I timori del Colle sulle priorità ai pm Csm, togati furiosi

Il Quirinale ha “i fari accesi” sulla riforma penale firmata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia: in questa fase i dubbi del presidente Sergio Mattarella si riversano sulla norma che darebbe al Parlamento il potere di “indicare i criteri generali agli uffici dei pubblici ministeri” sui reati prioritari da perseguire. Ed è sulla base di queste indicazioni dettate dal potere legislativo a quello giudiziario che i procuratori dovrebbero scrivere i loro progetti organizzativi annuali che confluiscono al Csm. Ma la legge ordinaria prevista dal ddl, ragiona il Quirinale, non deve entrare in contrasto con la Carta. Cioè: se la politica vuole indicare ai magistrati quali siano i reati prioritari su cui indagare non può farlo in opposizione all’articolo 112 che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Se il Parlamento decide che per un certo anno si debba indagare prioritariamente sui reati sessuali, questo non significa, per esempio, che si smetta di fare indagini sulla corruzione. C’è anche da salvaguardare l’articolo 107 della Costituzione secondo il quale i magistrati sono divisi solo per funzioni: pm e giudici. L’Italia non ha rappresentanti dell’accusa che dipendono dal potere politico.

Una seria preoccupazione del Quirinale dettata dalla consapevolezza di Mattarella che è stato giudice della Corte costituzionale. E ora ricopre la doppia veste di presidente della Repubblica e presidente del Csm.

E pensare che pure la Guardasigilli conosce benissimo la Costituzione, dato che Marta Cartabia è stata presidente della Consulta fino all’anno scorso. In effetti se fosse stato per la ministra, dicono fonti di via Arenula, questa norma non l’avrebbe inserita. È stato un cavallo di battaglia del presidente della commissione tecnica, anche lui ex presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, ma a impuntarsi e a farla inserire negli emendamenti della ministra è stato il centrodestra di governo, che detta la linea. Ora la leggera attenuazione della norma, rispetto al testo Lattanzi, è più forma che sostanza. Quanto agli altri punti critici, a cominciare dalla prescrizione, il Quirinale per ora sta a guardare: aspetta di vedere che testo approderà in Aula, alla Camera.

Sulla riforma penale sono in subbuglio anche i consiglieri togati del Csm. Nessuna dichiarazione ufficiale, ovviamente, ma i consiglieri eletti dai magistrati sia in quota pm sia in quota giudici sono d’accordo nel demolire il “pastrocchio” della prescrizione che non farà mai concludere, ci dicono in diversi, processi anche importanti, negando giustizia ai cittadini. Spiega un togato: “È solo pubblicità dire che con le nuove assunzioni si potrà fare un Appello in due anni. Non si tiene conto della mole di arretrati e del fatto che anche se si fa un concorso adesso, i nuovi magistrati assunti saranno operativi fra tre anni”. Nel frattempo la competente Sesta commissione si appresta a scrivere un parere negativo e alcuni consiglieri vogliono mettere nero su bianco che così si vanifica il lavoro dei magistrati. Ma se per i togati c’è sostanzialmente unanimità di critica, con differenze sui toni da usare, il rebus sono i consiglieri laici, cioè indicati dal Parlamento. In grande imbarazzo i laici di FI e Lega, che non vogliono criticare Cartabia, quindi il governo. L’obiettivo della Sesta, comunque, è quello di concludere il parere in tempo perché venga discusso dal plenum del Consiglio di mercoledì della settimana prossima per non arrivare troppo tardi.

Conte ci prova con Draghi. Si media contro l’impunità

Qualche ritocco alla riforma della giustizia: Giuseppe Conte esce da Palazzo Chigi dopo 40 minuti di colloquio con Mario Draghi con il via libera a indicare – anche parlando con il ministro, Marta Cartabia – delle possibili modifiche al testo.

I due – come dice pure uno scarno comunicato di Palazzo Chigi – parlano dell’evoluzione della situazione epidemiologica, della transizione ecologica, di riforma della giustizia. Ma è quest’ultimo il dossier più delicato, sul quale Conte è arrivato a ipotizzare il ricorso al voto della base M5S se Draghi dovesse porre la fiducia .Il tono dell’incontro è cordiale, come si evince anche dalle dichiarazioni che l’Avvocato fa davanti alle telecamere appena uscito, poco dopo mezzogiorno. “Ho assicurato il contributo del M5S” sulla giustizia. “Daremo il contributo per velocizzare i processi, ma saremo molto vigili nello scongiurare soglie di impunita”. Mentre assicura: “Mettiamo da parte le bandierine, dobbiamo parlare agli italiani”. Poi chiarisce che non si è parlato di fiducia, mentre sui tempi si rimette alla dialettica parlamentare.

Durante il colloquio, il premier prevalentemente ascolta. Ma chiarisce due concetti: la riforma della giustizia non si può stravolgere, perché è già frutto di un accordo e il centrodestra è pronto a tirare fuori 200 emendamenti. E i tempi devono essere rapidi: è fondamentale per il Pnrr, tema che Conte conosce bene. Ma in realtà, raccontano da Palazzo Chigi, un accordo con i Cinque Stelle per qualche cambiamento, Draghi lo aveva già dal Cdm che ha approvato la riforma. Conte, dal canto suo, chiarisce che non si tratta certo di un’impuntatura personale, ma che i gruppi parlamentari del Movimento (che poi convoca per oggi) non reggono. L’obiettivo dell’Avvocato è alzare la soglia dei due anni della prescrizione. Questione che in parte anche il Pd condivide. E se Conte pensa ad alcuni accorgimenti tecnici per velocizzare i processi, il tema della norma transitoria per far entrare in vigore la riforma – tirata fuori dal capogruppo Pd in Commissione Giustizia, Alfredo Bazoli – non gli dispiace.

