Sanità, logistica, commercio e alimentare: ecco i settori, causa Covid, più pericolosi per chi ci lavora. I quattro comparti mostrano nel 2020 una grande crescita di morti. Nella sanità si è passati da 8 a 108, nel trasporto e magazzinaggio da 97 a 144, nel commercio da 54 a 90, l’alimentare a 29 dai 12 del 2019. Dal rapporto annuale Inail, presentato ieri dal presidente Franco Bettoni, emerge il prezzo pagato dai cosiddetti lavoratori “essenziali”. I decessi per contagi al lavoro sono oltre un terzo dei 1.538 totali. Di questi ultimi, però, solo 799 (+13,3% rispetto al 2019) hanno superato l’istruttoria, cioè si è dimostrato chiaramente il nesso causale tra attività e morte. Il 2020 ha anche segnato l’ennesima riduzione di ispettori Inail, scesi da 269 a 246; i controlli hanno riscontrato un tasso di irregolarità nell’87% delle aziende ispezionate. Il ministro Andrea Orlando ha parlato della necessità di una riforma per estendere la copertura assicurativa Inail a un maggior numero di lavoratori sinora scoperti.
Auto, Timken chiude e licenzia 106 persone Dall’“avviso comune” il totale è già a 1.051
Eccone un’altra: la Timken, multinazionale americana che produce cuscinetti, chiude lo stabilimento di Brescia e licenzia 106 lavoratori. Tutti a casa da subito, senza usare la cassa integrazione concessa dal governo. Nuovo boicottaggio dell’avviso comune firmato il 29 giugno da sindacati e Confindustria, intesa che conferma la sua incapacità di spingere le imprese a usare gli ammortizzatori sociali prima di tagliare personale.
Pure la Timken viene dalla filiera automotive, sulla quale si concentravano le preoccupazioni dei sindacati a ridosso del primo luglio, data di sblocco dei licenziamenti per industria e costruzioni. Tuttavia, Cgil, Cisl e Uil hanno poi accettato un compromesso per cui il divieto è rimasto solo per la moda, mentre per le altre vale l’accordo volontario di adesione alla Cig per scongiurare – o rimandare – i licenziamenti. Nei primi 19 giorni, diverse aziende hanno già ignorato il protocollo. Prima la Gianetti Ruote, in Brianza, ne ha messi alla porta 152; poi la Gkn nella provincia di Firenze (ramo semi-assi), ha avviato la procedura per liberarsi di 422 persone, che ieri sono scese in piazza. Ora la Timken che è presente a Brescia dal 1996. I motivi sarebbero la necessità di “una riorganizzazione dell’assetto produttivo per servire al meglio i clienti globali”. Un nuovo dossier sulla scrivania della vice-ministra dello Sviluppo Alessandra Todde: “In tempi brevissimi – ha spiegato – avvierò interlocuzioni con Regione, azienda e sindacati. Valuteremo con tutte le parti la convocazione del tavolo al ministero”.
Gianetti, Gkn e Timken prevedono chiusure definitive. In teoria, questo avrebbe permesso i licenziamenti anche prima del 30 giugno (la cessazione era esclusa dal divieto). Quanto accaduto, però, mostra che il blocco aveva comunque funzionato da deterrente per tutti. Oltre alle tre vertenze dell’automotive, la Whirlpool ha avviato mercoledì il licenziamento dei 327 di Napoli. Poi abbiamo, con numeri minori, la Rotork e la Ansor in Lombardia, la Shiloh in Valle d’Aosta. Il totale, solo di quelle finite sui giornali, è di 1.051 licenziamenti scattati dalla fine del divieto. “Il governo – ha detto la segretaria Fiom Francesca Re David – ha sbagliato a sbloccare i licenziamenti senza adeguate politiche industriali, vincoli per le imprese e una riforma degli ammortizzatori sociali. Vanno bloccati quelli nell’automotive e bisogna convocare il tavolo di settore”.
In zona gialla con intensive al 5% e reparti ordinari al 10%
Nuovo decreto anti-Covid con rimodulazione dei parametri, regole per il green pass e ipotesi di obbligo vaccinale per gli insegnanti in vista della riapertura delle scuole. Sono questi i temi che mercoledì saranno discussi dalla Cabina di regia e dal Consiglio dei ministri.
I contagi sono in aumento (ieri altri 2.072 positivi e un tasso di positività al 2,3%, il dato più alto degli ultimi mesi), così come, seppur lievemente, i ricoveri ordinari (+52) e in terapia intensiva (+6 il saldo tra ingressi e uscite nelle ultime 24 ore), dunque torna il “rischio colore”. Come richiesto dalle Regioni, il criterio principale contenuto nel nuovo decreto dovrebbe essere il tasso di ospedalizzazione. Si andrà in zona gialla se l’occupazione dei posti letto disponibili supererà il 5% nei reparti di terapia intensiva e il 10% in quelli ordinari (attualmente i tassi di saturazione nazionale sono rispettivamente dell’1,9 e del 2,1%).
