Matteo Salvini che sul punto non transige: “Sì al certificato per i grandi eventi, ma no per bar e ristoranti” è la linea che ha dato ai suoi ministri nelle ultime ore. Anche le Regioni guidate dal governatore del Friuli Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga, temono criteri troppo stretti. Fino a ieri sera tra Palazzo Chigi, il ministero della Salute e il Cts si studiavano ancora tutte le ipotesi sul tavolo. La prima certezza però è che non sarà importato il modello francese di Emmanuel Macron che obbliga i francesi ad avere il green pass per i ristoranti, bar e mezzi pubblici. Anche perché, spiega una fonte di governo, gli italiani “dovrebbero pagarsi un tampone ogni 48 ore”.

Il certificato quindi dovrebbe riguardare i grandi eventi e le discoteche – che dunque riapriranno – mentre le maggiori frizioni riguardano l’uso per i bar e ristoranti. Una mediazione potrebbe essere quella di renderlo obbligatorio fuori dalle zone bianche e solo al chiuso. Resta da capire anche se disporlo per chi ha fatto una sola dose o solo per chi ha completato il ciclo vaccinale. Il problema è che c’è ancora chi, e non per scelta, deve vaccinarsi ad agosto. L’idea di fondo è quella di approvare un green pass più soft adesso per gli eventi non essenziali e stringere le maglie a settembre per i trasporti per dare il tempo agli italiani di vaccinarsi. L’altra scelta sarà la proroga, scontata, dello stato d’emergenza: con ogni probabilità sarà allungato fino al 31 dicembre. Il centrodestra avrebbe preferito una proroga più breve fino al 31 ottobre ma Salvini non farà le barricate. A Chigi preoccupa la variante Delta e non prorogare lo stato d’emergenza farebbe saltare anche la struttura del commissario straordinario.

Inoltre sarà formalizzato anche il cambio dei parametri per i colori delle regioni. L’obiettivo è quello di non chiudere più e, visto che venerdì 5 regioni andrebbero in zona gialla perché hanno un’incidenza superiore a 50 casi ogni 100 mila abitanti (Lazio, Sicilia, Sardegna, Veneto e Campania), il parametro sarà modificato: non conterà più l’incidenza ma le ospedalizzazioni. Si passerà in zona gialla, dunque, se l’occupazione dei reparti medici ordinari supera il 10% e i reparti di terapia intensiva sopra il 5%. Questa mattina alle 9 però il governo si riunirà di nuovo con le Regioni che sul punto propongono di raddoppiare le soglie: 15% per terapie intensive e 20% per letti ordinari. In cabina di regia e poi in Cdm non si parlerà invece dell’obbligo vaccinale per il personale scolastico chiesto ieri dal ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi. Le Regioni ieri hanno proposto di “raccomandarlo” e obbligare il green pass nelle classi dove ci sono i focolai. Se ne parlerà ad agosto.

È arrivato il conto degli Europei. Casi quintuplicati solo a Roma

“Stiamo pagando il cosiddetto effetto Gravina”. L’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, chiamando in causa il presidente della Federcalcio, non avrebbe potuto essere più esplicito nel commentare l’aumento esponenziale dei contagi Covid a Roma e nel Lazio a partire dall’11 giugno: è l’onda (ancora breve) della festa “liberi tutti” per la vittoria della Nazionale agli Europei culminata nel bagno di folla al passaggio del pullman scoperto degli “eroi di Wembley” per le strade del centro della Capitale.

Solo a Roma, negli ultimi 10 giorni, i casi sono quintuplicati: 557 ieri, 122 l’11 luglio: “Non ci sono complicanze negli ospedali – dichiara ancora D’Amato – ma i casi sono destinati ad aumentare per l’effetto del calo di tensione in occasione dei festeggiamenti per gli Europei, che durerà alcuni giorni”. Di questo passo è probabile che si arrivi a mille contagi al giorno entro la fine della settimana.

Eppure non era difficile immaginare che tutto ciò sarebbe accaduto. Già dopo i quarti di finale contro il Belgio e la semifinale contro la Spagna nella Capitale era esploso il focolaio del Clifton Pub (circa un centinaio di contagiati) che si era poi esteso in due centri estivi per bambini a causa di alcuni educatori già clienti del pub.

La sera stessa della finale contro l’Inghilterra a Wembley, la responsabile dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’emergenza Covid, Maria van Kerkhove, aveva parlato di “devastante contagio in diretta tv”. Nulla – nemmeno il buon senso – ha però evitato la parata trionfale decisa dalla “trattativa Stato-Bonucci”.

