Pure i giudici di Napoli umiliano la ministra: “Riforma per impuniti”

Doveva essere una delle tante visite nei tribunali per iniziare a toccare con mano lo stato della giustizia in Italia. E invece quello di ieri mattina si è trasformato in un processo alla ministra Marta Cartabia, rea di aver firmato una riforma del processo penale che ha fatto arrabbiare i magistrati. E anche a Napoli dove ieri la ministra ha partecipato a un dibattito con il presidente della Corte di appello Giuseppe De Carolis, il procuratore generale Luigi Riello e il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, Antonio Tafuri.

I due giudici hanno attaccato la ministra per la nuova prescrizione che scatta se il processo non si celebra in 2 anni in Appello e un anno in Cassazione. Un’ipotesi insostenibile per una corte, quella di Napoli, dove la media dei processi di Appello è di oltre quattro anni. E così, nel convegno di ieri mattina la riforma è stata stroncata, con grande imbarazzo della ministra presente al tavolo dei relatori. Il primo è stato il presidente della Corte di appello, Giuseppe De Carolis: “Basta guardare i numeri per capire che molti processi saranno improcedibili – ha detto – nel 2021 abbiamo 57 mila processi pendenti e di fronte ai 235 magistrati in primo grado, nel distretto di Napoli ci sono solo 39 giudici in Corte d’Appello. La sproporzione è evidente”. De Carolis ha anche spiegato che sarà quasi impossibile rispettare i tempi perché i tribunali di primo grado “trasmettono gli atti dopo un anno o due anni dalla sentenza quindi ci restano solo 2, 3, 6 mesi per fare il processo o in alcuni casi sarà già improcedibile”. Risultato: “La stragrande maggioranza dei reati finirà impunita e non è un bel segnale in un territorio colpito dalla criminalità organizzata – ha concluso De Carolis – Le condizioni sono proibitive”.

Poi è intervenuto il procuratore generale Luigi Riello che è stato ancora più duro con la Cartabia che in un’intervista al Corriere aveva detto che se a Milano “ce la fanno” a celebrare i processi in due anni, possono farcela anche a Napoli: “Non è così– ha detto Riello – e non perché i magistrati di Napoli siano scansafatiche, ma perché l’organico è inadeguato”. Riello ha usato una metafora ferroviaria per descrivere come sarà la nuova prescrizione: “Se salgo sul frecciarossa Napoli-Roma può capitare che per un guasto ci si mette due ore e mezzo invece che un’ora ma è comunque meglio arrivare in ritardo che dover scendere nelle campagne di Frosinone quando scatta il tempo: è triste che il modo per risolvere il problema dei processi sia non farli”. Quella dei processi, ha concluso Riello, sarà “una morte annunciata” e una “beffa” per le vittime. In conclusione è intervenuta la ministra, palesemente imbarazzata. Cartabia ha detto che, restando nella metafora, non si può far fermare i frecciarossa ma nemmeno “tornare al calesse” (ovvero ai tempi lunghi). “La giustizia – ha concluso Cartabia – deve funzionare perché è un presidio contro la legge del più forte”. Il rischio, con la nuova norma, è che sia esattamente il contrario.

“L’Europa ci chiede altro: più magistrati e freni agli appelli”

Anche gli imputati mafiosi potranno godere dell’improcedibilità escogitata dalla riforma Cartabia. Lo teme Alessandra Dolci, il procuratore aggiunto di Milano a capo della Direzione distrettuale antimafia.

Rendere “improcedibili” i procedimenti che durano più di 2 anni in Appello e più di 1 in Cassazione è una buona soluzione per rendere più veloci i processi?

Forse sì, in un mondo ideale. Ma nel nostro mondo, questo diventa il modo migliore non per renderli più veloci, ma per mandare al macero migliaia di processi. È una sostanziale amnistia. Per definire un procedimento in Italia ci vogliono in media 1.038 giorni. E ci sono sette distretti di Corte d’appello che sforano questo dato. Anche solo sulla base di questi numeri si capisce che questa riforma non funziona. Per assicurare la ragionevole durata dei processi si dovrebbe aumentare gli organici dei magistrati e del personale giudiziario. Nelle Corti d’appello abbiamo un arretrato in media di due anni, i procedimenti che andrebbero a regime con la nuova disciplina andrebbero in coda a quelli già pendenti. Con quale risultato? L’improcedibilità generalizzata. E poi, che cosa facciamo delle condanne in primo grado, dopo che il giudice d’appello ha dichiarato improcedibile il procedimento perché è scaduto il tempo? Delle carenze d’organico della giustizia italiana, del resto, ha parlato anche il commissario europeo alla Giustizia.

Ma ci ripetono che questa riforma della giustizia la dobbiamo fare perché ce lo chiede l’Europa.

L’Europa non ci chiede questa riforma, ci chiede di fare processi più veloci, abbattendo i tempi, per la giustizia penale, del 25 per cento. Gli interventi potrebbero essere l’aumento degli organici e la riduzione del numero dei processi, anche togliendo l’impossibilità di reformatio in pejus, cioè l’impossibilità di aumentare la pena in Appello. In Francia, le impugnazioni sono solo nel 40 per cento dei processi. Da noi invece quasi tutte le sentenze vengono impugnate, anche quelle di patteggiamento, spesso oggetto di ricorso per Cassazione: un continuo tentativo di prender tempo per allontanare l’esecuzione della condanna.

Questa riforma avrà impatti anche nei procedimenti di criminalità organizzata?

Le Direzioni distrettuali antimafia sono competenti anche per reati come il traffico illecito di rifiuti, spesso organizzato dalle mafie: la riforma potrebbe d’ora in avanti azzerare questi processi. Così pure quelli per reati fiscali, che contestiamo (aggravati dell’agevolazione mafiosa) ai gruppi di criminalità organizzata che in Lombardia hanno vocazione imprenditoriale.

Il Parlamento dovrà dettare le priorità sui reati da perseguire.

È una proposta che presenta evidenti profili d’incostituzionalità. L’azione penale è obbligatoria e il pubblico ministero è indipendente. Ed è chiaro che le priorità sono diverse a Palermo e a Bolzano.