Capitolo green pass. Come ribadito dal Cts, il certificato sarà rilasciato solo dopo la seconda dose e non già – come avvenuto fino a oggi – a 15 giorni dalla prima. Il punto, però – in funzione anti variante D –, sarà stabilire dove il green pass diventerà obbligatorio. Si parla di mezzi pubblici (treni, aerei e navi), ristoranti al chiuso, discoteche, palestre, cinema e stadi. Altro tema caldo, la scuola. A due mesi dall’inizio dell’anno scolastico, il governo dovrà decidere se introdurre l’obbligo vaccinale per i docenti.
È stato intanto approvato ieri alla Camera un emendamento al dl Recovery firmato dall’ex ministra Giulia Grillo, in base a cui il governo potrà obbligare temporaneamente i possessori di un brevetto relativo a medicinali o vaccini considerati essenziali per la salute a concederne l’uso ad altri soggetti qualora si trovi ad affrontare un’emergenza sanitaria.
Ieri, intanto, è stata superata la soglia del 50% degli italiani completamente vaccinati: 27.311.228 persone, pari al 50,57% della popolazione con più di 12 anni.
Pochi vaccini e casi in salita: il Paese non vuole le gare
Dovevano essere i Giochi della rinascita: così li aveva ereditati il premier giapponese Yoshihide Suga dal suo predecessore Shinzoō Abe. Da qui l’impegno a non rimandarle oltre, nonostante la nuova ondata di Covid nel mondo e il rischio di cluster tra gli atleti. Il primo ministro Suga puntava sulle Olimpiadi soprattutto per la ripresa dell’economia, così come quelle del 1964 furono importanti per il rientro del Giappone nel consesso della Comunità internazionale dopo la Seconda Guerra mondiale.
Invece, a una manciata di giorni dall’inizio della cerimonia d’apertura, la scommessa politica del conservatore Suga deve fare di nuovo i conti con la pandemia di Covid, la stessa che l’anno scorso aveva portato al posticipo dei Giochi. Posticipo che evidentemente non si è rivelato adeguato all’emergenza sanitaria non ancora del tutto conclusa. Eppure il premier non ha mai nascosto la sua ferrea convinzione di voler mantenere l’appuntamento a costo di farlo a porte chiuse e senza spettatori sugli spalti, come poi è stato.
Decisione non positiva per la sua immagine, viste le proteste seguite da parte dei cittadini contro il governo. D’altro canto, il tasso di approvazione di Suga al minimo storico parla chiaro: al 35,9% secondo il più recente sondaggio dell’agenzia Kyodo, con più del 30% della popolazione che chiede la cancellazione incondizionata dell’evento sportivo, mentre l’87% si dimostra preoccupato per diversi motivi sull’organizzazione dei Giochi. Per non parlare della percentuale, rilevante, il 67,9%, che nutre profondi dubbi sulle misure intraprese dall’esecutivo per arginare l’espansione del virus.
Numeri che pesano a tre mesi dalla fine della legislatura e dallo scioglimento della Camera bassa in Giappone, se si pensa che il Paese è al quarto stato di emergenza dall’inizio della pandemia, anche se in forma ridotta allo scopo di contenere la ricaduta economica: obiettivo questo non raggiunto come prevedevano invece le autorità.
Al contrario, l’andamento delle infezioni a Tokyo negli ultimi cinque giorni ha fatto segnare un picco, arrivato a quasi 3 mila contagi domenica. Tra i demeriti dell’esecutivo, c’è anche una campagna vaccinale iniziata tardi, a metà febbraio, e proseguita a rilento a causa della farraginosa burocrazia sui tempi di approvazione dei vaccini. Siamo all’inizio dei Giochi e poco più del 20% della popolazione di 126 milioni di abitanti è stata immunizzata, e il 32,4% ha ricevuto almeno una dose del vaccino. Dall’inizio della pandemia i contagi nel Paese si sono assestati a 838.430, con circa 15.000 morti accertate, numeri bassi rispetto ai Paesi occidentali, messi però a rischio, secondo la maggior parte dei cittadini da un’eventuale spirale fuori controllo per via dei Giochi olimpici. Per questo nelle ultime settimane le proteste hanno coinvolto gruppi sempre più numerosi di oppositori alla kermesse sportiva, capaci di trascinare anche l’opinione pubblica, ora scettica sullo stridente messaggio dei Giochi, tra cui il concetto di rinascita dei luoghi colpiti dalla tragedia di Fukushima, 10 anni fa.
