Il delicato armistizio “della spigola” tra Conte e Grillo

Il messaggio (registrato) di Giuseppe Conte, trasmesso sabato scorso sulla sua pagina Facebook, ha sortito l’effetto più prevedibile del mondo. È piaciuto a chi di lui ama acriticamente tutto e non ha convinto chi, quando vede Conte, reagisce come Cacciari quando vedeva la Picierno (e non solo la Picierno).

Non è stato, per scelta, un messaggio rivoluzionario. Non conteneva nulla di che, era registrato e non faceva neanche mezzo accenno agli scazzi delle settimane precedenti con Beppe Grillo. Anche i contenuti erano assai larghi e dunque difficili da analizzare. “Contaminiamoci”, “stateci vicini”, “ascolteremo le proposte dei cittadini”, “non ho mai agito per tornaconto personale” e via così. Bene la selezione di una nuova classe dirigente con scuole di formazione, affinché nel prossimo Parlamento non entri gente come Cunial (o peggio Paragone). Bene l’idea di una politica sul territorio. E bene pure l’idea di difendere le riforme volute e attuate in passato dal Movimento 5 Stelle. Per esempio il reddito di cittadinanza, ma pure la riforma Bonafede che verrebbe sventrata laddove fosse approvato quell’abominio della riforma (si fa per dire) Cartabia-Draghi. Ma è troppo presto per affermare che, con la sola presenza di Conte, tutto sia ora risolto. Tre, in particolare, i problemi.

Il primo problema è la selezione non solo della classe dirigente, ma pure la scelta dei leader di cui Conte deciderà di circondarsi. Chi sarà (se ci sarà) il vice? E da chi sarà composta (se ci sarà) la segreteria? Un conto sarebbe scegliere Azzolina (bene) e un altro Castelli (male). Un conto sarebbe scegliere Di Maio (bene) e un altro Sibilia (malissimo). Eccetera.

Il secondo problema è legato alla difesa (effettiva) di quelle riforme volute e ottenute dai 5 Stelle. Quanto è disposto Conte a lottare, e dunque rischiare, per difenderle? Da quando è nato il santo esecutivo del Divino Draghi, i 5 Stelle si sono azzerbinati con una mancanza di dignità politica sconcertante. Non contano nulla, non toccano palla e incidono meno di Castrovilli nella vittoria dell’Italia agli Europei. Stare dentro un governo di centrodestra è già di per sé imbarazzante, ma farlo pure senza colpo ferire (avendo la maggioranza relativa a Camera e Senato!) è da scellerati. Conte dovrà sancire un netto cambio di passo: basta con questo M5S eunuco, impalpabile e sommamente citrullo (per non dir peggio). Conte non è tipo da spaccare tutto, ma quando vuole la voce sa alzarla eccome (altrimenti il Recovery Fund sarebbe ancora e soltanto una chimera). È tempo di alzare quella voce, sempre che Conte voglia essere il leader di una forza votabile e non di una salma politica. Draghi si arrabbierà? Pazienza: male che vada, i 5 Stelle usciranno dal governo. Possiamo garantire che la Terra resterebbe comunque in asse.

Il terzo problema è Grillo. Questo Grillo. Se è vero (ed è vero eccome) che senza di lui e Gianroberto Casaleggio non sarebbe mai esistito alcun M5S, è altrettanto vero che dal governo Draghi in poi l’Elevato (?) le sbaglia tutte. Fino a due settimane fa Grillo e Conte neanche si parlavano. Ora, come per magia, è bastato un pranzo a Marina di Bibbona (con tanto di foto ilare) per risolvere tutto. Wow! Mica lo sapevo che la spigola avesse poteri così miracolosi. O i due sono dotati di pazienza gandhiana (Conte forse, Grillo non credo) oppure il loro è un armistizio delicatissimo. E travestito da pace santa. Davvero qualcuno crede che Grillo volesse fino a ieri la diarchia e oggi si sia magicamente placato? Via, su: c’è un limite anche alle favole. O alle prese per i fondelli.