Come ottenere, allora, l’abbreviazione dei tempi del processo?

Questa riforma sembra avere un retropensiero: che i magistrati lavorano poco e dunque bisogna imporre loro dei tempi. Ma le statistiche europee dicono che i magistrati italiani sono tra i più laboriosi. Le strade per ridurre i tempi devono essere diverse da quelle di far scattare prescrizione o improcedibilità: ridurre il numero dei processi con una radicale depenalizzazione dei reati minori, filtri ai ricorsi in appello e in Cassazione, fine del divieto di reformatio in pejus, procedibilità a querela di parte per alcuni reati per i quali oggi si procede d’ufficio. Poi vorrei ricordare che non sento mai parlare delle vittime e delle parti offese. Potrebbe capitare a tutti noi di diventarlo, per esempio con le truffe online che oggi colpiscono migliaia di cittadini che chiedono giustizia. Che fine faranno, domani, i loro processi?

Salvaladri, Gratteri e De Raho: “È più conveniente delinquere”

“Una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”. “Un indebolimento della lotta alle mafie”. “Converrà di più delinquere”. “Il cinquanta per cento dei processi saranno improcedibili”. È cominciata malissimo ieri la giornata per la guardasigilli Marta Cartabia, la cui riforma della giustizia è stata fatta a pezzi dalle audizioni, in commissione alla Camera, del procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e del capo della Procura di Catanzaro Nicola Gratteri. La ministra, dal canto suo, incontrando i capi degli uffici giudiziari della Corte d’appello di Napoli ha cercato di tenere il punto: “Lo status quo non è un’opzione sul tavolo”. E anche in quella sede non è andata un granché bene col procuratore generale Luigi Riello che non si è tirato indietro: “Mi sembrerebbe molto triste dover trarre la conclusione che l’unico modo di fare i processi in questo Paese sia non farli, sia offrire ponti d’oro agli imputati per indurli a scegliere, a suon di sconti, saldi, liquidazioni e riti alternativi”.

A Roma, appunto, nelle stesse ore il dibattito sulla riforma si spostava in commissione Giustizia a Montecitorio. Il primo a sedersi di fronte ai deputati è stato Gratteri, subito pronto a denunciare “un grande allarme sociale che riguarda la sicurezza: il cinquanta per cento dei processi finiranno sotto la scure della improcedibilità. E temo che i sette maxi processi contro la ’ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro saranno dichiarati tutti improcedibili in appello. Uno dei punti qualificanti della riforma Cartabia è, appunto, l’improcedibilità dell’azione penale che prevede l’annullamento della sentenza di condanna eventualmente pronunciata nei gradi precedenti trascorsi due anni e un anno rispettivamente in appello e Cassazione. È una disposizione che avrà come effetto quello di travolgere un enorme numero di sentenze di condanna con tutto ciò che questo comporta”. L’improcedibilità renderebbe quasi impossibili i processi con molti imputati. Il lavoro di anni, per Gratteri, rischia di andare in fumo per colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del governo “dei migliori”, capace di arrivare dove neppure nel Ventennio berlusconiano si era arrivati con le cosiddette riforme della giustizia e i continui attacchi pubblici alla magistratura.

La riforma Cartabia è un vero colpo di mano, infatti, per Gratteri, che ha continuato: “In termini concreti le conseguenze saranno la diminuzione del livello di sicurezza per la nazione, visto che certamente ancor di più conviene delinquere”.

Se le parole di Gratteri bastavano a mandare di traverso il caffè alla guardasigilli e anche al premier Mario Draghi, il carico da novanta è arrivato poco dopo, quando sulla stessa seggiola di Montecitorio si è seduto il procuratore nazionale Antimafia De Raho: “Non è per nulla condivisibile che un procedimento per un delitto di mafia o di terrorismo diventi improcedibile, perché nella fase di appello non si è pervenuti a sentenza nei due anni o non è stato prorogato il termine dal giudice procedente. Il contrasto alle mafie ne uscirebbe fortemente indebolito. L’esigenza della ragionevole durata del processo richiede il superamento degli ostacoli che impediscono alla macchina della giustizia di muoversi velocemente, rendendo la giustizia più efficiente e consentendole di celebrare i processi in tempi rapidi, coprendo o aumentando gli organici dei magistrati e fornendo di assistenza necessaria l’attività giudiziaria. La durata dei gradi di giudizio – ha concluso De Raho con un’ultima sberla al governo – non può rendere improcedibili i delitti di mafia, di terrorismo e di corruzione, rappresentando essi una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”.

I veri anti-italiani/4

Mentre attendiamo le scuse dei finti patrioti che una settimana fa ci insultavano per i nostri titoli sulle “Notti magiche inseguendo il Covid” e sulla “Trattativa Stato-Bonucci”, mentre l’assessore laziale alla Sanità attribuisce all’“effetto Gravina” il boom di nuovi contagiati e ricoveri in ospedale per i folli festeggiamenti legittimati da SuperMario (“Con quella Coppa possono fare ciò che vogliono”), concludiamo il racconto del Consiglio Europeo di un anno fa, quando Conte portava a casa 209 miliardi e i veri anti-italiani rosicavano di brutto. Vedi mai che qualcuno capisca la differenza tra tifare contro il proprio Paese e mantenere la lucidità (e la salute) dinanzi a undici tizi in mutande (più riserve).

Il 22 luglio 2020, al suo ritorno dalla battaglia vinta a Bruxelles, Conte viene elogiato persino da B. (“Accordo buono”), Meloni (“Abbiamo tifato Italia, poteva andare meglio, ma Conte è uscito in piedi”) e financo Renzi (“Conte in Europa ha lavorato bene”). Solo Salvini non ce la fa proprio (“È una superfregatura grossa come una casa, una resa senza condizioni alle scelte della Commissione”). Mattarella riceve il premier al Quirinale e si congratula, così come la stampa e le cancellerie estere. Ma i giornali italiani sono un mondo a parte: confondono gli sporchi interessi dei loro padroni con la realtà e non permettono ai fatti di disturbare i loro pregiudizi. Trovare il nome del premier su una prima pagina è un’impresa disperata, per esperti di nanoparticelle armati di microscopio elettronico.