Com’è noto, il pullman scoperto, affittato dalla Figc, era parcheggiato nei pressi di Palazzo Chigi fin da venerdì 9 luglio, ma fino alla mattina del 12 il no alla parata da parte di Questura e Prefettura di Roma era netto. Ma l’arrivo degli Azzurri al Quirinale prima e a Palazzo Chigi poi era stato sufficientemente pubblicizzato da richiamare in centro migliaia di persone. Seguirono l’accesa discussione di Leonardo Bonucci con alcuni responsabile della sicurezza fuori dal Quirinale, la sfilata sul pullman (coperto) fino a Chigi, l’incredibile dichiarazione dello stesso Bonucci (“Abbiamo vinto la trattativa, poi saliremo sul pullman scoperto, lo dovevamo ai tifosi”) fino al bagno di folla finale.

D’accordo, il peggio era andato in scena in tutta Italia la notte precedente, ma era il caso di perseverare con tanto di crisma dell’ufficialità (nonostante il rimpallo delle responsabilità dei giorni seguenti)?

Questo giornale si era permesso di titolare “Notti magiche inseguendo il Covid”, stonando un po’ nel coro (per carità più che comprensibile) di giubilo nazionale, ma anche il virologo Massimo Galli, lo stesso giorno, aveva subito sottolineato che “La gioia è condivisibile, ma che strillarsi addosso aumenti il rischio di contagi è un assioma. Tra una settimana, dieci giorni al massimo, vedremo gli effetti”.

La festa, però, non poteva essere rovinata: ” Gli Azzurri sono simbolo di un paese ferito ma caratterizzato da grande voglia di ripresa – aveva detto Gravina a Draghi – La pandemia ha messo a dura prova il mondo intero. L’Italia ha sofferto molto, ma grazie alla sua guida sicura ed equilibrata siamo stati in grado di intraprendere un percorso di piena rinascita. Così come ha fatto la nostra Nazionale”. “È stato un anno di sofferenza, di chiusura, di paura, di distanza, di morte – aveva poi aggiunto Matteo Salvini – ma anche di grande sacrificio grazie a un enorme spirito di squadra in tutto il Paese, c’è l’uscita dal tunnel con un grande collettivo. Una vittoria sofferta, meritata, abbracci, lacrime e poi si riparte”. Tutto sta a capire con che cosa (e per dove) si riparta.

“Sono stato minacciato più volte, ora ho paura”

“Non voglio mancare di rispetto, ma ci sono motivi per cui io non sono tranquillo, visto che sono state depositate da me già tre denunce”. Di più: “Ho ricevuto minacce e intimidazioni, epistolari, telefoniche e anche fisiche”. Il colpo di scena si materializza dopo un’ora di interrogatorio in aula durante il processo sul caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc) dove è imputato l’imprenditore vicino al partito di Salvini, Francesco Barachetti. Testimone dell’accusa, ieri era Michele Scillieri, commercialista milanese che per il caso Lfc e l’acquisto di un capannone a Cormano ha già patteggiato 3 anni e 4 mesi per concorso in peculato. Dal 18 settembre 2020, e cioè nove giorni dopo il suo arresto e quello dei commercialisti del partito Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba (ai domiciliari e condannati in abbreviato a 4 anni e 4 mesi e a 5 anni) ha iniziato una collaborazione con i magistrati di Milano, svelando il sistema delle retrocessioni al partito. Una scelta che a qualcuno non è piaciuta. Sulle presunte intimidazioni la Procura ha aperto un fascicolo al momento senza indagati. A partire dal 2 ottobre, con la notizia della sua collaborazione ormai pubblica, Scillieri ha ricevuto diverse minacce. Una, svelata a giugno dal Fatto, è del 2 ottobre 2020, con la strana consegna di una pizza alle 4 del mattino. La vedremo. Torniamo a ieri, in aula. Scillieri per un’ora risponde alle domande dell’aggiunto Eugenio Fusco. Poi il magistrato chiede al commercialista se ha mai ricevuto soldi dalla Lega e da Pontida-Fin, altra società del Carroccio. Fatto confermato dalle fatture agli atti. In quel momento, il professionista si blocca. Non vuole rispondere. Poi dice: “Non sono tranquillo”. Si asciuga le lacrime e svela le minacce, legando i suoi timori e i presunti moventi delle intimidazioni proprio ai soldi della Lega e ai verbali fatti con i magistrati. Parole ancora tutte da verificare e che al momento non coinvolgono il partito. L’aula piomba nel silenzio. L’accusa si dice all’oscuro delle ultime minacce ricevute e della denuncia depositata in Procura il 14 luglio. Atto che ieri è stato consegnato al giudice. Emerge che dopo il caso della pizza, il 2 luglio, 24 ore dopo il primo interrogatorio in aula di Scillieri, la moglie del commercialista riceve una telefonata da un cellulare anonimo. Chi parla si spaccia per un militare della Guardia di finanza. Spiega, per oltre un minuto, che in alcuni luoghi della famiglia Scillieri è successo qualcosa, dice che dovrà venire a fare dei sopralluoghi. Poi riattacca.