 

La riforma Cartabia è inutile e viola pure la Costituzione

Ci voleva “Il Governo dei Migliori” – capeggiato da un illustre banchiere e sostenuto da una ministra di Giustizia ex attivista ciellina – a trasformare l’Italia dalla “culla del diritto” nel Paese della vergogna giudiziaria in cui è possibile inventarsi il “processo improcedibile” che è una contraddizione in termini e un assurdo giuridico. Il processo – dal latino “pro” (avanti o innanzi) e “cedère” (andare) – non può, ontologicamente, giammai essere “improcedibile” perché esso nasce dall’esercizio obbligatorio dell’azione penale in presenza di un reato. Il processo, una volta sorto, deve (necessariamente) “andare avanti” onde pervenire, inderogabilmente, alla definizione – con una sentenza che può essere di assoluzione o condanna – di quel giudizio che è il fine ultimo, imprescindibile, per il quale è sorto e si è sviluppato il processo medesimo.

Solo nell’ipotesi in cui il reato – che è l’oggetto del processo – viene meno per qualsiasi motivo (prescrizione, amnistia…), il processo non potrà proseguire. In ogni altro caso, il processo non può non “avanzare” fino alla sua conclusione. Ne consegue che un evento esterno – quale quello previsto dalla riforma Cartabia e, cioè, un termine entro cui perentoriamente celebrare l’appello o la Cassazione – viene di fatto a determinare l’estinzione dell’azione penale e si pone in contrasto con l’articolo 112 della Costituzione che ne sancisce l’obbligatorietà. Si tratta di un grave vulnus al principio della effettività e immanenza della giurisdizione perché impedisce – ed è gravissimo – lo “ius dicere”.

La riforma Cartabia – che non ha nulla a che vedere con il principio della ragionevole durata dei processi – scardina i principi fondamentali su cui si fonda, anche costituzionalmente, il sistema processuale penale. Questo in punto di diritto. In punto di fatto la riforma determinerà una ecatombe di “improcedibilità”, soprattutto in sede di appello ove giacciono centinaia di migliaia di processi. Si tratta in realtà di un escamotage perché riemerga, sotto altra veste, l’indecente fenomeno della prescrizione che era stato in gran parte bloccato dalla riforma Bonafede. La “riforma Cartabia” del processo penale serve a poco perché non incide sulla struttura del perverso sistema processuale creato dal pessimo legislatore nel 1988, che è la causa prima, indiscutibile, del cattivo funzionamento della Giustizia e degli incredibili ritardi dei processi penali. Essa non elimina la inutile e dannosa udienza preliminare (vero imbuto del processo) e non elimina i riti alternativi che, oltre a dar luogo a sistematiche cause di incompatibilità (e, quindi, di ritardi), non hanno avuto un significativo effetto deflattivo; anzi, hanno moltiplicato i processi stessi. Bisognava avere il coraggio di proporre il ritorno alla figura del Giudice istruttore che assicurava, con grande professionalità, indagini imparziali ed efficienti, e che avrebbe decongestionato le Procure e impedito, forte della cultura della giurisdizione, la grave stortura della deriva poliziesca del pm.

Ancora una volta non vi sarà quella giustizia rapida ed efficiente che porrebbe in serio pericolo parte dei politici e, soprattutto, i lobbisti, gli imprenditori collusi o frodatori fiscali, i burocrati corrotti, i faccendieri (spesso legati a settori massonici e clericali); ed è in questo contesto di voluta inefficienza che si collocano la mancata riforma strutturale del processo penale, la violenta guerra contro la riforma della prescrizione voluta da Bonafede e la persistente mancata copertura degli organici vacanti. Omissioni tutte funzionali a preservare il sistema di corruttela e che hanno favorito, per anni, l’impunità per gli imputati “eccellenti”.

 

Addio uomini di partito: la destra perde le città

Civici vo’ cercando ché la buona politica è smarrita. La ricerca da parte del centro-destra di candidature civiche per le cariche di sindaco in alcune importanti città: Napoli, Roma, Milano, Bologna, è stata lunga, faticosa, rivelatrice. Salvini e Meloni, politici di professione, si sono impegnati allo spasimo per individuare candidati che non avessero mai fatto politica, respingendo le fievoli alternative proposte da Forza Italia, in particolare Maurizio Lupi a Milano. Paradossalmente, da un lato, il capo della Lega e la presidente dei Fratelli d’Italia sostengono di avere una nuova classe dirigente politica, ma, dall’altro, sembra proprio che a livello locale nei loro ranghi uomini e donne politiche di rilievo non ne esistano. Se esistono vengono retrocessi rispetto a persone che possono vantare di non avere mai fatto politica: il ritorno del qualunquismo e dell’antipolitica?