Sambuca Molinari, su Repubblica, in evidente imbarazzo dopo le centurie alla Nostradamus dei giorni precedenti (“Sul ring europeo con le mani legate”, “Ue, l’Italia all’angolo”), scrive come se Conte a Bruxelles non fosse neppure presente: “Dopo 5 giorni di maratona negoziale (che poi sono 4, ndr) la battaglia di Bruxelles… si è conclusa con un successo del fronte franco-tedesco… La maratona mozzafiato… ha visto Francia e Germania determinate… contro i Paesi ‘frugali’… e sovranisti”. L’Italia non c’era. Sempre su Rep, Stefano Folli è nero di lutto e verde di bile: quella pippa di Conte “ha ottenuto solo in parte quello che ha chiesto (36,5 miliardi in più del previsto, ndr), ma vanterà in ogni caso una vittoria”. Roba da matti. Ma c’è ancora speranza che cada: “C’è una precisa discriminante ed è il Mes… Conte spera ancora di farne a meno, ma è difficile”. Infatti non prenderà il Mes né Conte né Draghi. Segue straziante appello a chi di dovere per “evitare che sia Conte a gestire in solitudine o quasi la leva di potere creata dal Recovery”.

Anche Massimo Franco, sul Corriere, è affranto per l’esultanza di Conte e del governo.

Quindi devono “evitare la tentazione più insidiosa: il trionfalismo”, perché sì, Conte ha “confermato le sue doti di negoziatore” e “ha scelto le sponde continentali giuste nella penombra dei consigli del Quirinale” (senza Mattarella, si sarebbe alleato ai frugali), ma “senza l’appoggio tedesco e francese, il risultato sarebbe stato ben diverso”. In effetti, se la partita l’avesse giocata Rutte da solo, avrebbe vinto l’Olanda. Ora Conte si guardi dal “rischio concreto” dell’“ideologia grillina” contro il Mes (sempre sia lodato). I noti economisti di Libero non riescono a riaversi: “Festeggiano Conte perché ci indebita” (Senaldi), “Occhio alla fregatura. Non illudetevi, alla fine pagheremo noi” (Feltri), “Conte lecca Berlusconi e teme l’ira popolare quando emergeranno le bugie sul Recovery” (Farina). C’è pure Facci, inconsolabile, che si sfoga come può ripescando dalla preistoria un incidente stradale del 1981: “Grillo, la vera storia dell’incidente mortale”. Apperò. Alla Verità sono sull’orlo del suicidio: “L’Ue ci presta i soldi (nostri) ma solo dall’anno prossimo” (Belpietro), “Da dove viene quel denaro? Guardate nei salvadanai” (Veneziani). Sul Giornale, l’autorevole Minzolingua rivela: “Il governo rischia il crac sui fondi Ue” perché “è il governo delle marchette” (bei tempi quelli delle nipoti di Mubarak, delle igieniste dentali e delle marchette a spese della Rai).

Per trovare un po’ di obiettività bisogna andare all’estero. Il 23 luglio Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, in un lungo articolo sul New York Times porta il governo Conte a modello per gli Usa: “Perché l’America di Trump non può essere come l’Italia?”. “Dopo una terribile partenza, l’Italia si è mossa rapidamente per fare ciò che era necessario contro il Covid. Ha imposto restrizioni molto severe e vi si è attenuta. Gli aiuti del governo hanno sostenuto i lavoratori e le imprese… In un caso estremo di ‘non trumpismo’, il primo ministro si è persino scusato per i ritardi negli aiuti. E soprattutto l’Italia ha schiacciato la curva: ha mantenuto il blocco finché i casi sono diventati relativamente pochi ed è stata cauta riguardo alla riapertura… L’America avrebbe potuto seguire la stessa strada, ma Trump ha spinto per una rapida riapertura, ignorando gli epidemiologi… Oggi gli americani possono solo invidiare il successo dell’Italia… Che viene spesso definita ‘il malato d’Europa’. Ma, se è così, noi cosa siamo allora?”. Il 26 luglio, mentre Cassese sul Corriere paragona Conte a Orbán, El País lo elogia come l’ex “sconosciuto e sottovalutato”, il “figlio dell’emergenza” divenuto “protagonista dell’Europa”. Ma quelli, non essendo italiani, sono giornali veri.

(4 – fine)

A tutta birra: anche i cani hanno diritto a una bionda

Dopo averli accolti nelle nostre case, aver fatto spazio sotto le coperte, aver assicurato un posto in spiaggia, uno in treno, un altro in aereo, dopo aver dedicato loro scaffali e scaffali di prodotti nei supermercati e aver ideato passerelle, concorsi e percorsi benessere, perché non pensare a un aperitivo con i nostri amati amici a quattro zampe dinanzi a una sana e fresca birra? La scorsa estate la Busch Dog Brew, la birra per cani lanciata sul web, aveva fatto subito sold out, sebbene non mancassero gli scettici che l’avevano bollata come l’ennesima “americanata” . Una bionda per gli amici pelosi nel frattempo l’avevano già adottata in Inghilterra e nel nord Europa. La crisi innescata dalla pandemia non ha fermato l’estro creativo del made in Italy. Da una settimana è in vendita la prima birra per cani nostrana, 100% italiana.