Scillieri si informa, ma nulla è successo. Prova a richiamare il numero che non è attivo. Il giorno prima in aula, per la prima volta, aveva spiegato la regia di Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni dietro all’affare Lfc, sorprendendo anche il dottor Fusco abituato a verbali sempre troppo farraginosi. Giorni dopo, ma sulle date vi è stretto riserbo, visto che l’inchiesta su questo fronte è in pieno svolgimento, a casa Scillieri arriva una busta. La missiva contiene un oggetto che al momento resta segreto (ma non è un proiettile) e che oggi sarà mandato al Ris di Parma. “Non è bello – spiega Scillieri – con una moglie e due figli”. Parla rapido il testimone chiave della maxi-inchiesta sulla Lega di Matteo Salvini. Gli occhi azzurri scompaiono dietro alle lenti spesse. “Vedremo domani”, dice scendendo le scale del tribunale. Le prime minacce arrivano il 2 ottobre come rivelato dal Fatto. È la moglie di Scillieri ad andare dalla Gdf. Qui racconta: “Verso le 4 del mattino del 2 ottobre venivamo svegliati dal citofono. Pensando si trattasse di un controllo nei confronti di mio marito, ho aperto. Mi sono trovata davanti un uomo di 30 anni”. L’uomo dice di dover consegnare la pizza ordinata da Scillieri. A quell’ora però a Milano non vi è alcuna pizzeria aperta. “Mio marito è molto scosso perché ricollega il fatto con la vicenda giudiziaria che lo sta interessando”. La famiglia Scillieri ha poi ricevuto telefonate da due cellulari intestati a persone inesistenti e utenze accese a Torre del Greco (Napoli). Su quest’ultimo caso, la Procura ha fatto accertamenti senza però identificare chi ha consegnato la pizza.

Lega, i 49 mln: che fine ha fatto il bottino

Dopo anni di indagini, dei 49 milioni di euro della Lega, si può dire di certo che sono spariti. Dove siano andati e, soprattutto, se e come siano ritornati indietro, rischia di restare un interrogativo (almeno per ora) senza risposta.

La Procura di Genova si appresta a interrompere la caccia al tesoro, conservato fino al 2012 su un conto della Banca Aletti, gestito dall’ex tesoriere Francesco Belsito: i pm stanno per chiudere le indagini e chiedere il rinvio a giudizio per i 450mila euro erogati alla lista “Associazione Maroni Presidente”. Il fascicolo, per competenza, sarà trasferito a Milano. L’altro grande filone, quello sui 10 milioni di euro finiti in Lussemburgo, va invece verso la richiesta d’archiviazione. Anche se gli atti, richiesti espressamente dai colleghi di Milano potrebbero dare nuova linfa alle inchieste dei pm lombardi.

L’origine di tutto è la condanna di Belsito: ex cassiere di Umberto Bossi, per i giudici ha truccato bilanci e truffato lo Stato, facendo ottenere al partito 49 milioni di euro pubblici che non gli spettavano. Ma quando nel 2017 la Guardia di Finanza si presenta per chiederli indietro, di quei soldi sono rimaste le briciole, 3 milioni. La Lega Nord si offre di ripagare il debito in comode rate di 80 anni, e viene trasformata da Matteo Salvini in una bad company: tutta l’attività politica (con i nuovi finanziamenti) viene trasferita nella nuova Lega. Nel frattempo, varie Procure cominciano a dare la caccia al patrimonio evaporato.

La vicenda dell’“Associazione Maroni Presidente” è una fetta apparentemente piccola della torta, che però rappresenta per la Guardia di Finanza una parte per il tutto. Nel 2013 la lista che sostiene la corsa di Bobo Maroni a governatore in Lombardia riceve dalla Lega Nord 450mila euro inizialmente messi a bilancio come “erogazione liberale”. Voce poi cambiata in “prestito/finanziamento infruttifero”. Il problema è che la fonte iniziale, secondo i pm, sarebbero i soldi della maxi-truffa: ecco perché il loro reimpiego costa al presidente della lista civica, Stefano Bruno Galli, assessore regionale della giunta di Attilio Fontana, un’accusa di riciclaggio. Secondo i pm, nel 2015 in una riunione romana cui partecipa Galli e il tesoriere di nomina salviniana Giulio Centemero (non indagato) si decide di trasformare la dicitura erogazione liberale in “restituzione prestito”. L’indagine nasce da un esposto dell’ex capogruppo della lista, Marco Tizzoni, che ai pm in sostanza dice: mai visti quei soldi. Sulla carta sarebbero stati spesi in volantini stampati da una società di Fabio Boniardi, parlamentare leghista (non indagato). Per gli inquirenti, coordinati dal procuratore Francesco Pinto e dal colonnello Andrea Fiducia, quelle fatture sono servite a far uscire i 450mila euro dalle casse della Lega verso l’“Associazione Maroni Presidente”, e poi restituirli alla Lega stessa.