Un sentimento generale di sfiducia che è in disaccordo con le aspirazioni dell’evento, e rischia di trasformarsi in un effetto boomerang, contro l’azzardo politico del premier conservatore. A non facilitare l’immagine di “salvatore” di Suga arriva anche l’annuncio del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, di un suo viaggio a Tokyo proprio per un incontro con il primo ministro e per parlare con lui delle misure anti-Covid messe in campo per i Giochi e le successive Paralimpiadi. Come a dire, nessuno si fida.
Olimpiadi: terrore Covid e pure Toyota scappa via
Diceva il barone Pierre de Coubertin, fondatore dei Giochi olimpici moderni, che l’importante non è vincere, ma partecipare. A Tokyo devono aver travisato il concetto, se l’importante ormai è solo fare le Olimpiadi. A qualunque costo. Nonostante l’emergenza coronavirus, un Paese ospitante contrario, i contagi che fioccano e una serie di regole e divieti assurdi, incompatibili con lo spirito olimpico, forse proprio con lo sport. I Giochi di Tokyo 2020 (che poi sarebbe 2021, persino il nome fa finta di nulla), i Giochi del Covid, dove vince chi non si contagia e nessuno festeggia, si disputeranno lo stesso.
Venerdì 23 luglio la cerimonia inaugurale: circa 11 mila atleti da 207 nazioni sfileranno nel nuovo stadio olimpico di Tokyo, gioiellino da 70 mila posti, costato quasi un miliardo e mezzo di dollari. Completamente deserto nella grande occasione per cui era stato costruito. L’immagine più potente e rappresentativa di un’edizione maledetta, che per tanti non avrebbe neanche dovuto svolgersi. Per la prima volta nella storia non ci saranno tifosi. Per gli stranieri era prevedibile, si pensava a una capienza limitata per i locali ma alla vigilia le autorità hanno vietato pure quella, prorogando lo stato di emergenza. Porte chiuse.
I Giochi non dovranno danneggiare il Giappone. Non dovranno sfiorare il Giappone. È la condizione a cui si svolge l’Olimpiade ma è l’esatto opposto di un’Olimpiade, che dovrebbe abbracciare un Paese, e magari cambiarlo. Invece per Tokyo i Giochi e i suoi protagonisti sono ospiti indesiderati. I pochi che ci sono andati, non si sa se privilegiati o malcapitati, raccontano il “clima”. Sarebbe ingeneroso definirlo ostile, perché i giapponesi sono sempre gentili, è più forte di loro. Ma certo sfavorevole. Soltanto per uscire dal girone dantesco dei controlli aeroportuali ci vogliono dalle 4 alle 6 ore. Poi, per tutto il soggiorno non si è più soli. Ti accompagnano due App obbligatorie sul telefonino: Cocoa, una sorta di Immuni giapponese, ma più efficiente, e quindi invadente; e poi Ocha, dove inserire quotidianamente le informazioni di salute e soprattutto l’activity plan, l’elenco dettagliato degli spostamenti. Si può uscire solo per attività dichiarate e autorizzate: allenamento, gara, conferenza, organizzazione. Per il resto chiusi, in hotel o nel villaggio olimpico. Atleti e addetti ai lavori hanno ricevuto un apposito playbook di regole, da ridere se non ci fosse da piangere: vietato parlare in luoghi ristretti, vietato mangiare in compagnia, vietato persino infilare la medaglia al collo dei vincitori. I campioni dovranno prendersela da soli, da un vassoio.
Si potrebbe dire che l’obiettivo è salvaguardare l’evento, e sicuramente lo è. Anche se non sta andando benissimo. Il Cio aveva predisposto un’enorme bolla: con l’85% di vaccinati, tutti i controlli in partenza e in arrivo, un tampone (salivare) al giorno, il Villaggio avrebbe dovuto essere a prova di Covid. Invece il virus è entrato lo stesso. L’ultimo caso riguarda proprio l’Italia: un giornalista (partito con tampone negativo) è stato trovato positivo a Tokyo e isolato, dopo aver viaggiato con la nazionale di basket, ciclisti e nuotatori, ora monitorati. Ma l’elenco è lungo: calciatori sudafricani, atleti britannici, una ginnasta Usa, sono già 58 i positivi. Quella dei Giochi Covid free era evidentemente un’illusione e sarà un fattore terribilmente aleatorio sulle gare: una medaglia si vincerà o si perderà anche per il coronavirus. Il vero obiettivo, però, non è proteggere le Olimpiadi ma proteggere il Giappone dalle Olimpiadi e lo si capisce dalle misure a cui sono sottoposti i suoi partecipanti. Che non possono andare al ristorante (tanto sono chiusi), fare una passeggia in centro, ma nemmeno prendere mezzi pubblici, o salire in ascensore con abitanti locali. Mezzi dedicati, percorsi separati: parlare di apartheid delle Olimpiadi è brutto, ma non eccessivo.