Il senso del faccia a faccia è prima di tutto politico. Conte si pone in maniera collaborativa, sostiene di voler tenere il M5S dentro questa fase. Insomma, non evoca neanche rotture. Draghi, dal canto suo, lo legittima come leader in pectore: ha bisogno della sua collaborazione per tenere uniti i Cinque Stelle e – non a caso – sulla giustizia fa qualche apertura. L’ex premier può vantare un altro risultato: il Pd si è messo in gioco per mediare. Dopo l’incontro di Enrico Letta con Draghi, la settimana scorsa, nel quale il segretario del Pd aveva garantito al premier massima collaborazione sulla riforma della giustizia, tutti quelli che si occupano del dossier in Parlamento sono entrati in gioco. Franco Mirabelli, Bazoli, Andrea Giorgis hanno lavorato per far capire a Letta che era importante tenere dentro il Movimento. Oltre al fatto che i magistrati sono intervenuti con i dem per protestare sulla prescrizione. È toccato alla responsabile Giustizia dem, Anna Rossomando, parlare con Letta. Di qui, la timida apertura a dei cambiamenti domenica su Repubblica. Che pare abbia provocato qualche irritazione a Palazzo Chigi. Ma che di fatto rafforza anche Conte, che da Draghi ci può andare quasi da leader del centrosinistra.

Ora si lavora nel merito. Il Pd sta ragionando sugli emendamenti per la norma transitoria per la modifica del giorno dal quale calcolare i tempi della prescrizione, per l’estensione della lista dei reati non prescrittibili rapidamente. E poi, sulla giustizia riparativa.

Al momento il ddl sul processo penale resta calendarizzato venerdì per l’Aula della Camera. Ma uno slittamento di una settimana sarebbe nell’ordine delle cose. E la fiducia non si può escludere.

I veri anti-italiani/3

19luglio 2020. Mentre Conte combatte al Consiglio Europeo sul Recovery Fund e ricorda come la “frugale” Olanda sia un mezzo paradiso fiscale, i giornali italiani continuano a gufare contro l’Italia. Giannini (Stampa) sa già come andrà a finire: “Per noi diminuisce la quota di contributi a fondo perduto e aumenta quella dei prestiti”. E, comunque andrà, sarà un disastro: “Conte e i suoi ministri, superato a fatica il pasticcio venezuelano su Autostrade (sic, ndr) e con lo stress-test delle elezioni regionali del 20 settembre non saranno in grado di reggere l’urto”. Il Giornale tifa apertamente Rutte: “Europa, Conte flop. E quella frase degli olandesi: ‘Non ce la beviamo’. L’Olanda imita Prezzolini e Rutte copia gli Apoti”. Belpietro (Verità): “L’accordo che si profila è una disfatta”. Libero: “L’Europa detesta Conte”, “L’Unione non si fida del nostro governo”. Ma il record di patriottismo lo stabilisce l’ultimo nato fra i giornali di destra, Repubblica, estasiata dall’eroica resistenza della povera Olanda: “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più’”. Il fatto che Fca che edita Stampubblica abbia sede legale in Olanda è puramente casuale.

20 luglio. Messaggero: “Fondi Ue ridotti per l’Italia. Per il nostro Paese 10 miliardi di sovvenzioni in meno e più fondi da restituire”. Corriere, Repubblica e Stampa: “172 miliardi all’Italia”. Giornale: “Doppia fregatura”, “L’Italia perde già 10 miliardi”, “serve subito la zattera del Mes”, il premier è in “euroaffanno a caccia di un accordo per salvare la poltrona”. Il noto padre dell’europeismo Sallusti difende Rutte: “Gli olandesi sono stronzi, ok. Ma il nostro governo è un’Armata Brancaleone che campa di trucchi ed espedienti”. Feltri (Libero): “Ecco perché l’Ue non sgancia: l’Italia ha molti soldi, ma li dà ai fannulloni. Conte con l’Europa sta sbagliando tutto”. Dagospia: “Conte viene gonfiato come una zampogna a Bruxelles”, “Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Dopo il Cazzaro verde, abbiamo il Cazzaro con la pochette! Per evitare il crack, Conte sarà costretto a chiedere all’Ue un prestito. E a quel punto l’Italia ha la troika in casa. Una vittoria di Pirro che il Conte Casalino proverà a rivendere come un trionfo… (per finire nella merda)”. Paolo Mieli (Corriere): “Una cosa sicuramente Conte è riuscito a portare a casa: potrà esibire la foto in cui sedeva sereno (ancorché non sorridente) accanto ai grandi d’Europa: Merkel, Macron, Sànchez e Ursula”. Folli (Repubblica) a ristabilire l’equilibrio: a causa degli “errori” e dell’“inesperienza” di Conte, “la coperta si è rattrappita” con una “riduzione dei sussidi a fondo perduto tra i 20 e i 30 miliardi che a Roma si considerava già acquisiti”.

E “ora il Mes torna d’attualità”, anzi “diventa una priorità”, “urgente”. A Bruxelles nessuno ne parla. Ma è il sogno erotico di Folli: “per il Conte-2 questo è il nuovo ostacolo”, che “dopo le elezioni di settembre potrebbe rivelarsi troppo alto”. Per l’eccitazione, gli si rizza il riportino.

21 luglio. Dopo l’ultimo giorno e l’ultima notte di battaglia, alle 5.31 il presidente Michel twitta: “Deal!”. L’accordo è siglato dai capi dei 27 Paesi Ue. Il premier italiano ha ottenuto tutto ciò che chiedeva: Recovery di 750 miliardi, nessun diritto di veto dei singoli Stati e, per l’Italia, 36,5 miliardi in più di quelli previsti dal piano Von der Leyen. Da 172,7 a 208,8: intatti quelli a fondo perduto (81,4) e più prestiti (da 90,9 a 127,4). Il surplus è la cifra del Mes, ora ancor più inutile di prima. Mattarella chiama Conte all’alba per complimentarsi. Poi i leader e i ministri giallorosa.