Va verso la richiesta di archiviazione, invece, la parte più consistente dell’indagine genovese: l’inchiesta sui 10 milioni di euro partiti dalla Banca Sparkasse di Bolzano e finiti in Lussemburgo, un investimento ritenuto anomalo perché, a stretto giro, 3 milioni di quell’operazione erano rientrati in Italia, poco prima delle elezioni politiche del 2018 (e subito dopo il primo sequestro ai conti del Carroccio). Determinante è stato l’esito della relazione depositata alcuni giorni fa dai consulenti di Banca d’Italia, coordinati dal capo degli ispettori antiriciclaggio Emanuele Gatti. Secondo gli 007 di via Nazionale non ci sono prove documentali sufficienti per collegare quei soldi alla Lega. E dimostrare la tesi accusatoria: che il capitale iniziale – che Sparkasse ha sempre sostenuto essere proprio – fosse garantito da una provvista in contanti. Un’operazione chiamata in gergo back to back, di cui la Procura ha cercato invano tracce con rogatorie in Svizzera e nel Granducato.

Dalle ceneri di questi accertamenti, tuttavia, potrebbe ripartire però Milano (dove i pm di Genova ora spediranno nuovi atti): l’inchiesta sul Lussemburgo aveva portato infatti alle perquisizioni dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni e dello studio di via Angelo Maj, a Bergamo, dove hanno sede sette società controllate da una holding lussemburghese; quel blitz è stato foriero di una miniera di informazioni, parte delle quali, soprattutto migliaia di mail e chat, ancora da sviluppare. È anche sulla base di questo capitale informativo che il procuratore Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi sono arrivati alle condanne della coppia Manzoni e Di Rubba (uomini di fiducia di Centemero) nella vicenda della Lombardia Film Commission. In un vertice che si è tenuto nei giorni scorsi, i pm milanesi hanno concordato con i colleghi di Genova l’acquisizione di tutti gli atti sull’inchiesta del Lussemburgo: “Se non ci fossero elementi di interesse questo passaggio non ci sarebbe nemmeno”, spiega un inquirente.

A collegare la Lega e quell’investimento nel Granducato erano state le dichiarazioni del commercialista Michele Scillieri. Ai magistrati aveva riferito di aver avuto una confidenza da Di Rubba: “Quando nel dicembre 2018 uscirono gli articoli sull’Espresso sulle sette società, gli chiesi se c’era un collegamento con i 7 milioni finiti in Lussemburgo. Lui mi fece un gesto, come a indicare dei rivoli, e io intuii che ogni società aveva in dote un milione”. E ancora: “Da quello che sapeva lui (Di Rubba, ndr), tramite l’avvocato Aiello (ex legale della Lega, ndr), i famosi 10 milioni erano effettivamente transitati dalla Sparkasse sul Lussemburgo”. Agli atti dell’inchiesta di Genova c’è anche un’intercettazione tra due ex manager di Sparkasse, Dario Bogni e Sergio Lo Vecchio, che nel 2018 parlavano preoccupati dell’affaire dei 10 milioni: “Il problema è il collegamento con Brandstatter”. Gerard Brandstatter, presidente della banca altoatesina, ha condiviso in passato lo studio proprio con Aiello (che aveva avuto a sua volta ruoli nel consiglio di vigilanza di Sparkasse): “Credo che sia ancora con Aiello, in quello studio a Milano”.

Insomma, le intercettazioni che per la Procura di Genova da sole non bastano a richiedere un processo, fanno parte degli atti che interessano e saranno trasferiti a Milano.

L’arrivo dei nuovi atti è destinato ad aprire altre piste investigative. La Procura di Milano punta sulla nascita della nuova Lega di Matteo Salvini. Qui il punto, rimarcato negli interrogatori con il commercialista Michele Scillieri, è comprendere come e perché è nato il nuovo soggetto e in che modo il partito e le varie leghe regionali abbiano rappresentato, come spiega Scillieri, i “rivoli” in cui sarebbero stati riversati i soldi della nuova Lega. E, in parte, ciò che restava dei 49 milioni. L’obiettivo di queste newco leghiste, come si legge in una email del tesoriere Giulio Centemero, e come svela Scillieri, era quello di evitare i sequestri di Genova. Un altro filone da approfondire riguarda la figura dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara (non indagato), finito nel mirino per un’operazione di acquisto e vendita con una plusvalenza di circa 24 milioni di euro. Subito dopo l’operazione Carrara chiede un finanziamento da 65 milioni di euro alla Swiss Merchant Corporation, con la mediazione di Di Rubba e Scillieri: per quale motivo, se aveva tutta quella liquidità? Il sospetto della Procura è che i 24 milioni fossero una partita di giro e soprattutto non fossero tutti di Carrara. Insomma, la caccia al tesoro è tutt’altro che finita.