La prima verità è che il centro-destra non è affatto così coeso e compatto come affermano, forse per autoconvincersi, Salvini, Meloni e Tajani. Al contrario, al suo interno la competizione si accompagna a frequenti tensioni e la scelta di una candidatura di partito sarebbe stata molto complicata e avrebbe incrinato i rapporti. In secondo luogo, la ricerca dei “civici” dice qualcosa sulla debolezza delle strutture di Fratelli d’Italia e della Lega, almeno nelle grandi città. Non esistono uomini e donne di partito con un radicamento cittadino forte, con un curriculum impeccabile, con una rete di conoscenze che travalichi ambiti settoriali e professionali, con acclarate capacità sperimentate almeno nel governo locale. Notevole è che né Salvini né Meloni abbiano dovuto confrontarsi con loro esponenti locali che ambissero ad essere prescelti. Il segnale da cogliere e diffondere è che, proprio nelle città, il centro-destra non dispone di una classe politica a contatto con chi vive in quelle città, ci abita, ci lavora, potrebbe rappresentarne le esigenze e le preferenze. Anche da questa constatazione, consapevolezza, ovviamente non esplicite e non espresse, discende la volontà di pescare nella società. Qui sì è probabile che si trovino professionisti ambiziosi, giornalisti, magistrati, medici, imprenditori (questa volta ci sono stati risparmiati gli attori e gli sportivi), quelli che un tempo venivano definiti “notabili”. A costoro non si chiede che sappiano di politica e di amministrazione. A proposito, essere al vertice di un ospedale, presiedere un ufficio giudiziario, avere una carica in un’associazione industriale non è in nessun modo assimilabile a guidare un comune, governare una città. Forse la popolarità dei candidati sarà una risorsa importante, non necessariamente decisiva, per ottenere la vittoria. Nella campagna elettorale, soprattutto per quel che riguarda le grandi città, c’è sempre anche un fattore nazionale, vale a dire il grado di approvazione dei partiti. Molto raramente la differenza è prodotta dalla personalità del candidato/a, dalle sue qualità, dalla sua esibizione di competenze politiche di cui non dispone.

Il centro-destra non sembra essersi minimamente posto il problema del dopo la eventuale vittoria dei loro candidati civici, vale a dire come governare le città. Nella campagna elettorale che non è ancora cominciata il problema dovrà pure emergere. La sinistra lo affronta nella maniera classica, che non vuole dire ottima, ponendo l’accento sul programma, su come “fabbricarlo”, sulla professionalità, soprattutto politica, dei suoi candidati, su quello che faranno nei primi famigerati cento giorni. Un po’ dappertutto senza fantasia il centro-destra rilancia a livello locale i suoi temi nazionali: sicurezza e immigrazione, accompagnati occasionalmente da critiche ai governi locali precedenti. Quello che mi pare il punto più debole delle candidature dei civici di centro-destra è l’improbabilità che, se vincessero, riuscirebbero a godere di autonomia operativa rispetto ai partiti che li hanno sponsorizzati. In quanto civici avranno ricevuto voti sulla loro persona, ma in consiglio comunale, fatta salva l’eventualità di eletti in liste con il loro nome, dipenderanno dai consiglieri eletti dai partiti del centro-destra che risponderanno ai dirigenti di quei partiti. Se sconfitti, sarà anche stata colpa dei civici stessi; se vittoriosi dovranno accettare di essere guidati e controllati da chi ha il potere politico, dirigenti e consiglieri dei partiti del centro-destra, che è proprio la ragione alla base della selezione delle candidature civiche. In questo modo, non si migliora la rappresentanza e non si rigenera la politica. Al contrario, si alimenta l’antipolitica al tempo stesso che si recupera una classica manifestazione della partitocrazia: il partito che controlla e subordina i sindaci i cui elettori saranno costretti a imparare che il civismo è un vero specchietto per le allodole.