I giornali, chiusi a mezzanotte, non hanno ancora i dettagli dello storico accordo, ma solo la notizia che è quasi fatto. E l’imbarazzo dei profeti di sventura si taglia col coltello. Il Messaggero dà le pagelle, strepitosa quella di Conte: “Ha combattuto e non ha perso”. Il Corriere ha due editoriali che sono l’apoteosi del rosicamento. Sabino Cassese: “Non è solo questione di soldi” (abbiamo appena ottenuto 209 miliardi quando tutti ne prevedevano la metà e, ora che li abbiamo, non contano più), “il piano di riforme è poca cosa” (come quelli di tutti gli altri Paesi, che iniziano a scriverli ora e han tempo sino a fine anno, scadenza che poi slitterà a fine aprile 2021). Carlo Verdelli pare Bartali: tutto sbagliato, tutto da rifare. Titolo: “La carta d’identità sbiadita del governo (e della nazione)”. Svolgimento: “il governo sembra avere smarrito la carta d’identità, con quella provvisoria ormai scaduta da un pezzo”, privo com’è di una “reputazione spendibile e credibile, specie sui tavoli dove si sta giocando la partita più delicata del finanziamento per ripartire dopo i disastri del virus”; e poi “la bizzarria tutta italiana di mantenere lo stesso premier per due esecutivi molto diversi”, colpevole di “stallo immobile”, mentre “l’improbabile categoria ‘giallorosa’ ricorda il fiocco ormai sbiadito appeso fuori dalla nursery alla nascita del secondo Conte”. Delle due l’una: o a Bruxelles hanno gli occhi foderati di prosciutto e han dato fiducia al premier sbagliato, o Verdelli ha scritto il pezzo senza sapere del Consiglio Europeo. E senza che nessuno avesse cuore di avvertirlo. O di cestinarlo.

Repubblica è da leggenda: “Vince l’asse tra Berlino e Parigi”, “Merkel raggiunge il compromesso sugli aiuti e salva l’Europa”. Conte, a Bruxelles, non c’era proprio. Sta’ a vedere che, al vertice dei Ventisette, erano in Ventisei.

(3 – continua)

“Col pubblico è un concerto Senza, uno sconcerto”

“È stato bello rivedere uno stadio aperto, segnale di una ripartenza su più fronti e di una luce in fondo al tunnel, poi però viene in mente che noi artisti facciamo concerti con una quantità di pubblico spesso inferiore a quella che gli spazi consentirebbero, pur nel rispetto delle norme di sicurezza. Non ho risposte per questo, ma mi pongo degli interrogativi”. Max Gazzè è nel pieno del suo tour estivo: venerdì prossimo sarà a Gardone Riviera e poi ancora Febbio, Abetone, Roma e via via fino a settembre. Porta il suo ultimo disco, “La matematica dei rami”, insieme con i brani più noti del suo lungo repertorio. E ad aprire alcune date sarà la giovane Greta Zuccoli, conosciuta a Sanremo: “Un’artista di grande talento e una persona solare, che merita di andare avanti. È stato un colpo di fulmine artistico, le ho chiesto se potevo adottarla” (sorride).

Gazzè, partiamo da questo lungo anno e mezzo di pandemia. A differenza di molti, che nel sentirsi isolati si sono dedicati all’introspezione, lei ha composto un album che ha fatto del gruppo la sua centralità: ha messo insieme la Magic Mistery Band (Daniele Silvestri compreso) e ha unito i rami del suo albero, convinto che solo così ci si potesse difendere dal vento. Una necessità, dunque?

Un esempio di resistenza. La coesione, l’unione, l’assemblea, il confronto sono prerogative umane che tali devono restare, soprattutto in un momento in cui è già difficile guardarsi negli occhi per le mascherine. Quando suono con i musicisti – e mi riferisco allo studio come al palco – si genera un’intimità sacra. Lo stare insieme è un atto di preghiera, uno slancio verso un archetipo divino. Parlo in maniera laica di un evento trascendentale. La percezione dell’arte, la comunicazione attraverso questo linguaggio, non ha bisogno di interpretazione. È come quando mangi un buon piatto di pasta, mica ti chiedi: “Perché penso che sia buono?”.

Lo stesso discorso vale anche per il pubblico?

Se esiste un palco è perché esiste un pubblico, e viceversa. L’intimità di questo processo, lo scambio, generano l’arte. “Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente non fa rumore”, era il postulato del vescovo irlandese del ’700 George Berkeley. Il pubblico è l’elemento fondamentale di ciò che si chiama concerto, o concertazione. Senza il pubblico, c’è lo sconcerto.

Come ha vissuto il lockdown?

Anche con gli occhi dei miei cinque figli, e quindi dei ragazzi cui è stato detto che devono abituarsi a una nuova normalità. Un brutto sogno che, a differenza dei brutti sogni, non sappiamo ancora quando e come finirà. Avverto che c’è un cambiamento profondo nella struttura sociale, politica, umana, economica, che avrà le sue ripercussioni nei prossimi anni. Non voglio essere pessimista, ma chi pensa che questa cosa vada via così com’è arrivata si sbaglia. Il problema, allora, è proprio la nuova normalità. Se le dicessero “questo da oggi non è più un bianco, perché c’è un nuovo bianco” lei non capirebbe. La nuova normalità implica una necessità di abituarsi a nuove procedure che però non conosciamo ancora.

La cultura è stato uno dei settori più penalizzati, quasi non fosse un nutrimento per l’anima.

Invece lo è, specialmente in questa disumanizzazione dei rapporti sociali! Ci sono state responsabilità politiche, ma pure una sorta di impossibilità di agire. La situazione muta di mese in mese, ora siamo alla variante Delta e chissà che non si arrivi all’Omega. E allora che si fa, si apre tutto come Johnson oppure no? Il virus perderà la sua carica virale oppure no? Nessuno ha le risposte certe.

In Italia ci atteniamo ancora a regole che dovrebbero essere rigide, poi vediamo la Nazionale sfilare in mezzo a migliaia di persone.

Chiamiamole incongruenze… Non so cosa sia giusto, però azzardo: noi che lavoriamo nella musica stiamo facendo grandi sacrifici e forse alcune limitazioni rispetto alla capienza sono eccessive, se paragonate ai luoghi in cui si svolgono i concerti. È difficile persino rientrare dalle spese quando si staccano mille biglietti.

Un settore in crisi, che già pagava lo scotto dello streaming e del drastico calo nelle vendite dei dischi.