Altro che “verde”: cementifichiamo 2 metri al secondo

Diamo subito i numeri. Nel 2020 il consumo di suolo, a cui ci si può anche riferire parlando volgarmente di cementificazione, è avanzato al ritmo di due metri quadrati al secondo. Almeno 50 chilometri quadrati di aree agricole e naturali, nonostante lo stop del Covid, sono stati sostituiti con cantieri, edifici e infrastrutture. Il tutto con un costo spropositato che negli ultimi anni – si legge nel rapporto curato dal Sistema nazionale per la protezione dell’Ambiente, Ispra e Arpa/Appa – è stimato in oltre 3 miliardi di euro l’anno.

Quasi mai, segnala lo studio, la crescita di superfici artificiali viene compensata dal ripristino delle aree naturali: per 56 chilometri quadrati di cemento ci sono stati solo 5 chilometri quadrati di compensazione. Il trend è crescente, poi, ma inversamente proporzionale all’aumento della popolazione: “Si assiste a una crescita delle superfici artificiali anche in presenza di stabilizzazione, in molti casi di decrescita, dei residenti”. Il suolo consumato pro capite aumenta ogni anno di 1,92 metri quadrati. Per ogni abitante, ci sono in media 359 metri quadrati di terreno coperto. Erano 357 l’anno scorso. “La copertura artificiale del suolo è ormai arrivata al 7,11% (era 7,02 nel 2015, 6,76% nel 2006) rispetto alla media Ue del 4,2%”. Il cambiamento dell’ultimo anno è stato maggiore in determinate regioni: in Lombardia (12,08%), in Veneto (11,87% anche se, qui, con una tendenza al rallentamento), in Campania (10,39%) e nelle pianure del Nord. “Il fenomeno rimane molto intenso lungo le coste siciliane e della Puglia meridionale e nelle aree metropolitane di Roma, Milano, Napoli, Bari, Bologna. Gradi elevati di trasformazione permangono lungo quasi tuttala costa adriatica”, si legge. È impressionante che la maggior densità dei cambiamenti sia stata registrata lungo la fascia costiera entro un chilometro dal mare (teoricamente una fascia a maggior tutela), nelle aree di pianura, nelle città e nelle zone urbane e peri-urbane dei principali poli e dei comuni di cintura. In pratica, “dove i valori immobiliari sono più elevati e a scapito, principalmente, di suoli precedentemente agricoli e a vegetazione erbacea, anche in ambito urbano”. Questi dati, però, sono anche spia di un progressivo spopolamento di alcune regioni e in generale del Paese. Il Molise, per dire, registra i valori più alti in termini di suolo consumato pro capite proprio per la minore densità abitativa: 576 m2/ab, oltre 200 in più rispetto al valore nazionale. Il rapporto della Snpa dà anche uno spaccato della situazione legata ai pannelli fotovoltaici. I dati riportano un totale di 179 ettari rispetto ai 196 ettari rilevati nel 2019, ma al 2030 la prospettiva è che si arrivi a circa 300.

L’impatto economico è rilevante. Entro il 2050 ci sono tre possibili scenari: nel caso peggiore saranno consumati altri 3mila chilometri (pari all’intera superficie della provincia di Oristano), in quello intermedio saranno 1.500 (provincia di Milano), nel migliore saranno 800 chilometri (provincia di Fermo). Se fosse confermata la velocità media 2012-2020 anche nei prossimi 10 anni, il costo in termini di perdita di valore in servizi ecosistemici del suolo, tra il 2012 e il 2030, sarà compreso tra 81,5 e 99,5 miliardi di euro. Metà del Pnrr.

Cantieri, rischi di mani libere sugli appalti e addio alle gare

I tempi non saranno brevi e il testo, per ora, è una cambiale in bianco al governo. Ma una prima lettura della legge delega di riforma del codice degli appalti e l’aria che tira (in Parlamento, per dire, è appena stata approvata la richiesta di commissariare altre opere col “modello Genova”, dopo le 102 già fatte) lascia intuire il rischio: uno “sblocca cantieri” permanente, dopo i provvedimenti che in questi anni hanno picconato il codice appalti del 2016. Il testo, 4 pagine, approvato ai primi di luglio, lunedì è stato bollinato dalla Ragioneria dello Stato e a settembre dovrebbe andare in Parlamento. Nel Piano di ripresa nazionale (Pnrr), il governo si è impegnato a presentarlo entro fine anno e ad approvare i decreti attuativi – con le norme vere e proprie – entro giugno 2022, ma vuole accelerare. La riforma arriva dopo il dl Semplificazioni di maggio, che dà ai progetti del Pnrr fino al 2026 una corsia preferenziale fatta di tempi dimezzati, autocertificazioni in deroga, autorizzazioni veloci (fast track) e silenzio-assenso potenziato nell’idea che la ripresa passi dai cantieri, che qualche forza oscura nella burocrazia frena.