 

A Bari Inaugurata la nuova stazione senza l’edicola: la cultura “non vende”

Caro “Fatto Quotidiano”, alla presenza di varie autorità nazionali, regionali e comunali è stata inaugurata qualche giorno fa la nuova stazione di Bari Centrale, come risulta dagli articoli di tutte le testate giornalistiche locali e non. Sono stati anche annunciati nuovi servizi a vantaggio dei viaggiatori, ma non di una nuova edicola. Fino a qualche anno fa i viaggiatori (e i baresi) usufruivano infatti di una efficiente edicola allocata dentro la Stazione Centrale; questa è chiusa da anni, né si hanno notizie di una nuova riapertura. La nuova stazione poteva (e doveva) essere l’occasione per ripristinare l’edicola ma… nulla. Al solito, sembra che informazione e cultura non facciano più parte delle esigenze degli italiani.

Francesco Resta

 

Gentilissimo signor Resta, la ringrazio per questo suo disappunto che condivido appieno. L’edicola in stazione è una “conditio sine qua non” del viaggiatore e il calo delle vendite dei giornali – sebbene conclamato rispetto agli anni d’oro – non può bastare come motivazione per giustificarne l’assenza. Se non si legge più neanche in attesa del treno o durante il viaggio, quando e cosa si legge allora? Come ha ricordato lei stesso, fino a qualche anno fa c’era un’edicola nella stazione centrale di Bari. Era sul primo binario e sono certa abbia lasciato un segno nella memoria dei passanti, anche dei più distratti. Tra i miei ricordi, peraltro, quell’edicola assume anche un valore personale. Sul primo binario per molti anni era ubicato l’ufficio di mio padre e, quando passavo a trovarlo, non mancava occasione per recarci assieme in edicola. Le polemiche sulla mancata riapertura sono in corso già da tempo. La chiusura dell’edicola risale al 2017. Due anni dopo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” venne pubblicato un articolo dal titolo “Bari, stazione senza giornali: Riaprite subito l’edicola”. Lo stesso primo cittadino Antonio Decaro si era espresso auspicando una manifestazione di interesse da parte di nuovi investitori che avrebbero dovuto far fronte agli ingenti costi per l’affitto dei locali gestiti da Grandi Stazioni Retail. Ora che la nuova stazione è stata inaugurata, mi associo alla sua istanza: Bari e i suoi viaggiatori meritano che venga riaperta senza ulteriori indugi l’edicola.

Maria Cristina Fraddosio

Mail box

 

Davigo e la legge del contrappasso

Gentile Marco Travaglio, mi vien fatto d’attribuire alle recenti vicende del signor Piercamillo Davigo un titolo da operetta buffa: “L’indagatore indagato”. Chissà se s’imbatterà in uno di quei pm implacabili costruttori di teoremi per i quali siamo tutti dei mostri di malvagità e dei maestri d’inganni (eccetto loro, naturalmente). Non glielo auguro, anche se per la legge del contrappasso lo meriterebbe.

Giampiero Bonazzi

 

Davigo è già stato indagato 36 volte a Brescia su denuncia dei ladri suoi indagati. Sempre prosciolto o archiviato. Sarà così anche stavolta, trattandosi di un galantuomo.

M.Trav.

 

“Libero” fa pubblicità gratuita al “Fatto”

Libero del 16 luglio dedica quasi tutta una pagina a un articolo di Filippo Facci contro le vostre idee a proposito del pullman scoperto con cui gli azzurri hanno girato per Roma, festeggiando la vittoria dell’Europeo. Capisco l’autore possa avere un’idea diversa dalla vostra, ma raramente mi è capitato di leggere parole di tale livore, astio e malcelata invidia, nello stesso articolo. Se per ogni idea diversa vi dedicano una pagina, è una bella pubblicità, comunque la si pensi, non tutti i lettori di Libero non sono in grado di giudicare serenamente quello che leggono.

Angelo Colombo

 

Caro Angelo, quando questa vedova di Craxi, di Berlusconi e di altri delinquenti comincerà a parlare bene di noi, allora sì che dovremo iniziare a preoccuparci.