Non lo dica a me: ho cinque figli, la casa, di Siae mi arriva sempre meno. Tra un po’ dovrò trovarmi un altro lavoro… (ride). Scherzi a parte, bisogna cominciare a pensare a un meccanismo che tuteli di più il diritto d’autore. E tornare a valorizzare la qualità.

C’è troppa musica in giro?

Quando ero ragazzo, aspettavo per mesi e con trepidazione un nuovo album. Adesso ogni settimana escono dieci/quindici singoli. Faccia lei…

 

Eppure Simone lo diceva: che trappola, la femminilità

Per Tamara de Lempicka, la donna moderna inforca i guanti di pelle, un foulard di taffetà argento sopra un tailleur da viaggio, sale sulla sua Bugatti e parte verso l’orizzonte. Soprattutto, però, non siede al posto del passeggero ma pianta le mani sul volante. È lei a guidare l’auto: è lei a guidare la propria vita. Il dipinto Autoritratto sulla Bugatti verde della pittrice polacca è del 1929 e ben riassume l’ardore e la spinta delle correnti di rivendicazione femminile che soffiavano dall’America all’Europa già nei primi decenni del secolo: a New York durante le marce per il suffragio universale, Elizabeth Arden regala davanti al suo salone sulla Fifth Avenue il suo rossetto rosso alle manifestanti; in Inghilterra, Virginia Woolf pubblica il saggio femminista Una stanza tutta per sé; in Italia, nel 1924 Alfonsina Strada è la prima ciclista donna a partecipare al Giro d’Italia. In Francia, Colette batte il primo marito Willy in una causa per i propri diritti d’autore.

Un po’ a nord di Parigi, più precisamente a Rouen nel liceo Jeanne d’Arc, durante una lezione del maggio 1934 una giovane professoressa di filosofia dice netta alle sue allieve: “Per una donna esistono cose più interessanti che occuparsi dei figli”. Si tratta di Simone de Beauvoir, all’epoca ventiseienne ma già attivista per l’eguaglianza tra i sessi e l’emancipazione femminile. Come ricorderà poi ne L’età forte, per aver pronunciato tale sentenza (di libertà) venne definita “indegna” di ricoprire il ruolo di docente e denunciata alla Commissione del dipartimento della Senna Inferiore con l’accusa di diffondere insegnamenti immorali contrari alle direttive del ministero della Salute. In quella stessa lezione, inoltre, aggiunse che la maternità “non è un dovere civile” né “la principale funzione di una donna”. Chiamata a rispondere di quelle frasi di fronte al prefetto, la filosofa – che non aveva ancora pubblicato alcunché, aveva anzi ricevuto perfino un paio di rifiuti editoriali – redige una vera e propria filippica in cui paragona senza mezzi termini le idee sulla donna di chi l’ha accusata a quelle espresse poco tempo addietro da Adolf Hitler nel suo opuscolo nazista Il corpo docente a scuola. Il cancelliere – che ancora si dilettava a dipingere e non si era rivelato l’ideatore di un eccidio di massa – relega la donna “nell’interesse dello Stato, al solo ruolo di riproduttrice” annota Simone.

Oggi, per una felice idea del raffinato l’Orma editore, quella luminosa e antesignana confutazione viene collezionata insieme ad altri scritti inediti in una raccolta il cui titolo è tutto un programma, anzi – la politica è d’uopo – un manifesto: La femminilità, una trappola. È preso in prestito da un lucido saggio breve che l’autrice de I mandarini ha scritto per Vogue America nel 1947, durante il celebre tour di conferenze in cui fu impegnata negli Stati Uniti dal gennaio al maggio di quello stesso anno, testo in cui si scaglia contro il concetto di “femminilità”. La tesi è chirurgica: il concetto dell’“eterno femminino” che descrive le donne come “intuitive, affascinanti, sensibili” è “il mito più irritante e falso” che sia stato inventato dagli uomini per sminuirle. Non a caso, in Memorie di una ragazza perbene lei stessa ammette che nella sua infanzia la vie intellectuelle era incarnata dal padre, mentre la vie spirituelle era diretta dalla madre.

“Quando parla della sensibilità – prosegue nel breve saggio –, in realtà l’uomo si riferisce alla loro mancanza di intelligenza, quando parla di fascino, alla loro mancanza di responsabilità, quando parla di capriccio, alla loro propensione al tradimento”. Per un uomo, dunque, una donna è “femminile” quando accetta la visione che il maschio ha di lei, quella di un essere inferiore. Questo pulsante testo accoglie già tutti i prodromi del capolavoro che verrà di lì a un paio di anni, Il secondo sesso (1949), destinato a sconvolgere le coscienze civili del mondo attraverso la sua teorizzazione precorritrice del mondo muliebre.

Come annota nella sua partecipata postfazione la scrittrice Annie Ernaux, “Beauvoir offriva un’alternativa all’esempio e ai discorsi materni”, i modelli dunque con cui ogni ragazza si confrontava quotidianamente. Soprattutto, riguardo alla libertà. Lei che a dodici anni diventa atea; lei che decide di non procreare; lei che è legata a Sartre da un modernissimo antimatrimonio – sebbene lo chiami “mon petit doux mari” – in cui hanno e si scambiano amanti apertamente (Violette, Jacques-Laurent, Olga, Bianca). Così apertamente che, in una lettera del 10 novembre 1939 mentre Jean-Paul è impegnato sul fronte francese come soldat météorologiste, Simone gli racconta di Bianca: “Ho passato una delle notti più appassionate della mia vita. Che forza della natura che è quella ragazza”. Di lui, invece, nel ritratto che tratteggia per Harper’s Magazine nel 1946 dopo l’uscita in America de L’essere e il nulla, scrive che spende tutto quello che guadagna, detesta la campagna, ama la città e il mare piatto, ma anche che “non tollera che l’uomo si crogioli nel semplice fatto di essere una presenza nel mondo”, “ha pienamente accettato la propria condizione umana” e sin da piccolo ha creduto che scrivere fosse l’unico strumento di salvezza. Anche per Simone, in effetti, scrivere è un grimaldello poderosissimo, il luogo privilegiato dell’intersoggettività, quel territorio in cui “abdico al mio io in favore di chi parla, e ciononostante resto me stessa” come scrive in Cosa può la letteratura: un intervento redatto nel 1964 in cui spiega come il ruolo più importante dello scrittore sia proteggere quel che di più umano c’è nell’essere umano, ma anche di non avere paura dell’identificazione, di leggere cercando “il sapore di un’altra vita”. Forse è per questo che Annie Ernaux parlando del doppio filo che la lega a Simone de Beauvoir la definisce “sempre capace di accompagnare il mio tempo di donna”.