La ricetta è stata inventata dall’azienda di Ponzano Veneto in provincia di Treviso Da Pian 1904 e prodotta dalla società marchigiana Fidovet. Si chiama Pawse, un gioco di parole in inglese che richiama sia il concetto di “zampa” (paw) che quello di “pausa” (pause). I primi ad assaggiare la nuova bevanda sono stati gli amici pelosi dell’azienda veneta. “Abbiamo trascorso quattordici mesi infernali e ho pensato a qualcosa che potesse aiutare i nostri clienti a fare la differenza. I cani fanno sempre più parte della vita degli italiani – spiega l’ad Raffaella Da Pian – pensiamo al loro benessere e alla possibilità di condividere con loro momenti ed esperienze. Anche una pausa per un aperitivo al pub”. Al momento la bevanda – ovviamente analcolica – è stata distribuita nel circuito dei locali e in spiaggia a Fano. A breve partirà anche l’e-commerce. Il prodotto contiene miele millefiori, acqua pastorizzata a 100°, un pizzico di sale e fruttosio. “Gli abbiamo dato un colore ambrato con il colorante per alimenti che usiamo per fare i cocktail – racconta l’imprenditrice – il nostro è un concetto di drink da aperitivo per cani. È una bevanda vitaminica, proteinica, antiossidante, senza additivi chimici e con materie prime di altissima qualità”. Viene venduta in lattine da 33 centilitri, riciclabili al 100%. Ora che la maggior parte dei locali sono dog-friendly non resta che rilassarsi con i nostri fedeli amici e brindare. Senza correre il rischio di portarli a casa sbronzi.

La volata del minatore. Walkowiak in maglia gialla

Un’estate del 1956, precisamente luglio. Un sanatorio nei pressi di un lago di montagna. Una stanza con tre letti. Un ragazzo con indosso un pigiama troppo largo sulle gambe magre che sembra assopito sulla branda smaltata di bianco. Una finestra socchiusa nel calore pomeridiano. Una radiolina transistor modello Classic, quadrante giallo, lancetta rossa sui numeri neri dall’87 al 106. Come un pacchetto di sigarette si può nascondere nella federa del cuscino, perché fumare è proibito ma contravvenire alle regole della direzione sanitaria è sconsigliato. Nulla deve disturbare gli altri ospiti: “assolutamente”, è sottolineato sul Regolamento affisso dietro la porta che sfiorato dall’aria di un ventilatore leggermente vibra. Per cortesia nessun rumore, gentili ospiti, neppure il fruscio metallico di antenne sconosciute.

Alle diciotto, collegamento per la radiocronaca del Tour de France, settima tappa, ma la voce dell’inviato (che, avverte, sta trasmettendo da una cabriolet scoperta) sale di tono come per un evento eccitante, imprevedibile. Trentuno corridori sono andati in fuga tra Lorient e Angers, fatto abbastanza normale nelle tappe di trasferimento se non fosse che gli avventurosi stanno accumulando sul gruppo un vantaggio che cresce, cresce. Una vita dopo quell’adolescente ricostruirà gli eventi della giornata.

Nell’edizione del ’56 la maglia gialla è orfana del vincitore delle tre edizioni precedenti, il grande Louison Bobet. Sono anche assenti il giovanissimo Jacques Anquetil, Fausto Coppi, Gino Bartali e gli svizzeri terribili, Hugo Koblet e Ferdi Kubler. Non mancano però le grandi firme: il lussemburghese Charly Gaul e lo spagnolo Federico Bahamontes, scalatori implacabili. La Francia ha Raphael Géminiani, c’è anche il belga campione del mondo Stan Ockers. La radiocronaca è disturbata da scariche e salti di sintonia ma il giovane paziente coglie un nome che non ha mai sentito pronunciare prima: Walkowiak, Roger Walkowiak. Strano, il Calcio e il Ciclismo illustrato che ogni tanto sfoglia nella sala della colazione non lo menziona tra i favoriti. Viene indicato come francese ma si direbbe di origine polacca, forse figlio di un minatore o forse un tempo minatore egli stesso.

“Ora il vantaggio dei fuggitivi tocca i dieci minuti ma la carovana con la maglia gialla ancora non reagisce”: la voce va e viene ma lascia impronte indelebili nell’immaginazione del ragazzo. Il cuore batte forte, la fuga prosegue, potrebbe riuscire, eppure i migliori lasciano fare, magari pensano nessun problema, sono tutte maglie sconosciute, gregari senza gloria, li riprendiamo quando vogliamo, domani i giornali li citeranno in un capoverso.

Quando ancora poteva farlo, inforcava la bicicletta Legnano con le gomme grigie e bianche e il manubrio da passeggio, appartenuta a uno zio sconosciuto. Quando ancora poteva, fantasticava una fuga straordinaria e il viale alberato vicino casa era il velodromo nel quale faceva il suo ingresso solitario spingendo un rapporto da stracciare i polpacci mentre il boato cattivo del pubblico spingeva il gruppo perché lo agguantasse sul filo del traguardo, o forse no. In un secondo era qualcuno e un secondo dopo poteva ritornare niente: questa è la regola. La conoscono bene Roger Walkowiak e gli altri trenta che spingono allo spasimo per non ritrovarsi delle maglie qualsiasi, portatori di borracce, numeri perduti negli scantinati della classifica, in ritardo di ore, di anni sulla vita. Manca poco ad Angers, freme il transistor ed è come se lui lo vedesse il figlio del minatore polacco che chilometro dopo chilometro scava nella roccia la rivincita sua e della sua gente. Il vantaggio sulla carovana adesso supera i diciotto minuti, un record sensazionale grida incredula la voce, forza perché oltre l’ultima curva c’è il rettilineo, la folla dietro le transenne che agita le mani, i flash dei giornali, il bacio della miss e forse anche la maglia gialla.

Il ragazzo non si accorse dell’infermiera, però lei si era accorta di lui e un attimo prima che il sogno tagliasse il traguardo sfilò dalla federa del cuscino la radiolina con il quadrante giallo. Senza una parola la spense e la fece sparire in una tasca della divisa bianca dai bordi celesti.

Un giorno di febbraio del 2017 sfogliando un giornale l’ex ragazzo, che la sorte aveva agguantato troppo presto, vide questo titolo: “Ciclismo, morto Walkowiak: era la maglia gialla più antica”. Lesse che in quella calda giornata di sessantuno anni prima il figlio del minatore polacco, e altre trenta maglie senza gloria, avevano surclassato gli inseguitori con 18 minuti e 46 secondi di vantaggio. Lo “sconosciuto Carneade” ebbe in dono la fama, la prosperità, il bacio della miss e la maglia gialla (scalzando una celebrità come André Darrigade). Dopo altre mirabolanti avventure sui tornanti delle Alpi, e rialzatosi da una rovinosa caduta, il 28 luglio 1956 il figlio del minatore polacco potrà brindare a caviale e champagne sotto l’Arco di Trionfo. L’ex ragazzo pensò che almeno la sua fuga era riuscita.