M.Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione agli articoli “Presta, pm pronti a sentire Renzi. Che è indagato” a firma di Valeria Pacelli e “Vip e 8 milioni di fatturato: l’azienda che paga Matteo” a firma di Stefano Vergine, pubblicati sul Fatto del 15 luglio, si rettifica quanto segue: “Smentiamo categoricamente la veridicità di quanto da voi pubblicato sul versamento di somme rispettivamente pari a 9,2 milioni e 13,2 milioni da parte della società televisive, Rai e Reti televisive italiane Spa al signor Lucio Presta e alla Arcobaleno Tre Srl, nonché la veridicità dei dati riferiti relativi al fatturato di quest’ultima. Abbiamo saputo dell’indagine della Procura di Roma sull’ipotesi di violazione della legge sul finanziamento ai partiti solo pochi giorni fa e ci siamo subito messi a disposizione dell’autorità giudiziaria, per chiarire i rapporti di collaborazione nel campo delle prestazioni artistiche e autorali da parte di Matteo Renzi, che risalgono a quasi tre anni fa, inerenti il documentario Firenze secondo me, di cui si era parlato pubblicamente al momento in cui la società Arcobaleno Tre aveva proposto a Matteo Renzi di produrlo con la sua collaborazione autorale e conduzione. Contrariamente a quanto si legge nel testo dell’articolo, si tratta di prestazioni esistenti, regolarmente fatturate all’Arcobaleno Tre e pagate alla persona fisica quale corrispettivo dell’attività svolta, non al politico o, tanto meno, al partito. Stiamo presentando una memoria con documentazione contrattuale e bancaria che certamente sarà motivo di attenta valutazione da parte della Procura, onde fugare ogni dubbio sulla posizione dei signori Presta.

Lucio e Niccolò Presta

 

L’articolo “Presta, pm pronti a sentire Renzi” non fa altro che riportare, come scritto, ipotesi investigative. Sono infatti i magistrati nel decreto di perquisizione a parlare di “rapporti contrattuali fittizi”. L’articolo “Vip e 8 milioni di fatturato: l’azienda che paga Matteo” riporta i dati dell’Arcobaleno Tre che derivano dal bilancio della società stessa. Per quanto riguarda invece gli incassi da parte di Rai, Rti ed Endemol, sono contenuti in una segnalazione per operazioni sospette della Uif di Banca d’Italia.

Valeria Pacelli e Stefano Vergine

 

In merito all’analisi di Gianni Barbacetto, sul Fatto del 15 luglio, relativa alla riqualificazione della ex Manifattura Tabacchi di Lucca, desideriamo fornire informazioni aggiuntive. Barbacetto parla di speculazione edilizia di Coima a Lucca: è un suo giudizio, non supportato da alcun fatto. Si tratta di un’operazione promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, che ha coinvolto Coima Sgr come “partner tecnico”. Con un investimento complessivo di oltre 60 milioni di euro, l’obiettivo del progetto era far tornare a vivere un pezzo di città abbandonato, realizzando opere pubbliche con investimenti privati a fronte, ovviamente, di un ritorno per gli investitori. Nessun centro commerciale era previsto, a differenza di quanto scrive Il Fatto, mal consigliato da chi si oppone a interventi di questo genere, quasi per professione. Questo piano di recupero avrebbe generato circa 36 milioni di euro di beneficio netto per il Comune nell’arco di quarant’anni, 1.400 nuove unità di lavoro annue nei prossimi 20 anni e un aumento dell’1,6 per cento del Pil lucchese. In uno scenario economico come quello attuale, l’operazione Manifattura si proponeva di diventare un benchmark nella rigenerazione urbana dei centri storici, replicabile anche in altre realtà, valorizzando Lucca come modello di innovazione.

Coima Sgr

 

Sul Fatto di ieri, in ultima pagina, i “Programmi tv” non erano aggiornati: ce ne scusiamo con i lettori.