In Giappone si viaggia a una media di 2-3 mila casi al giorno, non tantissimi, sufficienti però a causare un mini-lockdown, anche a causa delle Olimpiadi. Tokyo è arrivata male all’evento, con una bassa percentuale di vaccinati (poco più del 20% con ciclo completo), e ha scelto di affrontarlo con la massima severità. Per un popolo già frustrato dalle restrizioni, i Giochi sono diventati la causa di una nuova stretta, per cui non si possono più nemmeno comprare alcolici. Come potrebbero essere felici: per l’ultimo sondaggio di Kyodo News, l’87% è preoccupato e il 68% dubita dell’efficacia delle misure. Persino la Toyota, una delle principali aziende del Paese e sponsor olimpico, ha deciso di non trasmettere i suoi spot durante le dirette in Giappone.
Se c’è un Paese intero che non li vuole, nessuno può vederli dal vivo, le gare sono svuotate e gli sponsor quasi si vergognano, viene da chiedersi perché i Giochi si facciano comunque. Esiste una risposta romantica e una cinica. La prima è: per gli atleti. Quelli dei cosiddetti “sport minori”, che vivono e faticano per quattro anni lontani dai riflettori, che pianificano l’intera carriera e anche la vita privata (matrimoni, figli, ritiri, tutto) intorno a questo momento. Andatelo a dire a loro che questi Giochi non si devono fare. I veri protagonisti sono i campioni, e non vanno a Tokyo in gita. Con o senza spettatori, nonostante i divieti, i controlli, gli imprevisti, la festa negata, per loro saranno vere Olimpiadi. “L’Olimpiade salverà le Olimpiadi”, assicura Malagò, n.1 del Coni.
Poi però arriva la seconda risposta, la più disillusa ma probabilmente la più veritiera: i soldi. Le Olimpiadi sono un business che semplicemente non si poteva cancellare. I Giochi saranno un bagno di sangue per il Giappone, che ha speso circa 15 miliardi di dollari, tre solo nell’ultimo anno causa rinvio, per un grande evento di cui non sa più che farsi. Deve già fare i conti con le perdite del botteghino (500 milioni in meno), e il divieto di ingresso dall’estero che ha spazzato via l’indotto turistico. La cancellazione avrebbe costretto a stracciare anche i contratti per i diritti tv (che da soli valgono 4 miliardi), senza dimenticare gli sponsor e le penali per le prenotazioni, aprendo una voragine nei conti del Comitato organizzatore. La classica beffa, oltre al danno. Mentre per il Cio, che sulle Olimpiadi poggia il suo bilancio, quasi 6 miliardi di dollari nell’ultimo ciclo, sarebbe stata semplicemente una rovina, e a catena per tutto il mondo olimpico, compreso il nostro Coni. Meglio farli comunque questi Giochi, anche se non ci sarà nulla da festeggiare. Del resto, è pure vietato.
Il vero errore del “green deal” europeo: lasciato ai privati produrrà crisi sociale
Il 14 luglio la Commissione europea ha presentato il suo piano (“Fit for 55”) per ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 e rendere l’Ue il primo continente neutrale per esse entro il 2050. Il piano prevede una serie di misure, tra le quali l’allargamento del mercato dei crediti di carbonio (Ets) ai settori come il riscaldamento domestico e i carburanti e la produzione del 40% di energia da fonti rinnovabili. Almeno una parte dei proventi dal mercato Ets dovrà essere utilizzato per aiutare la Ue e i Governi ad alleviare la “povertà energetica”.
Il piano prende di petto una questione cruciale della nostra epoca: la crisi climatica. I target di emissioni per evitare di surriscaldare il pianeta sono quelli suggeriti dalla scienza, mentre decarbonizzare la produzione di energia e i trasporti è cruciale per il rispetto dei target. Il Fit for 55 cerca di quadrare il cerchio garantendo però i profitti delle imprese e lasciando (nel migliore dei casi) inalterati gli enormi squilibri sociali e di distribuzione del reddito presenti in Europa.