“Senza arte, saremmo freddi come i riassunti”

Anticipiamo uno stralcio della lectio di Amity Gaige al festival Letterature di Roma.

Vorrei cominciare con una poesia: “L’arte di perdere non è difficile padroneggiarla;/ sono così tante le cose colme dell’intento/ di andare perdute che la loro perdita non è una catastrofe./ Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta l’inquietudine…”. Questa è Un’arte, una poesia della grande Elizabeth Bishop. Ho sempre amato questa poesia, e ho sempre sentito la verità contenuta in questi versi. Per quanto sicura o stabile possa essere la nostra vita, la perdita vi si insinua. Non possiamo evitare di perdere, ma possiamo senz’altro trasformarlo in una forma d’arte.

Nell’anno appena trascorso le perdite sono state davvero molte. Certo non devo dirlo a voi. Vi abbiamo visto affrontare per primi l’esperienza della perdita, quando cantavate dai balconi. Due mesi dopo, da noi, in America, suonavamo le campane in ogni quartiere alle sette del mattino. Nel mondo, oltre quattro milioni di vite sono state perdute. Noi che siamo sopravvissuti abbiamo dovuto affrontare altre perdite ancora: lavori persi, scuole chiuse, matrimoni cancellati, funerali annullati. Tutti noi abbiamo dovuto padroneggiare “l’arte di perdere”.

A mio modo di vedere, siamo agli inizi di un’epoca spirituale di grande rilievo. Questo è il momento in cui dobbiamo dare un nome alle nostre perdite. Dobbiamo passarle in rassegna allo scopo di comprendere quali siano state quelle importanti, e quali invece delle false perdite: la perdita di cose di cui non avevamo più bisogno…

La persona che parla nella poesia Un’arte ha perso un orologio. Niente di grave. Certo, era l’orologio di sua madre. Sappiamo che la madre di Elizabeth venne trasferita in un ospedale psichiatrico quando la Bishop aveva solo 5 anni. Per cui, forse, nella poesia, l’orologio in effetti non rappresenta una piccola perdita, e nemmeno una falsa perdita. Forse quello era l’unico oggetto che la collegasse alla madre. Tuttavia anche questa fu una perdita che riuscì a “padroneggiare”.

Mentre diamo un nome alle nostre perdite, scopriamo anche alcune conquiste. Ci sono degli aspetti della vita emersi durante la pandemia che non vogliamo assolutamente abbandonare. Molte persone, per esempio, non sentono affatto la mancanza delle feste dell’ufficio. Molte persone non sentono la mancanza dei parenti acquisiti. Gli introversi erano molto felici durante la pandemia. Adesso tutti gli introversi sono tristi. Per me una perdita da festeggiare è quella delle risposte educate alla domanda: “Come stai?”. Di solito, quando chiedi a qualcuno come sta, ti risponde senza nemmeno pensarci su. Dice: “Sto bene. Benone. Alla grande”. Oppure usa l’espressione americana che forse amo di meno: “È tutto a posto”. Alcuni dicono “È tutto a posto” indipendentemente dalle circostanze. Dici: “Vedo che sanguini dagli occhi e hai la testa in fiamme”. E ti rispondono: “È tutto a posto!”… Il problema con questa pretesa che le cose siano “a posto” o che tutto sia “sotto controllo” non sta tanto nel fatto che tali affermazioni siano false quanto piuttosto che vengano utilizzate per deviare, o evitare, la riflessione. Servono a erigere un momentaneo muro di insensibilità.

Viviamo costantemente immersi in uno stato emotivo, eppure molta gente ha paura delle emozioni, soprattutto quelle negative: dolore, invidia, rabbia, impotenza. Tali emozioni danno l’impressione di vivere una “catastrofe”. Ed è qui che entra in gioco la letteratura. In che modo la narrativa ci può aiutare? Ci può aiutare perché non ha mai preteso di dire che “è tutto a posto” o che “va tutto bene”. L’arte sostiene che le nostre emozioni siano la parte migliore di noi, e che persino le emozioni negative ci siano maestre. Non puoi essere uno scrittore se hai paura delle catastrofi. La catastrofe, l’ingiustizia, la sofferenza: questo è la moneta di uno scrittore. Né più né meno che la gioia. Solo che, ovviamente, nessuno ha paura della gioia, per cui non ho alcun bisogno di provare a persuadervi della necessità di sentirla. Gli artisti tendono ad accettare la loro vulnerabilità. Non è che amino le emozioni negative, però le accettano. Vedono l’arte che è nella perdita.

Cosa trasforma la sofferenza in luce? Il fatto di raccontarla. In questo modo la sofferenza produce la filosofia. La sofferenza produce il canto. La sofferenza produce il jazz. Fu la sofferenza a scrivere Amatissima, e Ariel, e Se questo è un uomo, e l’Amleto, e Paradiso Perduto. La sofferenza produsse persino l’umorismo nel Don Chisciotte.

La letteratura ha a che fare con gli abissi invisibili che si aprono nelle nostre esistenze, con lo smarrimento, le difficoltà e i drammi della vita vissuta. La letteratura ci rende giustizia. Mostra la nostra profondità. Descrive la vera, nascosta intensità della vita quotidiana. Senza l’arte, saremmo piatti come delle fotografie. Senza l’arte, saremmo freddi come dei riassunti.

 

Montanelli: un secolo di Storia e storie vissuto controcorrente

Il Duce. Il 5 luglio 1934 Benito Mussolini riceve a Palazzo Venezia la redazione de “L’Universale”, diretto da Berto Ricci, a cui il giovane Montanelli collabora (un anno dopo farà chiudere la rivista). “Fu la prima volta che incontrai Mussolini di persona. Uomo di grande fascino, carismatico. Parlò a lungo, facendoci capire che dovevamo a lui se la censura non aveva preso provvedimenti più drastici … Poi si rivolse a me con un elogio per un mio articolo antirazzista: ‘Avete la mia approvazione: il razzismo è roba da biondi!’ (cioè da tedeschi, nda)”. Mancano 4 anni alle leggi razziali.