Venezia non è un porto, ma Supermario non lo sa

Le Grandi Navi a Venezia sono come la povera nonna degli studenti somari, condannata a morire più volte, e nello stesso anno scolastico, per offrire al nipote negligente una via di fuga da interrogazioni e compiti in classe. Nel caso dei colossi da crociera, inquinantissimi e devastanti per l’ambiente, ad arrivare due volte in tre mesi è l’annuncio festoso del loro blocco: e i somari sono i ministri della Repubblica. Solo il 31 marzo il ministro Franceschini twittava: “Una decisione giusta e attesa da anni: il Consiglio dei ministri approva un decreto legge che stabilisce che l’approdo definitivo delle Grandi Navi a #Venezia dovrà essere progettato e realizzato fuori dalla laguna, come chiesto dall’@Unesco”. Il 13 luglio lo stesso ministro dichiara che l’approvazione del decreto sulle Grandi Navi fa di questa “davvero una giornata importante: non è esagerato definirla storica perché dopo anni di attesa dal primo agosto non passeranno più grandi navi davanti San Marco e il canale della Giudecca”. Come spesso succede quando gli annunci roboanti e le “giornate storiche” si moltiplicano, la verità è che ci stanno prendendo in giro.

Perché, dunque, tornare due volte in tre mesi sulla stessa decisione? Perché – nonostante la diplomatica visita di Mattarella alla sede parigina dell’Unesco del 6 luglio – l’Unesco non si era affatto bevuto lo stop alle Grandi Navi, che era stato invece celebrato da tutti i giornaloni italiani. E minacciava seriamente di inserire Venezia nella black list dei siti del patrimonio dell’umanità a rischio, con l’effetto di rovinare la reputazione globale dell’intoccabile Banchiere Taumaturgo. E così, precipitandosi a decidere alla vigilia della decisione Unesco, il governo ha concesso qualche altra cosa: una più decisa cosmesi, un po’ di perline colorate. Uno specchietto per le allodole parigine.

Lo specchietto, intendiamoci, è meglio di niente. Mentre col decreto di marzo tutto sarebbe rimasto esattamente com’è ora finché non fosse stato costruito l’approdo “provvisorio” di Marghera (un giocattolo da 157 milioni di euro, che a sua volta deve durare fino alla costruzione del porto off shore, cioè in mare al largo della Laguna…), col decreto di luglio le navi che superano una serie di parametri (tra i quali però non c’è l’emissione di particolato che uccide i marmi, e i polmoni dei veneziani) non potranno più passare da Bacino e Canale di San Marco e dal Canale della Giudecca. Cioè verranno escluse dalle zone del turismo internazionale: evitando così che possano essere scattate fotografie come quelle che hanno indignato il mondo. Un passo avanti: ma, si dice già a Venezia, in realtà è come mettere le Grandi Navi sotto il tappeto.

Perché, se quel che la cosmesi del governo Draghi nasconde è chiaro, non lo è di meno quel che invece rivela: la mancanza della consapevolezza dell’unità ambientale della Laguna. Non per caso nel decreto manca il concerto del (già) Ministero dell’Ambiente: la Laguna è considerata una infrastruttura, esattamente come il Mose la considera una vasca da bagno da riempire o svuotare a piacimento. Che il governo la pensi così, lo dimostra la scelta aberrante, contenuta nello stesso decreto, di nominare Commissario Straordinario per l’approdo di Marghera e per la manutenzione dei canali (ah, la passione del governo dei Migliori per le procedure eccezionali!) l’attuale presidente dell’Autorità del sistema portuale: la Laguna come un grande porto! Ma non è così: la Laguna è una cosa viva, ed è una cosa unica. Le Grandi Navi, quelle enormi, continueranno impunemente a violentarla, passando dal Canale dei Petroli e arrivando all’approdo di Marghera: provocando moto ondoso, inquinamento dell’aria e dell’acqua. E perpetuando per Venezia un modello di turismo insostenibile (quello che l’ha uccisa) e per Marghera un modello industriale non meno insostenibile: di riconversione ecologica per la Laguna nemmeno l’ombra!

Lo stesso governo che sospende il blocco dei licenziamenti perché il Mercato faccia il suo corso (non importa quanto affondando le zanne sulla carne umana), stanzia milioni (ancora non sappiamo quanti) di soldi pubblici per rimborsare le compagnie delle Grandi Navi che dal primo agosto non potranno più scorrazzare nel Bacino di San Marco. Invece di far loro causa per aver lucrato per decenni in palmare contrasto con l’utilità sociale imposta dall’articolo 42 della Costituzione, li riempiamo di soldi (che potrebbero servire a manutenere la Laguna, o a mille altri scopi, dalla scuola alla salute). Il problema è drammatico, ed è culturale: come tutti gli altri che l’hanno preceduto, questo governo non sa cosa sia la Laguna, e non gli interessa impararlo. E, più di tutti gli altri governi, questo coltiva la propria immagine internazionale, per continuare a fare in casa le cose peggiori.

E di Venezia, in fondo, importa quasi solo ai pochi veneziani che si ostinano a viverla: tutta, Laguna compresa.