La delega contiene i principi a cui il governo deve ispirarsi per i decreti attuativi: li scriveranno Palazzo Chigi e il ministero delle Infrastrutture di concerto con i ministri coinvolti. È prevista però la curiosa possibilità che ci lavori direttamente il Consiglio di Stato (in base a un decreto fascista del 1924) che di norma esprime un parere: ora invece si chiede al controllore di scrivere le norme anziché controllarle.

Le premesse, come detto, non sono buone. Si chiede “l’introduzione di livelli di regolazione corrispondenti a quelli minimi richiesti dalle direttive Ue” (che, per esempio, non prevedono limiti al subappalto) e di “semplificare la disciplina applicabile ai contratti pubblici sotto la soglia europea”, cioè 5 milioni di euro, dove – dopo gli ultimi “sblocca cantieri” – di fatto l’obbligo di gara è stato sostituito da procedure ristrette o negoziate. Al decreto del governo Draghi sembra anche ispirata la richiesta di “semplificazione delle procedure per la realizzazione di investimenti in tecnologie verdi e digitali”, visto che il provvedimento di maggio riserva a queste opere una corsia speciale per dimezzare tempi e procedure. In generale, è tutto un “semplificare” (la parola compare in otto dei 16 “principi”): dalle norme “in materia di programmazione, localizzazione delle opere e dibattito pubblico”, a quelle “relative alla fase di approvazione dei progetti” con la “ridefinizione e l’eventuale riduzione dei livelli di progettazione, lo snellimento delle procedure di verifica e validazione dei progetti”.

La delega conferma poi che non scompariranno due elementi assai negativi: il criterio del “massimo ribasso” (invece dell’offerta economicamente più vantaggiosa) per affidare gli appalti e “l’appalto integrato” (progettazione ed esecuzione dell’opera, affidate allo stesso soggetto). Il primo in passato aveva trasformato il mercato degli appalti pubblici in una giungla. Ripristinato dal dl Semplificazioni del Conte-2, nella prima versione di quello Draghi veniva di fatto liberalizzato. Dopo le proteste, la norma è stata eliminata per esser trattata nella legge delega, che infatti affida al governo il compito di “tipizzare” i casi in cui vi si può ricorrere. Stessa cosa per l’“appalto integrato”, ispirato alla Legge Obiettivo di Berlusconi – travolta dalle inchieste e definita “criminogena” da Raffaele Cantone – che fa saltare la separazione tra controllore e controllato. Il dl Semplificazioni targato Draghi lo prevede già per una lista di 10 mega opere (tra cui l’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria, che vale 22 miliardi) e gli appalti oltre i 100 milioni, per i quali le procedure vengono accelerate già sulla base del progetto di fattibilità tecnico-economica.

“Così com’è scritta, la riforma è una delega in bianco al governo – spiega Alessandro Genovesi della Fillea Cgil –. Questo è pericoloso, perché non si fissano dei paletti e può succedere di tutto. Per esempio, si chiede al governo di prevedere come ‘facoltà’ o ‘obbligo’ per le stazioni appaltanti una serie di clausole sociali a tutela dei lavoratori. Ma non ci può essere ambiguità. Una vera riforma non si fa così”.

Vale la pena di ricordare che ieri, nel suo rapporto sullo Stato di diritto, la Commissione Ue ha bocciato alcune norme del dl Semplificazioni del governo Conte-2, perché “rischiano di aumentare la corruzione”. Norme prorogate fino al 2026 dal Semplificazioni di Draghi, che è uno “sblocca cantieri” all’ennesima potenza. Ora tocca alla legge delega.

Ddl Zan. Oltre mille emendamenti e rinvio a settembre

Se ne parla a settembre. La legge Zan è ufficialmente su un binario morto: ieri sono intervenuti 35 senatori, nella continuazione della maratona voluta dal centrodestra. Sono stati presentati oltre mille emendamenti. Proposte che chiedono per lo più la modifica degli articoli 1, 4 e 7: libertà di espressione, salva idea e gender nelle scuole. La parte del leone la fa la Lega con 672 emendamenti, ai quali si aggiungono 20 solo dal senatore Roberto Calderoli. Ma a sorpresa anche Italia Viva presenta le sue richieste per modificare il ddl Zan. Sono 4. Letta ha confermato la volontà di non trattare, anche se Salvini ha promesso il ritiro delle richieste di modifica di fronte a una mediazione.