Crescita. Bruxelles afferma che le emissioni di CO2 sono diminuite del 24% dal 1990, pur con un’economia europea in crescita del 60%. Il cosiddetto “disaccoppiamento” tra crescita e consumi di materie prime è il mantra dell’ideologia della “crescita verde”. Questo disaccoppiamento è avvenuto però solo grazie all’espansione del settore dei servizi e alla delocalizzazione delle produzioni più pesanti fuori dall’Europa. Se si includono i beni prodotti nell’Ue e quelli importati non c’è stata alcuna “crescita verde” ma il consumo di materiali è aumentato. Consapevole di ciò e guardando alla difesa dell’occupazione, nonché per reperire risorse per la transizione energetica, la Commissione propone una “carbon border tax” (Cbam) che colpisca le importazioni più inquinanti, come alluminio e acciaio.
Tassazione del carbonio. Il vangelo del libero mercato predica che l’innovazione possa avvenire solo lasciando mano libera alla creatività delle imprese private, da indirizzare con incentivi e disincentivi. L’aumento dei prezzi del carbonio dovrebbe spingere le rinnovabili e la mobilità elettrica. L’idea è incentivare il mercato delle emissioni, aumentandone sempre di più il prezzo (già passato da 5 euro per tonnellata di CO2 nel 2017 a oltre 50 nel 2021) così da garantire profitti per gli investimenti a più bassa intensità di carbonio. In realtà, il carbonio è tassato in Europa da oltre mezzo secolo con pesantissime accise sulla benzina che non hanno prodotto quasi nulla in termini di cambiamento delle abitudini di consumo: nel trasporto le emissioni sono aumentate del 33% rispetto al 1990.
Tariffe. La combinazione di libero mercato dell’energia e tassazione del carbonio sarà un uno-due pesante per più di 30 milioni di cittadini europei che già oggi vivono la “povertà energetica”. L’introduzione del libero mercato dell’energia ha fatto lievitare le bollette dal 2010 sia in Ue che negli Usa più dell’inflazione. Se aggiungiamo continui incrementi della tassazione per il riscaldamento, l’aumento delle bollette diventerà preoccupante.
Insomma, schierare l’Italia contro Fit for 55 è un errore, come lo è accodarsi senza ottenere che il tecnocratico “green deal” europeo sia anche “new” in termini sociali. La carbon tax dovrebbe gravare prevalentemente sui consumatori più ricchi, responsabili in misura maggiore delle emissioni. La fornitura di energia dovrebbe essere erogata a prezzi politici per i piccoli consumatori, riprendendo l’articolo 43 della Costituzione che consente nel settore energetico di operare “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti” (tutto il contrario delle “liberalizzazioni” spinte da Draghi). La carbon border tax è protezionismo verso Paesi (inclusa la Cina) il cui reddito pro-capite è inferiore a quello europeo, va sostituita da interventi pubblici per favorire nuove tecnologie e buona occupazione. L’ideologia della crescita verde andrebbe lasciata ai Bill Gates, per concentrarsi sulla durabilità delle produzioni nonché sulla valorizzazione di beni comuni, come il trasporto pubblico, che migliorano la qualità delle vita senza aumenti della produzione materiale.
“Il piano Ue nemico del lavoro”. Ecco l’asse Cingolani-Giorgetti
Stavolta è il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, a dire quello che si sa già da tempo, cioè che la transizione green sarà complessa, ma lo fa senza mezzi termini. Forse anche alleggerito dal fatto che buona parte della responsabilità sul tema è traslata dal Mise al ministero della Transizione ecologica, a cui è passata la responsabilità su quasi tutto il comparto energetico. E forse è anche per poter dire, in futuro, “lo avevo detto”.
Al teatro Petruzzelli di Bari, col direttore di Libero Alessandro Sallusti e il vicedirettore del Giornale Nicola Porro – nonché nella settimana in cui l’Italia ospiterà il G20 sul Clima – ha detto: “Vogliamo puntare sulla transizione ecologica? Bene, ma questa avrà un prezzo”. Non più tardi di due settimane fa, lo stesso ministro Roberto Cingolani ha definito la Transizione “un bagno di sangue” e ieri mattina lo ha ribadito in una intervista a Bloomberg: “Non sarà senza dolore”, ha precisato, aggiungendo che dovrà cambiare tutto, dal modo in cui si produce a quello con cui ci si sposta e si consuma.
Le critiche di Giorgetti riguardano il piano dell’Ue, che prevede – tra l’altro – lo stop entro il 2035 della produzione di auto a benzina e diesel e il 40% dell’energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2030. Ed è in continuità con quanto detto dallo stesso Cingolani qualche giorno fa. “È chiaro che c’è una grandissima opportunità anche nell’elettrificazione – aveva spiegato – ma pensate alla Motor Valley. Le produzioni di nicchia come Ferrari, Lamborghini, Maserati, McLaren dovranno adeguarsi entro il 2030 al full electric. Questo vuol dire che a tecnologia costante, con l’assetto costante, la Motor Valley la chiudiamo”. Giorgetti spiega di aver incontrato Ferrari: “Mi hanno presentato il piano d’investimenti. Stanno cercando di trovare una forma di riconversione. È una questione che investe tutta la Motor Valley, il distretto dell’Emilia-Romagna. Senza deroghe alle direttive europee è uno dei settori condannati a morte”. I costi economici e sociali, è la conclusione, dovranno essere gestiti.