Longanesi e il bordello. Nel 1937 Leo Longanesi fonda “Omnibus”, il primo rotocalco italiano. Montanelli, che dopo l’avventura in Etiopia è ormai un a-fascista disilluso e frondista, è con lui. Il giornale subisce continue censure e sequestri dal Minculpop.

“Il Duce mandò a chiamare Longanesi, Maccari e me. Aveva saputo, dai soliti bene informati, che ci ritrovavamo con qualche collega di Omnibus in un noto bordello di Roma, ‘il Grottino’, per sparlare di lui, del regime e dei suoi gerarchi in santa pace, lontano (così credevamo) da orecchi indiscreti… Nella sala del Mappamondo, Mussolini stava arringando una delegazione di architetti di regime, molleggiandosi sugli stivali. Sproloquiò sui destini imperiali dell’Urbe per una mezz’ora, senza degnarci di uno sguardo e lasciandoci lì in attesa in un angolo. Poi, quando pensavamo di avere sbagliato data e ora, alzò la voce all’improvviso: “Purtroppo”, scandì, “nella capitale dell’Impero romano restano in piedi catapecchie malsane e fatiscenti, che vanno smantellate al più presto. Come quell’edificio non proprio storico, detto Grottino…”. E si rivolse verso di noi e senza aggiungere una parola ci indirizzò un gesto molto eloquente, sporgendosi leggermente di lato e spingendo il gomito destro all’infuori, in una piccola rotazione: come per dire: tiè, sistemàti. L’udienza era finita lì: tutta la messinscena era organizzata in funzione del gestaccio finale. Il Grottino fu poi abbattuto solo per fare dispetto a noi. Ma la tenutaria, avvertita per tempo da noi, era riuscita a venderlo e a trasferire il locale altrove. Dove continuammo a corbellare il regime. In questo episodio c’è molto di Mussolini, che era fondamentalmente un gran dispettoso”.

L’arresto e la condanna. Il 5 febbraio 1944 Montanelli viene arrestato dai nazisti sul lago d’Orta, dove sta per incontrare un emissario del comandante partigiano Beltrami per unirsi alla Resistenza. E viene rinchiuso, con la moglie Maggie, nei sotterranei della caserma di Gallarate. Via via tutti i vicini di cella vengono fucilati. Il 20 febbraio viene processato dalla Corte marziale: “Mi condannarono a morte e subito dopo mi porsero il modulo da compilare per la domanda di grazia. Io rifiutai e sbottai, esasperato: ‘Basta con questa buffonata, fucilatemi e fatela finita’. Invece passò molto tempo… Rimasi altri tre mesi isolato nei sotterranei, in una cella umida, senz’alcun contatto col mondo esterno. Neanche un libro o un giornale da leggere, nemmeno un foglio per scrivere. Con i vicini di cella si poteva parlare solo a colpi di nocche sulle pareti e le inferriate, con l’alfabeto morse. Finché, l’uno dopo l’altro, all’alba, venivano portati via per la fucilazione”.

Il 9 maggio viene svegliato all’alba: pensa che sia giunta la sua ora, invece lo traducono a San Vittore. A luglio la madre Maddalena contatta Luca Osteria, ex agente dell’Ovra che fa il doppio gioco tra Salò, gli Alleati e il Cln. E riesce a farlo evadere quattro ore prima della fucilazione, poi lo fa accompagnare alla frontiera svizzera.

Ottone chiagne e fotte. Nel 1973, in dissenso con la linea del Corriere, diretto da Piero Ottone dopo la cacciata di Giovanni Spadolini da parte della famiglia Crespi (per volere della “Zarina” Giulia Maria), Montanelli viene licenziato dopo 40 anni di onorato servizio. Ottone, dopo avergli annunciato in lacrime il licenziamento per ordine della Crespi, rifiuta di pubblicare la sua lettera di commiato ai lettori, in cui Montanelli lo scusa, definendolo “latore senza colpa di un pronunciamento padronale”. Indro racconta la scena in una lettera a Spadolini: “La sera del 16 ottobre Ottone mi telefona per dirmi che ha bisogno di parlarmi e che verrà all’indomani alle nove e mezzo a casa mia. Naturalmente, ho già capito di che si tratta. L’indomani viene e, mentre lo precedo in salotto, sento alle spalle un singhiozzo. Quando mi volto, è già sprofondato in una poltrona, e col viso inondato di lacrime (vere!) mi dice: ‘Se avessi saputo di dover affrontare un giorno come questo, non avrei accettato la direzione del Corriere: è il giorno più amaro della mia vita’. Mi spiega che il Consiglio d’amministrazione ha dichiarato “incompatibile” la mia presenza al Corriere… e che mi si chiedono le dimissioni. Rispondo che ci penserò, e infatti ci penso, ma poi decido di darle per motivi di dignità… La sera mi chiama Ottone. Dice che non può pubblicare la mia lettera e che verrà a parlarmene. L’indomani… mi dice che la mia allusione al ‘pronunciamento padronale’ non è riproducibile. Dico: ‘O non mi hai detto che a cacciarmi è stato il Consiglio d’amministrazione, che è l’organo dei padroni?’. ‘Sì, ma dopo aver sentito il mio parere’. ‘Ah, ma questo ieri non me l’avevi detto’. ‘Lo consideravo implicito’. ‘Ma allora, scusa, perché piangevi?’. Non risponde. Gli dico: ‘Vattene’. E non lo accompagno alla porta”. Subito lo chiama Gianni Agnelli per offrirgli un contratto a La Stampa di Arrigo Levi. “C’è stato al telefono un diverbio fra Ottone e Levi. Ottone ha detto che la mia assunzione è un atto sleale. Levi ha risposto: ‘Non ve l’ho portato via. Siete voi che lo avete buttato sul lastrico. Dovevo lasciarcelo un giornalista come Montanelli?’. Mi vorrebbero ramingo coi campanelli come i lebbrosi del Medio Evo. Ecco i fatti, caro Giovanni, come si sono realmente svolti. Non mi hanno affatto turbato”.