Fq

Un calcio al razzismo: perché inginocchiarsi è un gesto doveroso

“Qualunque testa di cazzo può amare il suo Paese, ma vergognarsene, è quello il segno della vera appartenenza”. Hanif Kureishi, “The Spank”, 2020

Gli insulti razzisti contro i giocatori inglesi che hanno sbagliato i rigori nella finale degli Europei sono stati la prova evidente, di cui le persone intelligenti non avevano certo bisogno, che gesti simbolici come inginocchiarsi all’inizio di un incontro internazionale sono necessari, affinché aberrazioni mentali e comportamentali come il razzismo siano stigmatizzate senza ombra di dubbio, e ricacciate una volta per tutte nelle fogne della storia da cui provengono. A rileggerle oggi, le polemiche di qualche settimana fa contro quel gesto simbolico fanno incazzare ancora di più. Quelle bigioliche interessate erano di destra: anche nella variante del lambiccamento cerebrale con cui tentarono di giustificare l’astensione dal gesto certi opinionisti che da noi vengono ascritti alla sinistra, mentre sono solo utili terzisti, quando non renziani tout court. Hanno definito vano il gesto (“inginocchiarsi non risolve la questione”): ma testimoniare inginocchiandosi avvicina il pubblico distratto al problema, aiuta gli educatori a convertire i refrattari, e fa capire ai facinorosi che non è più aria. Soprattutto, la testimonianza uno la fa per sé: ci crede e vuole manifestarlo. Alla destra italiana dà fastidio la testimonianza del personaggio famoso perché è convincente; ed ecco allora l’altro non-argomento, l’eroismo come misura del gesto (“chi si inginocchia non rischia nulla, in passato manifestare ti costava la carriera”). Anche questa logica dell’eroismo è di destra: si testimonia non per fare l’eroe, ma per testimoniare di essere umani. Allora la si butta in caciara (“non si capisce nemmeno più se il gesto veramente politico sia inginocchiarsi o no”): sono entrambi gesti politici, e alla destra scoccia il gesto di chi si inginocchia. Pure il qualunquismo ha un valore politico: un concetto assodato, ma che si debba ogni volta ribadirlo fa capire qual è il giochetto (fingere che certe conquiste sociali non ci siano state, per rimetterle in discussione come niente fosse). Colin Kaepernick, un giocatore di football americano, un giorno decise di stare seduto, e poi di inginocchiarsi, durante l’inno americano, contro l’America razzista di Trump (“Non mi alzerò per mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime la gente nera e la gente di colore. Per me questo è più importante del football, e sarebbe egoista da parte mia guardare da un’altra parte. Ci sono morti nelle strade e gente stipendiata che uccide e la passa liscia”). Il razzista Trump ne chiese il licenziamento. O si sta con Trump, o si sta con Kaepernick: tertium non datur. Così, da noi c’è chi s’incarica subito di banalizzare il gesto (“È emulazione, non una vera protesta”: se così fosse, non avrebbe la potenza che ha, e che vi infastidisce) e addirittura di trasformarlo in un atto aggressivo, la vecchia favola del lupo e dell’agnello (“Qui si demonizza chi non si inginocchia”: ma nessuno è costretto a farlo; e se sei antirazzista, perché non dovresti inginocchiarti? Inginocchiarsi è un gesto antirazzista, infatti in Europa le tifoserie razziste lo fischiano, perché sanno bene cosa significa, come lo sanno i giornalisti di destra che fanno di tutto per demonizzarlo). Poi ci sono i finissimi che insinuano la non consapevolezza (“Chi si inginocchia rischia di non sapere perché lo fa”). Davvero Toloi, Emerson Palmieri, Pessina, Bernardeschi e Belotti si sono inginocchiati perché non sapevano cosa stavano facendo? I finissimi sono contrari al gesto, ma si preoccupano che chi lo fa ne sia consapevole. Che tesori! (1. Continua)

 

Salvini & C. neo-virologi per il nobel

Grazie al diradarsi estivo dei soliti Galli, Pregliasco, Viola, Bassetti, e compagnia cantante, le nuove frontiere della virologia possono finalmente avvalersi dell’apporto di una brillante leva di infettivologi, svincolati dai canoni di una ricerca vassalla della dittatura sanitaria. Gli antesignani della variante scientifica denominata “Secondo me” si chiamano Matteo Salvini e Francesco Lollobrigida, i cui approfonditi studi sono giunti alla medesima, rivoluzionaria conclusione: “Sotto i quarant’anni ci si può anche non vaccinare”. L’ardimentoso prof Lollobrigida (nelle pause di laboratorio, deputato di Fratelli d’Italia) dichiara di essersi sottoposto all’inoculazione “ma dopo averci pensato moltissimo”. Sulla base, par di capire, del metodo empirico galileiano che egli intende approfondire in una pubblicazione assai attesa a Princeton. Anche il collega emerito Salvini è giunto a una sensazionale conclusione: “Green Pass allo stadio, non per la pizza” (molto atteso il report sui rischi di farsi una pizza nell’intervallo della partita allo stadio).