Sempre da Bloomberg, Cingolani lancia la palla più lontano: prima dice che bisognerà intervenire con tanti soldi nei prossimi cinque anni, poi annuncia di star analizzando la possibilità di introdurre qualche norma attenuante per il costo dell’energia elettrica (il rincaro in bolletta di quest’anno era stato erroneamente calmierato con i soldi destinati ai Parchi, e in minor misura con risparmi del ministero che non saranno destinati evidentemente alla tutela dell’ambiente), infine dopo aver sostenuto che “sappiamo dove andare a lungo termine”, dice anche che “a medio termine dobbiamo davvero affrontare delle difficoltà”. Per farlo, però, riesce solo a identificare i soliti “incentivi per incoraggiare i cittadini a sostituire le auto vecchie” perché ci sono “30 milioni di veicoli Euro 0, Euro 1, Euro 2” molto inquinanti e quindi “dobbiamo fare in modo di favorire un cambio veloce con veicoli più moderni”. Il dl Sostegni Bis vi ha appena destinato 50 milioni. È evidente che non bastano per la rivoluzione.
Pd, 500.000 euro dagli Usa. Ma i donatori sono misteriosi
Il principale finanziatore del centro-sinistra è un’azienda americana, si chiama Social Changes Inc. ed è basata a Santa Monica (California). Diretta da persone molto vicine ai Democrats, già nel 2019 era entrata nel giro dei finanziamenti alla politica in Italia: 150 mila euro per sostenere due candidati giovanissimi del Pd alle Europee. L’anno scorso si è superata. Ne ha messi sul piatto 315 mila per finanziare una ventina di candidati alle Regionali. Quasi tutti sono rappresentanti del Pd, uno è di Articolo Uno. È tutto tracciato nei documenti pubblici. C’è solo un punto non chiaro: Social Changes non condivide i nomi dei suoi donatori, né il bilancio delle proprie attività. Impossibile quindi sapere esattamente da dove arrivino tutti i suoi soldi.
I documenti depositati presso il registro commerciale della California dicono che la Social Changes Inc. è stata creata nel gennaio del 2019. È una “benefit corporation”, formula usata per le organizzazioni senza scopo di lucro che si trasformano in imprese. Unica azionista: Stephanie Trejos, nome apparentemente scollegato dal mondo dem. Sono i manager ad indicare l’appartenenza politica. Amministratrice delegata è Jessica Shearer, responsabile della campagna elettorale di Barack Obama. Direttore creativo è Arun Chaudhary, videomaker ufficiale di Obama, poi capo del digitale per Bernie Sanders, parte della squadra che ha curato l’immagine di Alexandria Ocasio-Cortez e Rashida Tlaib.
Candidati regionali. Il denaro versato in 2 anni
Nel 2019, anno delle Europee, la società ha iniziato a investire in Italia: 48,6 mila euro su Brando Benifei, capogruppo Pd a Strasburgo, 104 mila euro su Caterina Cerroni, dirigente dei Giovani Democratici candidata e non eletta.
Nel 2020 ci sono state le Regionali. E Social Changes ha messo sul piatto 315.500 euro per sostenere la campagna elettorale di 20 candidati del centro sinistra in Emilia Romagna, Veneto, Liguria, Toscana. La lista è lunga, molti sono stati eletti. Pietro Bean (21.500 euro), Federica Benifei (22.400 euro), Barbara Cagnacci (23.800 euro), Andrea Costa (3.500 euro), Luca Garibaldi (9.900 euro), Daniele Lorenzini (14.300 euro), Antonio Mazzeo (5.300 euro), Iacopo Melio (10.000 euro), Francesco Micheli (9.900 euro), Antonio Mumuolo (1.400 euro), Alessandra Nardini (6.900 euro), Fabrizia Pecunia (5.600 euro), Antonella Pepe (8.000 euro), Massimiliano Pescini (3.000 euro), Emma Petitti (18.000 euro), Marilena Pillati (22.000 euro), Raffaella Raimondi (30.000 euro). A questi del Pd si aggiungono 10 mila euro dati a Simone Bartoli, segretario regionale della Toscana per Articolo Uno, e altri 10 mila a Rosario Brillante, candidato alle Regionali in Toscana per la lista Sinistra Civica Ecologista.