L’attentato. Il 2 giugno 1977 Montanelli, che da tre anni ha fondato il Giornale, viene gambizzato da un commando delle Br, all’indomani di un altro attentato contro il vicedirettore del Secolo XIX Vittorio Bruno. Il Corriere di Ottone e La Stampa di Levi omettono il suo nome nei titoli in prima pagina (“I giornalisti nuovo bersaglio della violenza”, “Attentati delle Brigate rosse a direttori di due giornali”). Dai suoi diari. “3 giugno 1977. Anche l’Unità

esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica

, ma Scalfari… sostiene la strana tesi che l’attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare. Ma la cappella più grossa la fa il Corriere

che titola su cinque colonne sul centro pagina: ‘Attentati contro giornalisti’, mettendo il mio nome solo nel sommario… Continua l’alluvione dei telegrammi e la processione delle visite. I personaggi ufficiali non m’interessano, m’interessano gli anonimi. È dalle loro facce e parole che misuro l’affetto, il rispetto, la stima da cui sono circondato’. ‘La notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi – quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti – si è brindato all’attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici… A un certo punto arriva Ottone… Per fare fronte alla sua ipocrisia, chiamo a raccolta la mia, e lo accolgo cordialmente, ma fingendo di non accorgermi che vorrebbe abbracciarmi (questo è troppo)… Più tardi sopraggiunge Levi che, dopo consulto con Ottone, aveva a sua volta evitato, nel titolo, il mio nome… Ma da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano!’.

Un loculo nel mausoleo. Verso la fine degli anni 80 Berlusconi, azionista di maggioranza del Giornale, invita Indro ad Arcore e lo porta in visita guidata al mausoleo funerario che si è appena fatto costruire nel parco di Villa San Martino dallo scultore Pietro Cascella: un sacrario in granito bianco sobriamente ispirato alla tomba di Tutankhamon, in uno stile che qualcuno definirà ‘assiro-milanese’… Alla fine del giro, quando ormai Indro trattiene a stento le lacrime, l’amico Silvio gli fa una proposta indecente. “Mi mostrava tutti quei loculi intorno al suo sarcofago da faraone e mi diceva: ‘Indro, vedi, questo è il cerchio dell’amicizia. Lì andrà Confalonieri, lì Dell’Utri…’. Poi, a tradimento, mi indicò un loculo vuoto: ‘Ecco, lì sarei veramente onorato se tu volessi…’. Aveva l’aria ammiccante, come se stesse facendomi l’onore più grande della vita. Io, appellandomi a tutti gli scongiuri che mi vennero in mente, ammutolii. Poi mi venne di rispondere: ‘Domine, non sum dignus!’. E me la diedi a gambe”.

Battute Controcorrente. “In chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti con il prete” (replica di Andreotti: “Sì, ma a me il prete rispondeva”).

“Dell’ex ministro Spadolini hanno detto e scritto che è ‘troppo innamorato di se stesso’. Diciamo la verità: tutti siamo innamorati di noi stessi. Ciò che caratterizza Spadolini è che, a differenza di noi e di tanti altri, lui si corrisponde”.

“Inquisito dai magistrati di Foggia per una storia di tangenti, l’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino ha detto: ‘Se dovesse essere provata una mia seppur minima colpevolezza, abbandonerei la politica’. Stiamo col fiato sospeso: coi tanti guai che abbiamo, ci mancherebbe anche quello della sua innocenza”.

“’Caro direttore, le rubo un po’ di spazio’, ha scritto Craxi all’Avanti!

. Incorreggibile Bettino: perfino al giornale del suo partito”.

Dalla Voce al Corriere. Nel gennaio ‘94 Berlusconi annuncia la “discesa in campo” e Montanelli rifiuta di trasformare il Giornale in quello che diventerà con Feltri&C.: l’house organ di Forza Italia. E lo abbandona vent’anni dopo averlo fondato, creando la Voce. Che durerà 13 mesi. Poi torna al Corriere. Nel ‘97 accetta di rivedere il Cavaliere, impegnato nell’inciucio della Bicamerale: “Gli ho chiesto quale salvacondotto gli abbia promesso D’Alema in cambio della sua adesione alla Bicamerale e della sua finta opposizione e se, quando l’otterrà, lascerà la politica. Sai cosa mi ha risposto? ‘Indro, sono disperato: ho scoperto che le toghe rosse non obbediscono nemmeno a D’Alema’. E lì ho capito l’essenza del suo dramma: la politica non la abbandonerà mai”.

Il paese dei manganelli. Nel 2001 Montanelli spende i suoi ultimi mesi di vita a mettere in guardia gli italiani, sul Corriere e in tv, contro il ritorno del Cavaliere e il suo futuro “regime”: “Questa non è la destra, è il manganello: gli italiani non sanno andare a destra senza cadere nel manganello”. In cambio, riceve insulti dalle tv e dai giornali berlusconiani e chiamate anonime di insulti e minacce sul telefono di casa. Per questo deve cancellare le iniziali I.M. dal citofono della sua abitazione in viale Piave. Lo racconta a Repubblica: “La cosa più impressionante sono state le telefonate anonime. Ne sono arrivate cinque, una dopo l’altra, tre delle quali di donne. Non so chi avesse dato loro il mio numero, assolutamente introvabile… Questa è la peggiore delle Italie che io ho mai visto… La volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l’avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo… Io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt’al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile… Io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità che si ottiene col vaccino”.