Ma il calendario di Palazzo Madama è chiarissimo: oggi in Senato arriva il dl Sostegni bis, su cui pare scontato la richiesta del voto di fiducia, mentre alle 11.30 la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, farà le sue comunicazioni sul caso delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il resto della giornata di oggi sarà dedicato al dl Sostegni. Domani il Senato sarà inoltre impegnato con il question time, con i ministri Lamorgese, Guerini e Orlando. Prima dell’intervallo estivo, di solito in calendario dopo la prima settimana di agosto, arrivano altri due decreti urgenti a Palazzo Madama. Dal 26 luglio, l’aula sarà impegnata con il dl Recovery (da approvare entro il 30). Poi giovedì 29 nuovo question time. Infine tocca al dl sulla cybersecurity. E lo Zan va in coda.

“Sul Green, Draghi è la restaurazione”

Angelo Bonelli, perché ce l’ha tanto col ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani?

Perché lui, Giancarlo Giorgetti e Luigi Di Maio stanno mettendo in atto una campagna di terrore verso la transizione ecologica parlando di ‘bagno di sangue’ o di ‘Italia che salta in aria’. Ma i lavoratori pagheranno un caro prezzo se le nostre aziende perderanno competitività con quelle europee, cosa che accadrà di sicuro se non si spinge l’acceleratore su questo processo, come gli altri stanno già facendo. Invece qui si ragiona con l’ottica opposta: frenare, rallentare…

Lei, ambientalista da sempre, ex deputato, oggi co-portavoce di Europa Verde, è molto deluso dall’opera del governo Draghi sui temi ambientali. Governo bocciato, dunque?

Non avevamo alcun pregiudizio su Draghi, né su Cingolani. Ma poi bisogna mettere in fila i fatti: si è tornati a parlare di ponte sullo Stretto, si propongono trivelle sostenibili, il mini-nucleare. Poi le poche risorse previste nel Pnrr su ambiente e transizione ecologica. Quel piano, rispetto a quello su clima ed energia dell’Ue (Fit for 55), è già vecchio. Nel discorso d’insediamento, Draghi ha parlato di rivoluzione verde, ma qui siamo in piena restaurazione, strizzando l’occhio a certi Paesi dell’Est negazionisti. Per certi versi, ricorda i governi Berlusconi.

Perché succede, secondo lei?

Il comparto industriale nel nostro Paese sull’ambiente è molto indietro. E mi riferisco a chi produce energia, come Eni, e a chi fa automobili, come Fca. Mi pare che il governo, rallentando sulla transizione, cerchi di accogliere i desiderata di questi asset strategici che anche negli ultimi anni sono rimasti fermi a un modello antiquato. Voglio essere chiaro: l’Italia su questi temi è in ritardo perché la grande industria ha fatto resistenza, aiutata dal sistema politico.

Faccia un paio di esempi.

Non è un mistero che Eni continui a spingere sugli idrocarburi. E pure che Fca non investa sull’elettrico. Mentre l’ad della Volkswagen, in Germania, dice che questa trasformazione sarà un’opportunità. L’Europa ha previsto la fine delle auto diesel e benzina nel 2035. Abbiamo davanti 14 anni per cambiare e attuare misure anche a difesa del lavoro. Ma bisogna muoversi.

E invece?

Nel Pnrr s’investe molto poco sulle centraline elettriche per le auto e sulla mobilità pubblica. Così come sono pochi i soldi contro la dispersione idrica, il versamento di acque reflue in mare e in favore delle energie rinnovabili. Vorrei dare un dato: in Italia lo smog fa 56 mila vittime l’anno e l’89% degli agenti inquinanti nell’atmosfera dipende dalla circolazione delle auto. Tutto questo ci costa 10 miliardi l’anno. Vogliamo continuare così?

Conte apre l’altro fronte: “Il Reddito non si tocca”

Come primo esordio da leader, di fronte ai parlamentari 5 Stelle, Giuseppe Conte sceglie di andare sui grandi classici e di provare a rileggerli a modo suo: “Non siamo manettari”, dice a deputati e senatori, ma non possiamo tollerare “che i processi svaniscano nel nulla”. Ha bisogno di chiarire: “Delle volte – dice – alcuni toni gridati hanno consentito di schiacciare l’immagine del Movimento sul terreno forcaiolo: ma noi siamo capaci di esprimere una solida cultura giuridica”. Spiega le ragioni per cui bisogna restare “responsabili” al governo guidato da Mario Draghi, ma ripete anche quello che lunedì ha detto direttamente al premier: ci sono limiti “che non si possono oltrepassare” per i 5 Stelle.