Il politico più famoso finanziato è stato però Stefano Bonaccini. Il presidente della regione Emilia-Romagna nell’anno della sua rielezione ha ricevuto 30 mila euro dalla Social Changes, in aggiunta ad altri 50 mila donati alla sezione emiliano-romagnola del Pd. Motivo? Ieri pomeriggio non è stato possibile avere commenti dalla società. Dallo staff di Bonaccini invece ci hanno spiegato che si tratta di una “consulenza per advertising social, rendicontata secondo le norme, come tutte le altre donazioni”.
Cremonini & federfarma chi punta su Bonaccini
Bonaccini ha avuto infatti anche altri finanziatori. Da Cremonini, multinazionale della carne presente in mezzo mondo e proprietaria di marchi tra cui Roadhouse, Manzotin e Montana ha ricevuto 30 mila euro. Magnanima anche Confindustria Ceramiche, che in Emilia Romagna ha grandi interessi (Sassuolo è la capitale italiana delle piastrelle): attraverso la controllata Edi.Cer Spa, l’associazione degli industriali ha donato 16 mila euro a Bonaccini. A questi si aggiungono 10 mila euro versati da Panariagroup, tra le principali aziende del settore. Poi ci sono 20 mila euro della TCI Telecomunicazioni, del parlamentare di Italia Viva Gianfranco Librandi, lo stesso che nel 2020 ha generosamente finanziato il comitato renziano “Leopolda 9 e 10” e il sindaco di Milano Beppe Sala. Una fiche da 5 mila euro è stata messa sul piatto di Bonaccini da Federfarma Emilia Romagna, l’associazione che riunisce le farmacie private della regione, e da Villani, grande produttore di salumi della provincia di Modena, mentre 10 mila euro sono arrivati personalmente da Giorgio Tabellini, patron del gruppo Pei, ex presidente della Camera di Commercio di Bologna. Chiudono il bilancio i 10 mila euro di Plt, azienda cesenate attiva nel settore energia, e altri 10 mila regalati da uno dei principali gruppi italiani della sanità privata, Garofalo Health Care, presente con le sue cliniche anche nella regione amministrata da Bonaccini. Totale: 160 mila euro raccolti da privati per le ultime elezioni. Senza contare il regalo arrivato dagli Stati Uniti.
Ecco la legge “ad Legam”: un mese in più per le firme
La propaganda leghista celebra le 300mila firme già raccolte per i sei quesiti referendari sulla giustizia e l’obiettivo del mezzo milione già ad inizio agosto. Insomma, sulla carta Matteo Salvini non dovrebbe temere figuracce tra cui quella di non riuscire a raccogliere le firme da depositare in Cassazione per i referendum su separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, abolizione della legge Severino e limitazione della custodia cautelare. Peccato però che la realtà dica un’altra cosa: la Lega sta provando in tutti i modi a evitare di fare fiasco nella raccolta firme. D’altronde Salvini ha già detto che l’obiettivo non è quello delle 500mila firme necessarie ma ha alzato l’asticella ad almeno un milione per stare tranquillo e avere una legittimazione politica più forte.
Non arrivarci dunque sarebbe uno smacco per il Carroccio, con una campagna referendaria che partirebbe già azzoppata. E con l’agosto delle vacanze alle porte e la recrudescenza dei contagi, il timore del flop c’è. Così la Lega prima ha deciso di mettere le mani avanti facendo partire le pratiche per far approvare i referendum in cinque Consigli regionali guidati dal centrodestra (la prima è stata la Lombardia, ieri l’Umbria, seguiranno Friuli Venezia-Giulia, Liguria e Piemonte) e poi ha allungato di un mese la possibilità di raccogliere le firme: l’aiutino è arrivato con un emendamento presentato dal deputato leghista Igor Iezzi e approvato in commissione Affari Costituzionali e Ambiente della Camera che stavano discutendo il decreto Semplificazioni. La leggina secondo cui “tutti i termini previsti dagli articoli 32 e 33, commi 1 e 4 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (quella che regola i referendum abrogativi, ndr) sono differiti di un mese” è una norma ad Legam: così, con la scusa dell’emergenza Covid, il Carroccio avrà tempo non più fino al 30 settembre ma fino al 30 ottobre per presentare in Cassazione le 500.000 firme necessarie. Un mese in più che sarà molto prezioso perché a settembre ripartiranno tutte le attività dopo le vacanze, tra cui anche quella delle Camere. “Più firme saranno depositate in Cassazione, maggiore sarà la legittimità politica dei referendum” dicono da via Bellerio.