Beitar-Barça:niente sfida. I catalani solidali con gli arabi

Non si giocherà l’amichevole di calcio Beitar Jerusalem-Barcellona che era in programma la prima settimana di agosto. È stato Moshe Hogeg, uomo d’affari israeliano e proprietario del club ad annunciare che il match con una delle squadre più famose e blasonate del mondo è stato annullato per sua volontà, dopo che la squadra catalana si era detta disponibile alla partita ma proponeva di giocarla in un luogo diverso da Gerusalemme per evitare uno sfruttamento politico dell’evento. “Con grande dispiacere ho dovuto annullare la partita contro il Barcellona”, ha scritto Moshe Hogeg in un post su Facebook, “dopo aver ricevuto il contratto da firmare che rivelava la richiesta inequivocabile che la partita non si svolgesse nella capitale, Gerusalemme”.

Il deputato della Lista araba congiunta Sami Abu Shehadeh all’inizio di luglio aveva pubblicato una lettera aperta al club catalano chiedendo di annullare la partita, citando il supporto palestinese per il Barcellona, i famigerati fan razzisti tra i sostenitori del Beitar e il fatto che la decisione di giocare il match nella Città Santa avrebbe dato alla partita un significato anche politico. Beitar è uno dei club di calcio più famosi di Israele, con 13 trofei nazionali e conta presidenti e premier tra i suoi fan (Rivlin, Netanyahu, Olmert). Ma ha anche attirato l’attenzione negativa per essere l’unico club a non avere mai avuto un giocatore arabo. La minoranza araba di Israele costituisce circa il 20% della popolazione, giocatori arabi giocano nelle squadre rivali e anche nella squadra nazionale di Israele.

I dirigenti del Beitar non hanno mai negato di avere le mani legate da una base irriducibile di fan di estrema destra che esercitano un’influenza significativa sulle decisioni del club. Come i militanti razzisti di Lehava, un gruppo di suprematisti ebrei che si oppone alla presenza di arabi e cristiani in Israele. C’è poi un altro gruppo di tifosi, La Familia, con legami anche nella malavita locale, noto per cantare “morte agli arabi” verso i giocatori arabi avversari.

 

Turchia, fine vendetta mai. Così Erdogan punisce i nemici

Da sei mesi Nursena, 21 anni, si batte contro l’indifferenza dell’amministrazione turca, nella speranza di scoprire cosa è successo a suo padre. Hüseyin Galip Küçüközyigit, 49 anni, che era consigliere del primo ministro, è scomparso la sera del fallito golpe militare del 15 luglio 2016 per rovesciare il presidente islamo-conservatore Recep Tayyip Erdogan e il suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp). Il tentativo di golpe fu attribuito al predicatore Fethullah Gülend e ai suoi uomini, di cui, agli occhi delle autorità turche, Hüseyin Galip Küçüközyigit faceva parte. Attraverso il monitor del suo computer, Nursena si scusa, ma non vuole dire nulla che possa compromettere ancora di più suo padre. Di lui sappiamo che non ha partecipato direttamente al putsch.

Dimesso dalle sue funzioni, Hüseyin Galip Küçüközyigit ha passato sei mesi in detenzione prima di essere condannato, nell’estate 2019, a sei anni e tre mesi di prigione. Nell’attesa del nuovo giudizio in appello, è stato liberato. È scomparso il 29 dicembre 2020 mentre stava per partire da Ankara, dove viveva, per andare a trovare la figlia, a Istanbul. “Mi ha detto che sarebbe passato verso le 20, ma non è mai arrivato – ricorda Nursena –. È stato visto l’ultima volta quando ha lasciato il suo ufficio di Kizilay, nel centro di Ankara, intorno alle 17.20. Neanche la sua auto è mai stata trovata”.

Da allora la studentessa in medicina si scontra con le amministrazioni dello Stato: “Per giustificare la loro inazione, sostengono che mio padre sia scappato”. Centinaia di persone sospettate di essere seguaci di Gülen hanno infatti attraversato il fiume Evros per trovare rifugio in Grecia. Ma Nursena non crede che sua padre sia fuggito: “Innanzi tutto, era convinto che la corte d’appello avrebbe revocato la sua condanna. E anche se avesse pensato che il verdetto sarebbe stato confermato, il processo avrebbe preso almeno tre o quattro anni. Inoltre – aggiunge –, se davvero avesse avuto intenzione di scappare, non avrebbe detto che mi veniva a trovare, non mi avrebbe lasciato senza notizie”. La giovane donna passa da un ufficio all’altro. Alcuni documenti del suo fascicolo sono scomparsi. “Mio padre è stato rapito – sostiene, decisa –, e stanno cercando di impedirmi di indagare”. Chi lo ha rapito? “Vivo in Turchia – risponde –, non posso correre il rischio di dire troppe cose”.

La piattaforma InstituDe, fondata a Bruxelles da diplomatici vittime delle purghe, afferma in un comunicato dell’8 gennaio 2021 che Hüseyin Galip Küçüközyigit “è stato probabilmente rapito da agenti del governo ed è stato sottoposto a tortura”, insieme a un’altra trentina di persone anche loro scomparse. “Lo schema è sempre lo stesso – spiega il direttore di InstituDe, Hüseyin Konus –. Delle persone, che si presentano come agenti dei servizi segreti, il Mit, bussano in pieno giorno a casa della vittima, che viene portata via di forza a bordo di un furgone nero. Non si sa dove la portano, ma viene torturata per mesi. Alcune riappaiono come per miracolo in un commissariato di polizia”. In un rapporto del 29 aprile 2020, la Ong Human Rights Watch (Hrw) registra 24 casi di presunte sparizioni e ha indagato su sedici. Tra questi c’è il caso di Gökhan Türkmen che, nel corso del suo processo, il 10 febbraio 2020, ha raccontato di essere stato rapito da agenti dello Stato ad Antalya, il 7 febbraio 2019, di essere stato trasferito in un commissariato il 6 novembre 2019 e incarcerato.