Eppure, proprio sul fronte più caldo, quello della giustizia, ieri è arrivato l’insperato assist del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho: quando lo hanno sentito parlare in audizione alla Camera, praticamente tra i parlamentari 5 Stelle è partita la ola: “Lesione alla sicurezza del sistema democratico”, ha detto il magistrato e finora una roba così non l’avevano pensata nemmeno loro.

A poche ore dall’arrivo in aula delle nuove norme sul processo penale che rischiano di far saltare la maggioranza, così i 5 Stelle sperano che il durissimo affondo dei magistrati permetta di convincere il premier Draghi e la ministra Cartabia a sedersi di nuovo al tavolo della trattativa. Non proprio una cosa semplicissima se, ieri pomeriggio, uno degli emissari Pd che stanno seguendo la partita ammetteva senza mezzi termini: “Siamo in alto mare”. La mole di emendamenti presentata ieri in commissione, come prevedibile, non aiuta. Ma l’obiettivo del Movimento è quello di fornire anche a Draghi un’arma contro le rinnovate pretese della frangia “garantista”: se Enrico Costa e gli altri – è il senso del ragionamento – cominciano ad alzare il tiro, il premier può sempre dire di aver ceduto solo sua una cosa rispetto alle centinaia di richieste sul tavolo. Di fatto, il cuore della modifica è tutta in due questioni: passare dall’attuale sistema “2+1”, ovvero gli anni necessari a far scattare l’improcedibilità per Appello e Cassazione, al “3+2” e rinviare l’entrata in vigore della nuova legge al 2025. Un tipo di proposta che non dispiace al Pd (anche se vorrebbe limitare l’allungamento dei tempi solo ad alcuni reati), altrettanto consapevole che lo stillicidio di critiche arrivate dalla magistratura non è cosa da potersi permettere. Ma certo non sarà facile convincere Draghi e Cartabia, e non deve essere un caso che ieri Conte abbia voluto aprire un altro fronte – ovvero quello sul Reddito di cittadinanza – rinnovando la richiesta al premier di “prendere una posizione chiara e ferma in merito a un dibattito inquinato”. Ce l’ha in particolare con Matteo Renzi e con Giorgia Meloni, ma l’avvertimento è generale: “Non consentiremo a nessuno di togliere gli ombrelli di protezione ai più deboli in mezzo a un diluvio”.

Non proprio una “carezza” dopo l’incontro di lunedì a Palazzo Chigi, da tutti giudicato proficuo e costruttivo. Ma è chiaro che, anche dal punto di vista della comunicazione, Conte ha bisogno di dare segnali che il Movimento è tornato a incidere nella maggioranza: una necessità, avvertono anche alcuni parlamentari contiani, che va gestita con parsimonia, visto che l’ex premier non ha davvero intenzione di uscire dal governo e che bisognerà trovare il modo di “vendersi bene” qualsiasi mediazione raggiunta.

Arriva la pioggia di emendamenti in commissione: la metà dal M5S

La commissione Giustizia della Camera invasa dai subemendamenti, oltre 1600, alla riforma penale della ministra Marta Cartabia. Ben 916 sono del M5S, diversi riguardano prescrizione-improcedibilità, con ipotesi “massimo-minimo” che puntano a ogni modo a bloccare il via libera alle norme-impunità. Anche il Pd ne presenta un paio, che sono una mezza sponda a M5S. Per i pentastellati i tempi processuali, pena la loro morte, devono essere per l’Appello 3 anni e non 2, per la Cassazione 2, invece che 1, entrata in vigore solo da gennaio 2025. Il conto alla rovescia scatterebbe dalla prima udienza del processo e non dall’ultimo giorno utile per impugnare. Altra ipotesi è l’allargamento dei reati per cui varrebbe sempre la legge Bonafede, che blocca la prescrizione in primo grado: non solo per quelli puniti con l’ergastolo ma anche per mafia, corruzione e altri reati gravi. C’è anche la proposta (minima) che almeno per i processi di corruzione l’Appello non debba durare 2 anni, ma 3 anni in automatico e non a discrezione del giudice, come prevede la Cartabia. Via, infine, la proposta che il Parlamento detti ai procuratori le linee guida sulle indagini prioritarie, devono essere, invece, i procuratori a indicarle al Csm, come prevede la Bonafede. Tornando alla prescrizione, per il Pd o si allarga il numero dei reati per i quali Appello e Cassazione si possono fare in 3 e in 2 anni, oppure si elimina l’elenco dei reati più gravi, lasciando al giudice il potere di deroga in caso di processi complessi. Dopo l’incontro di Conte con Draghi e l’apertura del Pd, persino FI ha un piano di riserva: prescrizione sospesa per 2 anni in primo grado, per 1 anno in Appello e in Cassazione. Se si sforano i tempi, torna a correre, come ipotizzato dalla Commissione Lattanzi.