L’emendamento approvato in commissione finirà nel testo del decreto che sarà approvato questa settimana alla Camera e arriverà al Senato blindato visto che deve essere convertito entro il 30 luglio. La norma non avrebbe più ragion d’essere nel caso in cui però il 31 luglio il governo Draghi non dovesse rinnovare lo stato d’emergenza, ma è quasi scontato che il premier deciderà di prorogarlo fino a fine anno. E non è un caso che Salvini non si sia più espresso sulla questione (era nettamente contrario) e accetterà la proroga. Se serve in chiave referendum, ben venga anche lo stato d’emergenza.
“Cartabia peggio di B.-Alfano Vietato indagare sui corrotti”
“Nemmeno Berlusconi e Alfano nel 2011 erano arrivati a tanto…”. Massimo Villone, 77 anni, professore emerito di Diritto Costituzionale dell’Università Federico II di Napoli, ci va giù pesante con la riforma della giustizia di Marta Cartabia che sta agitando la maggioranza.
Professor Villone, qual è il suo parere generale sulla riforma?
Va premesso che la nostra giustizia ha un problema di tempi: i processi durano troppi anni. Il problema esiste e l’obiettivo da perseguire è avere una giustizia più veloce, rapida ed efficace. Ma il problema è stato affrontato nella maniera sbagliata. Nella proposta Cartabia ci sono cose utili, inutili e dannose.
Partiamo da quelle utili.
C’è il tentativo di potenziare la giustizia con la digitalizzazione e di rafforzare l’organizzazione del sistema.
E basta?
Sì, poi ci sono quelle inutili…
Ovvero?
Nella riforma si spiega che il pm deve mettere in moto la macchina dell’azione penale solo se c’è la ragionevole probabilità di arrivare a una condanna. Perché oggi non è già così? Se il pm avviasse l’azione penale pensando che l’indagato sarà assolto dovrebbe cambiare mestiere. È una norma ad pompam (per pura ostentazione, ndr) che non cambierà nulla.
Veniamo agli emendamenti dannosi: quali sono?
In primis, i criteri di priorità dei reati che saranno stabiliti dal Parlamento e poi la nuova prescrizione.
Le Camere indicheranno alle Procure i reati da perseguire in via prioritaria.
Questi criteri di priorità c’erano già nel testo originario di Bonafede, non sono un’assoluta novità, ma in quel caso erano gli uffici del pm a stabilirli: insomma, era tutto compreso nel perimetro della magistratura. La piccola e micidiale novità è prevedere che gli uffici del pm dovranno stabilire i criteri sulla priorità dei reati sulla base di quelli predeterminati dal Parlamento. Questo fa tutta la differenza. Questa proposta ricorda quella di Berlusconi-Alfano del 2011 che però proponevano di modificare l’articolo 112 della Costituzione secondo cui il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Almeno in quel caso l’obiettivo veniva specificato esplicitamente, mentre questa è una legge ordinaria che di fatto supera l’articolo 112 e incide sull’indipendenza della magistratura. Quindi è ancora peggiore.
Qual è il pericolo?
Facciamo un esempio: alle prossime elezioni vince la destra che è allergica alla guerra alla corruzione. Che si fa, non si perseguono più i reati di corruzione? Va detto che il dibattito sulla sottomissione del potere esecutivo nei confronti di quello giudiziario dura da molto tempo: anche nella Costituente se ne parlò e Giovanni Leone propose che il pm dovesse essere il braccio armato del governo. Ma poi non è andata così: la nostra Costituzione prevede la separazione dei poteri.
Qual è il suo parere sulla prescrizione che scatta dopo tre anni dal primo grado?
Stabilire ex ante la durata del processo senza tenere di conto della situazione delle corti d’Appello è un grosso problema: come sottolineano molti magistrati, tantissimi processi andranno al macero. La soluzione invece dovrebbe essere quella di potenziare l’organico (abbiamo meno magistrati di molti Paesi), digitalizzare i processi e far lavorare i tribunali. Così invece abbiamo davanti a noi un disastro e la morte di molti procedimenti avrebbe un costo enorme a livello economico e di tutela della legalità.
A Milano un cittadino potrebbe avere giustizia perché il processo si conclude in due anni e a Napoli no.
Esatto, verrebbe meno l’eguaglianza sostanziale prevista dalla Costituzione.
Di fronte a questa soluzione cosa dovranno pensare le vittime?
Il cittadino comune vede un’armata di avvocati, pochissimi magistrati e un’organizzazione evanescente. Con la mannaia della prescrizione così aumenteranno a dismisure le tecniche dilatorie.
Con quali effetti?
I cittadini non avranno più fiducia nelle istituzioni e nella giustizia.