Türkmen, indica Hrw, che ha trascritto le deposizioni, ha detto di essere stato chiuso “in cella per 271 giorni, ammanettato, con gli occhi bendati, i piedi incatenati, e di essere stato torturato, privato di cibo, acqua e sonno”. Questi sequestri passano sotto silenzio nella stampa turca. “Al di là degli eventuali crimini commessi da queste persone, la Turchia deve porre fine a queste enormi violazioni dei diritti umani”, sostiene Emma Sinclair-Webb, portavoce di Hrw in Turchia. Erhan Dogan, direttore di una scuola di Ankara legata al movimento gülenista, è stato arrestato dieci giorni dopo il fallito colpo di Stato: “Gli agenti in borghese che sono venuti ad arrestarmi mi hanno picchiato per due, tre ore, col pretesto di farmi sputare i nomi di alcuni complici, che non ero in grado di fornire”, spiega. Dogan è stato trattenuto per tutta la notte nella scuola e all’alba è stato portato alla direzione dell’antiterrorismo di Ankara.

“Due guardie mi hanno sbattuto la testa contro il muro tenendomi per i capelli – racconta –. Mi dicevano che non sarei uscito vivo da lì”.

Poi lo hanno portato in una palestra dove si trovavano già un centinaio di persone, vestite con un’uniforme arancione come la sua, allineate lungo un muro. Lo hanno fatto inginocchiare con la faccia contro un muro, le mani legate dietro la schiena: “C’erano tracce di sangue dappertutto – dice –. Più tardi ho saputo che è lì che avevano torturato i militari dopo il colpo di stato”. La notte viene spogliato e picchiato con dei manganelli: “Volevano che riconoscessi di essere un terrorista e che facessi i nomi di dieci persone. Un giorno mi hanno appeso al soffitto con una corda legata ai polsi, in modo che non toccassi terra con i piedi, e mi hanno colpito”. Un agente lo ha minacciato di violentare sua moglie e sua figlia. Un giorno è stato portato in tribunale e incarcerato. Le condizioni della detenzione erano disumane: “Il dormitorio era predisposto per quattordici persone, ma eravamo cinquantacinque, con un solo bagno e una doccia. C’era acqua fredda solo per due o tre ore alla settimana. Per sette o otto mesi ho dormito per terra”. È stato condannato a sette anni e mezzo di prigione, ma, il 30 gennaio 2018, in appello, ha ottenuto la libertà vigilata. Poco dopo è fuggito in Germania con la famiglia, passando per la Grecia. Da allora i casi di tortura in Turchia da parte della polizia sono aumentati, fa notare Hew. “Si diffonde una cultura dell’impunità tra le forze dell’ordine”, spiega Emma Sinclair-Webb. Violenze che non riguardano solo i presunti gülenisti, ma anche gli attivisti curdi. È il caso di Kadir Aktar, 17 anni, arrestato nel luglio 2020 alla periferia di Istanbul, a margine di una sparatoria in cui era morto un poliziotto, ma a cui Kadir non aveva partecipato direttamente. Rilasciato il 16 febbraio 2021, il giovane era stato arrestato di nuovo due giorni dopo e trovato morto nella sua cella, impiccato. Ufficialmente, un suicidio. Emma Sinclair-Webb richiama anche l’attenzione sulle misure di ritorsione subite dalle poche persone che osano denunciare casi di sparizione o tortura.

Tülay Açikkollu è tra queste. Per mesi l’insegnante ha indagato per scoprire cosa fosse successo al marito, morto in carcere la notte del 4 agosto 2016. Gökhan Açikkollu, 42 anni, insegnante di storia in un liceo di Istanbul, è morto tredici giorni dopo essere stato arrestato sulla base di una denuncia. Il rapporto autoptico, realizzato dal presidente della Fondazione per i diritti umani della Turchia (Tihv), Sebnem Korur Fincanci, ne ha accertato la morte per infarto, causato dalle torture subite. Sono descritti lividi, ferite alla testa e alle gambe, costole rotte. Quando è andata a sporgere denuncia per omicidio alla procura di Istanbul, il 24 febbraio 2017, Tülay è stata trattenuta dalla polizia. “Mi hanno chiesto di fare i nomi degli amici di mio marito. Mi dicevano che mi avrebbero messa in prigione, poi mi hanno rilasciata”. Il 7 febbraio 2018, Gökhan Açikkollu, che era stato licenziato poco prima dell’arresto, è stato reintegrato a titolo postumo nella funzione pubblica: “La dimostrazione che mio marito era innocente”. Tülay ha dunque contattato i media nella speranza di lavare l’onore del marito, ma un giornalista filo-governativo ha fatto il suo nome, precisando che il figlio aveva studiato in una scuola del movimento di Gülen. “Quattro giorni dopo, un atto d’accusa del tribunale reclamava contro di me da sette a quindici anni di prigione. Quel giorno capii che non potevo più vivere in Turchia”. Oggi Tülay risiede con i due figli in un paese europeo.

 

Altro che distruzione creatrice: ci stiamo deindustrializzando

L’annunciata chiusura dello stabilimento Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) potrebbe evocare l’inizio di quell’era di “distruzione creativa” che il premier aveva preconizzato nel suo discorso di insediamento alle Camere. Eppure, vicende come questa non fanno presagire una trasformazione della struttura economica nel senso descritto da Schumpeter in “Capitalismo, socialismo e democrazia” nel 1942.

Fondato come fornitore di componentistica Fiat, lo stabilimento venne acquisito negli anni ’90 dalla multinazionale britannica Gkn, che in Italia possedeva un altro sito produttivo a Brunico (Bolzano). Nonostante le commesse per il sistema Stellantis in Italia non siano carenti, Gkn hadeciso di chiudere lo stabilimento italiano con il minor rendimento e con più insicure prospettive, legate a un mercato dell’automobile in crisi di sovracapacità produttiva e in transizione verso l’elettrico. Si sacrificano sull’altare del maggior ritorno finanziario le competenze di 422 lavoratori specializzati e una produzione localizzata sul territorio che non presenta problemi di efficienza tecnica. Basti pensare che, ancora al 2018, Gkn Driveline Firenze realizzava utili per 1,5 milioni e il fatturato per addetto era di circa 360 mila euro, contro i 264 mila della media nazionale di settore.