A entrambi, come si vede, non mancano i titoli per aspirare al Nobel per la medicina, meglio ancora se in coppia come accaduto, nel 2014, ai norvegesi May Britt ed Edvard Moser, vincitori per le loro ricerche sulle cellule cerebrali (materia che tuttavia i nostri non coltivano particolarmente). In attesa che, dopo i Maneskin e Roberto Mancini (quest’ultimo esaltato dai giornali mentre, sul modello Draghi, “fa la fila dal salumiere”, invece di farsi largo a pedate) l’eccellenza italiana riscuota l’ennesimo meritato riconoscimento, l’attenzione si sposta sul generale Figliuolo. Quello del “cambio di passo” celebrato dalla stampa italiana quando dal primo marzo scorso si mise alla testa della campagna di vaccinazione. Ieri, tuttavia, un titolo dolente di Repubblica

annunciava: “L’Italia dei senza vaccino, ancora 17 milioni indifesi davanti al virus”. Fortunatamente, nel corpo dell’articolo, l’atroce dubbio che qualcosa non abbia funzionato nell’approvvigionamento delle fiale e nella logistica in grigioverde viene spazzato via dall’affermazione che la colpa è soprattutto dei terribili vecchietti over 60, con “open day che vanno quasi deserti e portali di prenotazione senza richieste”. Resta purtuttavia inevasa la domanda: tra Sì-Vax, No-Vax, Ni-Vax, non è per caso che il vero problema sono i Vax?

Pandemia, il silenzio sulle origini continua

La diplomazia insegna non solo cosa comunicare ma anche e soprattutto cosa non comunicare, per evitare, precisano, i cosiddetti “incidenti diplomatici”. In realtà grovigli economico-politici sono spesso alla base di questi silenzi, per noi miseri mortali, totalmente inspiegabili. Dobbiamo amaramente ammettere che ciò che leggiamo, o che ci viene comunicato attraverso gli organi ufficiali di informazione, è spesso ciò che qualcuno, che ne ha il potere, vuol farci sapere. Spesso le “grandi” realtà arrivano dopo decenni o non arrivano affatto. Vengono prese decisioni che ci appaiono del tutto ingiustificate, ma accade. Non è certo un fenomeno solo italiano. Nessuno sa, in realtà, come improvvisamente sia scomparsa l’Isis. In Afghanistan le truppe internazionali si ritirano, mentre i talebani si siedono al tavolo delle trattative. Non erano terroristi da eliminare? E la tragedia di Lampedusa? E l’epidemia di E. coli in Germania di qualche anno fa? Il grande silenzio non poteva mancare nella grande tragedia. Qual è stata l’origine di questa pandemia? Solo “pannicelli caldi” per chi si ostina a cercare una risposta. Una commissione dell’Oms senza alcun risultato, l’invito di Biden a tornare a indagare. Pare che i muscoli si vogliano mostrare ma nessuno ha il coraggio di usarli. Fortunatamente esistono scienziati indipendenti che continuano a interessarsi al problema. È stato pubblicato su Open Medicine, da Vladan Radosavljevi, Associate Professor presso la Biodefence, Biosecurity Military Academy, Belgrade, Serbia e colonnello Nato, con il quale ho avuto in passato il piacere di collaborare, l’articolo “Analysis of Covid-19 outbreak origin in China in 2019 using differentiation method for unusual epidemiological events” (“Analisi dell’origine di Covid-19 in Cina usando un metodo di differenziazione per gli eventi non comuni”). Con rigore scientifico vengono analizzati 47 aspetti del fenomeno in atto, usando una valutazione di scores (punteggi) imparziale, che ha permesso nel passato di identificare la natura di altri fenomeni infettivi, quali la febbre suina del 2009/10. Tale valutazione arriva alla conclusione che la pandemia Covid-19 sia stata provocata da un’involontaria fuoriuscita di un ceppo di SarSCoV2 in studio presso il laboratorio di Wuhan. L’indagine scientifica è ineccepibile. Ciò che stupisce è che Radosavljevic, dopo la pubblicazione, fatta a titolo personale, e dopo averla diffusa tra colleghi ricercatori e posta all’attenzione di premi Nobel, non sia riuscito ad attrarre l’attenzione delle istituzioni internazionali. Il protocollo si ripete: silenzio.