Cyberattacchi, Londra con Usa e Europa contro la Cina

Londra

Potenze occidentali unite contro la Cina. L’iniziativa è della Casa Bianca, che ieri ha accusato formalmente il governo cinese di essersi alleato con una serie di gruppi criminali per condurre attacchi online contro obiettivi occidentali, incluso l’accesso ad almeno 250 mila server di Microsoft Exchange a marzo scorso che ha messo a rischio email e dati di circa 30 mila organizzazioni pubbliche e private in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento di Giustizia Usa ha accusato formalmente quattro persone, di nazionalità cinese e affiliate al ministero della sicurezza, di aver condotto una ulteriore campagna per penetrare i sistemi informatici di società private, università e organizzazioni governative negli Usa e all’estero fra il 2011 e il 2018. Attacchi condotti con la dinamica del ransomware, cioè la richiesta di milioni di dollari di riscatto per riavere indietro le informazioni rubate o evitare la divulgazione di dati sensibili. Alla condanna dell’amministrazione Usa, con una risposta coordinata, si è unita una coalizione di paesi tradizionalmente alleati degli Usa: Unione europea, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Giappone, Nato e Regno Unito. Come nota il Financial Times, Londra finora “è stata più reticente degli Usa nel denunciare attività ostili di matrice cinese”. Secondo il quotidiano, “funzionari britannici hanno protestato in privato per gli ultimi tre anni con Pechino per la crescente aggressività degli attacchi informatici cinesi”. Proteste inutili. Solo ieri per la prima volta Londra ha messo ufficialmente in relazione due organizzazioni di cybercriminali cinesi con il ministero per la Sicurezza della potenza asiatica, e questo al livello diplomatico più alto, con il ministro degli Esteri Raab che ha definito l’attacco a Microsoft Exchange “un comportamento sprezzante ma ormai ben noto” e ha chiesto a Pechino di “porre fine a questo sistematico sabotaggio informatico” se non vuole pagarne le conseguenze. Ma per ora non si parla di sanzioni, né in Europa né negli Usa. L’obiettivo dell’iniziativa sembra piuttosto quello di esercitare una pressione diplomatica congiunta tale da indurre Pechino a smantellare quei gruppi criminali. Da notare che l’Ue, pur aderendo alla coalizione, nel suo comunicato ufficiale non è arrivata ad accusare il governo cinese di essere dietro gli attacchi ma si è limitata a lanciare un appello “perché Pechino non consenta che il suo territorio venga utilizzato per attività informatiche criminali”.

Addio Pinochet-Allende. Due giovani per il nuovo Cile

La rivoluzione cilena non finisce mai. Dopo il sì al referendum sulla nuova Costituzione che spazza via quella del dittatore Augusto Pinochet, l’elezione di indipendenti come rappresentanti dell’Assemblea costituente, domenica alle urne delle primarie si è consumata l’ultima svolta: a contendersi la presidenza alle urne di novembre sia a destra che a sinistra saranno due giovani leve. A vincere per la coalizione di Frente Amplio il deputato Gabriel Boric, 35 anni, su Daniel Jaude, sindaco comunista con il 60,43% dei voti contro il 39,5% e per il partito al governo, l’avvocato indipendente Sebastián Sichel, 43 anni, unico dei quattro candidati in grado di battere l’economista della Udi Joaquín Lavín con il 49,08% delle preferenze contro il 31,31%.

Un ricambio generazionale non da poco se si pensa che nessuno nato dopo il colpo di Stato contro Salvador Allende del 1973 ha mai ricoperto un ruolo così importante nella Storia del Cile prima d’ora. A stupire è stata anche la partecipazione alle primarie che ha toccato il 21% dell’elettorato in un Paese in cui, almeno fino al referendum costituzionale, l’astensione è sempre stata endemica. Segno che il nuovo corso a cui hanno dato vita le proteste del 2019 sfociate poi nella richiesta di una nuova Carta per il Cile, non è destinato a interrompersi, almeno non prima del 21 novembre, data stabilita per le elezioni presidenziali in cui i cittadini cileni saranno chiamati a scegliere la successione all’attuale capo di Stato, Sebastián Piñera, da marzo 2022.

Proprio alle mani del nuovo presidente sarà affidato lo storico compito di scrivere le regole per la nuova Costituzione: missione che i candidati eletti domenica potrebbero svolgere in maniera affidabile, visto il profilo rinnovatore di entrambi.

Boric, militante e leader delle proteste studentesche del 2011, infatti, ha scavalcato completamente la generazione di sinistra della transizione alla democrazia, quella la cui ultima rappresentante fu Michelle Bachelet (2006-2010, 2014-2018) mai davvero capace di rinnovarsi negli ultimi 15 anni. Fratellastro del movimento Podemos spagnolo, e con un atteggiamento critico nei confronti dei governi di centrosinistra, il Frente Amplio, coalizione di partiti e movimenti di centrosinistra protagonisti dell’ultimo decennio in Cile, nel 2017 è riuscito a ottenere 20 deputati e un senatore nonché 21 seggi all’Assemblea costituente con a capo lo stesso Boric, il quale è stato non a caso uno dei dirigenti di sinistra a spingere per l’accordo con Piñera per la nuova Costituzione.

“Non abbiate paura dei giovani per cambiare il Paese”, ha dichiarato Boric, che solo quest’anno ha raggiunto l’età minima per sedere a La Moneda, nel suo primo discorso nel quale ha citato e si è definito discepolo di Allende. “Si apriranno grandi strade dalle quali passeranno uomini e donne libere per costruire una società migliore”, ha concluso Boric, che nel programma con il quale si è presentato alle primarie ha puntato a conquistare l’opposizione, a differenza dello sfidante Jaude, soprattutto con discorsi trasversali come la decarbonizzazione del Paese, la politica ambientale, il femminismo e la riforma fiscale.

Contro di lui competerà Sichel, con un passato da democristiano di centrosinistra, leader di un mondo indipendente all’interno del partito, seppur un volto non sconosciuto, essendo stato fino all’anno scorso ministro dello Sviluppo sociale del governo Piñera, ma a differenza del candidato tradizionale, Lavín, sostenitore della meritocrazia, di uno Stato più trasparente, dell’imprenditoria, della diversità e della sicurezza pubblica. “Questi numeri ci consentono di pensare che possiamo arrivare al governo”, ha detto sicuro di vincere a novembre Sichel. Anche questa volta, come per le elezioni dell’Assemblea Costituente, la vera spallata gli elettori l’hanno data ai partiti tradizionali, i quali correranno con candidati esclusi dalle primarie e ancora non ufficiali come la socialista Paula Narváez, il radicale Carlos Maldonado e la presidente del Senato, la democristiana Yasna Provoste.