Dalla chiusura di Gkn non ci si può aspettare alcuna spontanea apertura di nuovi mercati, né tantomeno l’introduzione di nuovi metodi di produzione a seguito di un naturale affluire di investimenti sostitutivi. Quello che si profila è solo una perdita netta e irrevocabile di capacità produttiva. Più che Schumpeter, Draghi potrebbe rievocare gli ammonimenti di Nicholas Kaldor, l’economista che nel 1966 teorizzò gli effetti negativi della deindustrializzazione manifatturiera sulla crescita.

Nel nostro Paese questo processo sta pericolosamente riacquistando intensità, senza che ve ne sia consapevolezza. Quando si sentono affermazioni celebrative sulla “seconda manifattura d’Europa”, spesso si dimentica che il valore aggiunto a prezzi costanti del settore manifatturiero è oggi inferiore rispetto a 20 anni fa, mentre è cresciuto in Francia e Germania, nonostante le crisi. Per non parlare dell’impoverimento qualitativo della nostra struttura produttiva, sempre più polarizzata su specializzazioni a basso valore aggiunto e a scarsa intensità di conoscenza.

Gkn è un caso eclatante di una tendenza generale. Spesso è coinvolta una multinazionale che decide di incorporare un sito italiano, indotta da un prezzo molto ragionevole e ingolosita dalla quota del mercato italiano. Quando le prospettive di domanda languono e i margini di profitto si restringono, interrompe o delocalizza la produzione, anche se tecnicamente efficiente. Queste realtà, che impiegano centinaia di dipendenti e hanno fatturati da oltre 50 milioni, sono il perno economico delle rispettive comunità. Se e quando verranno meno la Whirlpool di Napoli, o l’Embraco nel torinese, oppure lo stabilimento di Trichiana (Belluno) della Ceramica Dolomite, non basterà la creatività di qualche nuovo ristoratore o affittacamere a compensare la distruzione di valore economico in quei territori.

Gli strumenti finanziari per interventi risolutivi strutturali ci sarebbero. Il Dl Rilancio del 2020 ha previsto l’istituzione di un fondo in capo a Cdp (“Patrimonio rilancio”, da 44 miliardi) e uno riservato a Invitalia (Fondo patrimonio Pmi, da un miliardo per il 2021) per sostenere le aziende colpite dalla crisi del Covid-19. Questi strumenti potrebbero risultare incisivi se diventassero funzionali a un’ottica industriale, che però è impossibile senza il ricorso ad adeguate strutture, quali furono gli enti pubblici economici nel secolo scorso.

Un caso paradigmatico interessò proprio Firenze nel 1953. La storica fabbrica del Pignone stava chiudendo, lasciando a casa 1.700 operai. L’Eni di Enrico Mattei acquisì lo stabilimento, rilanciandolo verso la produzione di compressori e di turbine, nell’ambito della propria strategia di integrazione verticale. Alle soglie della privatizzazione del 1993, la Nuova Pignone era diventata leader mondiale del settore, con un fatturato di 1,8 miliardi e 5.300 addetti altamente qualificati.

La distruzione non è sempre necessaria e diventa creativa solo se la trasformazione viene orientata da una razionalità che non risponde alle logiche contabili di un ritorno monetario immediato. Senza il recupero di un’impostazione “imprenditoriale” degli strumenti pubblici a disposizione, come le partecipate statali e i finanziamenti pubblici alle imprese, l’epidemia della deindustrializzazione italiana sarà destinata a colpire molte altre realtà come Gkn.

Esempi virtuosi: il dietrofront norvegese

E poi c’è chi fa marcia indietro. La Norvegia, precursore delle privatizzazioni nella cura degli anziani, dal 2015 sta rinazionalizzando il settore. Fino a sei anni fa una casa di cura su tre nella capitale era in mano a tre società nordiche, Norlandia, Aleris e Attendo. Poi una coalizione di sinistra ha vinto le elezioni municipali ed è cambiato l’atteggiamento nei confronti del profit. Magnus Marsdal, direttore del think tank di sinistra Manifest, ha detto: “È strano che sia stato permesso a questo cancro di crescere nel cuore dello stato sociale”.

C’è chi condivide questo punto di vista anche nel partito conservatore, tradizionalmente pro-privati. Il sindaco delle isole di Austevoll ha fatto acquistare al Comune la casa di cura locale, togliendola all’azienda svedese Ambea. “Non bisogna fissarci sull’ideologia, ma su qualità dei servizi e condizioni di lavoro” ha detto. Il vice sindaco di Oslo, Robert Steen, ha esaminato gli effetti economici della privatizzazione di un terzo delle case di cura della capitale nel 2015, senza trovare prove di una gestione più efficiente. È stato documentato dagli scienziati sociali che, inseguendo l’aumento dei profitti, i salari diminuiscono e il carico di lavoro aumenta. La svedese Attendo, che gestisce 700 strutture con oltre 25mila lavoratori in Svezia, Finlandia e Danimarca, ha abbandonato il mercato norvegese. Il suo concorrente Norlandia ha avvisato gli azionisti del “rischio politico”. Oggi in Norvegia restano solo cinque Rsa dei Comuni, gestite da privati. Il Paese spende il 2,86% del Pil per la cura degli anziani. In Italia siamo allo 0,58%.

Anche qui però si cercano alternative. Come il silver cohousing, residenze con anziani in camere o appartamenti privati, spazi e servizi comuni condivisi, per garantire l’indipendenza in un contesto di socialità. “Sono persone sole che vogliono fare gruppo e mettersi in gioco. Tra un corso di lingua e uno di ginnastica nascono amicizie profonde”, spiega Sara Quilici, responsabile del Cohousing Del Moro a Lucca. Nell’Rsa San Giacomo di Piossasco (Torino) si pratica la filosofia della domiciliarità, “l’ospite si sente a casa, è trattato come un soggetto attivo”, spiega Salvatore Rao, presidente dell’associazione “La bottega del possibile”. San Giacomo è anche un centro servizi che offre pasti a domicilio, bagno assistito, fisioterapia e supporto psicologico. “La struttura è il luogo di incontro – dice -. A differenza delle Rsa, fredde e anonime, il paziente qui non è ospite ma un abitante della casa, dotato della propria volontà”.