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Salute, senza stipendi il capostaff di Sileri: diffida e mette in mora il ministero e il Mef

Per ora siamo alla diffida. L’ultimo passo prima di una causa di lavoro o di una clamorosa denuncia penale. Francesco Friolo, capo dello staff del sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, attende ancora il pagamento degli stipendi maturati quando Sileri era viceministro – dal settembre 2020 quando ha avuto le deleghe fino alla caduta del governo Conte 2, il 12 febbraio 2021 – più la copertura dei “buchi” contributivi all’Inps e i ratei di ferie e tredicesima. L’hanno pagato fino ad agosto 2020, da allora ha avuto qualche arretrato senza buste paga. All’Inps non risultava fino agli ultimi quattro mesi, quelli di Draghi, del quale Sileri è sottosegretario. Però mancano i contributi.

Nel rimpallo tra la Salute e il ministero dell’Economia dopo 11 mesi non si sa ancora se dovevano pagarlo come dirigente di prima fascia (circa 150 mila euro annui lordi), com’è previsto per il capo della segreteria tecnica del viceministro (dl 181 del 2006), o come semplice capo segreteria del sottosegretario, seconda fascia (80 mila lordi annui). Ma la sua nomina è a capo della segreteria tecnica e il capo della segreteria era un altro, Leonardo Costanzo, retribuito come tale sia pure con 8 mesi di ritardo, solo dopo che Sileri ha minacciato l’accesso agli atti. Friolo, dipendente del Senato in aspettativa, era sempre in ufficio anche quando altri dirigenti erano in smart working, ma per Inps e Pubblica amministrazione era come se non ci fosse.

Sarà che Sileri ha più volte ha criticato ritardi ed errori nella gestione della pandemia, sarà che i suoi rapporti con il ministro Roberto Speranza sono ormai quasi inesistenti. Il decreto sembra chiaro ma un regolamento lo ignora e così i viceministri, spiega un esperto, sono stati sempre trattati come sottosegretari, cioè privati del previsto staff. Eppure la politica, quando vuole, questi problemi li risolve. Per non rinunciare a Sandra Zampa, sottosegretaria Pd nel Conte 2 non riconfermata da Draghi, Speranza l’ha incaricata di una consulenza. Per Friolo invece nulla.

Sileri ha scritto lettere di fuoco contro la mancata retribuzione dei suoi collaboratori: “Il ministero mi ha abituato a molto peggio. Attendo ancora di sapere dal ministero se il Piano pandemico sia stato aggiornato nel 2017, come sosteneva il Direttore generale a fine aprile 2020, o qualche lustro prima, come pare ritenga la magistratura” (purtroppo, come sappiamo, c’era solo quello del 2006). Da allora qualcosa si è sbloccato, ma non per Friolo.

Da Tarantola a Fornero: ritorno a Palazzo Chigi

Bruno Tabacci, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si fa il suo Cipe. E a farne parte (a titolo gratuito) saranno, tra gli altri, due nomi che fanno discutere. Il primo è quello di Elsa Fornero, l’ex ministro del governo Monti che ha dato il nome alla contestatissima riforma delle pensioni che ha innalzato l’età per l’uscita da lavoro. Una mossa che non piace a molti nella maggioranza. La Lega ieri ha annunciato un’interrogazione parlamentare diretta al ministro Andrea Orlando. L’altro nome è quello di Anna Maria Tarantola, ai vertici della Banca d’Italia quando fu autorizzata la disastrosa operazione di acquisto, da parte di Mps, dell’Antonveneta. Mossa che ha scassato il Montepaschi.

Tra gli altri nomi, compaiono anche Antonio Calabrò, vicepresidente di Assolombarda, l’ex storico presidente della Fondazione Cariplo (e dell’Acri) Giuseppe Guzzetti e il presidente del Censis, Giuseppe De Rita oltre a economisti, sociologi e giuristi. Tutti nominati consulenti di Palazzo Chigi per le Politiche economiche.